Cari Missionari

Correzione: Le cornordinate giuste di Sererit in Kenya (vedi
MC 5/2013, p 21) sono 1°40’47.08” N e 37°10’37.31” E e non quelle indicate che
si riferiscono invece alla chiesa di San Bartolomeo a Serle, Brescia. Scusate
lo svarione. Inoltre Sererit significa «acqua che scorre» e non «acqua scarsa»
(Sereolipi).

RITORNO IN ETIOPIA

Egregio
direttore,
amare e vivere la vita è donarsi agli altri. Il tempo corre veloce e il «mal
d’Africa» aumenta sempre di più. Da poco sono ritornato dal quinto viaggio
nella mia amata Etiopia. Altre emozioni, altre esperienze e altri orizzonti e
realtà vissute. Pensavo di conoscere già la gente dei villaggi di Weragu e
Minne, il loro modo di vivere, di comportarsi ma ho costatato che ho molto
ancora da apprendere. Nei villaggi sono ormai di casa, sono uno di loro fra
loro. I bambini, le donne e i giovani mi vogliono bene. Ho potuto fotografarli
anche all’interno delle loro capanne. Sono stato accolto con amicizia da una
famiglia cattolica, una musulmana e una ortodossa. Le suore della clinica ogni
due-tre sabati al mese si recano in un villaggio vicino, distante due ore di cammino,
per insegnare a leggere e scrivere agli adulti, e le norme igieniche e
comportamentali. Ho portato a p. Angheben Paolo la somma raccolta in Borgo e
valle, frutto della generosità dei benefattori che hanno donato con amore. Dal
profondo del cuore un grazie sentito, sincero, affettuoso con l’augurio di ogni
bene. La somma è servita per pagare lo stipendio per quaranta maestri che
insegnano a 1.200 bambini nella scuola primaria e secondaria dei due villaggi.
Lo studio è una tappa fondamentale per lo sviluppo di quel paese. Lo stato non
dà nulla ma pretende il rendiconto dei soldi ricevuti: ora anche le bambine,
anche quelle musulmane, vanno a scuola come i coetanei maschi. Nella biblioteca
di Debre Selam (rifugio di pace), ora funzionante, circa 5.000 studenti possono
studiare, scambiarsi libri e imparare a usare il computer e l’internet. P.
Paolo è ritornato a Modjo: la missione stava morendo ed ha portato una ventata
di fede, di entusiasmo e di speranza. Ora il bellissimo centro di animazione
missionaria e vocazionale è funzionante. I nuovi progetti di p. Paolo sono: la
costruzione di una sala mensa per 180 bambini della locale scuola matea
(costo circa 20.000 euro) e una chiesetta chiesta da un collega missionario
senza mezzi, in un villaggio vicino (costo circa 7.000).

La
fede profonda del padre, la solidarietà vera dei benefattori e l’onestà della
ditta del geometra Caevale faranno un altro prodigio.

A
p. Paolo, uomo di preghiera, di azione, di poche parole, schivo ma grande
psicologo e apostolo di anime, vada il mio grazie infinito. A tutti i
missionari, suore e fratelli della Madonna Consolata di Torino, sparsi sui
cinque continenti, testimoni di Cristo e della Vergine Maria, di cuore un
grazie sincero con affetto filiale e spirituale. Siete luce di verità, di amore
e di altruismo per tanta gente povera, abbandonata, oppressa e dimenticata dai
popoli ricchi. Attraverso p. Oscar, superiore dei missionari in Etiopia, un
grazie a tutti i missionari per l’ospitalità ad Addis Abeba (nuovo fiore) e nelle
altre missioni.

Con
affetto e un forte abbraccio di amicizia e cordialità.

Giovanni
De Marchi

via email, 2/5/2013

PADRE GIANNI, UNO CHE C’ERA

Oggi
siamo qui. Sono passati trent’anni eppure è come ieri. Noi abbiamo capelli più
o meno bianchi, rughe più o meno marcate eppure siamo noi. È passata una vita,
la nostra vita, abbiamo fatto lavori diversi, scelte diverse, percorso strade
diverse eppure siamo noi. Ci siamo ritrovati, un po’ storditi e commossi,
quando abbiamo saputo della sua morte, inattesa anche se conoscevamo le sue
condizioni di salute. Ci siamo ritrovati dove eravamo sempre stati con lui,
nella parrocchia Maria Regina delle Missioni, per ricordarlo nella preghiera,
con i suoi confratelli.

Ben
poco oggi ci unisce ancora, se non l’amore che abbiamo ricevuto da lui. Due
amori anzi: la sua amicizia, umana, tenera e profonda, e l’Amore, con la «a»
maiuscola, quello di Dio, che proprio lui ci ha fatto incontrare e sperimentare
negli anni dei gruppi giovanili. Trenta anni fa, quando noi eravamo i «suoi»
ragazzi.

Non
si dava delle arie p. Gianni, non conosceva la dinamica di gruppo, allora tanto
di moda, la psicologia, la sociologia…

Lui
semplicemente «c’era». Era lì, sempre a nostra disposizione, quando casualmente
«passavamo» vicino alla parrocchia. Era lì, spesso a fare i lavori più
semplici, raddrizzava un cartello, spostava un vaso di fiori, metteva in fila
le sedie…

Era
lì e ci accoglieva sorridendo. Con una battuta, una frase scherzosa.

Sembrava
svagato, ed invece era sempre tutto per noi, ci vedeva «dentro», come eravamo
davvero oltre l’esteriorità. Di ciascuno di noi ricordava tutto: vicende,
aspirazioni, problemi, ma anche la data del compleanno, le ricorrenze che si
sono via via aggiunte con il passare del tempo. Anche da lontano, negli anni in
cui è stato in Brasile, nel giorno giusto, dall’altra parte del mondo, arrivava
immancabilmente un suo biglietto, un sms, un saluto, un ricordo, una preghiera.
E non parole generiche, ma personali, sentite, profonde…

P.
Gianni c’era, ma era ugualmente pronto a «sparire», a tirarsi indietro, a farsi
da parte tanto era umile e schivo. Un merito, un successo non se lo prendeva
mai, ma lo attribuiva agli altri, sempre pronto invece a chiedere scusa, a
camminare in punta di piedi per non disturbare…

Non
so cosa abbia rappresentato per le persone che ha incontrato nei molti anni di
missione, posso immaginarlo a partire dalla nostra esperienza. Ma so che,
quando ci parlava di loro, emergeva un insieme di persone vive, concrete, alle
quali p. Gianni aveva voluto bene nello stesso modo in cui aveva amato noi:
singolarmente, ad uno ad uno come persone, ciascuna importantissima ai suoi
occhi e nel suo cuore. E sono convinta di una cosa: è stato proprio questo suo
modo di volerci bene che ha fatto «sperimentare» a tutti e a ciascuno la
profondità e la concretezza dell’Amore di Dio su di noi.

Claudia
Carpegna

(giovani di Maria Regina delle Missioni, anni 70-80), 15/5/2013

 

P. Gianni Basso, nato a
Quinto di Treviso nel 1949, ordinato sacerdote nel 1973, ha esercitato il suo
ministero sacerdotale dapprima in Italia e poi per molti anni in Brasile.
Rientrato per ragioni di salute, è stato alcuni anni a Vittorio Veneto,
ultimamente aveva iniziato il suo servizio missionario a Olbia, in Sardegna. Là
la morte lo ha colto all’improvviso il 17 aprile scorso come conseguenza di un
ictus. Sepolto al suo paese di origine, a Torino è stato ricordato con molto
affetto dai «suoi ragazzi» nella parrocchia Maria Regina delle Missioni.

AL DIO DELLE SAVANE

Caro
direttore,
ti allego la mia poesia “Al Dio delle Savane” segnalata al Concorso S. Sabino”
di Torreglia (Padova) lo scorso 5 maggio:

«O Dio di queste bellezze selvagge
che susciti canti da gole riarse
e accogli preghiere
impastate di terra e sudore.

Dio che ti fai dono
invisibile
sotto tettornie
di lamiera ardente,
che scendi e ti adagi
là dove si annida
la fame
e morde e grida forte
la sua esigenza
impellente.

Dio che ti fai insolito pane
di anime senza attese,
cibo di una fame
diversa
che non chiede
latte o sangue
ma sorsate d’amore,
di speranza,
di condivisione.

Dio, lampada di una notte
senza luna né stelle,
notte di angosce
e di dolori,
di mute invocazioni.

Busso forte
alla tua porta o Dio,
ti tempesto
di richieste.

Dio che mai spegni
il sorriso
sul volto di questi bambini,
dona pioggia e
ristoro,
pace e riconciliazione,
pazienza e saggezza.

Conserva il sacro senso della vita
da rispettare e trasmettere
con umiltà e fiducia
qui, dove il tempo è così lento
e l’attesa infinita
ma mai priva di
speranza.

A te affido Dio
la gente di questa
savana».

Giulia
Borroni

Wamba – Kenya, marzo 2011

Francesco e rinnovamento nella Chiesa

Molte sono le novità apportate da Francesco «vescovo» di
Roma, positive, condivisibili, accattivanti. E tuttavia mi pare che il
rinnovamento della Chiesa, per la fedeltà al Vangelo meriti un approfondimento.

Egli ha subito invitato i fedeli a chiedere la
misericordia di Dio, senza stancarsi, perché essa è infinita. Dunque un
rapporto verticale tra l’uomo e la divinità, proprio comunque di ogni
religione. Ma Cristo introduce anche un altro rapporto, correlato al primo,
essenziale, cui dedica tutti i suoi insegnamenti: quello orizzontale tra l’uomo
singolo e gli altri uomini. Quest’ultimo condiziona lo stesso rapporto con Dio,
perché non è concesso ottenere da lui misericordia, se poi la si nega agli
altri e privi di compassione si calpestano i loro diritti fondamentali. Una
parabola del Vangelo è eloquente: quella in cui si parla d’un debitore che
chiede e ottiene la remissione del debito ma poi strozza, senza pietà, chi a
lui deve qualcosa. L’importanza del rapporto con gli altri uomini viene poi
sottolineata dal passo in cui Gesù afferma: «Se stai per deporre l’offerta
sull’altare e là ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la
tua offerta vai prima a riconciliarti con lui». E soprattutto là dove vengono
enunciati i criteri secondo cui saremo giudicati: avevo fame, sete, ero ignudo,
prigioniero.

È dunque chiaro che per Dio i rapporti con gli altri
uomini sono essenziali, primari; non ci può essere amore per lui se non nel suo
spirito, che dobbiamo attuare nel mondo in cui viviamo. Gesù viene in terra per
rivolgersi a tutti gli uomini, ma nello stesso tempo, pone una linea netta di
demarcazione: chi vuole seguirmi, deve conformarsi ai miei comandamenti, al mio
spirito. C’è un dovere di giustizia innanzitutto ed è chiarito dalla parabola
di Lazzaro e il ricco epulone. Il negare agli altri i propri diritti – e dunque
dare la preferenza al proprio egoismo anziché all’amore e al rispetto – pone
l’uomo al di fuori del rapporto con Dio, tra gli ingiusti, e Gesù verso
Epulone, non dimostra alcuna pietà, non gli dà alcuna chance.

Le ingiustizie, l’appropriarsi dei beni, lasciando
l’altro nella miseria, non si attuano tanto principalmente nel rapporto tra
uomo e uomo, ma soprattutto attraverso regole ingiuste imposte mediante
l’organizzazione sociale.

Don Camara affermava la necessità di chiedersi: come mai
tanti poveri?
Nella situazione
attuale, occorre aver ben presente gli strumenti mediante cui le nostre società,
che riteniamo e si dicono cristiane, realizzano l’ingiusta ripartizione dei
beni e il dominio sulla terra. Al di là delle leggi di mercato, che penalizza e
riduce alla fame chi potere contrattuale non ne ha, nonché tutti gli altri
strumenti economici che conseguono lo stesso fine, v’è qualcosa di più
terribile, immorale e devastante. La guerra in primis, attuata in forza
della propria superiorità tecnologica, usando ogni tipo di armi, le più
micidiali: gli embarghi, le destabilizzazioni, il terrorismo.

La Chiesa dovrebbe farsi una domanda: quale educazione ha
fornito ai suoi fedeli e quale contributo ha dato alle strutture che hanno
formato e formano le nostre società? Com’è possibile una devianza così
macroscopica dai comportamenti che dovrebbero discendere dal Vangelo?

Lo scandalo delle ingenti somme destinate alle armi,
quando una moltitudine di persone nel mondo sono prive di cibo e medicine.

Gesù pone altresì un’altra barriera, invalicabile: tra
Dio e «mammona». Mammona è la logica e la pratica del mondo per ottenere
successo, onori, prestigio, danaro, potere, senza alcun riguardo e a danno
delle altre persone. Opposte sono le strade volute da Dio e le logiche cui
conformarsi. La Chiesa attuale, che mette al primo posto la propria immagine,
la sostiene usando mezzi non dissimili da quelli del mondo, evitando di
guardare le sue pecche e di prendere atto dei gravissimi danni provocati, ad
esempio, col proporre «l’ingerenza umanitaria», non è in linea col Vangelo;
semmai la sua immagine deve generarsi, spontaneamente, dai comportamenti fedeli
al Vangelo e dai cambiamenti che essa riesce a realizzare nei rapporti tra gli
uomini indirizzandoli alla giustizia e all’amore.

Se la Chiesa avesse il coraggio di guardare alla sua
storia, di ricercare il perché di tanti e gravissimi peccati di cui ha chiesto
perdono, vedrebbe come questi siano stati generati dal connubio con i poteri
temporali, dalla pretesa d’usarli come braccio secolare, dal pensare che sia
compito degli stati formare dei buoni cristiani (e dunque d’esercitare delle
pressioni in tal senso ed addivenire a dei compromessi) quando tale compito è
invece della Chiesa soltanto. Non solo le politiche che attualmente gli stati
cattolici o cristiani perseguono, del tutto immorali, escludono ciò, ma nella
differenza sostanziale tra i fini e i mezzi proposti da Cristo (la libera
scelta del suo messaggio, che si pone agli antipodi del pensare del mondo), e
quelli naturali degli stati (di cui è propria la coercizione e il cui fine, nel
migliore dei casi, è quello di organizzare una buona convivenza), sta la
necessità che ciascuno dei due poteri non interferisca con l’altro.

Questo non significa che il singolo cattolico non ispiri
il suo agire in politica, l’essere cittadino, alla luce del Vangelo o che la
Chiesa non possa insegnarlo, ma senza pretendere d’imporlo a chi in essa non si
riconosce.

Giuseppe Torre
Arenano 08/04/2013

a cura del Direttore




Cari Missionari

Scriveteci!

Che problema avete? Non vi cerca più nessuno? A volte mi
verrebbe da scrivervi, fosse anche un disappunto, ma non ne ho il tempo, poi ne
passa troppo e infine penso, «tanto a voi cosa ve ne frega della mia opinione? È
comunque in contrasto con la vostra, perché scrivere?». Posso dirvela una cosa?
Finché non ho letto tutto il dossier della rivista di ottobre, avevo
un’angoscia dentro, «una tristezza da spararsi», meno male che nelle ultime due
pagine mi tirate su il morale. So che la mia vita da cristiana non è perfetta e
me lo spiaccicate in faccia come una sberla, il cammino lungo e faticoso della
conversione non finisce con l’incontro con Cristo – c’è la sequela, la coerenza,
e questo è un altro punto dolente.

[…] Con mia nipote, classe 1981, ho provato a fare «proselitismo»
(se così si può dire) richiamandola al suo battesimo. La reazione è stata
violenta. «Zia basta. Siete tutti bigotti, credo in Dio e non nella chiesa! La
verità la sto cercando, e non l’ho ancora trovata». A me non resta che piangere
e pregare per lei e tanti altri familiari. È riduttiva la fede vissuta in casa?
Intendo dire: la crisi m’impedisce di prendere l’auto ogni giorno per andare a
messa, e a volte gli orari non combaciano con il mio tempo libero. Allora mi
metto in casa davanti al crocefisso. Ma secondo voi è sempre una fede da poco,
da gente tiepida, troppo prudente, non azzardata, accomodante, pigra, inetta
fino al rigurgito di Cristo.

Che dire di altri sacerdoti che ho incontrato: alcuni
troppo hard e altri rigorosi fino al rifiuto dell’assoluzione. […]
Adesso capisco perché la Madonna a Medjugorje insiste con il pregare per i
sacerdoti. Siete sotto attacco? O lo siete sempre stati nel mirino del Nemico?
Mi piace molto anche quando Papa Francesco chiede di pregare per lui.

Ciò che vorrei chiedervi è questo: una conferma o una
smentita. Mi han detto che ci sono dei missionari cattolici che sono costretti
a sposarsi, per non essere diversi dagli altri, sennò non sono credibili
nell’annuncio. Ho obbiettato dicendo che vivranno da fratelli e sorelle! La
risposta è stata: «No, no! Fanno figli e anche tanti. Dovrebbero essere in
Oceania». Me ne sto zitta poiché non conosco tutto il mondo missionario […].
Un’altra cosa volevo dirvi. Un nostro amico circa dieci anni fa fece
un’esperienza vocazionale in Ecuador con dei missionari. Ne toò sconvolto
perché ci disse che là ogni prete ha minimo dieci donne a disposizione. Noi gli
abbiamo detto: «Esagerato!». Risultato, lui non frequenta più la chiesa,
obbiettando che è un moralismo inutile, un’ipocrisia lampante.

Avete il coraggio di dire la verità? Caspita, se lo
trovate avete un fegato da vendere! Cordiali saluti.

Piccola
figlia della Luce,
San Zenone degli Ezzelini, 13/10/2013

Gentile
lettrice,
grazie di averci scritto. Provo a essere breve.

Scrivere. Ci sembra
un modo importante per una comunicazione a due vie, non autoritaria, come
rischia comunque di essere quella stampata. Il diritto al dissenso è importante
e una contestazione argomentata e intelligente ci aiuta ad approfondire idee e
argomentazioni o ci obbliga a spiegarci meglio.

Sacerdoti. È pregare
per i sacerdoti è bello ed essenziale, perché il sacerdote ha bisogno del
sostegno della comunità. L’ordinazione non rende il sacerdote invulnerabile al
peccato, inattaccabile dalla tentazione. Il sacerdote è e rimane sempre un uomo
e come tale percorre un cammino di conversione continua, rinnovando ogni giorno
il suo sì a Dio. Come uomo può cadere, sbagliare ed essere contraddittorio.
Qualche volta può cercare la popolarità facendo il moderno e il disinibito,
altre volte può usare la tradizione e l’intransigenza senza misericordia come
scudo alle sue paure. Ma la maggioranza vive con umiltà («timore e tremore»
scriverebbe Kierkegaard) il proprio stato sapendo che il Salvatore è uno solo:
Gesù Cristo. Certo, il cammino del prete è più impegnativo di quello dei
semplici cristiani, perché se un sacerdote cade, non è solo lui a cadere, ma fa
male a tanti. «Nel mirino del Nemico», dice lei. È vero. E il Nemico si serve
anche di tanti buoni cristiani che invece di sostenere i loro sacerdoti, li
criticano, credono a mille dicerie, generalizzano e malignano. E anche di
quelli che confondono la Chiesa col prete, si dimenticano che per il battesimo
anch’essi sono Chiesa diventando giudici impietosi che si difendono accusando
di «bigottismo, ipocrisia e falso moralismo». Purtroppo non solo è più facile
far così, tirandosi fuori «dal gruppo», ma il nostro sistema stesso di vita
oggi incoraggia questo individualismo assoluto per cui uno risponde solo a se
stesso (al suo «dio»).

Missionari che si sposano? Onestamente è la prima che sento parlare di missionari che si devono
sposare, per non essere diversi. Da secoli i missionari «sono diversi» e non
solo per il celibato. Sono diversi per il colore della pelle, per la lingua che
non conoscono, per il modo di vivere e «anche» perché non si sposano. Nella
storia, più di uno ha pagato con la vita la fedeltà al celibato che lo rendeva «diverso»
e anche pericoloso agli occhi di certi popoli. Che poi ci siano dei missionari
che abbiano amato una donna, generando anche dei figli, non dovrebbe stupire
nessuno, eccetto coloro che li ritengono degli automi programmati e non degli
uomini in carne e ossa. Ma che questa sia la situazione normale e accettata («dieci
donne a testa»), è tutto da provare. La realtà è ben diversa. Quando si sentono
voci sui preti, bisognerebbe avere più senso critico, più amore della verità
(come dice anche lei), tanta misericordia e un po’ di autocritica.

Fede da poco. L’ultima
cosa che vogliamo fare è sottovalutare la fede delle persone e la grazia di
Dio. La fede non è mai «da poco». È vero, scrivendo si rischia di generalizzare
ed enfatizzare. Anzi, a volte si deve alzare il tiro per riallinearci alle
esigenze della Parola, quella vera, senza diluirla nel «minimo comun
denominatore» della mediocrità del «fan tutti così». Ma il cuore delle persone
solo Dio può giudicarlo.

La teocrazia iraniana

Caro p. Gigi,
condivido il suo no comment al lettore che ha
disdetto l’abbonamento a causa del suo editoriale di luglio. Non l’avevo letto
a suo tempo, ma, incuriosito, l’ho cercato e letto dal vostro sfogliabile
(ottima iniziativa) e davvero non c’è nulla da dire.

1. Sono favorevole alla vostra scelta di articoli
lunghi, cosa per la quale mi risulta che altri vi critichino. Adesso è diffusa
la mania di dover scrivere poco perché la gente si stanca a leggere e ha poco
tempo per farlo. Allora lasci perdere di leggere. […]

2. Nel dossier di A, Lano sull’Iran (MC, ago. 2013)
sembra che quella nazione sia lo stato migliore del mondo. Può essere che sia
davvero così, anch’io diffido della comunicazione di massa che orienta
l’opinione pubblica, quindi sono naturalmente e favorevolmente predisposto
verso l’informazione «alternativa». Ciò premesso, però, avrei fatto domande più
«dure» all’interlocutore. Ad esempio, è vero o no che il precedente presidente
voleva la distruzione dello stato di Israele? E ora come la si pensa in
proposito? Su altra rivista missionaria l’Iran non è definito una repubblica
così meravigliosa, chi sbaglia?

Giovanni Guzzi
Vimercate (MI), 11/10/2013

Caro
lettore,

non
ho descritto l’Iran come una «Repubblica meravigliosa», ma come una Repubblica
islamica teocratica basata su meccanismi della cosiddetta «democrazia». È una
democrazia teocratica con molti problemi da affrontare e risolvere, dunque non
certo perfetta. Ma esiste una democrazia perfetta? Gli Stati Uniti lo sono,
forse, con la loro pena di morte, le extraordinary renditions, i tanti
dissidenti «missing» e lo spiare anche gli alleati? Lo sono gli stati
europei, con una repressione sempre più forte delle proteste dei cittadini? Lo è
Israele, stato mediorientale che bombarda civili?

Nel
mio dossier ho poi paragonato alcuni principi chiave dello sciismo con quelli
del sunnismo, deducendone una maggiore possibilità d’interpretazione razionale
e libertà di pensiero del mondo sciita, che, nella mia pluridecennale
esperienza di studiosa sul campo di Islam, ho notato più «colto» e interessato
alla cultura di quello sunnita.

Questo
non toglie che durante l’era di Ahmadinejad ci fossero molti problemi interni,
oltre che estei, dovuti al suo populismo e a posizioni  estremiste, nonché censure di vario tipo –
tra cui internet -, di cui ho parlato nel mio articolo.

L’era
di Rohani sembra aprire nuove frontiere e nuove speranze, e molti critici
interni del passato regime stanno appoggiando con fiducia il nuovo presidente.

Quanto
alle invettive contro Israele, ormai famose, in parte si è trattato di
traduzioni errate dal farsi – la famosa frase “scomparirà dalla mappa
geografica” aveva altro significato che non la fine fisica di Israele -, in
parte di retorica populista dell’ex presidente.

Le
offro un consiglio, comunque: faccia un viaggio in Iran, e capirà che paese e
che popolo accogliente è. Poi vada in qualche altro stato del Golfo, tipo
l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi. O anche solo l’Egitto, e ci racconterà
cosa ne pensa.

Angela Lano

Ancora
Yanomami

Carissimo Fratel Carlo (Zacquini), prima di tutto ti
voglio ringraziare; grazie perché mia figlia Martina, dopo aver parlato della
tua intervista e delle condizioni del popolo Yanomami (MC, ott. 2013) mi
ha detto di te qualcosa che mi ha toccata profondamente: che «Conoscerti è
stata una vera fortuna», che «tu ci aiuti a diventare persone migliori. Siamo
tutti persone “normali” che stanno sedute aspettando che siano altri a cambiare
il mondo. [Se] poi c’è una persona che si alza e prova a cambiare il mondo,
quella è una persona migliore e m’insegna che anch’io posso e devo alzarmi
dalla mia normalità-mediocrità e diventare migliore» […].

A volte gli amici mi chiedono perché mi interessano
tanto gli Yanomami. È semplice: perché sono dei nostri fratelli. Punto.
Condividono con noi la fortuna di far parte di questo meraviglioso creato. E
non è abbastanza? Noi apparteniamo alla razza che si sente padrona del creato,
superiore agli indigeni di qualsiasi parte del mondo, e con il nostro egoismo e
la nostra presunzione non riusciamo e non cerchiamo di comprendere altre
culture. Possibile che non ci sia una via percorribile di evoluzione e di
progresso in cui non venga calpestata la dignità umana? In cui sia presente la
dovuta tutela dell’ambiente dal quale tutti indistintamente dipendiamo? Oggi ci
sono uomini che distruggono la foresta e ingannano i popoli che ci vivono,
ricchi che diventano sempre più ricchi a scapito della cultura, degli usi e dei
costumi degli indigeni che vengono sfruttati e resi dipendenti dal dio denaro
che tutto permette di avere. Bisogna alzarsi e combattere per un mondo più
giusto.

Ci sono molte persone che ti sono vicine in tutto il
mondo, ma forse ancora non bastano. Credo che sia necessario coinvolgere più
persone possibili […].

È molto triste quando tu dici che gli stessi brasiliani
si vergognano dei loro fratelli indigeni, ma lo comprendo. Anche qui gli
immigrati cercano di nascondere le loro origini il più possibile, ma, per i
popoli indigeni della foresta deve essere diverso, loro sono i fratelli custodi
di quella grande foresta di cui tutti noi abbiamo bisogno. Mi piacerebbe
invertire il loro status da vittime a protagonisti orgogliosi che con la
loro vita e cultura e rispetto salvano la foresta di cui tutti abbiamo bisogno.
Non più esseri inferiori, e i paesi che li ospitano devono sentirsi orgogliosi
di occuparsi di loro. Caro Carlo se questa inversione di considerazione non
avviene, prima o poi un governo o un altro troverà un «buon motivo» per
annientarli per sempre in nome della civiltà.

Con immenso affetto e riconoscenza.

Nicoletta Testori
18/09/2013

La formica alla cicala

Egregio direttore, ho appena letto la risposta che Lei
si è permesso di dare al sig. Giorgio Rapanelli (MC ott. 2013) e ne sono
rimasto profondamente indignato. Il sig. Giorgio può sicuramente permettersi di
parlare a nome degli italiani, quantomeno di quelli che pagano le tasse. Non so
invece a chi si riferisca Lei quando scrive che «siamo noi che continuiamo a
rubare». Spero che si riferisca a chi vive a scrocco degli altri e non agli
italiani che lavorano e che si sono faticosamente guadagnati il loro benessere
senza per questo doversi sentire in colpa.

Egregio direttore, sono un italiano che paga le tasse
(quindi anche il suo 8 per mille), cattolico praticante e volontario in Africa
(sempre a spese mie). Ho girato l’Africa in lungo e in largo quindi posso
affermare con sicurezza che gli europei hanno dato all’Africa molto più di
quello che hanno preso, sia in termini di infrastrutture che in termini di
aiuti umanitari. Sono europei quei tanti suoi confratelli missionari e
volontari laici che in Africa fanno solo ed unicamente del bene, spendendo la
loro vita al servizio degli altri, anche a costo del martirio. Che poi ci siano
anche le multinazionali è un altro discorso, anche perché queste ultime non
sfruttano solo l’Africa ma chiunque e qualunque cosa. Smettiamola di dare
sempre la colpa all’Occidente! Vede, credo in Dio e non nel denaro, ma
l’esperienza mi ha insegnato che coloro i quali dicono che il denaro non è
importante solitamente non sono abituati a guadagnarselo e tendono a vivere
sulle spalle degli altri e in questo, probabilmente, Lei non fa eccezione.

Se ha voglia di contestarmi, mi parli della sua dichiarazione
dei redditi e di quanti migranti lei ospita a casa sua e a spese sue. Il
benessere che noi italiani ci siamo guadagnati (lei escluso) deriva dal lavoro,
e chi lavora onestamente e faticosamente (senza tanti “pole pole”) non deve
certamente sentirsi in colpa del proprio benessere né responsabile di tragedie
che sono imputabili unicamente alla disperazione e a coloro che, sulla tratta
delle persone, costruiscono le loro fortune economiche. Anche nelle missioni si
chiudono a chiave le porte di casa, eppure Lei ci viene a dire che dovremmo
fare entrare in Italia chiunque, senza alcun controllo, quando l’immigrazione
clandestina è considerata illecita in tutto il mondo, anche nei paesi africani
dove addirittura sono previste pene molto più severe per chi entra nel paese
illegalmente.

Vede, egregio direttore, la solidarietà è un valore
cristiano ma non la si può imporre, e gli ipocriti non sono i più adatti a
insegnarla. Se Lei si sente in colpa per le tragedie dei migranti, vada ad
aiutarli a casa loro o li accolga a casa sua, ma lo faccia in silenzio e a
spese sue, e non sempre a spese di Pantalone. Solo così, sarà un buon cristiano
e, se vorrà, potrà venirci a insegnare l’accoglienza con meno ipocrisia. Smetta
di fare la cicala e inizi a fare la formica, come tanti suoi confratelli che
lei disonora con le sue parole offensive per tutti noi che la solidarietà la
facciamo in silenzio, a spese nostre.

Alessio
Anceschi
Sassuolo (MO), 14/10/2013

Caro Sig. Anceschi,
quando scrivo che «siamo noi che continuiamo a rubare», non lo dico io, ma
statistiche che sono pubblicamente disponibili.

Sistema «che ruba». Segnalo solo pochi dati. Il «nostro» mondo, troppo semplicisticamente
definito «l’Occidente», ha il 20% della popolazione e consuma l’80% delle
risorse mondiali. L’Italia consuma ogni anno quattro volte più della sua
biocapacità; fa meglio di altri paesi, ma è sempre sopra il livello di guardia.
L’Europa butta il 15% del cibo che produce; in Italia il 25% del cibo comperato
finisce nella pattumiera.

È vero che la maggior parte degli italiani
sono grandi e onesti lavoratori (o candidati a esserlo, visto l’incredibile
livello di disoccupazione), ma è anche vero che siamo dentro un sistema che non
funziona e si regge sulle spalle di chi vive sotto la soglia della povertà
grazie a un sofisticato sistema di rapina delle risorse di cui nessuno sembra
essere responsabile. Le famose multinazionali che oggi sfruttano tutto e tutti,
anche noi (il mostro che mangia se stesso!), non sono un prodotto della
fantasia dei poveri, ma il frutto più alto e perverso del sistema economico di
cui noi viviamo.

Rifugiati.
I paesi africani ospitano molti più rifugiati di quanti noi non ne riceviamo in
dieci anni. Da noi non esiste una realtà come il campo profughi di Daabab in
Kenya, con le sue centinaia di migliaia di disperati provenienti dalla Somalia.
E quanti sono i rifugiati in Congo RD, in Ciad, in Sudafrica, in Ruanda, in
Tanzania, tanto per nominare solo alcuni paesi? Le statistiche parlano di oltre
quattro milioni. Tutti clandestini schedati dalla polizia?

Lascio poi ai lettori il resto del suo
intervento.

La cicala ipocrita. Per quel che mi riguarda – mi permetta questa autodifesa -, preciso
che da quando ho finito gli studi nel 1976 e sono stato ordinato sacerdote,
lavoro una media di 8-12 ore al giorno – fine settimana incluso -, e non ho
pesato sull’8×1000 e neppure sul sistema sanitario nazionale fino ai 60 anni
compiuti. Quando nel 2010, rientrato in Italia dopo 21 anni di servizio in
Kenya, sono diventato viceparroco (mentre i miei coetanei andavano in
pensione), ho ricevuto il mio primo stipendio di 699,00 euro netti al mese,
tasse pagate, che mi lucra un totale annuo di ca. 8200,00 euro, tredicesima
compresa, troppo per essere esente dal ticket sanitario.

Quanto ai migranti, o potenziali tali, li ho aiutati
quando ero a casa loro e continuo ad aiutarli da qui, perché ritengo che la
cosa migliore sia metterli in condizione di vivere una vita dignitosa restando
a casa propria. Come fanno tanti miei confratelli in Africa, America Latina e
Asia, cui dò voce attraverso questa rivista, e come possono testimoniare le
centinaia (non ho mai tenuto il conto!) di ragazzi e ragazze che ho fatto, e
continuo a fare studiare con l’aiuto di tanti amici. Essi – ragazzi e amici –
sanno bene che sono più una formica e che una cicala, anzi più un «canale che
una conca», per dirla col Beato Allamano, perché quello che «mendico» dagli
amici e benefattori va tutto per aiutare chi è nel bisogno, creando non poche
ansietà al mio amministratore con i miei conti perennemente in rosso.

Che il Signore e i lettori mi perdonino questo momento
di vanità. •

Risponde il Direttore




Cari Missionari

Michele De Michelis

Nasce
a Nichelino (To) il 06/12/39. In tenera età perde la mamma e vive con la
sorella poco più grande e il padre. Dopo la scuola media studia dai Salesiani
per diventare tipografo e, finita la scuola, inizia subito il lavoro in
tipografia. All’inizio degli anni ‘60 il padre viene trasferito a Biella per
lavoro, ma Michele sceglie di rimanere a Torino perché ama la sua città e le
montagne. Alcuni anni dopo inizia la sua avventura con le missioni, lavora a
Mani Tese, collaborando con il cuore e le mani; la sua disponibilità per la
realizzazione degli ideali del Movimento, e verso gli amici, è totale. Con gli
anni matura la decisione di andare in Africa, con i missionari della Consolata,
dove mette a disposizione la sua professionalità. Rimane due anni in Kenya.
Rientrato in Italia, riprende la sua vita da single e trova lavoro come custode
nel seminario di Via XX Settembre dove svolge il suo servizio con grande umanità
fino al-
l’età di 71 anni. Nella sua piena disponibilità verso il prossimo, i poveri e i
bisognosi per anni presta servizio al Sermig. Muore a Torino il 16 marzo 2013.
Michele, che hai amato la natura e la montagna, che hai sempre tenuto presente
e vissuto i valori dell’amicizia, sarai sempre nei nostri cuori.

Gli
Amici con p. Giordano Rigamonti,
16/04/2013

FESTA PER ROLANDO RIVI

Nel
68° dell’uccisione del Servo di Dio Rolando Rivi, il 13 aprile, alle 18,00, nel
Duomo di Modena, l’arcivescovo Antonio Lanfranchi ha dato l’atteso annuncio
della promulgazione del decreto della Congregazione della Cause dei santi che
ne riconosce il martirio avvenuto nel 1945, quando Rivi aveva solo 14 anni.

La
vita di Rolando è legata alla chiesa di San Valentino di Castellarano (Modena),
dove i missionari della Consolata sono stati fino al 2011. P. Colusso Giovanni
(1915-2007), parroco per molti anni e ivi sepolto, è stato uno dei principali
promotori della causa di beatificazione del martire e una concausa del
miracolo a lui attribuito, come racconta Emilio Bonicelli, autore del libro «Il
sangue e l’amore» sulla storia di Rivi, in un articolo del settembre 2012 su www.tempi.it.

«Sono rimasto folgorato dalla storia di questo piccolo
ragazzo, profondamente innamorato di Gesù e trasformato da questo amore, su cui
aveva progettato la sua intera esistenza. E per tale amore è stato sequestrato,
torturato e ucciso da uomini accecati dall’ideologia. Quando ho “incontrato”
Rolando vivevo una vicenda personale molto difficile. Ero da poco tornato al
lavoro dopo una lunga convalescenza seguita a un trapianto di midollo osseo per
curare una leucemia. Allo stesso modo, un bambino inglese era guarito da questo
cancro ma attraverso una grazia. Sotto il suo cuscino, un amico aveva posto una
ciocca di capelli di Rolando, intriso del sangue del martirio.

Come ha fatto una ciocca di capelli di Rolando Rivi a
finire in Inghilterra?

Un giovane di origine indiana, che aveva studiato a Roma
e completato i suoi studi in Inghilterra, dove guidava un gruppo di preghiera,
era stato accolto da una famiglia di amici protestanti. Rimase colpito da un
articolo dell’Osservatore romano, che parlava proprio di Rolando. Il giovane si
mise in contatto con padre Colusso, parroco di San Valentino dove Rolando è
sepolto e venerato. Il figlio più piccolo di quegli amici protestanti si era
ammalato di leucemia e il giovane chiese al prete una reliquia per poter
chiedere l’intercessione di Rolando. Padre Colusso gli spedì la ciocca di
capelli. Al termine di una novena di preghiera, il bambino stava bene».

Ora finalmente, dopo sessant’anni, il silenzio su Rolando
è finito e sarà dichiarato beato. Sono sicuro che p. Colusso, dal cielo, esulta
con tutti noi.

Bruno
Bardelli
Castellarano, 15/04/2013

Precisazione

Caro
direttore, mi permetta una piccola precisazione circa un dettaglio riguardante
il dossier «Missione di carta» marzo 2013 apparso sulla sua pregiata rivista
che leggo con tanto piacere. La precisazione riguarda l’articolo di Lorenzo
Fazzini, in chiusura di dossier. Di don Luigi Bonomi si dice che era «uno dei
preti mazziani rimasti prigionieri del Mahdi in Sudan». Don Bonomi non era un
mazziano, ma un sacerdote diocesano veronese reclutato da mons. Daniele Comboni
per il Sudan nel 1874. Alla morte di don Nicola Mazza (2 agosto 1865), il suo
successore don Gioacchino Tomba non si sentì di continuare l’impegno del suo
istituto per la missione africana e a Comboni non restò che continuare il suo
progetto con l’aiuto di missionari reclutati tra sacerdoti diocesani e altri
vari. Uno di questi fu anche don Luigi Bonomi, che divenne membro dell’istituto
fondato dal Comboni stesso nel 1867.

P.
Giuliano Chisté
Verona,10/04/2013

a cura del direttore




Cari Missionari

COSì STA SCRITTO

Cari
Missionari,
mi unisco a quanti hanno manifestato riconoscenza ed entusiasmo per il favoloso
lavoro di esegesi biblica svolto in questi anni da don Paolo Farinella sulla
parabola del figliol prodigo e sul racconto del miracolo di Cana.

Anche
la nuova avventura è iniziata alla grande e un risultato importante don Paolo
l’ha ottenuto già con la scelta del titolo. Infatti la famosa frase di Gesù a
torto continua a essere tradotta con «date a Cesare quel che è di Cesare»,
mentre la traduzione corretta è «restituite (o, appunto, «rendete») a Cesare
quel che è di Cesare».

Troppe
volte l’errata traduzione ha spianato la strada a spiacevolissimi equivoci,
tipo «l’ha detto anche Gesù che bisogna pagare le tasse anche se sono ingiuste»
o «lo dicono anche le Sacre Scritture che le tasse vanno pagate sempre anche se
chi le esige è un mascalzone» (erano questi i termini in cui nell’estate del
2007 si esprimevano l’allora Presidente del Consiglio Romano Prodi e alcuni dei
suoi ministri).

Quando
raccomanda di non rubare, di non frodare, di non ingannare il prossimo e di
onorare quelli che oggi chiamiamo «obblighi fiscali» e qualche volta
addirittura «fedeltà fiscale», Gesù usa verbi (apodecatoo, didomi, ballo)
diversi da quello che usa nel momento in cui risponde ai farisei e agli erodiani
sulla questione del tributo a Cesare.

Sia
in Matteo, sia in Marco, sia in Luca il verbo usato da Gesù è apodidomi
che anche don Paolo ha ritenuto di dover tradurre con «rendete» non con «date».
Questo stesso verbo, apodidomi, è il verbo che ritroviamo in bocca
all’esattore Zaccheo (cfr. Luca 19,8) quando, divenuto consapevole degli abusi
compiuti ai danni dei contribuenti e desideroso di iniziare un cammino di
conversione, si impegna davanti a Gesù a «restituire» quanto ingiustamente
prelevato alla collettività. Un capovolgimento di prospettiva che don Paolo non
mancherà di approfondire con quei meravigliosi itinerari ai quali ormai ci ha
abituato. Grazie
per l’attenzione.

Francesco Rondina, Fano
23/03/2013 

Spett.le
redazione,
seguo già da tempo il vostro sito, in particolare la rubrica «Così sta scritto»
di don Paolo Farinella, le cui esegesi uso per il corso di cresima agli adulti
e per le giornate di ritiro spirituale che svolgiamo con il nostro gruppo
(R.n.S.). Sono felice che don Paolo continuerà la sua attività e, in modo
particolare, della scuola di Sacra Scrittura che inizierà nei prossimi mesi (la
aspetto come la «cerva che anela ai corsi d’acqua»). Volevo semplicemente
ringraziarvi per quello che fate. Cordiali
saluti,

Salvatore Di Peri
14/03/2013

Beneficenza  e Carità

Leggendo
le parole dell’editoriale di marzo, mi sono identificato nello «spirito» dello
stesso. Trovandomi da anni coinvolto in esperienze missionarie in Kenya e
Tanzania, ho organizzato incontri ove esponevo e condividevo ad amici, colleghi
ed estranei la mia, anzi la nostra (da quando ho conosciuto, in Kenya, mia
moglie) esperienza tra i missionari, non solo della Consolata ma anche di altri
ordini, e con la gente locale.

Quello
che vivi, provi, senti e ti entra dentro il cuore in Africa non puoi tenertelo
dentro e pertanto è di fondamentale importanza condividerlo, cercando di far
capire che non esiste solo il nostro «ego» ma esistono anche bambini e adulti
che, senza colpe, sopravvivono giorno dopo giorno, vedendo calpestata la propria
dignità di esseri umani. È difficile indovinare a fondo quanto prova la gente
di fronte alle immagini, ai filmati e ai racconti, ma si percepisce comunque un
certo distacco, una lontananza ancorata al proprio quieto vivere, seppur con il
sincero intento di voler fare qualcosa per aiutare. Solamente se stimolata ogni
volta la gente s’interessa nuovamente a queste problematiche, mentre pochi,
direi rari, si sentono così colpiti da fare proprio, dal profondo del cuore, il
concetto di carità efficacemente espresso nell’editoriale. La carità non è un
fare ma un modo di vivere e di condividere tra esseri umani, tra tutti.

Troppa
gente, come padre Gigi sottolinea, è superficiale ed emotiva di fronte alla
carità, agendo quasi per pagare dazio e lavarsi le mani, facendo i «buoni»
senza però essere «buoni» fino in fondo, senza cioè fare propria la profondità
della carità-amore. Una virtù che dovrebbe essere radicata nei credenti, nei
religiosi, negli uomini di buona volontà ma che purtroppo è spesso soffocata da
ben altre amenità ed è rispolverato a comando solo in talune occasioni.

La
carità non è un concetto astratto, semmai è di difficile attuazione, perché si
pensa che non sia possibile donare al povero se prima non si ha una propria
sicurezza; prima bisogna pensare a se stessi e poi agli altri, agli estranei,
seppur fratelli. Si rischia di passare per «folli» se si dona un paio di scarpe
nuove tenendo per sé quelle bucate. Figuriamoci poi se si arriverà a
condividere la povertà, calzando le malandate scarpe del povero stesso.

Padre
Bergoglio, alias papa Francesco, in poco tempo ha offerto al genere
umano delle occasioni di riflessione e, possiamo dirlo, condivisione. Speriamo
con questo che la sensibilità e attenzione verso taluni concetti come la povertà
e soprattutto la carità possano diventare patrimonio comune, educandoci dal
profondo del nostro cuore e spirito. Asante sana (tante grazie),

Vincenzo e famiglia
Email, 26/03/2013

a cura del Direttore




Cari Missionari – Aprile 2013

Lettere di p. Giano Benedetti dalla Costa d’Avorio, dove è ritornato da pochi mesi, e di Ivo Lazzaroni dalla RD del Congo, laico missionario della Consolata a Isiro presso il Centro Gajen.

Cari Lettori e Amici,

il mese scorso ho dovuto rubare una pagina in più per far
stare tutte le lettere, comprese le mie risposte, magari troppo lunghe.
Naturalmente, mentre scrivo queste righe verso fine febbraio, non ho ancora i
vostri commenti su quanto pubblicato. Così, visto che non ci sono vostre
lettere, mi permetto di dare spazio alla voce di due missionari. P. Giano
Benedetti, sessantenne quest’anno, che è ritornato in Costa d’Avorio dopo
lunghi anni dedicati prima a servizio dell’istituto come consigliere generale e
poi come direttore della casa per i missionari anziani e malati ad Alpignano.
Ricomincia a sessanta, altro che aspettare la pensione.

La seconda lettera è di un missionario laico in Congo RD,
Ivo Lazzaroni, bergamasco. Il suo scritto mi è arrivato a metà ottobre, troppo
tardi per quel mese e troppo lungo per i mesi a seguire. Ma è una testimonianza
viva, troppo bella per essere dimenticata. Ve la propongo nella sua freschezza.

Il Direttore
PREVIDENZA E PROVVIDENZA

Carissimi,
provo a scuotermi di dosso un po’ di pigrizia per comunicare qualcosa della
nostra vita da Grand Zattry. In Costa d’Avorio sono stato accolto come se fossi
un «vecchio lupo» di questa missione. A dire il vero, qui ho lavorato poco e
conosco pochissimo la realtà. Raccontandovi una piccola iniziativa dei mesi
scorsi, non so se, conoscendo poco, renderò l’idea a chi mi legge lontano da
qui.

Partendo dall’Italia, a fine settembre 2012, mi avevano
promesso in dono i regali di nozze di una coppia di «sposini» a me carissimi.
Cosa fare di quei soldi? Di comune intesa si era deciso di destinarli ai
ragazzi in difficoltà finanziarie che iniziavano il nuovo anno scolastico a
Grand Zattry, grosso villaggio della zona di Soubré, luogo della mia
destinazione.

Appena arrivato sul posto, ho informato del gesto di
solidarietà le comunità ecclesiali di base di Grand Zattry. Dopo avee parlato
al loro interno, hanno segnalato alcuni casi da aiutare perché conosciuti nei
loro rispettivi quartieri: ragazzi in età scolare, figli di cristiani e di
musulmani (qui la maggioranza della popolazione è musulmana). Sono molti gli
alunni che una volta iniziate le lezioni ne rimangono fuori dopo i primi
giorni. Basta molto poco: «I tuoi non hanno ancora pagato l’iscrizione», «non
hai la divisa richiesta», «non hai i libri di testo», «ti manca il kit per la
geometria, ti manca…». E, così, un buon gruppo di scolari viene allontanato
dalla scuola. Da queste parti l’economia familiare sovente è da sopravvivenza e
non arriva a coprire nemmeno le spese – irrisorie diremmo noi – della scuola.
E… per quest’anno «andrai a lavorare nei campi».

In breve, con 1200 euro, trentadue ragazzi delle elementari
e quattro del liceo hanno potuto riprendere i loro studi. Tra di essi anche tre
piccoli di un villaggio lontano dal centro di Grand Zattry i cui genitori da
anni non inviavano i figli alla scuola «di campagna» più vicina, perché, a
causa dell’isolamento, esige un supplemento di spesa.

Mi sembra che i ringraziamenti ricevuti da genitori e
scolari siano stati sinceri e a volte anche calorosi… per così poco. Nel caso
di quel villaggio isolato, il «grazie» forse ha cominciato a ridurre anche le
distanze che lo caratterizzano e a rendere possibile una comunicazione aperta
ad altre cornoperazioni. Vedremo.

Vi confesso che sono preso da tanti altri pensieri e
programmi perché mi sono ritrovato parroco di Grand Zattry ancor prima di
arrivarci… e non so se proporremo anche da qui le adozioni a distanza o altri
progetti, ma spero che nei mesi che verranno, in vista del prossimo anno
scolastico, si possa mettere da parte qualcosa di gratuito e di imprevisto,
secondo i formulari e i protocolli della Provvidenza… che non ne ha. Previdenza
e provvidenza le possiamo trovare ben integrate nell’azione divina, ma
difficili da coniugare, almeno per me. In situazioni di grave precarietà
economica, nell’attesa di soluzioni pianificate, lungimiranti o definitive, la
più spicciola e inattesa solidarietà ridà fiato e non emargina. Ho ancora nel
cuore tante situazioni familiari conosciute in Italia e persino nelle nostre
comunità: un po’ di «Fiato e di Vicinanza» non solo non fanno male ma possono
abbassare, purificare ambizioni e pretese, e innalzare, mettere meglio a fuoco
la passione verso gli altri. Che è quella di Dio. E grazie a chi ha donato!

P.
Giano Benedetti,
Grand Zattry,
Costa d’Avorio, 29/01/2013

IL MITO DEL MISSIONARIO

Autunno di circa quaranta anni fa, Cusio, Alta Val Brembana
nel bergamasco, prime giornate d’ottobre, anche primi giorni di scuola
elementare; paesaggio stupendo, boschi dipinti di mille colori, come nessun
pittore può realizzare, a specchio di un cielo azzurro e di cime montagnose
ancora per me, bambino, irraggiungibili, come era irraggiungibile e sconosciuto
il disegno che Dio aveva su di me, e su ognuno di noi.

Ecco entrare in aula la maestra, a spiegarci che il mese di
ottobre è anche il mese missionario, e un missionario verrà a visitarci. Un po’
stupiti, ci chiediamo, ma chi è il missionario? Parola ancora ignota al nostro
vocabolario dei primi anni di scuola elementare. A distanza di anni, l’unica
cosa che ricordo è un volto scottato dal sole con una barba bianca. Alcuni anni
dopo, essendo un po’ più grande, ecco di nuovo la visita di un missionario tra
noi. Stesso volto segnato dal sole e dalla vita, stessa barba, che ci incute un
certo rispetto per un uomo venuto da un mondo a noi sconosciuto e lontanissimo,
che con la sua fede salda e grande come certi baobab che si vedono in Africa, i
sui racconti dal sapore pionieristico e avventuroso, le fotografie in bianco e
nero che danno una sensazione magica, ci fanno sentire il calore e il desiderio
di partire per quei luoghi misteriosi e affascinanti.

E allora al domanda di alcuni anni prima, «ma chi è sto
missionario», per noi ragazzi delle medie trova una risposta: il missionario è
un mito. I vari miti dello sport, non hanno ancora fatto presa
nella nostra vita, ed il missionario resta l’unica persona fuori dal cerchio
famigliare, a cui ci si può avvicinare senza remore, sempre pronto
all’incontro, all’ascolto.

Da quei primissimi incontri con i missionari, di anni ne son
passati, di esperienze e di tratti di strada ne ho fatti, e siccome son
convinto che le situazioni non capitano per caso, eccomi ora in cammino su
questa strada missionaria, cercando di compiere il disegno che Dio aveva
concepito sulla mia culla.

Sono Lazzaroni Ivo, missionario laico della Consolata, da
cinque anni mi trovo a Isiro, nel Nord-Est della Repubblica Democratica del
Congo. Ogni giorno che passa capisco sempre più l’immenso dono che Dio mi ha
fatto di testimoniare il suo Amore in mezzo a questo popolo e soprattutto in
una congregazione missionaria con Maria Consolata come protettrice.

Collaboro con frère Domenico Bugatti (bresciano di
Lumezzane – nella foto grande) nella gestione del nostro centro
nutrizionale, Notre Dame del la Consolata (Gajen), con tutte le molteplici
attività caritative correlate.

Ci sono giornie e difficoltà che la vita e la missione ci
riserva, e così, la fervida immaginazione che avevo da ragazzino, ha lasciato
posto alla pura e dura realtà africana, con le sue magie, le sue paure, le
danze e sensazioni di vita danzata, che solo la missione vissuta con passione
può dare.

Africa culla dell’umanità, ma vittima di tante
contraddizioni. Terra dai mille sapori, dalle culture ricche di valori. Ma
spesso per rispettare la loro stessa cultura, nelle difficoltà della loro vita,
tengono le persone in forme di schiavitù, situazioni che per noi, non hanno
senso e logica. Molti sono gli aspetti di una cultura diversa dalla nostra, che
non riesco a comprendere, ad accettare. La stessa società è ancora in cerca di
se stessa, fa fatica aprirsi. Quante altre domande mi girano in testa. Allora
il mito del missionario barbuto di una trentina d’anni fa lascia il posto al
missionario adulto d’oggi, con i suoi perché, forse non tanto diversi dai tanti
perché dei missionari di ogni tempo.

Molte volte viene da chiedersi se servirà a qualche cosa la
nostra presenza , (sicuramente serve più a noi per farci crescere come uomini e
soprattutto come cristiani), dove il «bianco» non è sempre ben accetto se non
per i soldi che pensano possa avere, dove a volte sembra che diamo fastidio. Ho
l’impressione che apparentemente nulla cambi: ingiustizie all’ordine del
giorno, poveri sempre più poveri.

E così con questi perché in testa, mi ritrovo ogni mattino
sulle strade impantanate che portano al nostro centro nutrizionale Gajen.
Strade infangate che ci conducono alla prigione centrale d’Isiro, e rivoli di
fango che ci portano a visitare gli ammalati e a celebrare la messa il sabato o
la domenica nei vari ospedali, a incontrare gente nei vari quartieri.

Per Gesù la strada è sempre stata un luogo d’incontro, e
proprio qui incontriamo tanta gente, storie diverse, strade che si incrociano e
ci riconducono sempre al nostro centro nutrizionale. Qui ci aspettano bimbi
sempre pronti all’incontro col sorriso stampato sul volto, liberi da quei
pregiudizi, da quelle maschere che molte volte gli adulti si mettono, poveri
tra i più poveri, in cerca di un aiuto, di un conforto.

Vediamo molti bambini alla scuola matea, sono giorniosi e
pimpanti, ma vediamo anche i ragazzi di strada, i cosidetti enfant sorcier (bambini
stregoni). La loro infanzia è stata distrutta dalla follia legata alla
superstizione, vengono accusati dai loro familiari di esercitare poteri
occulti. Sono costretti a subire umiliazioni e violenze indicibili e buttati
fuori casa. Hanno dai due ai dodici anni.

Ci sono i disabili fisici e mentali, gli orfani dell’Aids e
soprattutto i bimbi malnutriti: sono un centinaio al giorno. è una pena vederli, sguardi spenti,
senza sorriso, esseri fragili, stretti da braccia ancora più fragili e
tremolanti, mamme malnutrite o giovani mamme vittime dell’Aids. E purtroppo, in
questo momento stiamo vivendo anche una situazione abbastanza critica e
drammatica, il virus dell’ebola è ricomparso, non si sa ancora come, il centro
colpito è proprio la cittadina d’Isiro, ma sicuramente fa paura, non esistono
farmaci o vaccini, e per l’80% è letale.

Ci son già state diverse morti, molti son in isolamento
all’ospedale generale d’Isiro (solo a gennaio 2013 le autorità sanitarie hanno
comunicato che l’emergenza ebola è finita, ndr).

La missione si capisce vivendola con amore. è sicuramente in questa vita vissuta
tra tutte queste miserie, che il mito del missionario si infrange e sorge
l’uomo missionario, con tutte le sue fragilità, le sue limitatezze e
l’impotenza di fronte alle necessità dell’uomo, ed è qui che entra in gioco la
nostra fede, la fede semplice dei forti, dove l’unico «Mito Eteo» da seguire
è Gesù Cristo.

Ed è lì, stringendo queste mani, intrecciando i loro
sguardi, vedendo i loro sorrisi, che le nostre mani si sostituiscono a quelle
della Vergine Consolata che tiene in braccio Gesù bambino.

Ed allora sì, capisco che la nostra è una presenza di
consolazione. Cercando di portar consolazione agli altri, si dimenticano anche
gravi problemi che ci circondano, donando con tutte le nostre fragilità e i
nostri limiti quell’amore che a loro è stato negato o che semplicemente non
hanno mai avuto. Cerchiamo di dare quella dignità negata, quella speranza che è
la tenera ala sostenitrice della nostra fede.

Ivo Lazzaroni,
Lmc,
da Isiro, RD Congo,
ottobre 2012

a cura del Direttore




CARI MISSIONARI

Colombia, viaggio di Vita

Sono
Alberto Cancian, un ventisettenne che abita in provincia di Pordenone. A marzo
del 2012 sono andato in Colombia, a trovare per alcune settimane lo
stimatissimo p. Bruno Del Piero, mio compaesano e da cinquant’anni missionario
della Consolata in Colombia, attualmente a Florencia, nel Caquetà. L’esperienza
è stata molto forte e formativa. Ad ottobre, sempre del 2012, il nostro paese,
Roveredo in Piano, ha celebrato i 100 anni di dedicazione della Chiesa
Parrocchiale, p. Bruno era presente ed in questa occasione è stato pubblicato,
con il contributo della parrocchia e di alcuni enti del luogo ed il patrocinio
del comune, il libro «Colombia. Viaggio di Vita». è un piccolo diario di viaggio con testi e foto che parlano
della mia esperienza ma soprattutto dell’impronta che p. Bruno ha lasciato in
quelle terre nelle quali è smisuratamente amato in cinquant’anni di missione.

L’occasione
ha quindi fatto sì che in paese e un po’ più in là, si sia potuta toccare con
mano l’opera di questo missionario amato dalla nostra gente e nominato per
l’occasione Cittadino Benemerito. Sia le presentazioni che ho fatto in
questi mesi che le vendite del libro hanno avuto un successo davvero
soddisfacente (vedi qui sopra il volantino promozionale per Natale).
Tutto il ricavato della vendita è devoluto a p. Bruno per la sua missione.

Ho
pensato che sarebbe bello, soprattutto per lui e per il nostro paese che questo
venisse menzionato nella vostra ricchissima rivista. Ringraziandovi
anticipatamente

Alberto Cancian
Email 09/01/2013

Grazie, Don Paolo

Carissimi,

dopo aver letto l’ultima puntata del «racconto
delle nozze di Cana» del magistrale don Paolo Farinella, non ho potuto che
mettermi al computer e scrivervi queste poche righe per ringraziare voi
tutti della redazione per la scelta stupenda di voler tradurre, spiegare anche
ai lontani (inteso come lontananza chilometrica) il profondo significato nascosto
nella Parola di Dio, ma soprattutto per ringraziare l’estensore.

Ho
iniziato a leggere quasi per caso il primo articolo a commento della parabola
del figliol prodigo, e non sono più riuscito a staccarmi. Attendevo e attendo
quasi con ansia la rivista per attingere a quegli articoli quasi fossero una
sorgente d’acqua limpida. Il procedere ossessivamente lento, la disamina
estrema di ogni singola parola alla ricerca di quanto in essa era celato dallo
Spirito ispiratore, la metodica analisi del vero e originale significato
delle parole del testo a noi pervenuto, il costante raffronto con brani
dell’Antico Testamento, hanno fatto sì che queste pagine riuscissero
ad aprire orizzonti mai finora osservati (almeno da me!).

Spesso
ci si accontenta, noi poveri mortali indaffarati, di rincorrere le fatuità che
la modea cultura ci propina, di quello che una lettura superficiale,
mediocre e ripetitiva ci trasmette senza che nemmeno un dubbio ci oscuri
le certezze interpretative antiche. Ma basta, almeno a me è capitato,
che qualcuno ti indichi dove mettere il piede, ti mostri quale sentirnero
percorrere, per trovarti a camminare in un paesaggio diverso, mai
esplorato, ma affascinante.

Grazie
a voi quindi e un particolare grazie a don Paolo Farinella per il suo prezioso
apporto e per la sua instancabile ricerca del cuore inscrutabile e profondo che
Dio Padre ci ha voluto mostrare.

Giacomo Fanetti 
11/01/2013

Qualcuno
ha già telefonato per sapere quando le 38 puntate su Cana diventeranno un
libro. Per ora non ci sono notizie a riguardo. Se don Paolo deciderà di fae
un libro, vi informeremo tempestivamente.

Tutto o niente?

Cari
Missionari,
sperando di fare cosa non sgradita, vorrei cogliere questa occasione per dirvi
che la scelta di privilegiare le testimonianze dei missionari, dei volontari e
di coloro che si recano fisicamente nelle terre di missione, lasciando da parte
la politica e la polemica politica, è apprezzabile. Certi argomenti o non si
toccano per niente oppure vanno approfonditi con un po’ di ragionevolezza
sentendo tutte le campane, quelle dei simpatici e quelle dei meno simpatici…

Se
si tirano in ballo questioni come l’Ici, l’Imu, lo spread, il decreto
salva Italia, il contributo dato dal governo Monti e segnatamente dal ministro
Riccardi al rilancio della cooperazione con i paesi dell’Asia, dell’ America
Latina e dell’Africa, bisogna considerare i risvolti comodi ma anche quelli
scomodi, imbarazzanti, bisogna avere l’onestà di riconoscere le novità positive
ma anche quelle negative… Bisogna soprattutto avere la delicatezza e la
cortesia di chiamare le cose con il loro vero nome, altrimenti si rischia di
diventare complici di chi vuol continuare a simulare, a camuffare a frodare.

Per
esempio, quando si parla di Ici o di Imu, non ci si può limitare a qualche
fugace allusione polemica contro chi vorrebbe imporre queste tasse alla Chiesa
cattolica e alle sue attività di evangelizzazione e di promozione umana. Non
bisogna vergognarsi di definire l’Ici e
l’Imu per quello che sono realmente, ovvero macchine divora-stipendi e
divora-pensioni, non imposte comunali, non imposte municipali, non imposte
sugli immobili, non imposte federaliste.

Leggendo
certi vostri articoli, sembrerebbe di capire che anche per voi Monti e Riccardi
hanno giovato all’Italia e alla sua immagine in Europa e nel mondo (a
cominciare da quello povero), facendo cose che i precedenti governi non avevano
fatto. A me invece risulta che l’ultima legge di stabilità assicura 8,5
miliardi di euro a Finmeccanica, la più grande produttrice ed esportatrice
(anche nel mondo povero, quello con cui si cerca di migliorare la cooperazione)
di armi e sistemi d’arma made in Italy e 2,5 miliardi alla TAV. Risulta
anche che l’anno di Monti e della cura Monti si è concluso con la retrocessione
dell’Italia dal 69° al 72° posto nella classifica di Transparency
Inteational
. Per oggi mi fermo qui ma penso che, in un modo o nell’altro,
ci risentiremo.

Francesco Rondina
Fano, 27/12/2012

Egregio
sig. Francesco,
grazie del suo scritto. Gli argomenti che lei affronta nella sua lettera sono
particolarmente scottanti in questa nostra Italia d’inizio 2013. Probabilmente
quando lei leggerà questa risposta, sapremo già chi è il nuovo premier,
mentre al momento in cui scrivo siamo ancora completamente nella nebbia.


C’è
un insegnamento che mi è stato inculcato fin da bambino, glielo scrivo in
dialetto bresciano, il mio: «fa miò l’öff fôrò de l’öferò» (non fare l’uovo
fuori della cesta). Era una calda raccomandazione a non fare le cose a
sproposito o nel posto sbagliato.


Su
questa rivista facciamo ovviamente degli accenni alla politica e alle faccende
italiane. Come potremmo evitarlo, soprattutto quando le scelte politiche hanno
delle conseguenze su argomenti che ci appassionano, come sviluppo, giustizia,
pace, cooperazione, libertà religiosa e toccano direttamente o indirettamente
il mondo missionario? Ma non trattiamo specificamente di politica, come lei ha
giustamente notato. La Chiesa cattolica ha altre pubblicazioni più competenti
in materia.


Che
abbiamo simpatia per Monti o Riccardi e meno per altri, può essere vero o no.
Certamente, come persone e cittadini, abbiamo la nostra opinione ed è
inevitabile che a volte traspaia. Cerchiamo di non cadere nella trappola del «far
politica», per mantenere viva la libertà di giudizio e la capacità critica di
chi cerca di leggere la realtà con gli occhi del sud del mondo, dalla parte
degli impoveriti.


Continueremo
a scrivere su temi che toccano anche la politica ed economia italiana. Lo
faremo anche in collaborazione con le altre riviste missionarie della Fesmi.
Questo non per schierarci pro o contro qualcuno, ma perché certi argomenti
sfidano la responsabilità di tutti, sempre, e non solo in questi mesi di
emergenza economica.

Dall’Albania alla RD Congo

Cari
amici di MC,
è da tempo che avevo in mente di scrivervi. Sono un giovane laico della diocesi
di Nardò-Gallipoli in missione in Albania con una comunità della diocesi di
Reggio Emilia. Siamo a Gomsiqe, un piccolo villaggio in provincia di Scutari,
siamo senza tv, la radio funziona a malapena, come del resto i telefoni
cellulari e l’internet. Tutte queste sono decisamente delle fortune!
Personalmente mi sento in fase di disintossicazione dalla dipendenza da
notiziole e talk show piccoli piccoli, in cui si parla e non si
capiscono i veri problemi e non si cercano soluzioni, in cui si dettano le
preoccupazioni più urgenti della nazione, a seconda di quelle che sono le
priorità immediate di 4 o 5 leader politici.

L’esperienza
di missione in questa terra bellissima (a cui spesso anche il vostro giornale
si è interessato) e MC mi hanno aiutato ad aprire gli occhi sul mondo, a
rendermi conto di quanto siano piccole e drogate le piccole beghe di paese che
in Italia sono chiamate notizie e di quanto i grandi fenomeni di questo tempo,
le grandi ingiustizie, quello che davvero succede nel mondo, semplicemente ci è
estraneo.

Grazie,
anche a nome della piccola comunità di cui faccio parte, a tutti voi, che siete
come un buon amico, intelligente e attento, che appena tornato da un viaggio ci
racconta quello che ha visto, aiutandoci a capire cosa c’è dietro e un po’
anche cosa possiamo fare noi, con i nostri stili di vita, con il nostro piccolo
ma prezioso impegno.

Finita
questa premessa, arrivo ad una richiesta di approfondimento: su un giornale
italiano abbiamo letto un interessante reportage sul Movimento M23 in Congo e
un’intervista a mons. Rugero Runiga guida spirituale del movimento.

Proprio
in quei giorni ci è arrivato anche il numero di Novembre di MC, in cui c’era
l’articolo sul Rwanda e l’approfondimento sugli interessi ruandesi nella RDC.
Mi chiedevo se la Chiesa congolese e quella ruandese abbiano una posizione
ufficiale su questo movimento e soprattutto qual è la situazione di mons.
Runiga?

Enrico Giuranno e comunità di
Gomsiqe (Albania) 29/12/2012

Enrico,
grazie delle tue parole incoraggianti. Per quanto riguarda Jean-Marie Runiga
Lugerero, il vescovo presidente del movimento M23, posso solo dirti che non è
un vescovo cattolico. Ho cercato di capire quale sia la sua chiesa, ma
non ci sono riuscito. Ci sono migliaia di chiese evangeliche diverse in Africa.


L’Agenzia
Fides scrive: «Jean-Marie Runiga Rugerero (o Lugerero), sedicente leader
dell’ala politica dell’M23, il movimento ribelle che agisce nel Nord Kivu, (est
della Repubblica Democratica del Congo), non è un vescovo cattolico, come
invece è stato presentato da alcuni organi di stampa inteazionali» (Fides
2/1/2013).


Quanto
alla Conferenza Episcopale del Congo, così scrive Fides: «“No alla
balcanizzazione del Congo. No alla divisione del Paese”, affermano i Vescovi
della Repubblica Democratica del Congo, in un messaggio reso pubblico al
termine della loro Assemblea Plenaria che si è tenuta a Kinshasa dal 2 al 6
luglio 2012. Si tratta di un riferimento esplicito alla situazione dei due
Kivu, nell’est del paese, dove l’M23, movimento ribelle formato da soldati
disertori e appoggiato dal Rwanda, come afferma un rapporto dell’Onu, sta
seminando morte e distruzione, costringendo la popolazione alla fuga.


«Di
fronte a questo ennesimo tentativo di dividere la RDC, che mira a impossessarsi
delle sue ricchezze naturali, i Vescovi congolesi denunciano “l’occupazione irregolare
del nostro territorio”, e riaffermano l’unità del paese secondo le frontiere
stabilite nel 1960, anno dell’indipendenza nazionale. “L’integrità del
territorio nazionale non è negoziabile” affermano i presuli. I Vescovi invitano
i responsabili politici e i cittadini congolesi ad un “sussulto patriottico per
non essere complici di questo macabro piano di disintegrazione e di occupazione
territoriale del nostro paese”. La Conferenza Episcopale Congolese (Cenco) si
rivolge a tutti i congolesi in patria e all’estero, perché si mobilitino per
bloccare il piano di divisione del paese. A questo fine la Cenco intende
promuovere “azioni concomitanti in tutte le parrocchie della RDC e nelle
cappellanie dei congolesi all’estero, per esprimere il nostro rifiuto
categorico a questo piano e implorare la grazia della pace”» (Agenzia Fides
10/7/2012).

Popolare la terra

Cari
Missionari,
premetto che da anni sostengo le missioni con denaro destinato «alla fame nel
mondo», e con questa mia desidero aprire un serio e pubblico dibattito sulle
nascite e sulla fame sul nostro giornale. Non è ora che si elevi forte la voce
di limitare le nascite? Il Buon Dio ci disse di popolare la terra e a questo
fine nella sua magnificenza ci ha donato il cervello per capire che ciò non significava
sovrappopolarla; forse noi uomini abbiamo interpretato in maniera distorta la
sua parola. Guardiamo in giro nel nostro cortile e nei cortili del mondo quanta
sofferenza e povertà vi sono sulla terra: è proprio necessario nascere per vivere e morire di fame, stenti,
malattie e di chissà quante altre calamità? Si fa in fretta dire che il
cristiano ha il dovere di aiutare il prossimo; ma questo prossimo che aumenta
ogni anno è diventato sterminato e i denari e le risorse per vivere sono sempre
meno e non bastano mai come si constata chiaramente. Nostro Signore ha fatto un
mondo bello e ce l’ha donato affinché godessimo della Sua creazione (bellezze
naturali e spirituali). Ma gli infelici bimbi africani che nascono e muoiono
cosa godono del dono della creazione di nostro Signore? E anche se ricevessero
quel poco, godrebbero della magnificenza del creato a noi donata? La
popolazione mondiale è aumentata a dismisura e ci stiamo mangiando suolo e
risorse del mondo tanto che si ipotizza un’altra terra per sopperire a ciò che
il numero enorme di uomini necessita: a quanti miliardi di popolazione umana
vogliamo arrivare? E che risorse lasceremo ai nostri nipoti se consumiamo
tutto ora noi?

Il
mio parroco mi ha sempre giustamente detto che la pateità e la mateità
devono essere responsabili, ma parlando del Sud Italia, per esempio, che
prolifera sapendo che la disoccupazione e la mancanza di industrie è endemica e
che la tendenza è ben lungi da essere invertita, è proprio necessario avere
quasi trenta milioni di cittadini in quella terra? Loro sono purtroppo
destinati alla mancanza di lavoro per decenni, dato che il lavoro non si
inventa domani con la bacchetta magica né si compra al supermercato dopodomani.
E che dire dei tantissimi extracomunitari che ormai dilagano per Milano, e non
solo, a chiedere elemosine, a mangiare alla mensa dei poveri, a chiedere aiuto
alle parrocchie? è vita quella di
non avere di che vivere sentendo la propria dignità venir meno e non aver
speranza per un futuro migliore? Ripeto quanto detto prima, sono ormai
tantissimi e non si può dare qualcosa a tutti.

Concludo
ribadendo che il rapporto fra popolazione e risorse deve avere un giusto
equilibrio, in mancanza del quale inevitabilmente queste due entità entrano in
sofferenza e che il contenimento della crescita umana deve essere aumentato e
soprattutto pubblicizzato. Un atto d’amore fra un uomo ed una donna (quello
vero) non deve sfociare per forza in una vita, infatti nel Vangelo non mi
pare ci sia alcunché, contrariamente a quello che per tanto
tempo ci è stato inculcato in testa. Non si può rimandare la soluzione di
questo problema al Buon Dio, perché così facendo si metterebbe in dubbio la sua
volontà nell’averci voluti e creati diversi dagli animali foendoci cervello,
intelligenza, capacità di risolvere i problemi di quella umanità che è venuto a
salvare con tanto prezzo ed Amore. Cordialmente

Luigi Palumbo
Collegno, 26/12/2012

Egregio
sig. Palumbo, grazie del lungo scritto. Provo a essere sintetico nella mia
risposta.

Sovrappopolazione.

La
inviterei a leggere l’articolo di Paolo Mastrolilli su La Stampa, 12 gennaio
2013, pag. 14
: «L’Onu ci ripensa, “Sempre meno figli, rischio crescita
zero”. – Le previsioni di catastrofe demografica sono state ribaltate. I
programmi per il controllo delle nascite hanno funzionato». In sostanza
l’articolo ricorda che se si continua così, gli europei come tali sono
destinati all’estinzione e, dopo il picco di fine secolo (10 miliardi nel
2100), la popolazione mondiale decrescerà drasticamente, e se ci si stabilizzerà
sul livello riproduttivo di 1,5 entro il 2300 ci sarà solo un miliardo di
persone sulla terra.

Sfruttamento della terra e mancanza di cibo.

C’è
un altro interessante articolo apparso sullo stesso quotidiano: «Quasi metà del
cibo del mondo gettato senza riciclo»

(http://www.lastampa.it/2013/01/10/scienza/ambiente/ambiente-quasi-la-meta-del-cibo-del-mondo-gettato-senza-riciclo-arAYbhu2WlMGvPNM7nhwCO/pagina.html).

L’Ansa
sintetizzava così: «La metà del cibo che viene prodotto nel mondo, circa due
miliardi di tonnellate, finisce nella spazzatura, benché sia in gran parte
commestibile. Il dato sconcertante emerge da un rapporto dell’Institution of
Mechanical Engineers
, associazione degli ingegneri meccanici britannici.
Fra le cause di questo spreco di massa, ci sono le cattive abitudini di milioni
di persone, che non conservano i prodotti in modo adeguato. Ma anche le date di
scadenza troppo rigide apposte sugli alimenti e le promozioni che spingono i consumatori
a comprare più cibo del necessario».

(http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/mondo/2013/01/10/Meta-cito-mondo-finisce-spazzatura_8053030.html).

Carità e giustizia.

Quanto
fanno le organizzazioni umanitarie e la carità della comunità cristiana, di cui
i missionari sono gli agenti di frontiera, è indispensabile, perché risponde a
dei bisogni reali con tempestività ed efficacia. Ma la carità da sola non può
risolvere i problemi: tampona i sintomi e gli effetti immediati della malattia
ma non cura le cause. Occorrono soluzioni politiche ed economiche che
riguardino tutto il pianeta. Sono
necessari interventi che tocchino le cause originanti del problema, che
costruiscano pace, giustizia, equità, che creino rapporti nuovi tra i popoli e
una cultura nuova più responsabile nell’uso delle risorse.

Ci sono molti altri temi che lei tocca nella sua
lettera. Se altri lettori volessero intervenire, sono i benvenuti. La mia
opinione è chiara: questi problemi non si risolvono con il controllo delle
nascite, ma con giustizia ed equità (cf. MC1-2/2013 p.7), con
investimenti sullo sviluppo integrale delle persone e con la coscienza che in
questo mondo o ci salviamo tutti insieme o insieme periremo.

A mio zio

Caro
Padre Gigi,
mi
permetto di chiedere la pubblicazione del seguente scritto in ricordo del mio
carissimo zio materno Flaviano Scapin, mancato il 25 novembre scorso.
Ringraziando lei e tutti i collaboratori di MC.

UN ANGELO PIUTTOSTO INQUIETO

Zio
Flaviano carissimo,
ci hai lasciati in punta di piedi domenica 25 novembre 2012 all’ospedale di
Treviso, per la nuova vita, quella piena e magnifica che non avrà più fine. C’è
tanto sgomento e c’è tanta confusione in me perché eri un «presidio» importante
e inespugnabile contro la provvisorietà dei sentimenti, le ingiustizie
perpetrate nella vita e nel lavoro, l’approssimazione e lo sfruttamento nella
coltivazione dei prodotti della terra, i dubbi nell’esercizio della fede. La
tua esistenza intessuta di dignità e di grandezza umana è stata caratterizzata,
infatti, dall’affetto sempre più profondo per le persone a te vicine; è stata
animata dalle indignazioni nei confronti dei potenti, politici e proprietari,
per i soprusi verso i deboli e in particolare i lavoratori, con un riferimento
frequente agli operai delle industrie chimiche di Marghera; è stata connotata
dalle ire riguardo lo sfruttamento eccessivo delle coltivazioni con il
conseguente impoverimento di quella risorsa naturale che è la terra, quale
custode e nutrimento dei semi, tesori di valore inestimabile e scrigni preziosi
di vita nuova; è stata, infine, esaltata dal costante rapporto con Dio, vissuto
attraverso l’appuntamento settimanale con la celebrazione eucaristica,
appuntamento che mai hai interrotto nel corso dei diversi cambiamenti di
abitazione. Hai onorato nel modo più sublime il nome Flaviano, appartenente a
diversi martiri del IV secolo d.C., che mio nonno aveva scelto proprio per te,
terzogenito di quattro figli. Ora che il tuo essere «presidio» con la presenza
fisica è venuto meno mi sento defraudata di difese, più sguaita di solidi
puntelli, più esposta agli assalti della precarietà, della superficialità,
dell’«usa e getta». Sono certa, in ogni caso, che ancora continui e continuerai
ad essere «presidio», invisibile ma reale, sicuro ed inviolabile, accanto a
tutti coloro ai quali hai voluto bene, a me in modo speciale. Abbiamo ed ho
ancora e sempre bisogno di te; conto quindi su di te per onorare al meglio
possibile quanto ci hai dato e quanto sei stato per noi!

Tua nipote Milva
Collegno, 25/12/2012

Vieni, servo buono e fedele

Sono
le prime parole che mi sono passate per la mente quando, purtroppo con tanto
ritardo, ho appreso dell’improvvisa scomparsa di padre Lello Salutaris
da un amico missionario comboniano e l’ho verificata sull’ultimo numero di
Missioni Consolata, arrivato proprio pochi giorni fa.

Il
mio pensiero è andato al 1990, quando l’allora rettore del Seminario di Nairobi
(padre Masino Barbero) ce lo proponeva come seconda adozione con borsa di
studio durante gli anni della teologia fino all’ordinazione sacerdotale, la
prima adozione fu quella di padre Paskal Baylon Libana, ma con Lello fu tutta
un’altra esperienza perché conosceva la lingua italiana e così si iniziò una
corrispondenza che tuttora conservo. Andando a rileggere quelle lettere
emergono le caratteristiche della sua personalità: innamorato di Dio, la sua
apertura di carattere tale da metterti a tuo agio, la sua condivisione, ma,
come è stato rimarcato dai più, la sua gioia di abbracciarti perché ti
considerava un fratello e una sorella.

Dalla
sua missione in Etiopia ci perdemmo fino a quando arrivò nel 2003 una
telefonata in casa: «Sono Salutaris…». Si scusò del lungo silenzio: aveva
smarrito il numero telefonico e l’indirizzo e aveva chiesto a sua madre in
Tanzania di inviargli la sua agendina. Così ci si organizzò per incontrarci e
salutarci e da Montiano (un paesino vicino a Gambettola) organizzammo con mia
moglie Gabriella e nostra figlia Caterina, adottata dalla Colombia, un incontro
a Bevera.

Non
c’eravamo mai visti prima di allora e nonostante noi fossimo più adulti di lui
di nove anni, ricordo quell’abbraccio affettuoso, così carico di gratitudine
come a sdebitarsi dell’aiuto ricevuto durante gli studi e ci disse: «Sapete, io
provengo da una famiglia numerosa di nove figli e voi per me siete stati come
la seconda famiglia». Fu
quella l’occasione per iniziare una vera e propria direzione spirituale anche
se a distanza. Ci portava nel cuore anche per l’esperienza che stavamo vivendo
con la figlia adottata nel pieno della sua adolescenza. Lo visitammo spesso
anche a Vittorio Veneto fino al saluto ultimo a Nervesa nel giugno 2005, prima
del suo ritorno in Tanzania.

Ricordo
che nel luglio del 2004 venne a farci visita e lo portammo alla Vea. Si era
commosso per questa sorpresa e ci disse che si sentiva la persona più felice in
quel giorno. Come
dimenticarlo? L’unico rammarico è quello di non averlo più sentito da alcuni
anni. Avrei desiderato scrivergli, un padre della Consolata di Gambettola ci
consigliò di farlo attraverso fax. Non mi ero ancora organizzato. Ora, caro
Lello, non c’è più bisogno né di fax, né di internet, né di telefono; ci
possiamo parlare apertamente nella preghiera e così saprai che nostra figlia
Caterina, che portavi nel cuore, si è sposata la seconda domenica di settembre
ultimo scorso con un giovane in gamba ed ora sono catechisti in parrocchia.

Eh
sì caro Lello, la tua vicinanza si è sempre sentita e noi ringraziamo la  Madonna Consolata per questo grande dono:
l’averti conosciuto prima nell’adozione, poi direttamente nella tua professione
di missionario ed infine come fratello in Cristo!  Ciao
Lello, a presto!!!

I tuoi genitori adottivi  nello studio,
Ginaldo e Gabriella Torelli, Longiano (Fc) 17/12/2012.

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a cura del Direttore




Cari Missionari

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FILATELIA
Rev. p. Direttore,
ho letto, con piacere,
sul n. 11 di novembre 2012 che avete riesumato un’attività morta da molti anni:
la filatelia. Congratulazioni! Sono un vecchio abbonato e, in passato,
attingevo volentieri alle vostre offerte filatelico-numismatiche. So che un
tempo, con il ricavato dei francobolli, sostenevate i vostri seminaristi, sia
in Africa che in America Latina. Sarebbe bello poter continuare quell’opera
meritoria.
Mi piacerebbe anche
sapere se tra le donazioni che ricevete avete anche cartoline e buste, antiche
e modee; e i santini delle nonne, roba dell’800, e cartamoneta fuori corso.
In attesa di una sua risposta, la ringrazio per la sua attenzione. Preghiamo a
vicenda.
Gian Carlo Alessandri


Piacenza, 11/11/2012

Gentilissimi della Redazione,
nella pagina 5 della
rivista del novembre scorso ho letto la lettera di nonno Ludovico che vi fa
dono delle sue raccolte di francobolli a lui tanto care. Non sono per niente
d’accordo con le vostre risposte in merito. Pare che nonno Ludovico vi faccia
un dispiacere e che consideriate nulla la sua offerta. Se volete trasformare in
«polenta» la sua collezione dovrà essere polenta molto ma molto «biologica». Se
questo è ragionare da sacerdoti, allora! Penso che non pubblicherete questa
mia. A me basta che ci riflettiate sopra.
Bottoni Elena


Roletto, 08/11/2012

Sig. Gian Carlo,
è vero, un tempo su
questa rivista c’erano sempre delle pagine dedicate alla filatelia. Io stesso,
da studente di teologia, agli inizi degli anni settanta, cornordinavo il gruppo
filatelico del seminario attraverso il quale ci autofinanziavamo per procurarci
materiale audiovisivo per la catechesi. Poi i tempi e le regole sono cambiate,
ma l’attività filatelica non è mai morta sia perché ci sono sempre dei
benefattori che ci fanno dono delle loro collezioni, sia perché, anche tra i
missionari, chi è filatelico rimane filatelico per sempre. Noi siamo grati,
veramente, a chi ci aiuta anche attraverso i francobolli o tutti gli altri
oggetti da «mercatino» che lei menziona. Se sul numero di novembre e qui scrivo
alla sig. Elena ho dato l’impressione di disprezzare il dono del sig. Ludovico,
me ne dispiace. Non era certo mia intenzione, anzi. La mia risposta rifletteva
solo una po’ di amarezza circa la situazione della filatelia che, pubblicizzata
per anni anche come investimento sicuro per il futuro, si sta invece rivelando
un grande imbroglio ai danni degli appassionati.


Non voglio fare delle
polemiche sterili. Quanto sta succedendo ci dimostra ancora una cosa
importante: la filatelia si pratica solo per passione, non per lucro. Se poi
questa passione può aiutare chi è nel bisogno, tanto meglio. I francobolli
donati dal sig. Ludovico e da tanti altri ancora, attendono di essere
trasformati in «polenta biologica». Se qualcuno fosse interessato può scrivere
alla nostra email oppure direttamente a filatelia@missionariconsolata.it, e il
«padre filatelico-numismatico» sarà ben lieto di dare tutti i chiarimenti
necessari.

DOSSIER CONCILIO VATICANO
II

Caro p. Gigi,
uno, quando si alza il
mattino, dovrebbe iniziare la giornata con le Lodi. Io oggi ho iniziato col tuo
editoriale e ti scrivo subito. Vi ho trovato tutte cose che in teoria sapevo
già, ma il vederle lì belle, chiare, nette ecc. mi ha riempito di gioia. Il
constatare che tanti si sentono a posto, perché fanno le cose bene (preghiere
alle ore giuste, astensione dalle cai nel giorno stabilito, messa la domenica
sempre, l’elemosina quel tanto per sentirsi a posto), alle volte mi fa nascere
un po’ d’invidia. Anch’io infatti vorrei sentirmi tranquilla dentro per una
rigorosa osservanza dei precetti e essere felice e a posto davanti al Signore.
Una vita ricca di religione! Invece mai che mi riesca: le cose bene non le
faccio, e per di più la fede ogni giorno mi mette davanti delle scelte, anche
alla mia non più giovane età. Anche con i figli sovente too su questo
argomento e dico: io, come ho saputo e potuto, vi ho dato l’esempio; ora (da
tempo, perché i figli sono tutti negli “anta”) tocca a voifare prevalere la
fede sulla religione, ma non dimenticate la religione, perché, se praticata
bene, aumenta la fede e viceversa. Con i nipoti faccio lo stesso, ma è ben più
difficile. Continuo a seminare e mi dico: «Signore, io cerco di seminare al
meglio, ora irriga tu e fa’ crescere la pianta, se vuoi». Quel «se vuoi» mi
mette allegria, perché so che anche Lui è coinvolto nel mio lavoro di
educatrice, e io sono coinvolta nel Suo di creatore e redentore. Che ne dici?
Sono fuori strada?

In quanto al Vaticano II,
iniziò pochi giorni dopo il mio matrimonio ed ero alle prese con la tesi di
laurea che conseguii a febbraio mentre ero incinta della nostra prima figlia,
felice più per la creatura che portavo dentro di me che per aver raggiunto la
tanto agognata meta. Leggevo sui giornali del Concilio (ero fissa a quello di
Trento che «mi aveva opposto» ai miei compagni di scuola valdesi e al Vaticano
I che aveva proclamato ancora una volta l’infallibilità del papa), ma ero
talmente presa dal lavoro tra casa e scuola che non mi rendevo conto di quel
miracolo che stava succedendo. Papa Giovanni lo amavo molto, ma al momento non
capii la portata del suo gesto. Ma don Domenico Mosso, che allora era
viceparroco a Santa Teresina in Torino, nella seconda metà degli anni ’60, un
bel giorno ci spiegò la Messa: le parole in italiano e il significato
dell’essere rivolto verso di noi da un altare quasi circolare; ci fece cantare
e ci disse che potevamo anche mangiarci una caramella di menta per cantare
meglio e che avremmo potuto fare lo stesso la comunione (il digiuno dalla
mezzanotte era finito e ci si poteva pure lavare i denti senza timore di
ingerire l’acqua) e masticare (sic!) l’ostia! Fu allora che mi si aprì nel
cuore un canto di gioia: era finita la religione, per me cominciava la Fede.

Negli anni seguenti
tornai sui banchi di scuola, mi iscrissi all’Istituto Superiore di Scienze
Religiose, frequentai per quattro anni i corsi e la ricchezza dei testi del
Vaticano II insieme a quella delle Scritture mi riempì la vita. Imparai a
lavorare e ricercare con battisti, valdesi e metodisti, e pure con quelli della
Comunità ebraica. Allora abitavamo in San Salvario e la vicinanza di sinagoga,
chiesa di San Pietro e Paolo e tempio valdese, tutti racchiusi in un piccolo
spazio, fu di grande aiuto al lavoro insieme. Hai ragione, quando sottolinei
«l’universale e fondamentale chiamata alla santità come pienezza della vita
cristiana e perfezione della carità». è su questo punto che dobbiamo lavorare.

Bene, incomincio l’anno
sociale nella mia parrocchia piena di questa pagina/editoriale che tu mi hai
personalmente regalato. Grazie.

Paola Andolfi – email, 29/09/2012

Caro p. Gigi,
ho ricevuto tre giorni or
sono il numero di ottobre: visto il tema del dossier, mi ci sono buttato a
capofitto. Per coloro che hanno la nostra età, o giù di lì, il Concilio
Ecumenico Vaticano II ha rappresentato e rappresenta uno spartiacque tra il
prima e il dopo. Questo noi, vecchietti, lo sappiamo. Senza ulteriormente
dilungarmi, desidero esprimere a te personalmente e ai tuoi collaboratori il
mio grandissimo plauso. Una citazione particolare va a Mario Bandera: mai era
successo di leggere scritto da un altro il mio preciso e circostanziato
pensiero. Non c’è da modificare una virgola: ciò che espone nel suo contributo…
è come l’avessi scritto io! Grazie.
Ezio Venturelli – email, 30/09/2012


ESTREMISMI

È molto interessante la
rivista Missioni Consolata di novembre, soprattutto l’editoriale, il dossier
Jihad africana ed Armi low cost al suo interno. I nemici più pericolosi della
democrazia e del benessere sono i diversi gruppi estremisti, che possono
danneggiare la società. La violenza usata per promuovere la falsa democrazia,
il falso bene e il falso bene comune, corrompe dall’interno. Oggi, il mondo sta
subendo grandi movimenti di popolazioni, cambiamenti radicali, e l’assenza di
buon senso e di virtù morale e generosità, sta facendo prosperare l’egoismo e
la violenza. Il Novecento è stato il secolo del terrore e degli orrori, per
questo c’è la necessità di creare sistemi di valori forti e radicati,
altrimenti gli esseri umani vivranno in una società sempre più simile alla
distopia di «1984» di George Orwell.

Ci troviamo in una
situazione di limite, perché stiamo consumando le risorse del pianeta in modo
esponenziale. La vita è vissuta consumando e non elevando la cultura, la
spiritualità e la moralità. Per questo motivo ci sono sprechi, guerre, persone
che muoiono per fame e malattie facilmente curabili (se ci fossero farmaci a
basso costo e non ci fosse corruzione). Ci troveremo a vivere in un pianeta
ridotto a un’enorme struttura semi artificiale per creare cibo, per ospitare
edifici e per avere sistemi di mantenimento delle poche risorse che rimarranno.
Stiamo sfruttando al massimo il suolo, esaurendo il petrolio e i luoghi dove è
relativamente facile estrarre i minerali, stiamo cambiando il clima del pianeta
e avvelenando la terra, il mare e l’atmosfera in modo assai pericoloso.
Distruggendo le risorse al ritmo attuale stiamo preparando i conflitti futuri,
che si innescheranno per la sopravvivenza dei popoli e delle nazioni più forti,
quando il più spietato e il più progredito tecnologicamente sarà il vincitore.
Cosa faremo fra trent’anni quando la popolazione mondiale raggiungerà i 10
miliardi?

La cultura dello spreco,
del consumismo e dell’arraffa quello che puoi e disinteressati delle altre
nazioni e popoli, è arrivata alla fine. Se non si farà il necessario, ci
saranno eventi disastrosi per l’umanità. Cosa accadrà alla dignità umana,
quando ci saranno problemi come il poter vivere dignitosamente, quando ci saranno
grandi distese di case e catapecchie che non avranno i servizi igienici,
l’acqua potabile e non ci sarà cibo a sufficienza per tutti? Ci ridurremo come
nel film “2022, i sopravvissuti” (Soylent Green, di Richard Fleischer, 1973)?
Cordiali saluti.

Paolo Sanviti – email, 09/11/2012

STRAGE DI INNOCENTI IN
AFRICA

Si dibatte sempre sulla
morte di tanti bambini africani innocenti, ma vorrei far presente: Non esiste
la famiglia africana (le tribù sono quasi scomparse). Gli uomini africani, dopo
avere generato, lasciano la donnache si sobbarca l’allevamento dei figli come
può. L’occidente, dopo aver dato ai paesi africani i vaccini, gli antibiotici e
le medicine salvavita, doveva dare anche i profilattici; se li ha foiti,
perché non sono stati distribuiti? Non credete che le organizzazioni religiose
presenti in Africa si debbano assumere le loro responsabilità? Tuttavia, non è
troppo tardi per cambiare atteggiamento e affidarsi al buon senso! Grazie
dell’ascolto.

Elvira, email – 05/11/2012

Credo che su questo
argomento abbiamo una visione ben diversa. Il suo giudizio sulla famiglia
africana è tranciante, e se può corrispondere a molte delle situazioni che
dominano nelle periferie disumanizzate delle grandi città, non rispecchia la
realtà. La famiglia è ancora un’istituzione solida in Africa. Quanto alle
tribù, fosse vero che sono scomparse. Purtroppo il tribalismo è sempre forte ed
è ancora una delle cause di tanta violenza. In più sono arrivate anche delle
nuove tribù: i wazungu (europei), gli asiatici, i cinesi, che hanno introdotto
nuovi fattori di tensione.


L’occidente ha certo
delle responsabilità, ma di sicuro non quella di non aver dato profilattici;
anzi ne ha dati in quantità industriali. E non ha fornito solo condoms, ma
anche le cliniche per l’aborto, la sterilizzazione forzata delle donne,
l’imposizione di legislazioni contro le tradizioni e culture africane
riguardanti la famiglia, e il traffico di persone per sesso.


Quel che non ha dato,
invece, è giustizia, commercio equo, lavoro, dignità, rispetto e speranza. Si
sono «rubati» campi e acqua per fiori e ortaggi da esportazione, per cereali
destinati a bestiame da macello e i biocombustibili, per la produzione di cibo
per nazioni potenti e danarose. Si cacciano tribù dalle loro terre ancestrali per
far posto a impianti estrattivi, per costruire grandi bacini idroelettrici, per
sfruttare e distruggere foreste antichissime. Si sono imposti prezzi tali sulle
materie prime, minerali e prodotti agricoli, che i lavoratori sono ridotti a
livelli di schiavitù, obbligati a lavorare per sopravvivere senza avere le
risorse per curare le proprie famiglie: casa decente, scolarizzazione dei
figli, assistenza sanitaria e tempo libero.


Si continuano ad
alimentare guerre e violenze locali (vedi la situazione della zona dei Grandi
Laghi che, forse, ha fatto ancora notizia a fine novembre) per mantenere lo
sfruttamento selvaggio di minerali preziosi e strategici (come il coltan dei
nostri telefonini). Si dirà che è la corruzzione caratteristica dell’Africa che
causa tutto questo. Ma chi sono i corruttori? Chi davvero ci guadagna? Le
organizzazioni religiose, come i missionari della Consolata, sanno che la prima
risposta al problema della morte di «tanti bambini africani innocenti» non sono
i profilattici o l’aborto (che invece hanno un’efficacia letale nell’aumentare
le vittime innocenti), ma l’investimento nell’educazione (scuola per tutti),
nella promozione della giustizia e della pace (no alle guerre, al tribalismo,
al razzismo, sì al commercio equo), nella prevenzione sanitaria (difesa della
salute e del diritto alla vita) e nella creazione di posti di lavoro dignitoso
giustamente pagato (diritto al lavoro). Una coppia che abbia un’educazione di
base forte e un lavoro stabile su cui contare e la prospettiva di una pensione,
cercherà di farsi una casa che sia casa, non catapecchia, di mandare i propri
figli a una scuola di qualità, e, dovendo fare i conti con le proprie forze e
le proprie ambizioni, pianificherà anche il numero dei figli, che non saranno
mai più di tre o quattro.


Questa non è teoria. Sono
fatti osservati sul terreno in 21 anni di Kenya, vissuti a contatto con le
realtà più contradditorie: dalla vita tribale del Nord agli slums di Nairobi,
dai quartieri bene della nuova borghesia africana alle periferie rurali delle
regioni centrali e della Rift Valley.


Vogliamo davvero dare un
futuro ai bambini africani? Vogliamo tolglierci la paura di diventare troppi (o
meglio, che diventino troppi!) e di non aver più risorse per tutti? La
soluzione c’è: equa distribuzione delle risorse; rapporti inteazionali
controllati dalla politica e non dalle multinazionali del profitto; educazione,
salute e lavoro per tutti; meno condoms e più libri; meno armi e più medicine;
meno cliniche abortiste e più medicina preventiva; meno schiavitù e più fiducia
nelle responsabilità delle persone; meno farci giudici degli altri e più senso
di appartenenza paritaria alla stessa famiglia umana.


Il bello di tutto questo?
Che il futuro, lo vogliamo o no, appartiene agli africani che ancora credono
nella vita e nei bambini, non a noi che ci stiamo eutanasiando nel nostro
sterile benessere. Peccato che anche per l’Africa il nostro modello di vita
consumistico ed egoista sia una tentazione a volte irresistibile.

VOLONTARIATO
Buongiorno,

io mi chiamo Giulia e
sono un’assistente dentista professionale di Savona. So che non sono un medico
e non sono laureata ma mi piacerebbe comunque sapere se fosse possibile poter
dare il mio contributo. Attualmente lavoro in uno studio dentistico di Savona.
Io ho circa due mesi di ferie libere l’anno e vorrei davvero poter fare
qualcosa.

Giulia S. Savona,
30/10/2012

Ho già risposto a Giulia,
grazie alla rapidità della rete. Riceviamo spesso richieste d’informazioni da
parte di persone desiderose d’impegnarsi come volontari al servizio degli altri
nei paesi più poveri. Ci scrivono medici, infermieri e professionisti vari; ci
scrivono giovani come Giulia e pensionati che sentono di avere ancora tanta
energia e competenza professionale da condividere. Le richieste variano
dall’impegno «mordi e fuggi» del tempo delle ferie, a quello più stabile di un
servizio a tempo indeterminato o di alcuni anni. Questo è un tipo di
volontariato che è diverso da quello dei gruppi o persone singole che vanno per
un breve periodo in una missione a dare una mano per costruzioni, animazione o
altre attività spicciole. Oggi, tutte le attività «professionali», anche
volontarie, sono bene regolamentate in ogni paese del mondo, forse con
l’eccezione del Sud Sudan, per cui sono necessari permessi di lavoro e
riconoscimento locale dei titoli professionali. Per questo è importante
appartenere a organizzazioni di cooperazione internazionale competenti nel
settore. Ce ne sono tantissime in Italia. Esistono anche i laici Fidei Donum
cornordinati dalla Chiesa Italiana, e i missionari hanno i «Laici degli Istituti
missionari», il cui primo convegno si è effettuato all’inizio dello scorso
dicembre.


Non so se esista un
vademecum del volontariato missionario (tema di uno dei nostri prossimi
dossier?). Intanto continuate a scriverci, faremo del nostro meglio per
offrirvi delle risposte precise.

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Risponde il Direttore




Cari missionari

ATTENTATI CONTRO I CRISTIANI IN NIGERIA E KENYA
Sono un’illusa?

Carissimo Direttore,
vorrei poterti scrivere in occasioni meno tragiche, ma i recenti fatti in Kenya, Nigeria e Mozambico mi hanno molto rattristato ed indignato. Mi ha colpito anche la quasi indifferenza dei media, che in altri casi avrebbero suscitato un vespaio di reazioni e di discussioni.
Solo nel quotidiano Avvenire ho trovato ampi e dettagliati servizi per cui mi sono sentita in dovere di scrivere una lettera che il Direttore ha pubblicato ieri nella rubrica delle «Lettere dei lettori».
Te l’allego. Dentro c’è tutto il mio sdegno ma anche la speranza che la gente possa capire, riflettere, risvegliarsi.
Sono un’illusa?

Grazie e … un minuto di silenzio!
Grazie «Avvenire», grazie per aver dedicato ampio spazio alle notizie e al commento degli attentati ai cristiani in Nigeria e in Kenya.
Grazie per il tentativo di risvegliare i lettori chiusi nell’immobilismo dei loro piccoli interessi, nel circolo vizioso delle vicende economiche a cui gli stati europei cercano invano di dare una soluzione quando sarebbe bastato, negli scorsi anni, non vivere al ritmo delle cicale, illudendosi di abitare nel paese di Bengodi mentre il terzo mondo arrancava, si arrabattava per sopravvivere, si affannava a chiedere visibilità ed aiuto ai gaudenti occidentali che esibivano dagli schermi televisivi il loro benessere di fronte a coloro che non potevano che raccogliee le briciole. Grazie per l’analisi seria ed impietosa delle motivazioni ideologiche ed economiche e delle cause pregresse.Grazie anche per le immagini, volutamente a colori perché meglio risaltassero le devastazioni, il sangue, il pianto delle vittime.
Ormai siamo diventati degli spettatori annoiati che solo immagini forti possono ridestare.
Fateci emozionare, fateci riflettere, fateci piangere con quelli che piangono a causa di un’insulsa violenza. Usate parole forti per farci capire l’ingiustizia di una libertà violata, di un diritto calpestato.
Amo l’Africa e mi sento particolarmente vicina agli stati del centro Africa, a questi popoli che chiedono acqua, istruzione, lavoro,che sanno pregare con spontaneità nelle loro chiese con i loro canti e le danze pittoresche.
Nella grande Chiesa della Consolata di Nairobi, nella cappella del SS. Sacramento gente di ogni ceto e di ogni età si alterna 24 ore su 24 nella preghiera di adorazione.
Una presenza continua e silenziosa. Forse anche noi dovremmo arrestarci e dedicare qualche minuto di silenzio a questi morti innocenti, nostri fratelli d’Africa che la Morte, per mano di estremisti fanatici, si è portati via in luoghi simbolo: una chiesa e un’università, luoghi da dove inizia il riscatto dalla povertà attraverso il contatto con Dio e il cammino della Conoscenza.
Giulia Borroni Cagelli
Via email, 06/05/2012

Cara Signora Giulia, innamorata dell’Africa, grazie per le tue parole scritte col cuore.
L’argomento che tocchi è molto delicato perché davvero ci si abitua ai disastri, ai drammi, alla sofferenza. Per restare ai fatti che citi, un missionario ha scritto dal Kenya che ha «saputo dell’attentato alla chiesa di una piccola “setta” protestanta da amici in Italia. A Nairobi, i problemi del vivere quotidiano sono molti e in una città di oltre 5 milioni di abitanti, anche piuttosto violenta, un morto non fa molta notizia». Un altro missionario, quando gli ho chiesto dei 3.000 e più sfollati di Camp Garba (di cui ho parlato nell’editoriale del mese scorso) mi ha detto che lui non ne sapeva niente, anche perché le situazioni di violenza lassù, nelle zone del nord e verso la Somalia, sono talmente tante da non far più notizia.
In Mozambico è stato necessario che ci scappasse il morto, p. Valentin Camale (MC 5/2012, p. 7), perché i religiosi che vivono a Maputo si svegliassero e trovassero il coraggio di denunciare la situazione di insicurezza cronica in cui vivono da mesi e coinvolgessero i vescovi nel fare una protesta ufficiale.
I missionari non sono molto capaci di denunciare violenze, ingiustizie e sopraffazioni. E quando lo fanno, si sentono a disagio, perché non amano apparire. Loro ci vivono dentro, insieme alla loro gente, condividendone anche il silenzio impotente e la fede grande. Vista poi l’inutilità di gridare per l’aiuto dei potenti, troppo indaffarati con le loro crisi fatte e disfatte sulla pelle dei poveri, forse l’unica cosa che rimane da fare è pregare, almeno quello cambia di sicuro in positivo il cuore di chi prega.

RICORDANDO SUOR AGNESE BEGLIATTI
Ci sono momenti di grande prova e di grande angustia in cui affronti il dolore per la perdita di una persona cara, momenti in cui ti lasci andare e ti lasci invadere dallo sconforto e dalla tristezza, ma che ti portano a parlare con Cristo, con Colui che per amore si è portato sulla croce tutti i peccati del mondo.
Stamane (18/4/2012) ho avuto la triste notizia della morte di suor Agnese Begliatti, conosciuta come sr. Costantina, missionaria della Consolata. Ho provato uno strappo emotivo di rara intensità e tanti pensieri hanno affollato la mia mente, riportandomi ad un periodo della vita incancellabile.
Di suor Agnese non dimenticherò mai l’entusiasmo, il dinamismo a fin di bene, la grande carica umana e simpatia, ma soprattutto la forte fede in Dio, la fede dei semplici.
Con lei e suor Clarenzia, Natalina e Franca, quando prestavano la loro opera alla clinica Solatrix di Rovereto, dove era ricoverata in agonia mia moglie Serenella, ho condiviso fede, preghiera e speranza. Sì, la fiducia illimitata in Cristo ha caratterizzato la nostra amicizia, quella fede che supera la ragione ed ogni barriera umana e che ci mette in rapporto con Dio, che consola, che da gioia e speranza, infine ci salva. Il Signore ci conduce con la Sua luce, ci genera ad una vita nuova e ci insegna che con la morte nulla è finito, anzi… l’amore di Gesù si è rivelato più forte della morte!
Gli uomini privi di fede affidano ogni evento al caso, alla fortuna o viceversa. L’uomo di fede, invece, è convinto di come il caso sia nient’altro che lo pseudonimo con cui si firma Dio! Tutto accade per un disegno immenso che soltanto con la vita oltre la morte si può capire.
Chi crede in Lui, lo ringrazia per tutte le cose buone della sua esistenza!
Davvero notevole la lezione di fede e di vita che ci ha regalato suor Agnese!
Eppure, tanti anni fa non volevo proprio sapee di Lui…

Gennaio 1989
“E Dio?”. La mia risposta immediata: “Non ne ho assolutamente bisogno”.
Mi sarebbe piaciuto che esistesse, ma se ci fosse stato non sarebbe stato di sicuro di questo mondo. Ero convinto che i problemi potessero essere risolti con la volontà e con il coraggio senza l’intervento di nessuno. Per di più, le religioni erano state artefici dei più grandi conflitti. In nome di Dio si erano compiuti i più crudeli massacri e i preti erano persone fuori dal tempo che vivevano in un mondo tutto loro, spesso mi erano insopportabili.
Io credevo che ogni essere vivente dovesse godere dei propri spazi di libertà, essere autonomo, capace di tutto e padrone assoluto della propria vita.  
Spesso mi trovavo in contrapposizione con pensieri diversi, con chi pensava che l’uomo avesse nel profondo di sé un innato desiderio del ‘divino’, perché è bello pensare che continueremo ad esistere oltre la morte e che c’è qualcuno che ci protegge e ci ama. Ma io non ne avevo proprio bisogno, non cercavo una vita di speranza, tanto meno rincorrevo un percorso di immenso amore, ma soltanto forti emozioni. Tuttavia, ero sensibile al dolore degli altri e sentivo forte il desiderio della solidarietà. La mia vita era passione. Mi fidavo della gente, amavo l’umanità e chi camminava con me; amavo aiutare il mio prossimo e non per il Paradiso, ma soltanto perché era giusto farlo. Tuttavia, mi domandavo se chi credeva in Dio non lo facesse solo perché ne aveva bisogno ma sentisse qualcosa che a me sfuggiva.
Un giorno incontrai Serenella e ci sposammo. Lei aveva una grande fede. Non potevo fare a meno di osservarla quando, raccolta nell’angolo più intimo della casa, volgeva una mano in alto. Mi colpiva l’intimità con il suo Dio, traspariva con intensità e sentimento, attraverso gesti impercettibili. Era come se stesse semplicemente parlando e comunicando con qualcuno realmente presente.
Nonostante ciò il mio modo di vedere e giudicare le cose era lontano dal suo, continuavo a vivere con le mie idee ed opinioni.

Febbraio 1989
… E giunsero anche per me i così detti anni che nessuno vorrebbe mai vivere: mia moglie, nel periodo più bello della gravidanza, si ammalò e di un male incurabile.
La sofferenza la senti solo quando la provi sulla pelle e ti sconvolge, si impossessa di te e della persona che ami. Per la prima volta mi resi conto che forse l’unica possibilità che avevo per salvare mia moglie era quella di rivolgermi a quel Dio che avevo sempre rifiutato.
La grande spiritualità di mia moglie, mi portò a pensare a Cristo, venuto per annientare tutte le barriere, un Dio fatto uomo per abbracciare i lebbrosi. Un Dio degli ultimi, che non chiede la nostra purezza per avvicinarsi e tanto meno la nostra rettitudine, ma soltanto la nostra umiltà, le nostre povertà, i nostri peccati. Ed è nell’umiltà che Lui manifesta la Sua potenza. Inspiegabilmente cominciai a sentire dentro qualcosa, avevo la sensazione che ci fosse qualcuno che ci guidava, ma soprattutto che ci consolava ed aiutava, insomma non eravamo più soli!

Per un grande miracolo nacque Chiara.
Con la nostra piccola accanto, ritoò la luce abbagliante di un mattino fresco e luminoso, il buio pesto dei giorni precedenti sembrava un lontano ricordo. Così, tutti e tre cominciammo a frequentare dei luoghi dove si erano verificati eventi, grazie e guarigioni prodigiose. Stavamo facendo un cammino spirituale, con un Cristo che ci conosceva e ci amava tanto, che si era fatto uomo per noi. Gesù che a tutt’oggi tocca gli ammalati.
In quel periodo conobbi suor Agnese: una persona speciale, un’amica umile, buona, leale e generosa, che non mi ha chiesto nulla, ma dato tanto.
è per me difficile descrivere i momenti tanto intensi condivisi con lei: tanti gli incontri in sana allegria,  altrettanti quelli di preghiera, i pellegrinaggi, l’ultimo lo scorso anno a Medjugorje. Non dimenticherò mai più la sua testimonianza sul pulmann, quando ha raccontato di Serenella, di Chiara e di me. Tanto meno mi rimarrà fisso nella mente l’espressione del suo volto al ritorno della via Crucis sul Krisevac, dopo una discesa avventurosa lungo un ripido sentirnerino tra piante e salti rocciosi. Mi ha commosso ed emozionato vederla stanchissima alla base della collina, ma tanto felice. Sono convinto che proprio la Regina della pace l’abbia voluta con sé in Paradiso.
Mi ritornano altri ricordi, sensazioni, emozioni, e il mio cuore si fa triste. Tuttavia, la fede mi sussurra che suor Agnese è in Paradiso, ha soltanto cambiato vestito e ancora mi aiuterà, ancora mi guiderà e mi amerà. Ancora ci benedirà e ci indicherà un cammino che termina nel cuore di un Dio papà, perché lei è nello Spirito e lo Spirito di Dio è ovunque!
Grazie di cuore suor Agnese per la tua amicizia
Giuliano Stenghel (Sten)
Via email 25/04/12

Occhi e cuore
Sono molto devota alla Madonna Consolata e mi rincresce molto di dovervi pregare di non inviarmi più la rivista missionaria. Il motivo è che non posso più leggerla. Ho perso la vista all’occhio sinistro per la macula, malattia inguaribile, non ci sono rimedi né con farmaci né chirurgici. Con un occhio solo, anche un po’ malato, mi stanco e devo smettere. Siamo in tempo di crisi, tutto costa caro e sprecare la rivista mi rincresce. Se volete farla avere a qualche persona sola, la gradirà certamente. L’offerta per i missionari ve la farò sempre avere. Pregate per me la Madonna Consolata, perché mi aiuti e mi sostenga a sopportare questi momenti difficilissimi
Maddalena A.
Villafranca, 20/04/2012

Gentile Signora Maddalena, grazie per le sue delicate parole che ci fanno bene. L’affetto e il rammarico che le sue parole rivelano ci compensano ampiamente di altre parol(acc)e che invece ci feriscono. Non è raro che nipoti o figli mandino messaggi irritati e scortesi per disdire la rivista che un loro genitore – già sincero amico delle missioni della Consolata – ha ricevuto per anni con «devozione». Anche a loro rispondiamo ringraziando per la segnalazione. Ovviamente ci dispiacerebbe di più se la rivista fosse semplicemente cestinata, anche se nel bidone della carta da riciclare. Grazie a lei, allora e tanti auguri e benedizioni nel Signore. Sono sicuro che la Madonna Consolata avrà un occhio di riguardo per lei.

Ricordando
P. Peppino
è passata da poco la Pasqua ed è un’ottima occasione per ricordare padre Peppino Maggioni (1934 Ceusco Montevecchia, Como – 29/7/2009 Alpignano, Torino) che quasi tre anni fa è «andato a stare meglio» (come ultimamente diceva, durante la sua malattia).
La sua figura piena di vita è impressa in modo indelebile nella nostra memoria, lo vediamo ancora vigoroso, instancabile, nelle missioni del Meru dove abbiamo avuto la fortuna di incontrarlo.
Eravamo una ventina di giovani (…allora), inesperti in quasi tutto – figuriamoci dell’Africa – ma con il suo fare apparentemente burbero, Peppino ci trasmetteva sicurezza. Alla sera, alla fioca luce del generatore, dopo una giornata di lavoro, trovava ancora l’energia per raccontarci le sue esperienze e con dispiacere arrivava l’ora di andare a dormire.
Ricordiamo con nostalgia le messe domenicali celebrate spesso all’aperto, all’ombra di un grande albero (chiamato albero sacro da quelle parti) e della durata media di tre ore! I canti, le danze e soprattutto le omelie di Peppino in lingua locale. Quando lui parlava pareva che il tempo si fermasse: lo spazio si dilatava e tutti ascoltavano interessati senza fatica e senza segni di impazienza. Ci sentivamo, neri e bianchi insieme, parte di una stessa famiglia, a condividere un’unica esperienza.
Il trascorrere degli anni ci ha consentito di conoscere meglio Peppino, ma mai di capirlo fino in fondo – perché ci riservava sempre qualche bella sorpresa. Ci sembra ancora di vederlo venirci incontro ad Alpignano con il suo passo affaticato, ma sempre sorridente, pronto ad ascoltare ed incoraggiare.
Dopo la sua morte il gruppo dei Chukini (così ci battezzò nel 1982 al nostro primo incontro a Chuka) si è rinsaldato, cerchiamo di realizzare qualche piccolissima iniziativa per essere  d’aiuto ad altri missionari e ogni anno a settembre ci ritroviamo in corso Ferrucci per una messa che dedichiamo a Peppino.
Non è una messa per un morto, siamo sicuri che Peppino è più vivo che mai e con la messa vogliamo incontrarlo, ringraziarlo ed ascoltarlo perché lui continua a parlarci del suo amore per Gesù e per gli uomini e a suggerirci che è questa l’unica strada per vivere!
Ciao Peppino.
Roberto Rivelli e gli amici di p. Peppino di Torino




Cari missionari

Ai lettori

Specie in via di estinzione
[…] Non sono missionario e, men che meno, un praticante modello (frequento assiduamente solo nei miei soggiorni in terre di missione perché sento una partecipazione attiva pressoché dimenticata da noi). Lungi quindi da me voler sputare sentenze. Posso solo esprimere un pensiero basato su ciò che vedo quando mi capita di accompagnare missionari in determinate zone. La mia convinzione è che la figura del missionario sia un poco cambiata. Spesso, nelle priorità del missionario viene l’Uomo e le difficoltà che quest’Uomo si trova quotidianamente a fronteggiare nonostante siamo entrati nel terzo millennio e il consumismo abbia quasi ovunque raggiunto livelli assurdi. In molti dei soggiorni fatti ho tuttavia notato la presenza sempre più numerosa di laici (giovani e medici soprattutto) che sentono la necessità di dare un contributo costruttivo. Questa è già, a mio avviso, una risposta. Gente che sente il richiamo della missione ce n’è ancora tanta (anzi, forse in aumento), ma nella maggior parte è gente che preferisce dare un aiuto concreto senza essere legato a ordini religiosi, alle loro regole e gerarchie.
Ovvio che questi volontari siano ospitati in realtà create negli anni da missionari. Non si può disconoscere la grandezza di alcuni di loro (noti o totalmente sconosciuti) vista la straordinarietà delle loro opere, realizzate in condizioni incredibili. Persone umili ma grandi che hanno lasciato, e continuano a lasciare, eredità importanti convertendo più con l’esempio, che con le parole.
Le comunità che hanno seguito l’esempio di questi straordinari personaggi, non si disperderanno così facilmente, anche se mancherà un… direttore di colorito e lingua diversa. I protagonisti che per motivi anagrafici o di salute hanno dovuto forzatamente abbandonare, possono a mio avviso stare tranquilli. Ciò che hanno seminato continuerà a germogliare e, quasi sicuramente, a moltiplicarsi.
La mia conclusione è tuttavia un po’ provocatoria. In questo momento, alla luce di quanto sta succedendo in molti paesi, più che di conversione c’è bisogno di collaborazione. Più che di muro contro muro fra religioni diverse, c’è bisogno di un maggior spirito ecumenico. I giovani, questo, lo cominciano ad avvertire.
Cordiali saluti

Mario Beltrami
Via email, 30/03/2012

Grazie di averci scritto. Mi permetta solo pochi commenti. «Muro contro muro»: nel mondo missionario oggi si dice che il nuovo nome della missione è «dialogo» oltre che ecumenismo. L’ecumenismo è un «affare» interno tra cristiani (anche se divisi). Il dialogo avviene tra religioni diverse, meglio tra persone di religioni diverse. Le assicuro che oggi i missionari e la Chiesa tutta stanno investendo molto sul dialogo.
I laici: la missione non è un monopolio di preti e religiosi. Ogni cristiano, in quanto tale, è missionario. Ben vengano quindi i laici che, tra l’altro, possono essere testimoni del Vangelo in ambienti irraggiungibili dai preti. Ovviamente i laici non sono una alternativa ai missionari, e questo lo dice anche lei, perché i missionari hanno tre assi nella manica rispetto ai laici: la continuità, la Parola e l’Eucarestia. L’annuncio della Parola fa nascere la comunità cristiana, l’Eucarestia la nutre. La continuità – garantita non dal singolo missionario, ma dalla sua comunità, istituto o ordine – è essenziale per un’azione incisiva e profonda sia nell’annuncio che nel dialogo.
Grazie comunque dell’affetto che ha per i missionari. Continui ad essere missionario con noi, diventando magari un animatore di partecipazione e di vita cristiana più giorniosa anche a casa sua.

Dossier: l’Arca secondo Anna
In qualità di Sessantottina pentita, non condivido la risoluzione di Anna. Uscire dal Sessantotto per infilarsi da qualche altra parte potrebbe significare «cadere dalla padella alla brace». Del Sessantotto ci si libera facendo un lungo, lunghissimo cammino interiore, anche da soli, vivendo una vita normale, osservandone tutti i risvolti e comparandoli con le ideologie del Sessantotto. Sempre ovviamente con l’aiuto del «Dominus» che tutto sa e tutto conosce.
Quanto a Gandhi, ci sarebbe tanto da dire. L’India non mi pare cambiata di molto, la condizione delle bambine, delle vedove indiane e delle donne in particolare non mi sembra migliorata grazie all’opera di Gandhi, come neppure le enormi disparità fra cittadini. Gandhi ha solo cacciato gli inglesi, ma non ha fatto nulla per impedire che le vedove venissero bruciate sul rogo insieme alle salme dei mariti.
Io, su Missioni Consolata, vedrei bene anche un dossier su ciò che sta facendo in India la nostra Sonia Maino. Si è deitalianizzata e sta lasciando cadere l’acqua dove cade. Bel modo di «lavarsene le mani», non c’è che dire.
Giovanna Elies
Via email, 05/04/2012

Probabilmente nel dossier non emerge abbastanza, ma quello che ha fatto uscire Anna dal Sessantotto non è stato né Lanza del Vasto né Gandhi, ma l’incontro con Gesù Cristo favorito dalla semplicità, essenzialità e spirito ecumenico e dialogico della comunità dell’Arca. I limiti di Gandhi ci sono, ma neppure Gesù è riuscito a togliere certi mali tutto in un colpo. Pensi solo a quanti anni hanno impiegato i cristiani a capire che la schiavitù non è secondo la volontà di Dio… La saggezza di una persona si riconosce anche dalla sua capacità di prendere il bene là dove è, perché il bene è sempre opera di Dio. Da quello che ho capito io, Lanza del Vasto è uno che prima di tutto ha incontrato Gesù, e poi anche Gandhi da cui ha preso stimoli per una scelta di vita più sobria e nonviolenta. Quanto a Sonia, penso sia meglio lasciare ad altre riviste non missionarie il lavoro di dossieraggio. La situazione a cui indirettamente lei si riferisce è molto delicata e dolorosa per tutti, sia per i nostri connazionali che per le famiglie dei pescatori. Speriamo solo che prevalga la giustizia e non la strumentalizzazione politica sia in India che in Italia.




Cari missionari

Lettere

Terra d’Emilia addio
Alla fine dell’ottobre scorso i missionari della Consolata hanno definitivamente (ma si spera provvisoriamente) lasciato la parrocchia di S. Valentino di Castellarano (Re). Le cronache riportano la presenza dei missionari della Consolata in questa terra d’Emilia già dal 1929. Dopo la pausa bellica sono tornati a Sassuolo (Mo) dove hanno fondato la parrocchia che ancora porta il loro nome e dove sono stati fino al 1992 quando si sono trasferiti al di là del fiume Secchia, nella bellissima collina reggiana. Qui li ho conosciuti nel 1998 al ritorno da un viaggio missionario in Tanzania, quando la parrocchia era retta da p. Enrico Rossi (1935 – 2001). Da allora fino adesso, così come tanti altri frequentatori della missione, ho condiviso la mia vita e la mia storia con loro. Ciascuna delle persone che frequentava la missione ha i suoi ricordi, io ho i miei. Ricordo p. Filosi Beardino condividere con me un goccio di vino da messa di nascosto dopo aver lavorato nell’orto (il Signore l’ha chiamato al banchetto celeste solo pochi giorni fa, il 16 marzo 2012, aveva 64 anni, ndr.). Ricordo p. Svanera (Beppe) parlare della Colombia e i volti di tutti i missionari che passavano di qui per rendere testimonianza nelle varie serate missionarie. Ricordo con grande commozione le estati di studio passate presso di loro e i giovani di Bevera che assieme a p. Mario (Viscardi) venivano in ritiro da noi. Ricordo i tanti Natali e le tante Pasque passate con loro, come se fossimo tutti una famiglia. Ricordo con immenso affetto la saggezza e la bontà di p. Colusso (Giovanni Battista, 1915 – 2007) e di p. Massano (Carlo, 1929 – 2012), scomparso il 5 febbraio scorso, le chiacchierate di latino con p. Antoniani (Athos) e le tante cene animate in compagnia dei vari amici della Consolata. Ricordo p. Sottocoa (Tommaso) celebrare il mio matrimonio.
Ricordo tantissimi avvenimenti che rimarranno per sempre indelebili nella mia mente e nel mio cuore. Quanta parte delle nostre vite è legata a loro! La loro porta era sempre aperta per chiunque. Per me e mia madre, i missionari sono stati una seconda famiglia, soprattutto dopo che abbiamo perso la prima. Non ho mai visto mia madre così felice ed appagata come quando ha prestato servizio per loro, acquisendo il giocoso titolo di madre superiora della casa. Quando ho conosciuto i missionari mi sembrava strano chiamarli «padri». Adesso che se ne sono andati ne capisco il senso, poiché mi sento orfano di loro. Mi sento perciò di ringraziare dal più profondo del cuore (e sono sicuro di farlo a nome di tante persone) tutti i missionari che si sono avvicendati qui a S. Valentino. Il vostro ricordo rimarrà per sempre qui da noi, dove avete dato tanto frutto.
avv. Alessio Anceschi
via email, 24/02/2012
 
KONY 2012
Cari amici missionari,
mi sento un po’ stupida di fronte al filmato che mi ha mandato mia nipote, 18 anni, maturità classica il prossimo giugno. Dopo un momento di sgomento ho pensato a voi, che mi conoscete, siete gli unici di cui mi fidi. (Il filmato è quello di Kony 2012 @ http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded &v=VpS0tEpclzs – che è stato visto da quasi cento milioni di persone, ndr.).
Siete tutti giornalisti, conoscete i segreti del marchingegno, amate i ragazzi, sapete come sono. Io nonna mi sento in bilico: da un lato sono contenta di poter raccogliere quanto il nonno ed io nel tempo, tramite i figli, abbiamo seminato anche nei nipoti; dall’altro non mi fido del marchingegno, delle trappole pubblicitarie, dei facili entusiasmi. Me l’avete insegnato voi. Sono diffidente ed entusiasta allo stesso tempo. Voi siete “smaliziati”, potete dirmi se la cosa è valida, reale, vera, affidabile ecc. Faccio girare? Deludo mia nipote? Cosa le racconto?
Nonna Paola
via email, 13/03/2012
Purtroppo la storia di Joseph Kony e della sua Lord Liberation Army (Lra) è vera. Lui e la sua gente hanno fatto disastri in Uganda, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana e nord del Congo. I fatti riferiti nel video riguardano l’Uganda e sono anteriori al 2008 quando la
Lra ha praticamente abbandonato il paese per continuare le sue azioni disastrose nelle nazioni vicine. La Lra è stata poi molto attiva nel Sud Sudan (con l’appoggio – si dice – del Nord Sudan). Le azioni di guerriglia e terrorismo si sono poi estese alla Repubblica Centrafricana e al nord del Congo. Due delle nostre missioni, Bangadi e Doruma, ai confini con il Sud Sudan, sono state ripetutamente assalite e saccheggiate, costringendo i missionari e la gente ad abbandonarle.
Qualcuno dice che il film fa leva sulle emozioni e semplifica le situazioni; in Uganda è stato accolto con molto criticismo, ma mons. Juan Jos Aguirre, vescovo di Bangassou nella Repubblica Centrafricana – dove la Lra ha ora le sue basi -, ha detto che il film ha il merito di portare questa guerra dimenticata all’attenzione del mondo. Certo non è tutto chiaro quello che sta dietro – e chi sta dietro – a questa propaganda.
Di positivo c’è che da molto tempo non si parlava più di Kony, anche se la sua Lra è ancora ben attiva e continua a fare danni, sfruttando la complicità di tanti che hanno interesse a mantenere l’instabilità in una regione ricchissima di risorse e in balia degli speculatori inteazionali.
La Caritas del Congo RD ha appena iniziato un programma di reintegrazione economica per 28.000 delle 320.000 persone che sono state fatte fuggire dalla violenza della Lra nell’Alto e Basso Huele, dove ci sono stati ben 12 attacchi solo in questi primi tre mesi del 2012, con 17 persone rapite. Queste finiscono per fare i portatori se adulti, schiave sessuali se ragazze e bambini soldato se maschietti. A tutti questi vanno aggiunti oltre 30mila congolesi che si sono rifugiati nella Repubblica Centrafricana. Forse nell’Uganda si tratta ormai di rimarginare le ferite e guarire la memoria, ma in altre parti del centro Africa si continua a vivere nel terrore a causa di Kony e del suo folle esercito.