Cari missionari

Dono
inaspettato

Un caro saluto dal Congo. In questi giorni, in occasione del compleanno dell’amico Rolando Bianchi, capitano del Torino, un gruppo di suoi fans mi ha inviato un’offerta. Questa è la mia email a loro.
Carissime e carissimi
del Rolly Girls & Boys,
grazie di cuore del regalone che avete fatto al capitano Rolando in occasione del suo compleanno e che avete con gioia inviato a me in Congo, obbedendo così al desiderio dell’amico Rolly.
Da circa 20 anni vivo in Congo, un paese grande quasi 7 volte l’Italia, popolato da gente simpatica e accogliente, ricco di tante bellezze naturali, di foreste immense, di fiumi, di tanti minerali, ma dove la maggioranza della gente vive ancora una vita che non è degna di essere chiamata umana, con grosse difficoltà sociali, economiche e politiche.
Davanti a tutta questa problematica noi missionari ci sentiamo piccoli, senza mezzi adeguati per cambiare questa realtà. Anche se siamo come una goccia nell’oceano, continuiamo a vivere con la nostra gente: si lavora, si prega, si anima, si sogna un Congo nuovo! Insieme crediamo a un futuro più degno e più bello di quello di oggi che è ancora pieno di dolore, di ingiustizie, di sofferenze. Siamo impegnati nel campo della salute, della scuola, dell’acqua, dell’agricoltura, delle strade, della formazione umana e cristiana, della responsabilità civile, della giustizia e della pace, e anche dello sport, soprattutto con ragazzi e giovani!
Grazie allora del vostro dono, segno d’un cuore buono e sensibile alla sofferenza degli altri.
Assicuro la mia preghiera per voi, i vostri cari, il capitano e per tutto il Torino! La Madonna Consolata patrona di Torino accompagni voi e il Grande Torino!
P. Rinaldo Do
dal Congo RD

Obbedienza – Disobbedienza
Ecco cosa leggo a pag. 32 del numero di dicembre della vostra rivista: «Oggi nella Chiesa abbondano le parole, le esortazioni, le prediche, estrapolate dalla vita… Domina il principio di autorità che si basa sull’obbedienza passiva e senza intelligenza: bisogna obbedire perché lo dice chi comanda. Il fondamento della fede in questo contesto non è la persona di Dio o la sua Parola rivelata, ma il culto della personalità, che in termini biblici è idolatria peccaminosa». Interessante! Sembra di leggere un testo di Franco Barbero, un ex-prete che considera il Vaticano la Nuova Babilonia… A me hanno insegnato che il papa è il successore di Pietro, adesso scopro che era tutto sbagliato, che il rispetto verso la parola del papa è «idolatria peccaminosa»… O ho sbagliato tutto io, o state sbagliando di grosso Voi, anche perché il metodo non è cambiato: una volta la Chiesa si scagliava contro gli eretici, e si accendevano i roghi, oggi chi ragiona come Paolo Farinella insegna al popolo bue a disprezzare la gerarchia. Potete aiutare noi poveri fedeli ignoranti a capirci qualcosa? Possiamo ancora conservare qualcosa del primato che Gesù ha conferito a Pietro, magari cambiandogli il nome, ma mantenendo la sostanza della Chiesa che Gesù ha voluto lasciare dopo di lui? Possiamo continuare ad amare un santo come Giovanni Paolo II, o dobbiamo considerarla «idolatria peccaminosa»? Grazie.
Franco Estorgio
via email, 30/01/2012

Caro Sig. Franco,
«Quidquid recipitur ad modus recipientis recipitur», diceva S. Tommaso. Quanto è recepito, è recepito alla maniera del recipiente. Mi deve scusare, ma il suo commento mi ha fatto pensare a questo antico detto. Scrivere che Don Paolo Farinella «insegna a disprezzare la gerarchia» mi sembra proprio una forzatura. Non tocca a me fare il difensore d’ufficio di Don Paolo. Si sa difendere da solo. A lui piuttosto i nostri auguri accompagnandolo nella preghiera mentre entra in ospedale, proprio il Mercoledì delle Ceneri, per una seconda operazione al cuore.
In quelle righe incriminate non vedo un invito a disobbedire, ma a obbedire meglio, con più responsabilità e meno passività e opportunismo. La passività, per esempio, di chi obbedisce all’obbligo di fare astinenza durante la quaresima, ma non ha scrupoli a votare un partito che fa del razzismo la sua bandiera. L’opportunismo di chi lo (il Papa) incensa quando fa comodo ai propri interessi, e lo ignora completamente quando dice qualcosa che non piace.
Quante volte anche Gesù, nel Vangelo se la prende con i farisei per la loro falsa obbedienza. Pur zelanti nell’osservare minuziosamente ogni comandamento, regola e tradizione, in realtà erano ribelli alla vera volontà di Dio che ha un ordine solo: «Ama»!
Lei parla di «rispetto della parola del Papa» e amore a un «santo come Giovanni Paolo II». Non vedo come quanto scritto sulla nostra rivista possa essere un invito a non rispettare e non amare il Papa. Anzi, chiedere un’obbedienza che diventi imitazione, «non basta ubbidire, bisogna imitare», è molto di più che chiedere una semplice obbedienza. La Madre di Gesù è la prima obbediente. S. Paolo l’aveva capito bene quando scrisse: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1).
Che poi, andando sul sito di Don Paolo, uno trovi delle opinioni da cui si può dissentire, è vero, ma riteniamo che i nostri lettori siano tutt’altro che «un popolo bue». Pubblicandone gli articoli biblici, non invitiamo a diventare fans o discepoli di Farinella, vogliamo solo offrire degli strumenti indiscutibilmente validi per conoscere meglio, amare e vivere la Parola di Dio e per diventare discepoli di Gesù.




Cari missionari

Padre angelo
mazzaschi…
vive

Nella comunità di Besozzola (frazione di Pellegrino Parmense) è vivo più che mai il ricordo di padre Angelo Mazzaschi, missionario della Consolata, per 23 anni in Colombia (1961-1983) e parroco nel paese natio negli ultimi mesi di vita, deceduto il 12 dicembre 1984, a 50 anni di età.
Il ricordo annuale della sua scomparsa ha avuto una speciale solennità il 4 dicembre 2011: la popolazione di Besozzola ha voluto celebrare il 50° anniversario di ordinazione, prima messa e partenza per la missione in Colombia del loro compaesano. E lo hanno fatto dedicandogli l’altare della chiesa parrocchiale, dove padre Angelo fu battezzato, ricevette i sacramenti, fu educato nella fede, celebrò la sua prima e ultima messa e dove ricevette l’ultimo saluto.
Alla celebrazione eucaristica, presieduta dal vescovo di Fidenza mons. Carlo Mazza, insieme al parroco Angelo Melfi e padre Ezio Roattino missionnario della Consolata, è stata rievocata la figura di padre Angelo. «Uomo di poche parole, ma disponibile e forte nella fede – ha ricordato il parroco -. Missionario di azione, totalmente dedicato al bene spirituale e sociale della gente».
Il vescovo mons. Mazza, nella sua omelia, si è complimentato con la comunità parrocchiale perché continua a tener viva la memoria del loro missionario. Anche lui ha poi sottolineato la capacità di padre Angelo di darsi agli altri senza aspettarsi nulla, cercando solo il bene della gente colombiana, testimoniando l’amore di Cristo con il riscatto sociale delle comunità a lui affidate, con attività di promozione umana e difesa della giustizia, seguendo la dottrina e gli insegnamenti della Chiesa.
Parlando dello spirito di avventura della missione, il vescovo ha pure sottolineato che la fede dà senso alla vita e che la vocazione al sacerdozio e alla missione nasce e cresce se è custodita dalla famiglia e accompagnata e apprezzata dalla comunità parrocchiale, come è avvenuto per padre Angelo.
Anche padre Roattino ha ribadito la dimensione missionaria della famiglia e della parrocchia; ha raccontato e rievocato l’operosa testimonianza di fede di padre Angelo la cui memoria è ancora viva anche nei luoghi in cui il missionario ha lavorato,  soprattutto a Florencia e San Vicente del Caguan.
In occasione di questa significativa ricorrenza, è stata curata una raccolta di documentazione (reperita nel tempo, pur se parziale per la difficoltà del ritrovamento) relativa alla vita di padre Angelo. Da tale documentazione, insieme alle testimonianza dei suoi superiori, confratelli e persone in Italia e Colombia che l’hanno conosciuto, egli emerge come uomo dell’amicizia, mite e disponibile, di poche parole ma di molte opere, dotato di grande spirito di sacrificio e tanto amore per i poveri, di coraggio nell’assumere posizioni ferme a difesa della pace e del bene sociale, di serietà e competenza nell’educazione e formazione dei giovani, molti dei quali diventati poi sacerdoti.
Sul ricordino della sua prima messa, celebrata a Besozzola il 2 aprile 1961, c’era scritto: «E porrò in loro un segno e li manderò alle genti d’oltre mare… e annunceranno la mia gloria alle genti» (Is 66,19); un impegno di fede che padre Angelo ha testimoniato operosamente con coraggio.
Iole Fiordilisi
Besozzola
(Pellegrino Parmense)




Cari missionari

CRISTO DE LOS DESTERRADOS
Carissimi, saluti a tutti. Ed ora sentite questa:
proprio come nella storia di Pinocchio: «…come andò che Vicente, pas­ seggiando lungo la spiag­ gia di Ladrilleros [Costa delPacifico] trovò un pez­ zo di legno che piangeva e rideva chiedendo aiuto…» lnciam pai in un pezzo di legno, una radice di man­ grovia, annerita  e abbru­ stolita da un incendio pro­ vocato da qualche abitan­ te d ella foresta per
ripulire con ilfuoco un pezzetto di terra che a lui e alla sua gente serviva per seminare la manioca e ilriso per poter conti­ nuare a vivere e lavorare. Non so come sia andata,
ma ilfatto è che un bel giorno quelpezzo di legno brucia cchiato, trascinato
dalla corrente di un fiume finì nelm are e sballottato dalriflusso della marea finì sulla spiaggia che mi ospitava abbandonato in mezzo a uno dei tanti gro­ vigli di porcherie che ab­ bruttiscono le splendide spiagge delPacifico. Appena lo scoprii, non po­ tei evitare un salto di ioia e un «oh!» di pietà. Cio
che appariva  ai miei oc­ chi era la perfetta figura di un uomo stilizzato, cui
furono strappati i piedi e le mani: un Cristo senza piedi e senza mani con i monconi delle braccia che imploravano pietà. Era come fossel’icona di questa gente, scacciata violentemente dalle sue
terre, vagante senza meta e senza prospettive. Immediatamente ilmio pensiero volò ad Arie,l un artigiano  sognatore che
in Ladrilleros si guadagna la vita lavorando conchi-
glie e cose tipiche per venderle ai turisti ed ave­ re un pezzo di pane per non morire di fame. Nelle sue mani ilpezzo di legno si trasformò in un Croci­ fisso senza mani e senza piedi che animò la via crucis della Settimana Santa 2011.
Ora aspetta in un angolo
della capanna che per a­ desso funge da cappella e potrà essere, un giorno,
la pietra angolare di un futuro santuario in onore del Cristo «de los Dester- rados», patrono di Ladril- leros e di tutta la gente che con fede lo invocherà in cerca di protezione e benedizione. Sognate an- che voi e se sono rose fio- riranno. Saluti,

Vicente (P. Vincenzo Pellegrino) Ladrilleros, Cauca, Colombia 24 /10/2011

Dopo aver cercato Ladril-leros sulle mappe, ho scritto a P. Vicente, «dove
è questo tuo Ladrilleros, che dici essere in riva al mare e invece da Google map risulta sulle monta- gne della cordigliera? E poi, la tua residenza non
è in Cali che col mare non ha proprio niente a che fare?». Ecco la sua pron- ta risposta.
Ladrilleros è una frazione di Buonaventura, distante un’ora di motoscafo dalla città. Il luogo è un paradi- so terrestre con un cielo
«così bello quando è bel- lo» (Manzoni) che ti inna- mora a prima vista. È un po’ meno allettante quan- do piove, e questo capita
in media una volta nelle
24 ore. Siamo nel cuore della selva umida tropica- le.
Cosa faccio a Ladrilleros? Ci sono capitato là tre an- ni fa come turista e spero lasciare le mie ossa nella
bella cavea che il mare ha scavato lungo il litora- le. Risiedo a Cali, però in Ladrilleros, La Barra e Guanchaco – i tre paesetti disseminati a poca di- stanza l’uno dall’altro – è sorta una fondazione sen- za scopo di lucro che si propone di far qualcosa per la gioventù offrendo loro alternative per mi- gliorare la situazione sta- gnante in cui si trovano.
Il mio peccato fu lanciare l’ idea ad alcuni amici quando venni in Italia. La cosa interessò, stanno aiutando e speriamo con
il nuovo anno di iniziare in serio un’attività agro-sil- vo-pastorale con l’idea di riformare il mondo. Intanto il Cristo de los de- sterrados che mi è appar- so mi dice che lì vuol im- piantarsi. Io desidero dir- gli di sì, però intanto mi trovo nei pasticci, come il profeta Geremia; questa è la storia. Tu ricamaci su… e si vedrà. Caminante, no hay camino, se hace ca- mino al andar (Viandante, non c’è il cammino, si
crea camminando). È ov- vio che vivo in Cali, però quando si affaccia il ri- schio di ammuffire, il ri- chiamo della selva mi fa scattare e Ladrilleros mi aiuta a ringiovanire. A presto.
Vicente
Ladrilleros, 26/11/2011

VI ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI DON ANDREA SANTORO Pubblichiamo ora queste riflessioni di Don Andrea Santoro in preparazione al VI anniversario del suo martirio. Non è stato possibile pubblicarle l’anno scorso, in occasio- ne del V anniversario, perché erano arrivate quando la rivista era già
in stampa. Le proponiamo perché il valore di queste parole, firmate con il sangue, non svani- sce col tempo.

Don Andrea Santoro, sa- cerdote fidei donum della diocesi di Roma è stato ucciso (con due colpi di pistola) il 5 febbraio 2006 mentre pregava nella chiesa di S. Maria a Trab- zon (Turchia).
In questo momento stori- co di dibattito e di crisi sulla identità religiosa, sul dialogo e convivenza tra popoli, richiamiamo brevemente alcuni pen- sieri che don Andrea, nei suoi anni di vita sacerdo- tale a Roma e in Turchia, ha ripetuto spesso ai suoi parrocchiani e ha scritto nei suoi diari e nelle sue lettere per aiutarci a su-
perare certe logiche di di- sgregazione della propria identità e di divisione tra realtà diverse.
Don Andrea aveva parti- colarmente a cuore il rapporto tra l’Oriente e l’Occidente, la relazione fra le tre religioni che hanno avuto origine nel Medio Oriente: l’ebrai- smo, il cristianesimo e l’islamismo.
Don Andrea diceva:
… l’identità cristiana
non è una identità territo- riale e neppure semplice- mente culturale. È un’i- dentità evangelica: è il sale di Cristo in noi, è la nostra trasformazione in Lui…è la visibilità di Cri- sto attraverso noi, è lo scrivere il vangelo nel nostro essere, sentire e vi- vere;
… dialogo e convivenza
non è quando si è d’ac- cordo con le idee e le scelte altrui ma quando gli si lascia posto accanto alle proprie e quando ci si scambia come dono il proprio patrimonio spiri- tuale, quando a ognuno è
dato di poterlo esprimere, testimoniare e immettere nella vita pubblica oltre che privata;
… non bastano inter-
venti di natura politica, di- plomatica o militare, e neanche un generico di- battito culturale… Occor- re una mobilitazione più profonda delle coscienze, ponendosi domande che toccano il cuore della no- stra fede e del nostro rap- porto con Dio, le pratiche abituali del nostro modo
di pensare e di vivere, le relazioni tra persone, po- poli e fedi diverse… Ci so- no mutamenti profondi che Dio chiama tutti noi a compiere;
… imporre o soffocare
non è degno né di Dio né dell’uomo. Spesso l’occi- dente ignora questo dirit- to in cambio di interessi economici o vantaggi po- litici. Si tratta di una pro- blematica scottante. Ma la realtà è che spesso il potere, sotto qualunque forma si presenti, politica o religiosa, serve solo se stesso o il bene di alcuni a danno di altri. La paura di dare all’altro ciò che si reclama per sé… arma le mani e il cuore…
(pochi giorni prima di
essere ucciso aveva scrit- to) … due errori credo sia- no da evitare: pensare che non sia possibile la convi- venza tra uomini di reli- gione diversa oppure cre- dere che sia possibile solo sottovalutando o accanto- nando i reali problemi, la- sciando da parte i punti su cui lo stridore è maggiore, riguardino essi la vita pubblica o privata, le li- bertà individuali o quelle comunitarie, la coscienza singola o l’assetto giuridi- co degli stati. Crediamo che questi pensieri possa- no essere elaborati da tutte le persone di “buona volontà”, che siano cre- denti e non credenti, che
si richiamino alla sola ra- gione o anche alla Rivela- zione, perché ognuno possa aprirsi ad un dialo- go vero (e non ad un mero dibattito), che porti ad una convivenza pacifica nel ri- conoscimento e rispetto reciproco.
Associazione
Don Andrea Santoro

Bibliografia:
Lettere dalla Turchia, Città Nuova, 2006 – Diario di Terra Santa, San Paolo, 2010 – DVD, La fede è partenza, Città Nuo- va 2007 – DVD, Don Andrea Santoro sacerdote e parroco
a Roma, Associazione don
Andrea Santoro 2010.

RICORDANDO P. ALEX MORESCHI
È morto venerdì 9 settem- bre a Malonno (Brescia), all’età di 66 anni, di cui 43 di professione religiosa e
38 di sacerdozio, padre A- lessandro Moreschi, Mis- sionario della Consolata, per anni membro e ani- matore della comunità operante a S. Valentino (Castellarano). Il funerale si è tenuto a Malonno do- menica 11 settembre. Padre Alex, dopo anni di missione in Kenya, era rientrato in Italia per oc- cuparsi dell’animazione missionaria. È così che lo abbiamo conosciuto in Diocesi e in particolare al Centro Missionario, sem- pre estremamente dispo- nibile e collaborativo, sia per l’attività ordinaria co- me per i servizi straordi- nari, quali l’accompagna- mento di giovani nei viaggi missionari in Madagascar e in Rwanda (e anche Tan- zania e Kenya).
Lo ricordiamo con affetto, riconoscenza ed ammira- zione per la generosità, per la franchezza, per la libertà interiore e la pa-
zienza, di cui ha dato prova straordinaria in questi ul- timi due anni, alle prese con la malattia inesorabile che lo ha consumato…
Il Centro Missionario Diocesano di Reggio Emilia

P. Alex Moreschi è stato ospite delle pagine di questa rivista più di unavolta (l’ultima su MC 7-8/2008, pag. 70), sia quando era in missione in Kenya che quando impe- gnato nell’animazione missionaria qui in Italia. Appassionato lettore e critico della rivista, pochi giorni prima del suo ri- too alla casa del Padre ci aveva scritto una lunga lettera. Ve ne offriamo
dei passaggi.

Complimenti,
la rivista ha migliorato tantissimo ultimamente.
I dossier sono interessan- ti, specie l’ultimo sul capi- tolo e il carisma dei mis- sionari della Consolata. Devo dirvi che una coppia che era anche impegnata missionariamente mi ha chiesto di disdire l’abbo- namento. Le motivazioni sono due: è troppo impe- gnativa negli articoli, per- ché troppo approfondita e densa. Il secondo motivo perché è di parte e setta- ria su qualche argomen- to, cioè non scopre il ro- vescio della medaglia su certe questioni (OGM, Madre terra, palestinesi, politica sud americana, etc.).
Si vuole scrivere troppo, senza tenere presente a chi va la rivista e chi la legge (in genere gente che ha da fare e non ha tempo di approfondire e anche anziani).
Ho in mente dei mensili che scrivono di argomenti molto impegnativi e sono più snelli, essenziali, scritti chiari con caratteri più grossi. La nostra rivi- sta sembra che voglia esaurire lo scibile in pagine difficili da affrontare. Recentemente si rispon- deva a dei seminaristi
che non volevano più ricevere la rivista perché ne ricevevano troppe. Nella risposta si argomentava che la nostra rivista è a difesa dei poveri, degli impoveriti del Sud del mondo, che combatte le ingiustizie sociali ed eco- nomiche del pianeta. Sa- crosanta verità, ma se l’accesso a questo stru- mento è difficile come
farà la rivista a raggiungere il suo scopo?
I complimenti sono molti e la rivista ha acquistato un aspetto più missiona- rio, almeno un po’ di più. Certe rubriche sono un po’ tendenziose e non og- gettive […].
Avendo molto tempo a di- sposizione ho letto molto
«Missioni Consolata» spinto anche da qualche padre che neppure la a- pre e anche da altre per- sone che hanno la stessa idea di parzialità.
Una coppia di giovani ai quali ho mandato la rivi- sta la ritiene molto buona però dovrebbe essere più snella e accessibile a vari ceti di persone.
Tanti auguri!

Alex Moreschi
23/8/2011




Cari missionari

Lettere

Non si gioca con le parole
Solo adesso ho letto il numero di maggio-giugno 2010 di Missioni Consolata. Sono rimasto sbalordito leggendo, all’interno dell’articolo «Mexico, lindo y querido» di Paolo Pagliai, a pag.33, questa frase: «…sono le donne che lottano… per i propri diritti sessuali e riproduttivi; sono gli omosessuali che a Città del Messico conquistano, metro a metro, il riconoscimento di una società storicamente maschilista e omofoba». Il riconoscimento dei diritti degli omosessuali è un discorso complesso, perché nessuno di noi nega i diritti di queste persone, però il tono usato non è certo quello di chi considera comunque l’omosessualità un disordine. Per il resto, l’espressione «diritti sessuali e riproduttivi» è un eufemismo, tra l’altro ipocrita perché abilmente mascherato, per definire il diritto all’interruzione di gravidanza. Se io fossi a favore dell’aborto, non leggerei certo Missioni Consolata, leggerei l’Unità o La Repubblica e sono convinto che la stragrande maggioranza dei lettori della rivista la pensi come me. Ma, al di là delle nostre opinioni, che cosa ne penserebbe il canonico Allamano? Si aggioerebbe anche lui oggi, riconoscendo l’esistenza di questi fantomatici diritti civili, o riterrebbe ancora, contro ogni relativismo e aggioamento ideologico, che la vita umana nel grembo materno è sacra e che comunque non si gioca sulle parole, ingannando i lettori?
Franco E. Malaspina
Milano, 3/9/2011
Chiediamo scusa per la lunga frase che non abbiamo vagliato a sufficienza e usa termini che sembrano approvare pratiche certamente non accettate da una rivista come la nostra. Grazie per la sua segnalazione.

Padre Piero Moruzzi – 25° della morte
La piccola comunità parrocchiale di Antognano (Lugagnano Val D’Arda, Piacenza) con l’Amministratore Parrocchiale Don Angelo Ferrari, domenica 21/08/2011 ha ricordato il 25° anniversario dell’improvvisa scomparsa del suo parrocchiano p. Piero Moruzzi, missionario della Consolata, avvenuta il 24/08/1986 a South Horr (allora diocesi di Marsabit, Kenya) alla giovane età di 51 anni.
La cerimonia, iniziata con la visita al cimitero, è proseguita con la Messa presieduta da Mons. Giuseppe Illica, vicario generale, nella piccola chiesa di Antognano tanto cara a p. Piero perché lì è stato battezzato, ha ricevuto tutti i sacramenti compresa l’ordinazione sacerdotale, avvenuta il 2/12/1964 e lì è stato riportato dall’Africa per l’ultimo saluto terreno. Alla cerimonia oltre ai famigliari di Padre Piero ed ai parrocchiani, erano presenti tanti amici ed alcuni sacerdoti compagni di studio nel seminario vescovile di Bedonia. Una presenza particolare è stata quella del gesuita p. Sauro De Luca (da Gallarate) che ha ricordato p. Piero come il suo più grande amico. Padre Sauro, a conclusione della cerimonia, ha raccontato la sua lunga collaborazione con p. Piero, che ha portato, oltre a concreti aiuti alimentari alla gente della missione di p. Piero ed a tantissimi giovani per proseguire gli studi e per sistemarsi nel lavoro, alla costruzione di alcuni villaggi: due per i senzatetto di Laisamis e a Logologo ed i villaggi degli anziani ed i ciechi di South Horr.
Padre Sauro ha poi raccontato il toccante episodio che ha dato inizio alla loro profonda amicizia. Una sera, stanco per il lungo viaggio sulle strade polverose e deserte del Marsabit, arrivò, sul tardi, alla missione di p. Piero e lì ricevette cordiale ospitalità. Nel colloquio serale p. Piero continuava a parlare della drammatica situazione del villaggio visitato quel giorno, dove aveva incontrato solo morte e disperazione a causa della siccità. P. Pietro era particolarmente triste perché non aveva mezzi per aiutare quella gente.
P. Sauro, che ritoò poi molte volte in Kenya, ha testimoniato che la gente tra cui P. Piero era vissuto ed aveva lavorato, lo ricordava come «il Padre dal cuore grande» ed i confratelli ripetevano che pensare a Padre «Moru» era pensare alla bontà, all’amicizia ed all’accoglienza.
La funzione religiosa si è conclusa con lo scoprimento di una lapide commemorativa all’interno del piccolo tempio parrocchiale.
Con le offerte raccolte, la comunità parrocchiale di Antognano ha voluto continuare, per il 3° anno consecutivo, a sostenere con le adozioni a distanza  il centro dei Missionari della Consolata a Runogone (Kenya). Molto apprezzata è stata l’esposizione di foto che ricordavano la consacrazione sacerdotale di p. Piero, la sua attività missionaria nel Marsabit e i bimbi sostenuti con le adozioni a distanza.
Aldo Lombardelli
 Piacenza, 1/9/2011




Cari missionari

Dossier Nyerere

Ciao, padre Francesco,
ho letto con vero piacere il tuo dossier su «Nyerere santo» (MC 10/2011). Congratulazioni! Ti ho invidiato quando ho letto che Nyerere si è fermato sulla strada per parlare con te. Io l’ho incontrato tante volte a Iringa e a Dar Es Salaam, ma non ho mai avuto la fortuna di parlargli a tu per tu. Il giorno che gli sono stato assieme più a lungo è stato quando ha partecipato a Ubungo alla consacrazione della chiesa parrocchiale. Temo che non lo faranno santo per via della guerra contro l’Uganda e che l’Uganda non gli perdona.
Mi ha un po’ stupito che non abbia parlato della sua conferenza alle Suore di Mariknoll, radunate per gli Esercizi spirituali, quando fu in America per la prima volta. Era una conferenza illuminante e da lì è partito il motto: il missionario deve «lavorare con», non «lavorare per». Un altro discorso illuminante è stato quello fatto all’università di Makerere (Uganda), che dopo l’indipendenza gli aveva offerto la laurea honoris causa. Le parole che mi hanno colpito sono pressappoco queste: «Mi hanno condannato a sei mesi di prigione per il libello che ho scritto contro un ufficiale inglese, oppure a 5 mila dollari di multa. Avrei potuto scegliere i sei mesi di prigione (nelle prigioni inglesi non si stava male) e diventare eroe, col rischio di far sorgere venti di guerra. Ho preferito l’umiliazione di pagare la multa».
In preparazione all’indipendenza, in un incontro con il comitato che doveva stabilire le condizioni per la nazionalità del Tanzania, si è decisamente opposto a che l’africanità (o altro del genere) divenisse un requisito essenziale. Se non si fosse accettato di definire importante solo la lealtà al paese (il ministro delle finanze era un indiano), si sarebbe ritirato dalla politica.
Auguri a tutti che possiate fare tanto bene.
p. Giulio Belotti
Alpignano (TO)

Carissimo padre Giulio, grazie delle informazioni preziose. Grazie anche dei rilievi critici, che condivido. Non ho accennato al celebre discorso alle Suore di Mariknoll per mancanza di spazio. Avevo scritto anche un inserto sul «Tanzania oggi», ma non è stato pubblicato (penso) proprio perché lo spazio è tiranno in una rivista. Grazie, infine, dell’augurio di fare tanto bene. Io mi accontenterei di fae solo un po’.
 p. Francesco Beardi
Bunju, Tanzania, 4/10/2011
È vero, lo spazio è tiranno, e ci dicono anche che mettiamo sempre troppo testo! Lo scritto di p. Francesco su «Tanzania oggi» è solo rimandato. Apparirà presto.

RETTIFICA
Abbiamo anche ricevuto diverse telefonate e lettere a proposito della confusione fatta tra mons. Marinangeli e mons. Beltramino (ambedue Attilio) nell’ultima foto del medesimo dossier. La signora Elena Bottoni, affezionata lettrice della rivista e pronipote di mons. Beltramino, scrive:
«Alla pagina 50, c’è la foto del vescovo nel giorno della cresima del figlio di Nyerere. Vi voglio solo correggere, perché il vicario apostolico di Iringa lì raffigurato è mons. Attilio Beltramino e non Marinangeli come voi asserite. Visto che nella vostra edizione mensile non lo ricordate mai(!); almeno per una volta dategli il giusto nome, anzi cognome».
Chiediamo ancora scusa dell’errore! Quando mons. Beltramino è morto a Tosamaganga, il 3 ottobre 1965, questo direttore aveva fatto solo il suo primo anno di seminario tra i missionari della Consolata! (Non è un granché come scusa, lo so…)

Grazie
Ci siamo trovati improvvisamente, a inizio settembre, nella necessità di recarci in Venezuela per rimpatriare il fratello/cognato Gaetano, residente nel paese da oltre 35 anni, colpito da infarto cerebrale. Siamo partiti senza conoscere esattamente le condizioni di salute di Gaetano. Non conosciamo lo spagnolo, per questo abbiamo cercato un appoggio in grado di aiutarci sia nella logistica che nel risolvere le numerose pratiche necessarie per il rientro in Italia di Gaetano. Questo aiuto l’abbiamo trovato nella missione della  Consolata di Caracas. Il superiore, p. Lisandro insieme ai pp. Andrea e Vilson ci hanno accolto con grandissima attenzione e disponibilità sia al nostro arrivo (noi poi abbiamo proseguito per Cumanà, dove era ricoverato Gaetano) sia al ritorno a Caracas. L’assistenza a Gaetano nei giorni precedenti il viaggio di ritorno, le pratiche con il Consolato per il rinnovo del passaporto, l’ottenimento dell’assistenza al volo si sono concretizzate in tempi molto rapidi grazie all’aiuto generoso ed efficace dei padri della Consolata. Con grande affetto e riconoscenza ringraziamo anche a nome di tutta la nostra famiglia i padri che con estrema semplicità ci hanno offerto il grande dono della loro amicizia.
Luigi Veronesi
e Piero Bredi
Milano, 29/09/2011

20 giorni in Thailandia
Buon giorno, sono d’accordo con il vostro corrispondente da Bangkok Stefano Vecchia. Ho potuto constatare con i miei occhi durante il mio soggiorno per vacanza a Bangkok e Koh Tao l’estrema povertà e infelicità della popolazione. Frequentando la stazione dei treni ho potuto vedere dei poveretti che giacevano lungo il corso dei binari come i nostri senzatetto, ma molto malridotti, e bimbi che vivevano per strada soli senza famiglia. Al mercatino venivano vendute persino le dentiere usate e rientrando da una visita ad un’altra città alle quattro del mattino ho notato che la gente che vive nei tuguri della periferia di Bangkok dove passa il treno, lavora giorno e notte per cucinare quello che altri vendono lungo le vie della città, e per passare da una casa all’altra devono attraversare le case altrui senza nessuna privacy. Lo sguardo delle persone era molto triste anche perché stanno demolendo le case fatiscenti per farci degli hotel di lusso e quindi spingono gli abitanti meno abbienti ad andarsene in periferia dove ci sono le bidonville. Ho visto donne che sotto il sole cocente lavoravano nell’edilizia accanto agli uomini facendo lavori pesantissimi, senza parlare poi degli animali che sono trattati peggio delle cose. I thailandesi sono gentilissimi, ma penso che se si sono ribellati poco tempo fa con le camicie rosse al regime è per la forte disuguaglianza tra ricchissimi e poverissimi. Sono tornata a Milano veramente scioccata da questa realtà che tra l’altro sta distruggendo anche le isole più belle perché, non essendoci un sistema fognario, i liquami che si possono vedere e annusare in superficie accanto alle case vengono versati tutti a mare con conseguenze ben immaginabili. Spero che la situazione possa migliorare altrimenti non posso che compiangere quella popolazione! Cordiali saluti
Mirella De Gregorio
Milano, 1/10/2011

Due Chiese?
Salve, ho letto con molto interesse e frutto il numero di ottobre della vostra rivista. Mi permetto di rilevare tuttavia alcune imprecisioni conceenti l’intervista a Paolo Bertezzolo in merito al suo libro «Padroni a Chiesa nostra» (articolo «La croce e la spada», Mc 10/2011 pp.19-21). Se sono d’accordo con lo scrittore sulla realistica visione che ha della strategia politica e sociale della Lega nord, non credo che egli abbia molto chiaro il catechismo di base. Mi spiego: in primis, non esistono due Chiese, una «che si rifà al modello del cattolicesimo di Pio V» (che ricordo essere sempre San Pio V) e una del «Vaticano II». Questa esclamazione mi suona tanto come un’applicazione di criteri umani alla Chiesa che è «colonna e fondamento della verità», come afferma s. Paolo e, come Cristo, nella sua Fede è la stessa «ieri oggi e sempre» (ancora l’apostolo delle genti). Inoltre sarebbe opportuno contestualizzare con più cura affermazioni come «Io non posso combattere gli infedeli… Ce lo dice tutta la Parola di Dio». Forse il professore non conosce l’Antico Testamento o l’Apocalisse? Saranno simboli ma sono pur sempre S. Scrittura. Non è con un rancoroso disprezzo del proprio passato che i cristiani annunceranno il Vangelo nel XXI sec. Spero di non urtare la sensibilità di nessuno, ma amo profondamente la S. Chiesa e reagisco a questa divisione (pre o post-conciliare) come un figlio che vede la propria madre squarciata in due, da altri figli che considerano brutta una parte di lei. La Chiesa è per me Tota pulchra et nigra (a causa di noi suoi figli), sed formosa. Chiedo le vostre preghiere e assicuro le mie. Cordiali saluti.
lettera firmata
5/10/2011

Caro amico che hai chiesto di restare anonimo, quando si parla di due chiese non si intende certo dividere la Chiesa che Cristo ha voluto una in Lui, come sua sposa, anzi come suo corpo.
Ma questa Chiesa vive nella storia, ed è in questa storia, fatta di tempo e di spazio, che realizza la sua fedeltà al suo Capo/Sposo che è Cristo. Se la fede in Cristo, che ha la sua pienezza nell’amore, rimane sempre la stessa, il modo di vivere ed esprimere questa fede cambia nel tempo, offrendo risposte nuove, fresche e vive al mondo presente.
La Chiesa è fatta di persone che cercano di vivere al meglio la fede nel loro presente. Quando si parla di un cattolicesimo «stile (san) Pio V» o «Vaticano II» si sottolinea il fatto che, pur nella continuità, non si può portare indietro il tempo e vivere come se nulla fosse successo. Lo «stile s. Pio V» era certamente innovativo rispetto a quello di s. Gregorio Magno, vissuto circa mille anni prima, o a quello di s. Clemente I, del primo secolo, ma non è certamente del tutto adeguato al nostro presente. Non si tratta di un «rancoroso disprezzo del proprio passato», ma di apprezzare il passato, senza usarlo per delegittimare il presente ed evitare gli errori di cui il beato Giovanni Paolo II ha chiesto perdono a nome di tutta la Chiesa.
è vero che nella Bibbia si parla molto di lotta e combattimento, soprattutto contro il male e il maligno, ma è un linguaggio che va inteso nella sua valenza simbolica non letterale, alla luce del «ma io vi dico» di Gesù (cf. Mt 5) che parla di amore per i nemici e invita a non lasciar spazio alla rabbia nel cuore.
Il reale problema della Chiesa oggi, lo dice anche il Papa, non viene da fuori, ma sta soprattutto nei moltissimi battezzati che non vivono il battesimo, non amano la Chiesa, non pregano più, non ascoltano la Parola, non vanno a messa, non accettano guide morali e sono sicuri di essere nella verità, perfettamente a posto pur riducendo la loro fede ad alcune pratiche formali e burocratiche. Se tutti gli italiani che hanno ricevuto il battesimo lo vivessero davvero, la Chiesa sarebbe davvero «tota pulchra et formosa».

KENYA 2011
Ancora una volta siamo tornati in Africa, in Kenya. Eravamo stati undici anni fa, in un viaggio organizzato dai padri della Consolata, purtroppo la realtà del Kenya di ieri non è mutata in meglio, anzi è, per certi versi, peggiorata.
La globalizzazione ha investito in modo pesante anche i paesi poveri, portando un aumento dei prezzi dei beni di prima necessità (farina, riso, mais, fagioli) e quindi un peggioramento delle condizioni di vita per la popolazione più povera.
Fame, sete, aids, sono le realtà contro cui si combatte ogni giorno. I cambiamenti climatici, la deforestazione hanno determinato una siccità spaventosa, da due anni le piogge cadono irregolarmente e poco, per cui l’acqua sta diventando il bene più prezioso e più atteso. Ad ottobre dovrebbero arrivare le piogge, se non sarà così moriranno prima gli animali e poi tanti bambini.
In alcuni villaggi l’acqua delle fontane, da due anni, è razionata, ciò significa che solo una volta alla settimana è possibile fare rifoimento, con conseguenze facili da capire sul piano sanitario.
Quando pensiamo al Kenya la nostra fantasia corre alla savana, ai safari, alle distese sconfinate e selvagge, ma è sufficiente inoltrarsi nei villaggi per capire le difficoltà di vita soprattutto delle donne e dei bambini. Capanne di fango e di sterco di mucca, accolgono questa umanità che, comunque, pur tra mille difficoltà trova i mezzi per andare avanti. Esiste un’Africa fatta di donne che, da sole, sostengono la famiglia, provvedono all’acqua, alla legna (unica fonte di energia), zappano la terra con i bambini legati sulla schiena, partoriscono da sole.
Donne schiacciate da enormi bidoni d’acqua, da fasci di legna pesantissimi portati sulla schiena anche per diversi chilometri costituiscono un quadro che si ripete ogni giorno.
La donna è la vera forza della società africana, non per la sua emancipazione, ma per il coraggio con cui affronta la lotta quotidiana, non ultimo quella dell’aids. Abbandonata dal marito, vittima di credenze tribali, combatte per la sopravvivenza sua e dei suoi figli una battaglia talvolta dall’esito drammatico.
Ci sarà un futuro migliore per queste persone? L’unica strada da percorrere è l’istruzione, la donna istruita potrà prendere consapevolezza dei propri diritti, della propria sessualità; l’uomo istruito, non considererà più la donna un oggetto da sfruttare e da abbandonare quando è malata o incinta, ma insieme potranno intraprendere un cammino di cambiamenti.
è proprio la diffusione dell’istruzione, con la costruzione di aule scolastiche, l’obiettivo principale dei missionari e delle missionarie che, ogni giorno, condividono le difficoltà della gente.
Diffusione di scuole, formazione professionale, costruzione di pozzi e dispensari sono gli sforzi principali verso cui convergono gli aiuti dei centri missionari da noi visitati.
Anche la nostra associazione «I sogni dei bambini – onlus» si è unita a questi obiettivi provvedendo alla costruzione di due aule scolastiche in un piccolo villaggio nel distretto di Isiolo a nord di Nairobi, e aiutando un centro di formazione professionale per ragazzi di strada, a Nairobi, con l’acquisto di materiale e macchine per la realizzazione di finestre in ferro, sedie, mobili. Il nostro aiuto è una goccia in un mare di necessità e bisogni primari, di fronte ai quali ci si sente impotenti e angosciati, ma il sorriso di tanti bambini ci sprona ad andare avanti e a trovare quegli aiuti, anche piccoli, che laggiù possono salvare dalla fame e dall’ignoranza anche solo una vita.
Rosella e Mario
6/10/2011

Grazie della condivisione che fate. Il Kenya, come altre nazioni africane, è una terra di grandi contraddizioni e, più il tempo passa, più si nota il contrasto tra la vita di una minoranza ricca (anche ricchissima) e quella della gente normale.
Davvero i missionari hanno sempre investito, e continuano ad investire in educazione e formazione professionale, in questo aiutati proprio da chi sostiene i loro mille progetti, tra cui l’adozione a distanza. Grazie a tutti coloro che sostengono queste attività di lotta all’ignoranza e povertà, sia che lo facciano direttamente attraverso la nostra onlus che con le molte onlus legate a tanti singoli missionari.
Però il missionario non può limitarsi a sviluppo, educazione e sanità. Sua missione è quella di dare un’anima all’impegno per la promozione dell’uomo attraverso l’annuncio di Gesù. In Cristo ogni uomo ri-scopre e ri-apprezza le vere radici della sua dignità, perché in Lui ogni uomo si scopre per quello che è, figlio e figlia di Dio, uguale nella diversità, membro di una sola famiglia, la famiglia di Dio. Una famiglia chiamata a vivere nella pace, giustizia, solidarietà e corresponsabilità.
Così non basta che chi può aiutare lo faccia anche attraverso progetti meravigliosi. Occorre darsi da fare per cambiare la mentalità, per promuovere leggi più giuste, per una nuova economia solidale e corresponsabile, per una politica di pace e non di guerra, una politica della fiducia e non della paura, della cooperazione e non dell’egemonia, dell’integrazione e non del razzismo.
E questo è un lavoro «da laici», un passo in più per cambiare il mondo che va fatto da questa splendida costellazione di forze che sono già impegnate nella solidarietà ai missionari, siano esse le Ong di vecchia tradizione o le molte nuove onlus radicate nel territorio.




Cari missionari

Lettere dei lettori

Lutto all’Avi
Lo scorso marzo ci ha lasciato Ardulino Lazzaron, storico socio della sezione dell’AVI di Trebaseleghe (Treviso) rapito da una malattia fulminante mentre si accingeva a tornare in Kenya per un nuovo progetto.
Ce lo ha comunicato l’AVI (Associazione Volontari
Italiani di Montebelluna – Treviso), che lavora in stretta collaborazione con molti missionari della Consolata.

ARDULINO LAZZARON
L’amore per l’Africa
Doveva esserci anche lui, nell’ultimo viaggio in Kenya. Aveva già in tasca il biglietto aereo, ma una visita medica di controllo prima della partenza e gli esami clinici lo avevano fermato. La rapidità della sua rinuncia ci aveva lasciati increduli e costeati. Ardulino Lazzaron, mio zio, era sempre stato un uomo energico, innamorato della vita, della sua famiglia, di tutte le persone semplici, indifese, sofferenti. Per questo l’Africa era arrivata dritta al suo cuore, dando un nuovo impulso alla sua esistenza, nutrendo ed accrescendo il suo desiderio di andare oltre il ritmo piatto della quotidianità. Aveva bisogno di emozioni intense, di sentimenti veri e profondi per cause umanitarie nelle quali attirare, travolgendole con il proprio entusiasmo, le persone che incontrava, per coinvolgerle nei progetti. Io sono una di queste. Per otto anni andammo in Kenya assieme e da quell’esperienza nacque l’ associazione Karibu di Scorzé, formata da un gruppo di volontari sensibili ai problemi dei paesi meno sviluppati e con grandi disparità sociali soprattutto per quanto riguarda la condizione femminile e dell’infanzia. Assieme, iniziammo un percorso di conoscenza e di operatività in un paese affascinante per la bellezza selvaggia della natura, ma in balia di devastanti piogge torrenziali alle quali si alternano periodi di siccità, con una carenza d’acqua in superficie diffusa nelle gran parte del paese. La difficoltà di comunicazione tramite una rete stradale spesso su terreni impervi, rese difficile la nostra opera di aiuto, ma allo stesso tempo alimentò la passione per la sfida e lo spirito di avventura. Ardulino fu sempre in prima linea per promuovere progetti educativi ed assistenziali in Kenya e raccogliere fondi. Era instancabile nel parlare con i nostri compaesani di quelle popolazioni lontane, delle quali riusciva ad evocare, assieme ai bisogni, la carica umana, i giorniosi sorrisi, la speranza di un futuro migliore di cui la nostra opera era il sostegno e lo è tuttora. Aiutare e far crescere la gente nel suo habitat naturale, rispettandone l’identità, fu lo scopo di Ardulino Lazzaron; per questo girava sempre con le foto dei bambini africani in tasca, per far vedere che il suo impegno era una realtà. Ricordo che in Kenya, nonostante non sapesse l’inglese e neppure lo swahili, riusciva a “parlare” con tutti. Era il primo nella preghiera, nell’entusiasmo di confondersi e sentirsi assimilato alla gente africana in uno scambio di reciproco amore. La sua opera caritatevole non si interruppe nemmeno nei suoi ultimi giorni. Quando andai a trovarlo in ospedale, mi chiese di portargli le fotografie ed il filmino dell’ultimo viaggio. “Qui c’è molta gente sensibile, che sicuramente ci sosterrà nei nostri progetti”, mi disse, con gli occhi che gli brillavano. Ai suoi nipoti era solito ripetere: “Anche voi dovete aiutare i bambini bisognosi. Andate in Africa a vedere come vivono. Non dovete lavorare solo per voi stessi, per avere una casa, per accumulare soldi”. Ardulino aveva un carattere forte, facile ad alterarsi, ma era anche capace di riconoscere i propri errori e di scusarsi, come seppe fare con me, dopo un malinteso, dandomi una grande lezione di vita. Il nostro compito di parenti ed amici è ora quello di mantener fede alle sue ultime parole: “Aiutate soprattutto i bambini poveri africani”. Per questo uno dei prossimi progetti in Kenya sarà dedicato a lui. Caro zio, ho visto in te la Luce di Dio. Certamente Egli non sta tra le nuvole, ma agisce dentro di noi e tramite noi. Ti prometto che porterò avanti l’opera iniziata insieme. Che tu sia nella Pace Etea!
Il Consiglio Direttivo AVI
email 05/04/2011

Guatemala
Salve Paolo: grazie tante, ho letto l’articolo in italiano e mi è piaciuto. Sicuramente non piacerà a molti del Guatemala, ma credo di aver detto la verità. Soltanto una piccola osservazione: Union Fenosa non ha progetti idroelettrici. Spero che l’affermazione del collegamento tra la morte dei leaders e la resistenza contro Union Fenosa non sia intesa come un’accusa contro la stessa. Di nuovo grazie di tutto.
Mons. Alvaro Ramazzini, Guatemala

Egemonia
L’esultanza statunitense dopo l’uccisione di Osama Bin Laden rievoca altre squallide immagini, ad esempio i corpi martoriati dei figli di Saddam Hussein; i prossimi saranno forse Gheddafi e la sua famiglia?
L’America non cambierà mai, ce lo dimostra ogni giorno Hollywood coi film d’azione nei quali l’orgasmo conclusivo è sempre la distruzione compiaciuta del “cattivo” con volumi di fuoco esagerati. La vendetta per l’immaginario statunitense è l’ultimo imperativo etico, dopo che ogni altro è stato svuotato dalla mercificazione. Questa volta il rituale macabro è anche sospetto: un cadavere fatto sparire in fretta, le immagini contraffatte apparse in rete. Perché occorreva euforizzare i cittadini americani? Il quadro internazionale sta cambiando: le rivolte in nord Africa sono state accese anche dalla speculazione finanziaria sui generi alimentari (vedi il quantitative easing della Federal Reserve nell’agosto 2010). Tutto accade proprio quando è sopraggiunto il cosiddetto picco del petrolio, ossia la fine della sua disponibilità a basso costo. Il disastro del golfo del Messico non sarebbe mai accaduto se la BP non avesse cercato petrolio a profondità marine prima considerate troppo dispendiose e troppo rischiose. L’incoscienza e la brutalità americane non devono stupire dati i precedenti: Dresda rasa al suolo a guerra finita, le bombe atomiche sul Giappone già sconfitto, la diossina sparsa sulle foreste del Vietnam, l’uranio impoverito nei vari teatri di guerra attuali. Ciò che stupisce ed amareggia è la nullità europea: una pseudo-destra francese che anticipa, giustificandole, le ingerenze USA in Nord Africa, una pseudo-sinistra (italiana e non solo) che plaude alla punizione del tiranno libico, senza considerare coloro che lo sostengono. Non dimentichiamo che la prevalenza statunitense nel mondo ha coinciso con un “ecocidio” di proporzione planetaria, che nessuno pare in grado di fermare. L’egemonia statunitense si regge su due pilastri:
1. Il consumismo spacciato per benessere, che occulta il saccheggio operato dall’alta finanza;
2. La criminalizzazione di ogni capo di stato che si opponga al baratto della sovranità nazionale col libero mercato.
Nessuno più di chi è impegnato nelle missioni credo possa aver capito che i dittatori, di destra o di sinistra, sono da sempre il pretesto interventista degli USA, indispensabili come il terrorismo. Le guerre, come spiega il saggio Shock economy dell’americana Naomi Klein, sono parte essenziale del gioco. Come può un’ Europa di antica tradizione e radici cristiane assoggettarvisi? Il sangue versato in Libia, Siria e altrove lo sarebbe stato anche senza l’azione destabilizzante atlantica? Negli USA con denaro pubblico si sono tamponate le voragini finanziarie della lobby bancaria, poi spalmate anche sull’Europa; è questa la democrazia da diffondere? Una società senza valori non ha futuro, e oggi è tutto il mondo a non avee. Non possiamo aspettare che il gigante USA imploda nel suo delirio, divorato dai conflitti interetnici, è necessario un mondo più saggio, da perseguire anzitutto astenendoci da una sudditanza che orienterebbe l’odio del terzo mondo contro tutta la cristianità.
Prof. Vincenzo Caprioli
www.iperlogica.it

Condivido con lei il disagio per come si sia fatto spettacolo dell’uccisione di Bin Laden.
Ho i miei dubbi, invece, quando si danno tutte le colpe all’America. In fondo l’egemonia dell’America fa comodo a tutti noi che, coscientemente o no, stiamo forse diventando più americani degli americani.
Una volta dicevano che «la storia è maestra di vita». La storia potrebbe ancora insegnarci tante cose, ma bisognerebbe essere degli studenti che hanno voglia di imparare.

su «Troppe riviste…»
Spett.le Redazione,
il 3 gennaio 2011 Il Sole 24 Ore ha dedicato un’intera pagina a 8/9 punti caldi della terra dove sarebbero potute scoppiare durante l’anno guerre o rivolte. Non era citato nessuno dei Paesi dell’Africa del Nord. Leggendo il Bollettino Salesiano del novembre 2010 c’era un servizio di Giancarlo Manieri che descriveva cosa succede attorno al Cairo, dove la gente lavora «in condizioni peggiori di quelle degli antichi schiavi d’Egitto».
Questo per dire che Riviste come Missioni Consolata, Nigrizia, Mondo e Missione, Il Bollettino Salesiano (per citae solo alcune), grazie anche alla presenza sul posto dei vari missionari, danno una fotografia della realtà di paesi lontani che nessun’altra fonte d’informazione sa dare in maniera così oggettiva.
Per questo mi sorprende e mi preoccupa che il seminarista Alberto V. (MC 05/2011, pag. 5) abbia chiesto di sospendere l’invio della vostra interessantissima rivista. Non voglio insegnargli nulla, ma sicuramente ha più tempo di me che dedico quasi ogni giorno 3 ore in auto per raggiungere e tornare dal posto di lavoro. Vivendo in comunità di 10 seminaristi, a tavola potrebbe scambiarsi le informazioni più importanti con gli altri seminaristi (senza che tutti leggano tutto). Interessa o no a questi seminaristi capire quelli a cui “prestate la vostra voce”? Perfetta e sferzante – a mio avviso – è stata la risposta della redazione data alla lettera.
 Vi auguro di continuare con coraggio.
Andrea Gobbo
via email, 27/05/2011

Carissimi, salve!
Vorrei essere «Alberto del seminario di M.». Mi farei portavoce dei miei solidali benedetti nove compagni/amici e del nostro amatissimo staff di formatori e accompagnatori, per ringraziare sentitamente della simpatia con cui ci regalate ancora la vostra rivista missionaria senza richiederci quote d’abbonamento. Scriverei: «Ci è assai caro che comprendiate come in effetti noi manipolo facciamo un po’ fatica a onorare tutti gli abbonamenti delle tante riviste che ci arrivano… Grazie a Dio e ai benefattori di alcune testate, invece, abbiamo la fortuna di poter arricchire la nostra formazione culturale a tutto tondo, nel panorama ecclesiale; anche se, ovviamente, non tutti leggiamo tutto, né tutto sempre alla pari approfondiamo e facciamo nostro. Non solo. La nostra biblioteca è aperta alla parrocchia, ai gruppi e ai singoli che vogliono frequentarla per ampliare a loro volta le proprie conoscenze in ambito d’informazione cristiana attraverso pubblicazioni che non si trovano facilmente in edicola, in libreria o in oratorio. Quindi, vi siamo grati anche a nome di altri, sperando così che qualcuno in più prenda nota del vostro c.c.p. e del codice del 5×1000 …
Riconosciamo che senza alcune riviste missionarie il nostro orizzonte ecclesiale moderno risulterebbe davvero… un po’ miope e provincialotto. I nostri superiori, crediamo, corrono serenamente “il rischio” che qualcuno fra i non troppi candidati al servizio diocesano… si orienti, prima o poi, ad gentes; loro cura e premura è infatti, tenerci ben  esposti al «vento dello Spirito», mentre ci educano al servizio del Regno e della Chiesa, nel Mondo. Grazie, allora, e ogni fraterno cordiale cristiano augurio!».
«Vorrei essere Alberto del seminario di M.», ma sono soltanto Elio ex seminarista che ai suoi tempi non restava mai senza il Piccolo Missionario e l’Italia Missionaria… ma oggi ritiene che anche allora sarebbe stato utile, su nelle sale di studio, avere a disposizione qualcosa in continuità; per parecchi anni poi ha provveduto in proprio con più abbonamenti, pur avendone ridotto il numero dopo gli anta senza mai eliminarli tutti.
Non sono un formatore né un vescovo, né un editore o distributore di (buona) stampa. Se fossi vescovo d’una diocesi con iniziale “M” e con dieci allievi in seminario vi pregherei di render noto che da oggi la mia diocesi raddoppia (pagando) l’abbonamento: uno per il seminario minore, uno per il maggiore; oppure vi direi un bel grazie per avermi aperto gli occhi, e correrei al mio seminario per capire se si sia trattato di un eccesso di zelo conservazionista (risparmiare la carta e spese postali) o scarsità di spirito missionario.
Aurelio Resta
Seriate (BG)

Andrea e Aurelio, grazie dei vostri commenti. La risposta non voleva essere «sferzante» (se ho dato quell’impressione, mi scuso con Alberto e i suoi amici!), ma simpatetica, anche se un po’ provocatoria. Questo perché, in fondo, in noi missionari (per vocazione) rimane un’apprensione: che i giovani sacerdoti, presi come sono dalle tante sfide del mondo attuale e della realtà in cui vivono, si dimentichino che sono responsabili del Vangelo fino agli «estremi confini…» proprio perché sacerdoti.




Cari missionari

Lettere dai lettori

Non ti è lecito
Stimata Sr. Rita e sorelle, comunità Rut,
fermo restando il totale apprezzamento della vostra opera e la solidarietà verso Susan e tutte le altre, e non di meno ferma restando l’intima vergogna per le umane miserie e insensibilità, non mi pare giusto accostare le feste di certe «ville del potere» con l’immagine della donna (assai mercificata) della nostra società contemporanea e addirittura con lo schiavismo sessuale di quest’epoca di bibliche emigrazioni. Credo proprio che anche senza quelle feste e quelle ville, la strumentalizzazione dell’immagine femminile sarebbe uguale (e pure lo schiavismo sessuale).
Quest’immagine femminile che deprechiamo, al contrario, proviene dalle stagioni 68ttine, dalle conquiste e libertà di ben identificate culture e politiche, che poi si sono risolte in mera commercializzazione del corpo femminile, che fa da antipasto al trionfo della pornografia. Per questo devo manifestare il più vivo turbamento nel constatare che lo sdegno per l’odiea immagine e concezione mercificata della donna (basta guardare qualsiasi pubblicità, anche su Famiglia Cristiana), abbia avuto bisogno di certe feste nelle ville del potere per emergere finalmente. Perché non prima e proprio adesso? Se poi penso che uguali critiche (tardive), provengono in blocco da giornali, culture e politiche che di quelle conquiste e libertà sono state paladine (ricordo bene che fino a che non divenne assai impopolare, anche la pedofilia rientrava tra le libertà da conquistare e da sottrarre all’oscurantismo dei preti e dei fascisti), mi viene da raccomandare prudenza, di non farsi immischiare. L’immoralità di [un] politico o dei politici (di ogni singola persona) è una cosa, l’immagine e la concezione della donna sono cosa diversa, e ancora diverso è lo schiavismo sessuale. Allego un interessante articolo di Antonio Socci che mi pare imposti correttamente la questione. Distinti saluti.

Luigi arch. Fressoia,
email, 05/04/2011

L’articolo di Socci si può trovare su http://www.
antoniosocci.com/2011/02/quando-ci-irridevano-per-la-castita/
No comment, direbbero gli inglesi. Spero solo che suor Rita, di certo ben navigata nella vita, abbia preso con un sorriso quel «suorina» che nell’articolo le viene generosamente appioppato.
Ammesso poi che la strumentalizzazione dell’immagine femminile sia colpa del ‘68, c’è da riconoscere che tutto un mondo pseudo-anti-Sessantotto ha saputo impossessarsi senza scrupoli dell’idea per fare soldi in abbondanza. Anzi, sembra che ci abbia proprio preso gusto. A meno che si pensi che i proprietari delle Tv dominananti, degli imperi mediatici, delle case di moda e delle agenzie pubblicitarie siano tutti sessantottini, come, a rigor di logica, dovrebbero essere anche tutti quelli che beneficiano dei servizi delle ragazze costrette alla strada, e soprattutto quelli che si possono permettere le escort.
Distinguere e separare l’immoralità dei politici dalla concezione della donna e dallo schiavismo sessuale può avere delle sue ragioni – che mi sfuggono -, ma mi domando se non siano tutte cose concatenate e conseguenti e segni di un degrado morale, civile e sociale di cui tutti soffriamo, senza distinzione tra destra o sinistra.
Quanto al non immischiarsi e all’essere prudenti: mi pare che lo si sia fin troppo da parte di chi dovrebbe invece parlare. Si diceva una volta che «chi tace, acconsente». Grazie a suor Rita e alle «suorine» che hanno invece il coraggio di parlare.

Quel Moloch chiamato PIL
Mi riferisco al problema sollevato, meritoriamente, dall’articolo di S. Siniscalchi sulla rivista di aprile. Credo di poter aggiungere elementi utili a capire perché esiste e non crolla quel Moloch che si chiama Pil. Prospetto la spiegazione per sommi capi.
– Il Pil è un indicatore che esprime l’entità dell’utile monetario, in qualunque modo realizzato, così come il tachimetro sul cruscotto (per fare un esempio) indica la velocità dell’automezzo. Altri indici esistenti o allo studio esprimono altre grandezze, quali il benessere economico, il livello di istruzione, il grado di sopravvivenza, l’impronta ecologica, ecc. Essi sono come altrettante spie sul cruscotto, che indicano l’andamento delle altre componenti del meccanismo “automezzo”.
– Il sistema politico-economico determina il modo di essere dell’economia reale, ed è paragonabile al conducente dell’automobile. Quello che è seduto al volante da qualche decennio, che si definisce neoliberismo, è esclusivamente e maniacalmente interessato alla velocità (il Pil appunto). Non gli importa nulla del fatto che tutte le spie sul cruscotto sono accese. L’indice della distribuzione della ricchezza segnala il progressivo impoverimento della popolazione, a fronte dell’arricchimento di chi è già ricco? La percentuale di CO2 continua a salire, a fronte della continua distruzione delle foreste che contrasterebbero questo aumento? La riduzione della disponibilità di petrolio è preceduta dall’esaurimento imminente del rame e dell’alluminio? La pesca con modalità industrializzate sta distruggendo la fauna marina? Al nostro autista interessa solo il proprio personale utile monetario di oggi e di domani. Alla catastrofe del dopodomani non ci vuole proprio pensare.
– L’attuale sistema perverso ha potenti mezzi di autoconservazione: gli avversari vengono tacitati col denaro, se non addirittura convertiti e l’informazione viene zittita o adulterata (perfino Voi credete che il problema siano gli indici di benessere).
Concludo. L’inferno esiste, e Ve l’ho descritto. Se gli uomini di buona volontà esistono ancora, si facciano avanti.
Con ossequi.

Gino Folletti
Torrazza P.,
 email 07/04/2011

vari




Cari missionari

Troppe riviste da leggere
Salve, sono Alberto del seminario di M…; stiamo ricevendo la vostra rivista senza esserci abbonati e pertanto vi chiediamo di interrompee la spedizione, sia perché in seminario siamo in 10 e ci arrivano 15 riviste a settimana (che pochi riescono a leggere), sia per aiutarvi a risparmiare carta e soldi. Grazie.

Alberto V.
via email

È stata nostra politica, fin quasi dalle origini della rivista, inviae copie a tutti i seminari maggiori d’Italia per aiutare i futuri sacerdoti ad aprire i loro orizzonti alla missione universale. Nei seminari esisteva allora il Circolo Missionario, nel quale le riviste missionarie trovavano lettori entusiasti. Diversi membri di quei circoli hanno poi fatto la scelta missionaria a vita o sono partiti come Fidei Donum.
Ovviamente prendiamo atto che la situazione oggi è cambiata, i circoli missionari non esistono più e il numero dei seminaristi è ridotto.
Cancellare l’invio della rivista è un’azione di pochi secondi sul computer, ma una copia o mille o diecimila in meno non sono un risparmio, quanto piuttosto la condanna ad una morte lenta, relegati nel silenzio. Questa è una morte che non possiamo accettare perché abbiamo «qualcosa d’importante da dire», non per noi stessi ma per coloro a cui prestiamo la nostra voce: i poveri, i piccoli, gli esclusi, i popoli emergenti del sud del mondo e le nuove Chiese vive, spesso martiri, che stanno venendo a maturità. Le riviste missionarie italiane, in trent’anni, hanno subito una flessione tremenda: da oltre sei milioni di copie annue stampate e distribuite a fine anni Settanta, a meno di tre milioni di questi tempi. Un calo inevitabile nel contesto della scristianizzazione progressiva che la nostra nazione sta vivendo e della trasformazione in atto nel mondo della comunicazione. Forse anche un segno della mancanza di interesse ad approfondire la realtà di quello che un tempo era definito il «Terzo Mondo», privilegiando un tipo di informazione più visiva, turistica, veloce e meno responsabilizzante.
Naturalmente le riviste missionarie non stanno subendo passivamente la crisi attuale. Ci si rinnova con creatività e ottimismo affiancando allo stampato le pagine in rete. Molte testate della Fesmi hanno splendidi siti web; basti pensare al nuovo sito della Misna (www.misna.org).
Per quel che ci riguarda, vi invito a visitare il nuovo sito di Amico (http://amico.rivistamissioniconsolata.it) e il popolare www.consolata.org (ex www.ismico.org). I devoti del beato Giuseppe Allamano trovano un sito poderoso e documentatissimo su http://giuseppeallamano.consolata.org/.
In cantiere c’è anche il rinnovamento del sito di questa stessa rivista, a cui metteremo mano molto presto. Speriamo solo che voi, seminaristi della generazione internet, abbiate imparato a far scalo anche nei nostri porti (e nei ricchi siti delle varie riviste missionarie) quando navigate nella world wide web.

Elisabetta
Leggendo le righe scritte su Missioni Consolata da Elisabetta Borda sono rimasto entusiasta da quanto renda reale tutto ciò che descrive. La conosco da 20 anni e non l’ho mai più vista. Felice però che abbia proseguito nella/e missioni di cui mi aveva tanto parlato e che il suo enorme bene verso il prossimo si sia giustamente espresso. Un ringraziamento a tutti coloro che partecipano ad aiutare le persone e culture bisognose, cariche di foga per migliorare e non per soffocare il prossimo con tante inutilità! Vi sarei grato se le mie parole potessero giungere a lei che con tanta passione e sacrificio ci aiuta a tenere i piedi per terra e a valutare quanto ognuno di noi potrebbe fare per gli altri. Un saluto a Elisabetta e un arrivederci. Grazie.

Lucio Pierandrei
via email, 18.02.2011

«Le righe» a cui lei si riferisce sono state pubblicate nel marzo 2006, un bel dossier dedicato all’Albania in cui Elisabetta contribuiva con diversi scritti e belle foto. Elisabetta ha finito da tempo il suo servizio volontario  e fa ora l’insegnante in un paese del Piemonte. Non sono sicuro che sia tra i nostri lettori, ma abbiamo amici comuni che certamente le faranno avere copia di questo numero della rivista.

ECOSOFIA
Ho letto la lettera “Tigri e leoni” di Francesco Rondina (MC 03/2011). Finalmente qualcuno che si occupa del male fatto dall’uomo a tanti esseri senzienti! Le estinzioni aumentano, splendidi esseri viventi scompaiono per sempre, le foreste vengono abbattute, e la Chiesa non dice quasi niente, o veramente troppo poco. Un avvicinamento alle posizioni del movimento dell’ecologia profonda (o ecosofia) non guasterebbe, anche se si vogliono mantenere chiare le differenze. Non mi risulta che sia mai stato detto che abbattere una foresta è “un peccato”.
Ben pochi sanno che sul quotidiano La Repubblica del 14 maggio 2007 è stato pubblicato un articolo dell’esponente vaticano Navarro-Vals intitolato “La questione ecologica”. Poco prima era stato richiesto dal Vaticano all’Associazione Eco-Filosofica di Treviso il testo in italiano del “Manifesto per la Terra” redatto da Mosquin e Rowe, eminenti studiosi canadesi di biodiversità. Pur ribadendo con (troppa) forza la posizione antropocentrica, che assegna all’uomo un ruolo del tutto speciale su questa Terra, l’esponente vaticano manifestava una certa possibilità di avvicinamento alle posizioni dell’ecologia profonda, sulla base di un comune rifiuto dello scientismo-materialismo cartesiano e del riconoscimento di una profonda spiritualità, presente anche nel movimento ecosofico. C’era tuttavia anche una giustificazione dello sfruttamento della natura da parte dell’uomo: il dualismo veniva conservato, o confermato. Comunque nessuno ne ha più parlato, o quasi.
Auspico comunque un avvicinamento e un colloquio fra la Chiesa cattolica e le posizioni ecocentriche, come opposizione comune al materialismo e al meccanicismo.
Invito poi vivamente a leggere e meditare il “Manifesto per la Terra” sul sito www.ecospherics.net.
Grazie per l’attenzione.

Albino Fedeli, Milano
via email, 11.03.2011

FILATELIA
MISSIONARIA

Vorrei farvi conosce il sito www.filateliareligiosa.it che raccoglie articoli scritti a commento di vari francobolli – annulli postali di natura religiosa.
C’è un capitolo specifico che raccoglie numerosi articoli relativi ai santi piemontesi con particolare riguardo alle ricorrenze – manifestazioni che hanno ricordato le iniziative dei Missionari della Consolata in tutto il mondo. Riteniamo che queste notizie possano essere gradite specie nei Paesi di missione dove sono presenti numerose suore e missionari (che abbiamo anche avuto occasione di incontrare nei viaggi in Kenya, Tanzania e ora in Etiopia con Padre Adolfo De Col).
Certo che potrà essere gradito conoscere l’interesse, anche filatelico, nei confronti della Vostra Opera missionaria. Con simpatia,

Angelo Siro
via email

La malga di
Kizabavra

Gentile Sig.ra Bianca Maria Balestra,
vorrei complimentarmi in primo luogo con il suo articolo (MC 02/2011) che mi pare una sintesi perfetta di quello che è la Georgia di oggi. Ci fa inoltre molto piacere che lei abbia apprezzato l’intervento di cooperazione realizzato che è in primo luogo un vero scambio di esperienze e di conoscenze per entrambe le parti. Abbiamo cominciato nel 2005 a fare questo piccolo caseificio con i partner finanziari che lei conosce, ma non avremmo avuto la fortuna di arrivare ai risultati che lei ha potuto toccare direttamente con mano se le persone che hanno partecipato volontariamente alla successiva formazione in loco non fossero andate ogni anno a parlare, consigliare e spingere gli operatori locali verso nuove forme e metodi di produzione. Speriamo che l’iniziativa continui, noi certamente anche quest’anno avremo due nostri esperti presso la malga per circa 10 giorni, inoltre per la fine di maggio abbiamo organizzato un viaggio di studio con l’Associazione degli Agronomi e Forestali di Belluno proprio a Kizabavra. (La ringrazio) a nome di tutto il gruppo di bellunesi per l’articolo che ha scritto. Siamo a disposizione comunque se volesse approfondire altri aspetti di questo progetto.
Con i più cordiali saluti.

Dr. Agronomo
Giuseppe Pellegrini
Via email, 17.03.2011

FONTANE SENZ’ACQUA
Caro Gigi,
da settembre 2010 stiamo razionando l’acqua perché non piove dal giugno scorso. Sono sei mesi che questo problema mi angoscia. Sto preparando un terzo invaso in foresta, della capacità di 120 milioni di litri d’acqua, anche se non so dove e come trovare i soldi, ma la Divina Provvidenza ha sempre provveduto.
Grazie per gli aiuti che i lettori mi stanno mandando per le fontane (dopo l’articolo pubblicato su MC 09/2010). Ma il problema è avere l’acqua da dare alle fontane.
Grazie.

Fratel Peppino Argese, Mukululu, 28.02.2011

Questo laconico messaggio è arrivato accompagnato da alcune foto, tra cui questa foto della diga numero due: quasi vuota! (vedi qui sotto).
 Per fortuna il 19 marzo scorso sono ricominciate le piogge, speriamo siano abbondanti, ma non troppo. Grazie Peppino!

IL SIGNIFICATO DI MISSIONE OGGI
Fin da bambini sogniamo l’Africa e le opere dei missionari. Siamo partiti a settembre e l’impatto con la realtà ha purtroppo tradito le attese. Veniamo ospitati presso il Catholic Hospital of Wamba, opera della Consolata nel nord del Kenya. Il fulcro della missione è l’ospedale, ben integrato nel difficile territorio dei Samburu, che garantisce assistenza adeguata mediante personale prevalentemente locale. Il contrasto è provocato dai vertici della missione e dallo stile di vita che hanno imposto nella guesthouse. Questi “cattolicissimi missionari”, figure poco preparate alla gestione di un progetto nel Terzo mondo, hanno fatto dell’Africa la loro America. La contraddizione è lampante: dentro giardini fioriti, campo da tennis privato, viali ordinati, fuori strade polverose e abitazioni fatiscenti. Dentro tre piatti per pasto, quattro ricche portate italianissime, bibite americane e birra keniota, fuori bambini scalzi, giovani ubriachi e vecchi affamati. Sono queste le cose che ci hanno scandalizzato, più che le criticate tradizioni delle popolazioni autoctone.
Il nostro viaggio si è infine concluso a Korogocho dove abbiamo vissuto pezzi di “missione vera”,  conoscendo persone che quotidianamente si spendono a fianco di poveri e emarginati. Oggi il significato di missione impone, secondo noi, innanzitutto di andare alle radici della povertà per abbattere i sistemi che la provocano. Scrive Zanotelli: “ Per me è fondamentale il legame inscindibile tra fede e vita, fede ed economia, fede e politica…”.

Alberto e Romina
Cuneo, 21.03.2011

Mi piace che abbiate sentito il bisogno di scrivere le vostre impressioni, e proprio su quell’ospedale di Wamba al quale abbiamo già dedicato parecchi interventi su questa rivista. Quel che mi dispiace è che non abbiate avuto in loco un interlocutore che vi aiutasse a chiarire i dubbi e lo «scandalo» che vi hanno fatto dare giudizi pesanti sui missionari di Wamba in confronto a quelli di Korogocho. Conoscendo bene sia la realtà di Wamba che di Korogocho, mi permetto di fare alcune precisazioni.
1. Wamba è a oltre 300 km di distanza da Nairobi, e fino a pochi mesi fa gli ultimi 100 km erano sterrati (oggi lo sterrato è solo di circa 50 km); Korogocho è alla periferia di Nairobi.
2. Per fare gli acquisti di cibo e materiale necessario per l’ospedale, da Wamba si va a Isiolo (100 km) o Meru (140) o Nanyuki (150) o Nairobi (300 e rotti) con il rischio di essere fermati a mitragliate dai banditi di strada. A Korogocho il primo supermercato e/o centro commerciale è solo alla periferia dello slum.
3. A Wamba l’acqua viene da un pozzo scavato dalla missione, è molto salmastra e per essere potabile va bollita e filtrata. Tutta l’acqua usata viene poi riciclata per i servizi igienici, l’orto e i giardini. A Korogocho l’acqua arriva dall’acquedotto municipale, anche se a singhiozzo e non dovunque, ed è potabile.
4. La Coca Cola bevuta a Wamba è prodotta in Kenya e, se avete notato, ha un sapore più forte della nostra. La birra del Kenya è tra le migliori del mondo. Bibite e birra si trovano in abbondanza in ogni angolo del Paese, compreso Korogocho, e una coca, all’ingrosso, costa circa 15 centesimi di euro, probabilmente a Wamba un po’ di più visti i problemi di trasporto.
5. Wamba si trova a circa 1.200 m di altezza, in una regione semiarida, calda e prona alla siccità, dove temperature sopra i 30° sono normali. Korogocho è a 1.700 m, con un clima fresco, piogge relativamente abbondanti e temperature medie attorno ai 20-25°.
6. Il campo da tennis privato, che tanto vi ha scandalizzato, è stato costruito dal medico che ha fondato l’ospedale e lo ha gestito per quasi quarant’anni, come aiuto per mantenere la sua sanità mentale e fisica, visto che l’ospedale gli richiedeva una presenza «24/7» senza sostituti, tui e ferie.
7. I giardini sono frutto del buon gusto e dell’amore al bello che ci caratterizza; rendono l’ospedale un ambiente accogliente e rasserenante, combattono la polvere dilagante nei periodi di siccità e offrono una scusa per dare lavoro ai locali. Sono costituiti soprattutto da siepi di buganvillea che tutti potrebbero coltivare, anche gli abitanti del villaggio, se non fosse che nella tradizione dei pastori nomadi Samburu l’idea del giardino proprio non esiste.
A Korogocho i giardini di Wamba non sono possibili, ma la missione è una struttura solida e sicura, certo non precaria come le baracche che la circondano.
8. La casa dove voi siete stati è normalmente usata dai medici che si recano a servizio dell’ospedale per brevi, intensi periodi di interventi specializzati. Venendo dall’Italia, oltre alle medicine necessarie, si portano anche ogni ben di Dio, che viene poi usato per tutti gli ospiti. In più a Nairobi si trova con molta facilità ogni prodotto italiano. I medici che fanno dieci ore o più di interventi ogni giorno, hanno bisogno anche di una nutrizione adeguata che non può essere garantita dalla dieta locale a base di té e latte al mattino e mezzogiorno, e polenta e cavoli o granoturco e fagioli la sera.
A Korogocho, in pochi minuti di macchina si può raggiungere una pizzeria,  un ristorante italiano o la casa provinciale dei missionari.
9. Se dopo quarant’anni di esistenza l’ospedale e le strutture ad esso connesse fossero nelle stesse condizioni delle case del villaggio o delle manyatte Samburu, sarebbe un fallimento. Quanto alle critiche a certe tradizioni delle popolazioni autoctone, bisognerebbe forse spenderci dentro qualche anno, aver visto centinaia di bambini morti per malaria perché «curati» a casa e portati all’ospedale quando è troppo tardi; aver ricucito ferite, curato fratture o estratto pallottole; aver speso tempo, soldi ed energie per curare le conseguenze della circoncisione femminile; aver visto il muto dolore di tante donne e madri; aver sepolto giovani promesse – uccise dall’Aids -, che avevano ottenuto una qualifica professionale a spese della missione; aver fatto una visita al cimitero dell’ospedale; mettersi nei panni dell’amministratore diocesano che ogni anno fa miracoli per trovare i fondi necessari a far funzionale quel giorniello di ospedale; aver sentito un medico africano dire, quando gli ho portato dei giovani neo circoncisi con emorraggia inarrestabile, «benedetta (non era proprio questa la sua espressione!) gente, pagano per farsi rovinare e poi noi, qui, dobbiamo ricucirli gratis!».
10. Wamba è al centro di un’area vasta come Lombardia e Piemonte messi insieme, con una popolazione di poco più di 200.000 persone, in gran parte nomadi, che nelle case come le nostre non si trovano a proprio agio. Korogocho è un piccolo spazio densissimamente popolato, dove le distanze sono irrisorie.
11. Potrei andare avanti con molte altre differenze, ma non è corretto contrapporre Wamba a Korogocho. Sono realtà diverse e, come tali, hanno suscitato risposte molto diverse, dove i missionari che vi hanno prestato servizio hanno pagato di persona. Il rischio è quello di lasciarsi ingannare dalle apparenze. Se ci toerete, pur senza perdere il vostro senso critico, provate a guardarci dentro con occhi nuovi.

Gigi Anataloni




Cari missionari

Moschee e reciprocità
Abbonato da tanti anni, apprezzo il respiro universale della rivista […]. Mi permetto però di dissentire dall’orientamento delll’editoriale del gennaio 2011. È inammissibile paragonare le stragi di cristiani effettuate a sangue freddo in vari Paesi islamici (e non) ad episodi di intolleranza che in Italia non hanno mai travalicato il dibattito politico. Nel nostro Paese stragi di islamici non se le sogna nessuno! è vero invece che, in nome di una malintesa apertura ad altre religioni (in particolare l’Islam) si passa sotto silenzio la necessità di rispettare reciprocamente diritti e doveri. Nel nostro caso l’ostilità all’apertura di moschee nella maggior parte dei casi è motivata dal giustificato timore che si possano costituire luoghi privi di controllo, dove col pretesto della pratica religiosa si possa dare attuazione a programmi politici eversivi, ispirati da collegamenti inteazionali.
Per chi vive a Milano questa situazione è purtroppo ampiamente documentata. L’esperienza ci insegna che l’Islam è anche terrorismo e che si avvale di notevoli strumenti finanziari per alimentare una penetrazione capillare nelle nostre città. Non bisogna trascurare che anche i cristiani hanno diritto di costruire chiese e semplicemente di testimoniare la loro fede in paesi che spesso nella loro legislazione negano il diritto elementare di libertà religiosa.
Sul piano dei diritti/doveri lo Stato e le istituzioni locali non possono prescindere da questi punti fermi riguardanti la reciprocità delle effettive libertà di credere e praticare la propria religione. Questi principi vanno calati nella realtà, chiedendo per esempio delle garanzie, che nel caso dell’Islam vuol dire per es. selezionare gli Imam con la creazione di albi, ovvero poter controllare i testi, che spesso non sono solo preghiere ma anche messaggi politici (come avviene in Germania); la trasparenza deve valere anche per loro! Creare delle regole servirà prima di tutto a garantire chi nell’Islam ha soltanto a cuore gli insegnamenti dell’unico Dio. Ne trarranno giovamento anche i cristiani che saranno aiutati a liberarsi da diffidenze non sempre ingiustificate e a stabilire un’effettiva collaborazione con tutti i credenti. Cordiali saluti.
Franco Bianchi
via email, 25.01.2010

Gent.mo  Direttore,
nulla da eccepire sul contenuto del suo editoriale del gennaio 2011, ma ritengo prematuro il concedere le moschee ai musulmani. Noti, non sono contrario, ma vorrei la reciprocità. Noi giustamente dovremmo concedere loro le moschee, ma loro non ci concedono chiese, ci perseguitano e ci ammazzano anche. Guai a parlare di proselitismo, mentre loro il proselitismo lo fanno e costringono anche alla conversione forzata. Da noi la conversione deve essere voluta, mai forzata. Da queste considerazioni mi pare che concedere loro le moschee sia uno spalancare le porte all’islamismo. […] Se spalanchiamo le porte all’Islam nessuno di noi avrà la forza di arginare l’invadenza e la violenza delle correnti estremiste. Cordiali saluti.
Graziano Grua
via email, 24.01.2010

Grazie del vostro contributo su questo tema scottante. Certamente gli avvenimenti passati e recenti, come i massacri di cristiani in Iraq, Egitto, Indonesia, Pakistan e in altre nazioni a maggioranza islamica non fanno che aumentare le legittime riserve e paure riguardo all’apertura di luoghi di culto e centri islamici nelle nostre città. Tuttavia credo sia necessario affrontare il problema nella giusta prospettiva, aprendo un dialogo tra le varie parti, ciascuno secondo le proprie competenze. A mio avviso ci sono due livelli da considerare: il livello politico-sociale e quello religioso. A livello politico-sociale mi pare sia accettato che lo scopo della legge non è solo quello di prevenire abusi e violazioni e stabilire doveri, ma anche quello di garantire e difendere i diritti fondamentali della persona e della comunità. È quindi giusto e doveroso che una nazione da una parte assicuri a tutti i cittadini l’esercizio dei diritti fondamentali (tra cui la libertà di culto) e dall’altra esiga l’osservanza delle leggi da parte di tutti richiedendo quindi ad ogni nuova «istituzione» una ragionevole garanzia «di conformità» affinché il bene comune sia salvaguardato. Per questo concordo pienamente con molte delle osservazioni del sig. Franco.
Ma porre come condizione essenziale la «reciprocità», mi pare vada oltre il dovuto, soprattutto quando questo si applica a livello locale. Una piccola comunità islamica (spesso di nazionalità eterogenee) che vuol costruire un luogo di preghiera, non ha più potere di influenza nello scacchiere della reciprocità di un singolo missionario in Cina, in Buthan o in Egitto alle prese con la burocrazia locale per il permesso di costruire una nuova chiesa. La reciprocità ha un suo ambito specifico, rafforzato da diritti e doveri codificati a livello internazionale, nelle relazioni tra stati e organizzazioni sovra-nazionali.
Dal punto di vista religioso, soprattutto della nostra religione, le cose vanno oltre la logica del diritto-dovere. È nel contesto religioso che ho osato chiamare traditori de «la loro religione e il loro Dio» i fondamentalisti sia islamici che cristiani, anche se oggettivamente l’ammazzare cristiani e l’opporsi alla costruzione di una moschea non sono certo la stessa cosa (come voi fate giustamente notare). Tuttavia, se l’azione finale è di una gravità ben diversa, l’atteggiamento di fondo può essere ugualmente sbagliato. E questo è importante per noi. Per un cristiano (= una persona che segue la via di Gesù Cristo e con lui si identifica) non conta tanto l’azione finale, ma l’atteggiamento di fondo, la mentalità, quello che uno sente nel cuore. Un cristiano ha come punto fondamentale di riferimento la «via di giustizia» insegnata da Gesù, non la logica della legge umana. Basta andare al capitolo 5 del vangelo di Matteo per sapere qual è la logica che ci deve guidare, anche se agli occhi del senso comune può sembrare «stoltezza». In quel capitolo Gesù non declina la parola reciprocità, ma gratuità, che è amore misurato sulla perfezione di Dio. «Vi è stato detto… ma io vi dico: porgi l’altra guancia, ama i nemici, a chi ti chiede la tunica dà anche il mantello… Se amate quelli che vi amano che merito ne avete? Siate perfetti come il Padre…».
Ideale? Certamente. Questi comandi, «legge» del cristiano da 2000 anni, non sono una norma stabilita dalla Chiesa (che, tra l’altro, ha tradito questa stessa legge troppe volte!), ma «Parola» di Gesù stesso. Gesù è il punto di verifica del vivere sociale e politico del cristiano, non la cosiddetta «cultura cristiana» di cui qualcuno si fa paladino. Questa legge di Cristo – per i cristiani – è l’anima della legge umana, pur nel rispetto della reciproca autonomia.

Congo belga
Egregio Direttore,
sono un occasionale lettore della vostra bella e interessante rivista che ho sempre apprezzato, e mi è capitato di leggere l’articolo di Giusy Baioni sulla R. D. Congo (MC 10/2010, pp. 47-50). Ne riporto un passaggio: «… un passato remoto segnato da una delle colonizzazioni più feroci, quella Belga, che ha dimezzato la popolazione di allora con una schiavitù inumana…» (p. 47).
Vorrei, molto brevemente, affermare quanto segue, e Le sarei molto grato se potesse pubblicarlo, per amore della verità. Premetto che ho vissuto venti anni, fino al 1966, in Congo, prima colonia belga, poi Repubblica del Congo/Zaire, e posso affermare nel modo più assoluto che non ho mai visto, conosciuto, né sentito raccontare la colonizzazione feroce di cui parla la dott.ssa Baioni. Mio nonno, con nonna e figli, nel secolo scorso ha attraversato tutto il Congo perché era un esploratore; mio padre vi ha vissuto tanti anni, e riposa nella regione del Kivu/Sud. I miei suoceri con la loro famiglia e fratelli hanno lavorato nel Katanga/Lubumbashi; le mie figlie sono nate a Bukavu, ed erano la terza generazione residente in Africa; amici hanno trascorso la loro vita nella zona del Virunga/Kivu Nord; ho conosciuto la famiglia, moglie, figli e nipoti di uno dei primi comandanti del battello di servizio sul fiume Congo e molti altri, nessuno di loro ha mai visto o conosciuto questa colonizzazione feroce. Avrei molto da dire sui lati positivi della colonizzazione belga, e sono obbligato a contestare nel modo più assoluto certe affermazioni penso basate sul «sentito dire». Cordialmente La saluto.
Saverio Giancarlo
Riva del Garda (TN)

Egregio Sig. Saverio,
grazie per la sua testimonianza che nasce dal vissuto. Vorrei farle però notare che le affermazioni della dott.ssa Baioni non si basano affatto sul «sentito dire». Tutta la documentazione storica è concorde nel provare che il primo periodo della colonizzazione belga (1876-1908, quando il Congo era considerato «proprietà privata» del re del Belgio Leopoldo II) è stato terribile, cinico e violento, con la soppressione spietata di qualsiasi forma di opposizione allo sfruttamento commerciale soprattutto del caucciù, che in quel tempo era molto richiesto. Perfino la nostra Enciclopedia Italiana Treccani nel 1929 scriveva: «Sembra che specialmente nello sfruttamento del caucciù alcune società concessionarie e senza dubbio anche agenti dello stato si fossero resi colpevoli di abuso in pregiudizio degl’indigeni. Questi fatti provocarono in alcuni paesi una violenta campagna di protesta, specialmente in Inghilterra, dove le critiche furono esagerate al punto da assumere spesso carattere di vere calunnie. Tutto ciò affrettò l’annessione del Congo allo stato belga: il 15 novembre 1908 una legge faceva dello Stato del Congo una colonia belga» (Treccani XI, 142/2).
Una delle vittime più note di queste violenze fu Isidore Bakanja (1885-1909), morto a seguito delle punizioni ricevute dal suo padrone e beatificato nel 1994 da papa Giovanni Paolo II.
Le parole, datate, della Treccani ammettono una realtà molto grave, tanto grave che il governo belga intervenne nel 1908 togliendo il Congo dalle mani del re e delle compagnie private.
P. Benedetto Bellesi, nostro redattore, scrisse su questa rivista (MC 10-11/2004, pag. 17): «La scoperta della vulcanizzazione della gomma e il suo impiego industriale fecero della colonia uno dei più grandi serbatorni mondiali di questo prodotto fondamentale per l’industrializzazione dell’Occidente. Ma occorreva mano d’opera per raccoglierlo e trasportarlo al mare. Il problema fu subito risolto: tutti gli africani (ironicamente chiamati «cittadini») furono obbligati a raccogliere il caucciù senza alcun compenso e ogni villaggio doveva consegnare agli emissari del re-proprietario una certa quota del prezioso prodotto vegetale. Chi si rifiutava, o consegnava quantità minori di quelle richieste, era punito duramente, fino alla mutilazione: a chi non produceva la quota di caucciù veniva tagliata una mano o un piede, alle donne le mammelle. Contro i ribelli si ricorreva all’assassinio, a spedizioni punitive, distruzioni di villaggi e presa in ostaggio delle donne.
A fare il lavoro sporco erano circa 2.000 agenti bianchi, disseminati nei punti più importanti del paese: molti di essi erano malfamati in patria e mal pagati in Congo. Ogni agente comandava un certo numero di nativi armati (capitani), presi da etnie diverse e dislocati nei singoli villaggi, per assicurare che la gente facesse il proprio dovere. Se la quota era inferiore a quella stabilita, anche i capitani subivano fustigazioni o mutilazioni. Era il metodo del terrore, tanto efficace quanto diabolico.
In 23 anni di esistenza, nel Libero stato del Congo morirono circa 10 milioni di persone, direttamente per la repressione o indirettamente per epidemie o fame, dovuta alla distruzione punitiva dei raccolti. Fu un vero genocidio, in cui perì quasi metà della popolazione congolese, stimata a circa 20-25 milioni di abitanti nel 1880.
A ciò si aggiunga la caduta del tasso di natalità: un missionario giunto in Congo nel 1910 fu stupito dall’assenza quasi totale di bambini tra i 7 e i 14 anni, nati cioè tra il 1896 e il 1903, periodo in cui la raccolta di caucciù raggiunse il suo apice».
Quanto scrisse p. Bellesi non sono calunnie, ma informazioni documentate raccolte da una commissione d’inchiesta mandata dal governo belga in Congo nel 1906.
Con una riserva: la cifra di 10 milioni pare molto esagerata e andrebbe valutata realisticamente contro i dati della popolazione presente prima dell’inizio della colonizzazione e il censimento del 1928, rapportati anche al numero di coloni bianchi coinvolti (poche migliaia). Questo però non toglie nulla all’estrema gravità di quello che p. Bellesi chiama «genocidio dimenticato»: fossero state anche solo 100 mila le vittime di questa violenza, non renderebbero la tragedia più accettabile.
Che lei e i suoi familiari non abbiate avuto sentore di questo dramma, non stupisce. Il re Leopoldo II prima di consegnare la sua proprietà privata al governo bruciò sistematicamente gran parte dei documenti incriminanti, mentre i coloni belgi avevano tutte le buone ragioni per passare il tutto sotto silenzio.

Suor Eugenia, grazie
Cari Missionari
e Missionarie,
desidero ringraziare ed esprimere tutta la mia stima e condivisione alla consorella che domenica scorsa 13.02 u.s., a Roma, in P.za del Popolo, è intervenuta a favore della dignità della donna. Per televisione si è visto e sentito solo uno stralcio del suo discorso, che, però, mi piacerebbe leggere per intero. Il suo intervento, la sua presenza, la sua partecipazione mi hanno dato speranza e fiducia nel sapere che anche nei nostri difficili tempi c’è chi segue, con la vita, in prima persona, la linea del Maestro Gesù. Penso che la stessa mia speranza e fiducia sia arrivata ad altre persone che credono nei valori della fede e della Verità. Provo tanta pena per i fatti che succedono in Italia, non solo ora, ma da anni e mi chiedo quando crollerà quell’immenso castello di sabbia costruito da un solo uomo, ricco oltre ogni misura e sostenuto da tanti servitori che lo difendono a spada tratta perché ricompensati abbondantemente da ogni grazia che un uomo può desiderare ed una donna sognare.
Nemmeno il Papa, del quale anche i non credenti sanno che è persona buona, dedita a servire Dio ed il prossimo, è stato così difeso, quando da molte parti era attaccato per lo scandalo della pedofilia. Evidentemente non paga così bene, non offre denaro a volontà, festini hard e neanche pregiata erbetta verde. Il Signore però gli ha dato forza, fede, salute e, sia pure con sofferenza, ha saputo affrontare le difficoltà e le problematiche che si sono presentate. Quando si lavora con il Signore e per il Signore, l’aiuto viene da Lui, altrimenti – e questo mi consola, come dice Samuele, nel 1° libro – «certo non prevarrà l’uomo malgrado la sua forza». Questa è la vera giustizia a cui nessuno sfugge. Affidiamo al Padre Beato Giuseppe Allamano, del quale oggi ricordiamo la festa, a 85 anni dalla morte, la nostra patria, chiedendo la sua intercessione per ognuno di noi perché riusciamo a fare sempre bene il bene. Grazie, cara sorella missionaria per la tua limpida testimonianza. Un abbraccio.
Bruna Dalbesio
Terzuolo, via email

Penso che moltissimi dei nostri lettori abbiano già visto quel video. Per chi lo volesse rivedere lo si trova in http://tv.repubblica.it/politica/suor-eugenia-bonetti-riprendiamoci-dignita/61991?video. Il testo si trova sul sito delle Suore Missionarie della Consolata http://www.consolazione.org/donna-nel-mondo/379-messaggio-di-suor-eugenia-bonetti.html e anche nel nuovo sito di Amico (http://amico.rivistamissioniconsolata.it) con link al video. Il mese scorso, in queste pagine, abbiamo pubblicato una sua «rifessione sulla dignità della donna» (MC 3/2011, pag. 5-6).

PLASTICA & MC
Leggo sul numero di gennaio, in questa rubrica, la vostra risposta alla lettera di Isa Monaca sulla richiesta di avvolgere la vostra rivista in una pellicola biodegradabile.  Contrariamente a quanto dite voi, di pellicole biodegradabili ce ne sono. Mi piacerebbe vederla usata anche da voi, visto che spesso trattate in maniera ammirevole temi ecologici. Cordialmente.
Andrea Paolini
via email, 29.01.2011

Dopo aver consultato la tipografia, che cura anche la spedizione della rivista, Le posso assicurare che la pellicola che usiamo è in polietilene totalmente riciclabile (naturalmente il totalmente si realizza solo grazie alla collaborazione di chi fa raccolta differenziata). La tipografia è stata certificata conforme alle norme inteazionali UNI EN ISO 9001:2008 e UNI EN ISO 14001:2004 (vedi il sito www.canale.it). Abbiamo inoltrato anche a loro la questione della pellicola biodegradile. La ricerca di una possibile soluzione è avviata. Grazie della pazienza.

Sì, in teoria (la pellica) è riciclabile, come tutta la plastica. Anche i sacchetti del supermercato erano in polietilene, eppure si è dovuto vietarli. Biodegradabile è molto meglio, come i nuovi sacchetti per la spesa. Cordialmente,
Andrea Paolini
via email, 12.02.2011
Speriamo un giorno di poterLe dare la buona notizia che la rivista è spedita in pellicola biodegradabile. Per ora contiamo sulla collaborazione dei lettori per la pratica di un riciclaggio responsabile.




Cari missionari

Omaggio ad un amico
Mi ha fatto tanto piacere vedere nella rivista Missioni Consolata di Novembre 2010 la foto del Dott. Silvio Prandoni con in braccio la bambina Marina nella sua casa famiglia di Mombasa.
Lasciamo stare le diatribe e i battibecchi. È chiaro che gli Amici di Wamba (includendo tutti i gruppi: Amici di Wamba, Wamba Athena, Lucia di Mestre, Belluno, la famiglia stessa del dottore e molti altri) hanno fatto moltissimo per quell’ospedale cornordinati com’erano dal Dott. Prandoni che tanto apprezzavano e amavano. Certamente senza di loro non ci sarebbe quella Rosa del Deserto che è l’ospedale Cattolico di Wamba, il quale, in 40 anni, da un semplice Health Centre di pochi letti è diventato quell’ospedale che è ora con 200 posti.
Con tutto il rispetto per i Benefattori che furono (e sono tanti, i nomi di alcuni di essi sono scritti nei muri dell’ospedale) la mia ammirazione va a lui, al Dott. Silvio Prandoni che dedicò i 40 anni migliori della sua vita e professionalità per creare quella bellissima struttura che è l’ospedale di Wamba a favore delle tribù nomadi locali.
Incontrai il Dott. Silvio Prandoni quando arrivò in Kenya verso il 1967 e aveva 30 anni. Dopo un breve tempo di apprendistato all’Africa nell’ospedale Cattolico del Mathari a Nyeri e poi a quello di Gaichangiro, andò subito al Nord fra le tribù nomadi nel semideserto ove diede tutto se stesso per creare quell’ospedale a favore della gente che ha tanto amato e dalla quale fu tanto apprezzato, stimato e ri-amato. Mi recai spesso a quell’ospedale per le mie necessità personali e per portare della mia gente ammalata, a volte con viaggi di 10-12 ore, senza preavviso e a tutte le ore del giorno e della notte. Quando arrivavo, lui, il dottore, era là, pronto ad attenderci. Lui era sempre là, presente nell’ospedale 24 ore al giorno. Tanto che, specialmente al sabato e la domenica, dagli ospedali governativi mandavano le emergenze a Wamba perché sapevano che lui c’era, con le suore della Consolata e lo staff locale, aiuto insostituibile nello svolgere un servizio indispensabile e tanto apprezzato dalla gente locale.
L’ho sempre ammirato perché vedevo in lui la vera vocazione del medico pronto a dare anche la vita per la sua gente. Non lo nego, mi fu pure di sprone nella mia vocazione missionaria: la sua dedizione, generosità, altruismo mi toccavano.
Il Dott. Prandoni era riuscito a crearsi molti amici in tutti gli ambienti specialmente nel campo medico: gruppi di specialisti (Ortopedici, Ginecologi, Farmacisti, Oculisti, Dentisti) disposti a venire ad aiutare nelle necessità dell’ospedale; quasi tutti i mesi c’erano degli amici a dare una mano. Il Dott. Prandoni preparava i pazienti poi gli specialisti venivano ad operare ed aiutare. Quale ammalato di quelle aree remote avrebbe potuto vedere uno specialista senza passare attraverso l’ospedale di Wamba?
Pochissimi o nessuno, sia per le distanze, 400 km da Nairobi, che per i costi insostenibili.
Quante gambe drizzate, quanti occhi riaperti, quante labbra leporine rimesse a nuovo, quante mamme hanno riacquistato speranza attraverso di loro.
Tutto questo fu sempre organizzato e portato avanti da lui con tanta semplicità, dedizione e bontà.
Il Dott. Prandoni non aveva a cuore solo gli ammalati, ma anche l’istituzione stessa dell’ospedale per il quale non mancavano altri tipi di amici: ingegneri, carpentieri, radiologi, meccanici, elettricisti ecc. che venivano pure a dare una mano a risolvere i vari problemi che sorgevano di tanto in tanto.
Direi che, nonostante il carattere che ogni persona può avere, all’ospedale di Wamba c’era un clima di famiglia, di amore vicendevole, di volontà di aiutare i fratelli ammalati nel miglior modo possibile senza risparmiare tempo, tecnologie e mezzi.
Per tutto questo io direi un grande grazie al Dott. Prandoni a nome di tutti noi che l’abbiamo conosciuto, apprezzato ed amato e a nome di tutti coloro che in un modo o in un altro hanno potuto usufruire dell’ospedale di Wamba ricuperando salute e gioia.
L’ospedale di Wamba, la “Rosa del Deserto”, e il nome del Dott. Prandoni non potranno mai essere divisi (un piccolo monumento li dovrebbe immortalare) perché sono nati così e vivranno così.
So che il Dott. Prandoni è molto schivo e restio a sentirsi ricordato, ringraziato e apprezzato, ma penso che l’unico ringraziamento che potrebbe piacergli e renderlo veramente felice sarebbe il sapere che l’ospedale di Wamba continua ad andare avanti bene svolgendo la sua opera medico-caritativa in favore di tutti, ma specialmente dei più bisognosi della zona per la quale è stato sognato, amato e fu realizzato.
P.L.G.
Diani-Ukunda (Kenya)