Rdc. Allagamenti in tutto il Paese

A inizio anno la piena del fiume Congo ha toccato 14 province sulle 26 totali. Il livello del fiume ha superato i 6 metri, quando 6,26 è il record assoluto. Il fiume è straripato in seguito alle piogge torrenziali del 4 gennaio scorso. Diverse strade e abitazioni di Kinshasa sono state colpite.

Le inondazioni sono state significative, soprattutto nei comuni che si affacciano sul fiume. Si tratta, in particolare, di Ngaliema, Bumbu, Limete e Maluku. Nel comune di Ngaliema, le acque hanno sommerso tutto, rendendo ancora più precarie le condizioni di vita già difficili della popolazione.

Nei comuni di Limete e Bumbu, dove le strade sono diventate impraticabili, le attività commerciali stanno affrontando molte sfide. Gli ambulanti sono i più colpiti da questa calamità. Inoltre, la maggior parte dei negozi non è più accessibile.

Vie e strade allagate, le persone usano le barche tradizionali o vanno a piedi per accedere alle loro attività quotidiane o ai loro affari, con il rischio di contrarre diverse malattie dalle acque inquinate.

Un magazzino divelto ha liberato il suo contenuto (bottiglie di bibite) nelle acque. Foto Archivio MC.

La popolazione cerca di costruire muri protettivi che possano aiutarla a prevenire il danneggiamento delle case: è l’unico modo per mettere in salvo le proprietà. Ma la situazione rimane insostenibile. La gente attende disperatamente che le autorità municipali intervengano in loro aiuto.

Kinshasa non è l’unica città colpita da queste piogge torrenziali. Anche molte altre province sono state coinvolte. Tra queste, la provincia del Kivu nella parte orientale del Congo, Boma, nella zona occidentale e Kananga nel centro. Tutte hanno dovuto affrontare gravi inondazioni e frane.

Trecento persone hanno perso la vita, circa 43mila case sono crollate. Inoltre, 1.325 scuole, 269 dispensari e 85 strade sono stati distrutti, e persiste un alto rischio di epidemie causate dalle acque.

Con la stagione delle piogge in corso, le popolazioni congolesi potrebbero affrontare ulteriori problemi di questo tipo, a meno che non vengano prese precauzioni urgenti. Kinshasa, come altre province, ha bisogno di un’adeguata pianificazione urbana per evitare disastri analoghi nel futuro.

Nel frattempo, le popolazioni colpite hanno bisogno di aiuto immediato.

Jean Kamuanga

In moto “sulle” acque, nei pressi di Kinshasa. Foto Archivio MC.




Pakistan. Sotto scacco dei militari

Venerdì 5 gennaio, alla periferia di Islamabad, in pieno giorno, una motocicletta con due uomini dal volto coperto si avvicina a un’auto. Uno degli uomini spara una raffica di proiettili contro la vettura. L’ attacco uccide il passeggero e ferisce gravemente l’autista.

L’uomo deceduto si chiamava Masoodur Rehman Usmani, leader e portavoce del movimento Sunni ulema council (Suc), organizzazione sunnita molto attiva nella politica pachistana. Leader carismatico per i religiosi del suo Paese, terrorista per gli Stati confinanti, Usmani era stato più volte accusato di fomentare l’odio verso l’India. Rivalità, quella tra Pakistan e India, che sembra ben lontana da una soluzione.

Dopo questo ennesimo attentato, e in vista delle elezioni dell’8 febbraio, la tensione in Pakistan cresce giorno dopo giorno. Continui sono gli arresti. Il 13 gennaio, a Peshawar sono stati fermati due sospetti terroristi, mentre pianificavano un attacco suicida contro una scuola sciita. L’opinione comune, largamente condivisa, è che le elezioni non si potranno tenere a febbraio, ma verranno posticipate a data da destinarsi.

La Moschea di Masjid Baadshahi conosciuta anche come la Moschea Imperiale, è uno dei simboli religiosi del Pakistan. (Foto Angelo Calianno)

Adam (nome di fantasia) è un imam della moschea di una piccola comunità alle porte di Islamabad. Mi spiega il perché: «Se ci fossero davvero le elezioni, le strade sarebbero piene di manifesti elettorali e volantini. Ci sarebbero comizi e camion con bandiere ovunque. Non hai idea di quanto chiasso e fermento c’è nel Paese durante questi eventi. Non vedi nulla perché, anche se si dovesse votare, nessuno ha speranza che le cose possano cambiare. Chiunque andrà al potere, sarà sempre sotto il controllo militare, sono loro che comandano. Lo vedi quello che accade: omicidi, rapimenti, attacchi terroristici. Il Paese ha tante risorse, ma vengono tutte controllate dai militari. L’inflazione è altissima e la gente è arrivata al limite della sopportazione».

I principali candidati alle elezioni di febbraio saranno (o dovrebbero essere): Bilawal Bhutto Zardari, esponente del Partito popolare di centrosinistra (Ppp), e Nawaz Sharif, leader del Partito conservatore islamico (Pml-n). Nawas Sharif è stato già primo ministro, per tre volte. Si è ricandidato in Pakistan dopo quattro anni di autoesilio all’estero.

Nessun candidato, però, ha rimpiazzato nel cuore dei pachistani l’ex primo ministro Imran Khan. Il carismatico leader del Pakistan Tehreek-e-Insaf (Movimento per la giustizia in Pakistan) dal 2023 si trova in carcere. Kahn è accusato di oltre 150 reati, tra cui quello di corruzione. Crimini da lui sempre negati.

A Lahore, incontriamo un giovane ricercatore universitario. Sostenitore di Kahn, mi racconta: «Non crediamo che possano esserci elezioni regolari. I militari, in diverse forme, sono ovunque: intelligence, polizia, esercito. Non può esserci una democrazia così. Ufficialmente possiamo anche avere un presidente, un primo ministro, un parlamento. Ma sono trent’anni che chi governa davvero il Paese è lo Stato maggiore militare. Controllando le forze armate e la sorveglianza, questi possono fare tutto quello che vogliono e nessuno ha il coraggio di andargli contro. Chi ci prova fa una brutta fine: guarda cosa è successo a Imran Kahn o a chi ha supportato la causa dell’indipendenza del Balocistan: la gente sparisce, senza lasciare traccia».

Il 2023, per il Pakistan, è stato l’anno record dei morti legati a terrorismo e conflitti interni. Un report del The Hindu, testata che monitora la geopolitica in Asia, riporta oltre 1.500 morti e 789 attacchi terroristici negli ultimi 12 mesi.

Nel frattempo, in questi giorni, un’enorme marcia è arrivata a Islamabad da Quetta. Migliaia di persone hanno camminato dal Balocistan, per protestare contro il governo per le violenze e le sparizioni, avvenute nella regione ai confini con l’Afghanistan. Oltre a quest’ultimo caso, lo Stato dovrà affrontare il problema di migliaia di profughi afghani che arrivano qui ogni giorno, il malcontento generale per l’economia in crisi e la presenza del terrorismo. Con questi presupposti, pochissimi credono nella possibilità di elezioni regolari e in sicurezza.

A Islamabad, sono lunghissime le file di persone fuori dalle ambasciate straniere. L’obiettivo di tantissimi, e unica soluzione per il loro futuro, sembra soltanto quella di cercare asilo in un altro Paese.

Angelo Calianno da Islamabad

 




A Charkiv per essere vicini


Carissimi amici,
all’inizio del nuovo anno abbiamo fatto il primo viaggio del 2024, il decimo da quando è scoppiata la guerra in Ucraina. Il tempo trascorre velocemente e purtroppo possiamo dire che la situazione non migliora, anzi per alcuni aspetti è decisamente peggiorata. Negli ultimi mesi il conflitto in Palestina ha spostato l’interesse dei media su quel luogo con le relative conseguenze. Si constata anche una comprensibile stanchezza nelle persone nel sostenere per un così lungo tempo una crisi di cui ancora non se ne vede l’uscita. Anche la relazione tra Ucraina e Polonia ha visto ultimamente momenti difficili quando, ad esempio, alcune categorie hanno protestato per motivi collaterali alla guerra, come hanno fatto i trasportatori polacchi che hanno bloccato per settimane le frontiere per protestare per i mancati guadagni che sono andati a vantaggio dei loro colleghi ucraini che beneficiano di sgravi derivanti dal conflitto in atto.

Purtroppo, il conflitto continua senza sconti. Lungo gli oltre 1.000 km del fronte, stime non ufficiali raccolte sul posto, parlano di circa 200- 300 morti al giorno tra i soldati ucraini. Da parte russa il numero va almeno raddoppiato. Occorre anche ricordare che siamo in pieno inverno con tutti i disagi che questo comporta.

11-12 gennaio 2024: Warszawa –Kiev-Charkiv

Il viaggio per arrivare a Charkiv ci impegna due giorni, il tempo necessario  per coprire i 1300 km dopo esserci fermati per riposare a Kiev.

La prima cosa che facciamo appena arrivati è quella di cercare un autolavaggio per pulire la macchina piena di neve e di sale a causa delle condizioni stradali che ci hanno accompagnato per tutto il viaggio. L’auto era talmente sporca che non si poteva nemmeno leggere la targa. La temperatura è di 17 gradi sottozero con un vento che rende ancora più fredda la temperatura percepita.

Troviamo Don Wojciech, il direttore della Caritas locale, chiuso nella sua camera a motivo di un brutto raffreddore che lo ha colpito e che non gli permette di uscire.

La notte trascorre abbastanza tranquilla. Solo qualche sirena e il volo di alcuni droni (usati sempre più spesso nel conflitto) sopra la città, tuttavia senza conseguenze.

La mattina incontriamo un gruppo di bambini presso il centro Caritas dove aloggiamo, a fianco della cattedrale della città. Abbiamo con noi degli zaini scolastici pieni di pennarelli e quaderni preparati dai bambini della scuola elementare di Valmorea (Como). I bambini ucraini aprono con gioia e sorpresa i loro doni, trovando anche delle letterine scritte dall’Italia: coraggio, vi siamo vicino, presto passerà … sono le frasi più ricorrenti che traduciamo. I bambini ucraini si mettono subito al lavoro per rispondere ai loro coetanei e registriamo anche un video per mandare saluti e ringraziamenti.

I bambini ucraini aprono con gioia e sorpresa i loro doni trovando anche delle letterine scritte dai bambini della scuola elementare di Valmorea

Con l’aiuto di un volontario siamo accompagnati per la città e nei dintorni per vedere gli ultimi luoghi colpiti. Tra questi ci sono hotel, case e scuole colpiti due giorni prima del nostro arrivo, obbiettivi tutt’altro che militari… (foto 5,6,7 nello slideshow)

La città di Charkiv, ricordiamo che la seconda per grandezza del paese a poche decine di chilometri dal confine ad est con la Russia, si sta lentamente ripopolando. Dopo essersi svuotata con lo scoppio della guerra, progressivamente le persone stanno ritornando. In questo tempo si stanno aggiungendo molti che vengono volontariamente o forzatamente portati in città dai villaggi della regione vicini al fronte, per motivi di sicurezza o semplicemente per la mancanza di condizione minime per la sopravvivenza durante l’inverno. (Foto 8,9,10 nello slideshow)

13 gennaio 2024: Charkiv-Hrakove-Charkiv

Nel pomeriggio siamo raggiunti da sr. Camilla, una suora polacca delle Piccole Missionarie della Carità fondate da don Orione. Sr. Camilla insieme alla sua comunità è molto impegnata in diversi progetti. Ci accompagna a vederne uno di questi a Hrakove un piccolo villaggio tra Charchiw e Izum.

Il villaggio di Hrakove, prima occupato e poi liberato, si presenta mostrando tutte le sue ferite. Le case sono quasi tutte semidistrutte così come l’asilo e le costruzioni attorno. Neanche la chiesa ortodossa è stata risparmiata dagli attacchi. Dappertutto ci sono cartelli e nastri che avvertono di tenere la distanza a motivo della presenza di mine nel terreno.  (Foto 11,12,13,14,15,16 nello slideshow)

La strada completamente ghiacciata finisce di fronte alla casa dove lavorano Nina e suo marito Alesandro. Nina è una giovane donna di Charkiw che ha sposato Alessandro nativo di questo villaggio. Sono tra le 200 persone rimaste ancora qui oggi. Prima della guerra se ne contavano 800. Nina avendo lavorato in una fabbrica di cucito ha imparato bene il lavoro. Ora con il nostro aiuto ha ricevuto delle macchine da cucire dalla Polonia con delle stoffe e del materiale per lavorare. La sua idea è quella di provare a iniziare una sua produzione per poter immaginare e costruire un futuro, non solo per se stessa, ma anche per alcune donne del villaggio a cui insegna il mestiere di sarte. Per il momento la produzione è inziale e viene fatta solo su ordinazione. Lo stesso vescovo locale, Pavlo Honcharuk, ha fatto degli ordini, così anche sr. Camilla che, disponendo di alcune offerte, fa preparare abiti da distribuire poi in altri villaggi a coloro che non si possono permettere gli acquisti. (Foto 17,18,19 nello slideshow)

L’iniziativa è davvero interessante e unica in una situazione così ancora fragile e ancora aperta a ogni possibile scenario. Dopo una lunga chiacchierata fatta a fianco della stufa e bevendo un buon tè caldo, facciamo ritorno in città.

Nina nel suo laboratorio di cucito con alcune donne del villaggio a cui insegna il cucire a macchina.

14 gennaio 2024: Charkiv

La domenica mattina salutiamo il vescovo Pavlo (Paolo) e i sacerdoti che ci hanno accolto per dirigerci verso la comunità di sr. Camilla. Lì lasciamo gli aiuti che abbiamo portato. Tra questi un generatore di corrente, materiale scolastico raccolto in Italia da Eskenosen (associazione di famiglia di Como) e abiti invernali. Presso la casa delle suore vivono delle giovani madri con i loro figli. Le incontriamo distribuendo a loro dei pacchi regalo preparati dai bambini del catechismo di Civiglio e Brunate (Como). Anche loro contraccambiano i doni ricevuti con dei tradizionali biscotti alla cannella che hanno preparato e che porteremo in Italia.

Celebriamo insieme la Messa domenicale e, dopo un veloce pasto, ritorniamo a Kiev.

15 gennaio 2024: Kiev-Varsavia

Di buon mattino ci rimettiamo in viaggio verso Varsavia. Strada facendo troviamo improvvisamente in un corteo funebre. Una lunga fila di auto accompagna la salma di un soldato, avvolta dalle bandiere. Durante il lungo il tragitto notiamo che tutti mezzi che viaggiano dalla parte opposta si fermano in segno di rispetto. Gli autisti scendono dalle macchine, si tolgono il cappello e spesso si inginocchiano nella neve e nel fango per rendere onore a coloro che hanno dato la loro vita per garantire la libertà al paese. Durante il tragitto quando attraversiamo un paese, anche i bambini delle scuole e dell’asilo escono per salutare la salma. I funerali celebrati sono tanti. Foto 20 video 5-6

In serata in mezzo a una bufera di neve che da tempo non si vedeva facciamo rientro a Varsavia.

Luca Bovio
(missionario della Consolata in Polonia)

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Taiwan. Vince Lai, ma perde il parlamento

 

Non è stato un voto radicale. Nonostante le interpretazioni che ne sono state date a livello internazionale, le elezioni presidenziali e legislative di Taiwan di sabato 13 gennaio non hanno segnato un punto di rottura, né una svolta definitiva. Forse, nemmeno decisiva per stabilire il futuro delle relazioni con la Cina continentale.

La vittoria di Lai Ching-te del Partito progressista democratico (Dpp) è percepita dai taiwanesi come l‘esito di una dinamica prettamente interna, non inclusa dalle cornici retoriche da campagna elettorale scelte dai due partiti principali: scelta tra guidata dal Kuomintang (Kmt) e scelta tra «democrazia e autoritarismo» per il Dpp. La sensazione della maggior parte degli elettori è che, recandosi ai seggi, non stessero per decidere le sorti di un ipotetico conflitto, né stessero favorendo o impedendo una potenziale «unificazione» (o riunificazione come la chiamano a Pechino).

Sarà anche per questo che, in realtà, il risultato non è così netto come potrebbe sembrare a un primo sguardo. Lai ha vinto, ma raccogliendo il 17% in meno di quanto aveva ottenuto la presidente uscente Tsai Ing-wen alle presidenziali del 2020. In termini specifici, il suo 40% conta 5,5 milioni di voti contro gli oltre otto milioni di quattro anni fa. Abbastanza per battere il candidato del Kmt, l’ex poliziotto e attuale sindaco di Nuova Taipei Hou Yu-ih, che si è fermato al 33%.

A favorire il successo di Lai c’è stata anche la rottura dell’accordo per una candidatura unitaria nell’opposizione, che ha prodotto per la prima volta da tanto tempo una terza opzione forte per gli elettori taiwanesi: Ko Wen-je del Partito popolare di Taiwan (Tpp). Il suo 26% è un risultato più che ragguardevole, considerando che la scena politica taiwanese è tradizionalmente dominata dal bipolarismo tra Dpp e Kmt. In realtà, Ko non ha sottratto voti solo al Kmt, ma anche al Dpp. Soprattutto nel bacino dell’elettorato più giovane, spesso convinto da una proposta elettorale che si è autodefinita Se sulle presidenziali il netto calo del Dpp non si tramuta in problemi concreti, visto che nel sistema elettorale taiwanese per il ramo esecutivo il Tanto che l’ago della bilancia sarà proprio il Tpp di Ko, che coi suoi 8 seggi è l’unica altra forza politica ad aver superato lo sbarramento del 5%. Non ce l’ha fatta nemmeno il New power party, la formazione nata dal Movimento dei girasoli, il grande fenomeno di proteste del 2014 contro l’allora amministrazione Kmt di Ma Ying-jeou, molto dialogante con Pechino. Con il suo «responsabile» e provando a spolpare ulteriormente i partiti tradizionali in vista delle presidenziali del 2028, che, subito dopo la fine dello spoglio del 13 gennaio, Ko ha detto che vincerà sicuramente, di fronte ai suoi sostenitori delusi.

Questo frazionamento interno potrebbe incidere non solo sulle dinamiche politiche taiwanesi, ma anche sulla postura della Cina continentale. È interessante in tal senso un segnale arrivato dal comunicato dell’Ufficio degli Affari di Taiwan di Pechino, poche ore dopo la vittoria di Lai. Oltre a ribadire la storica posizione della ». Un modo per rivendicare una parziale vittoria, ma forse anche per esercitare pazienza nel breve termine, attendendo la nomina del presidente del parlamento (che si insedia il primo febbraio) e ancora di più il discorso di insediamento di Lai, prima di adottare una postura troppo aggressiva o comunque mandando segnali di discontinuità di fronte alla linea della pressione già adottata dal 2016, cioè da quando il Dpp è al potere.

Lai, dal canto suo, ha vinto anche riuscendo a convincere gli elettori che il suo obiettivo è tutelare lo status quo. Dunque niente unificazione ma nemmeno dichiarazione di indipendenza formale. Gli stessi Stati Uniti potrebbero chiedere delle garanzie in tal senso. Washington apprezza molto la leader uscente Tsai per la sua cautela ma anche per la sua prevedibilità. Caratteristica che sembra mancare al focoso Lai, a cui gli Usa potrebbero chiarire di voler mantenere le comunicazioni aperte con Pechino. In attesa quantomeno delle prossime elezioni per la Casa Bianca, l’altra variabile che potrebbe cambiare le regole di un gioco sempre più complicato.

Lorenzo Lamperti, da Taipei




Carceri Italia. Tre metri quadrati a testa

 

Inasprire le pene è utile per i consensi elettorali ma inutile per migliorare la convivenza civile. Intanto i carcerati vivono sempre peggio.

Da mesi l’inasprimento delle pene e l’introduzione di nuovi reati sembra essere diventata la principale risposta (inutile) dello Stato alle «emergenze» sulle quali si focalizza periodicamente la cronaca nazionale: dalla violenza di genere alle gang giovanili, dalle proteste ambientaliste alle rivolte nelle carceri, e così via.

Il populismo penale produce consensi elettorali, ma non aiuta a risolvere i problemi. E ha tra le sue conseguenze la violazione sempre più frequente dei diritti delle persone incarcerate. Queste aumentano di numero senza vedere aumentare gli spazi e migliorare la qualità della vita dietro le sbarre.

Due dati possono dare un’idea delle condizioni disumane nelle quali vivono molti detenuti (e, spesso, anche il personale che nei penitenziari lavora): la densità di popolazione ristretta e il numero di suicidi.

 

Al 31 dicembre 2023, secondo i dati del ministero della Giustizia, la popolazione carceraria era di 60.166 persone. L’associazione Antigone, che si occupa dei diritti delle persone in carcere, indica in un suo breve report che la capienza complessiva effettiva del sistema carcerario è di circa 48mila posti, e sottolinea il fatto che i detenuti abbiano in media meno di 3 metri quadrati a testa a disposizione nelle proprie celle.

Tra le carceri visitate dall’associazione ve ne sono alcune che ospitano il doppio dei detenuti rispetto alla capienza della struttura: a Brescia il 200%, a Foggia il 190%, a Como il 186%, solo per fare alcuni esempi. Questo significa che in uno spazio per due persone vivono in quattro. Celle nelle quali manca troppo spesso il riscaldamento (9% delle strutture monitorate da Antigone), l’acqua calda e la doccia (52,2%), uno spazio separato per il wc (4,5%).

 

Il secondo dato da sottolineare è quello relativo ai suicidi. Nel 2023 si sono tolte la vita in carcere 68 persone. L’età media era di 40 anni. Quindici tra loro non ne aveva più di 30 (questi e altri dati sono consultabili al questo link).

Se consultiamo il sito del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, troviamo maggiori dettagli, benché gli ultimi dati si riferiscano al 2022: su una popolazione carceraria che in quell’anno contava 55mila detenuti, se n’erano suicidati 85. L’età media era di 40 anni. I più giovani avevano 21 anni. Il più anziano 83. Trentasei erano stranieri, 20 dei quali senza fissa dimora. Fa riflettere il dato riguardante gli stranieri: essi rappresentano il 31,4% della popolazione carceraria, ma il 42% dei suicidi.

In generale è impressionante il confronto tra il numero di suicidi riferito alla popolazione italiana (0,6 ogni 10mila persone) e il numero di quelli riferiti alla popolazione carceraria (15 ogni 10mila nel 2022, 11 ogni 10mila nel 2023: tra le 19 e le 25 volte più frequenti).

Accanto ai dati «grezzi» sui suicidi in carcere, l’Associazione Antigone ne riporta altri che aiutano ulteriormente a comprendere il contesto: «Nel corso del 2023, negli istituti visitati da Antigone, si sono registrati in media ogni 100 detenuti 16,3 atti di autolesionismo, 2,3 tentati suicidi, 2,3 aggressioni ai danni del personale e 4,6 aggressioni ai danni di altre persone detenute». Ci sono state 13 diagnosi psichiatriche gravi ogni cento detenuti, sono stati somministrati farmaci stabilizzatori dell’umore, antipsicotici, antidepressivi a 19,2 detenuti su cento, sedativi e ipnotici a 38,4 su cento.

 

Per dare un volto umano e una storia ad almeno uno dei tanti che per l’opinione pubblica rischiano di rimanere solo numeri, vale la pena riportare alcuni stralci di una lettera datata 9 gennaio 2024, diffusa via newsletter dalla rivista «Ristretti orizzonti», scritta da Manuela Mezzacasa, una professoressa volontaria al carcere Due Palazzi di Padova, sul suicidio di un suo ex studente ventiseienne detenuto da pochi mesi:

L’ultima volta che l’ho intravisto […] camminava mestamente davanti a me nel corridoio con un agente […]. L’avevo riconosciuto dalla camminata e dalla figura, piuttosto massiccia.
In biblioteca invece mi avevano colpito lo sguardo e il modo di muoversi […]. Prof, ma aveva i capelli lunghi e biondi…. Già, e lui era un ragazzino molto speciale.

Ci era capitato tra capo e collo all’inizio dell’anno […]. Mai frequentato regolarmente la scuola […]. È stato mio alunno per due anni, prima e seconda media, alla fine ce l’avevamo quasi fatta. […]. Poi l’abbiamo bocciato, devo dire così perché il voto è di maggioranza, ma ovviamente non ero d’accordo.
Così l’anno dopo lui aveva perso i compagni, che nel frattempo gli si erano affezionati, e gran parte degli insegnanti. […].
Spesso mi aveva parlato di sé e della sua famiglia, veniva da Chioggia, suo padre pescatore. […] Il suo mondo erano il mare e un cantiere di sfasciacarrozze dove passava le giornate con una banda di ragazzini, invece di andare a scuola. Lui sapeva più di me, senza dubbio. Scriveva bene, era sveglio, curioso, buono, si può dire?
Ho conosciuto la madre e il padre, gli volevano bene, non ce la facevano a stargli dietro, non ricordo quanti figli avessero. […] Mi diceva “Non vedo l’ora di avere diciotto anni” “E cosa farai?” Rideva “Torno a Chioggia”.

[…] Ecco, in mezzo ai libri ci siamo ritrovati […]. Abbiamo parlato, dei suoi progetti, la musica, la scrittura. Il secondo giovedì si interessò al concorso di poesia che stava per scadere; con la collaborazione di Enrico riuscimmo a spedire per il rotto della cuffia una poesia dedicata a una ragazza. […]. Il terzo giovedì mi portò tre fogli scritti a mano, con riflessioni filosofiche […].

Non l’ho più rivisto».

Luca Lorusso




Taiwan. Campagna elettorale visitando i templi

 

In tempi di campagna elettorale, a Taiwan ci sono dei luoghi che sono costantemente affollati: i templi buddhisti e taoisti. Può sembrare strano, ma da quando i partiti ufficializzano i loro candidati parte immancabile la «processione».

Ogni giorno, quando i team delle campagne elettorali rilasciano l’agenda del giorno successivo, è un fatto acclarato: i candidati si presentano almeno in un tempio. Tanto per avere un’idea: nella campagna per le elezioni presidenziali del gennaio 2020, la presidente uscente Tsai Ing-wen ha visitato circa 180 templi per ottenere la conferma a un secondo mandato. Lo stesso sta accadendo in questa occasione. Tutti e tre i candidati alle elezioni di sabato 13 gennaio sono apparsi in templi in tutti gli angoli dell’isola principale di Taiwan, persino a quelli delle isole minori.
Il motivo? L’influenza di questi luoghi, che non sono solo un posto dedicato alla preghiera ma anche un polo di attrazione sociale fondamentale per le città e i villaggi di Taiwan, sfocia da quella religiosa e spirituale a quella politica. Anche perché sono praticamente ovunque: 33mila su tutto il territorio, in media quasi uno per ogni chilometro quadrato.

I candidati arrivano e stringono decine, centinaia di mani. Fanno decine, centinaia di selfie. Accendono l’incenso e pregano per la salute, la sicurezza e la pace di Taiwan. Lasciano offerte sugli altari dedicati agli dei locali. Infatti, ce ne sono tanti diversi, nella tradizione taoista, che a Taiwan si è profondamente intrecciata con quella buddhista tanto che alle volte diventa complicato capire dove stanno i confini tra l’una e l’altra. In cambio ricevono spesso grandi mazzi di germogli d’aglio. In dialetto taiwanese questo dono suona come «venire eletto», slogan ripetuto a lungo durante tutti i comizi.
In candidati, in maniera implicita, mirano al favore dei leader dei templi. Si tratta di figure molto spesso coinvolte nella politica locale, ma hanno anche una rilevanza economica. I templi sono infatti un grande ricettacolo di donazioni, fondi e spesso anche interessi economici. Tutti ingredienti che fanno immancabilmente gola a una campagna elettorale e a un candidato che
punta a diventare presidente.
C’è anche una valenza simbolica: per la maggior parte dei taiwanesi recarsi al tempio è più una prassi sociale o un rituale, piuttosto che un modo per esprimere la propria fede. Mostrarsi nei templi, circondati dagli abitanti di quel villaggio o di quel quartiere di una città più grande, significa mostrarsi vicini alla gente comune.
Terry Gou, boss del colosso tecnologico Foxconn (principale fornitore di iPhone per Apple con enormi interessi anche in Cina continentale), ha visitato più volte i templi di Cihui e Jieyun a Banqiao, Nuova Taipei, per

I templi sono stati spesso considerati anche un canale di promozione dei rapporti con la Repubblica popolare. Le autorità continentali consentono e incoraggiano i gruppi religiosi taiwanesi a viaggiare oltre lo Stretto. Pechino ritiene infatti che mantenere legami sul fronte religioso e rituale possa contribuire a rallentare la recisione dei rapporti con Taiwan, rafforzando il senso di appartenenza della sua popolazione alla affari di Taiwan) ha chiesto di estendere gli scambi religiosi e ha incontrato Zheng Mingkun, presidente dell’associazione taiwanese dedicata a Mazu, la dea dei mari della mitologia cinese amata soprattutto tra Fujian (Repubblica popolare), Kinmen e Matsu (isole di Taiwan).
Secondo alcune indiscrezioni, diversi templi e organizzazioni religiose riceverebbero fondi da Pechino. Accuse difficili da dimostrare, vista l’opacità dei rendiconti finanziari di questi luoghi, coi partiti che raramente osano sollevare il problema, temendo di mettersi contro una fetta non trascurabile di cittadini, dunque elettori. In passato ci sono state alcune controversie anche sulla Fo Guang Shan, grande organizzazione buddhista con un immenso centro nei pressi della città meridionale di Kaohsiung. Quando lo scorso febbraio il suo fondatore, Hsing Yun, è morto, diverse autorità continentali hanno espresso il desiderio di recarsi in visita a Taiwan.
Verrebbe da pensare che il candidato del Partito progressista democratico (Dpp), inviso a Pechino, si tenga alla larga dai templi. Non è così. Lai Ching-te ne ha visitati a decine, tanto quanto i rivali Hou Yu-ih del Kuomintang e Ko Wen-je del Partito popolare. Nessuno fa lo schizzinoso, quando si tratta d’imbracciare qualche mazzo di germogli d’aglio.

Leggi il nostro approfondimento su Taiwan qui.

Lorenzo Lamperti, da Taipei




Bangladesh. La sceicca si conferma al potere

Lo scorso 7 gennaio si sono svolte in Bangladesh le prime elezioni del 2024. Nessuna sorpresa dalle urne: ha stravinto l’«Awami League» (222 seggi parlamentari su 300), il partito della premier Sheikh Hasina Wazed, giunta al quinto mandato, il quarto consecutivo. Una vittoria scontata anche perché ottenuta dopo che il «Bangladesh nationalist party» (Bnp, guidato da un’altra donna, Khaleda Zia), il principale partito d’opposizione, si era ritirato dalla competizione elettorale, giudicandola – con molte ragioni – gravemente viziata.

La premier Sheikh Hasina, 76 anni, è al suo quinto mandato, il quarto consecutivo: una vita al potere. (Screenshot da «The Daily Star»)

La leader Sheikh Hasina, 76 anni, viene da lontano. Nel 1971, suo padre, Sheikh Mujibur Rahman, era stato l’artefice della separazione del paese (già Pakistan orientale o Bengala orientale) dal Pakistan, dopo una guerra con almeno 3 milioni di morti.

Nel corso degli ultimi 15 anni il potere della premier e del suo partito si è però trasformato in autoritarismo. Molti membri dell’opposizione sono stati arrestati o processati, e la libertà di parola è stata soffocata.

Altri due fatti di rilievo hanno caratterizzato i governi di Hasina: l’accoglienza di quasi un milione di profughi di etnia rohingya, popolazione islamica perseguitata nel confinante Myanmar; i pessimi rapporti con l’economista Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace 2006, fondatore della Grameen Bank, probabilmente il più noto bangladese al mondo.

Anche alle ultime elezioni non sono mancate le violenze. Il 9 gennaio The Daily Star, il principale quotidiano in lingua inglese del Paese, riportava due notizie contrapposte, molto significative: da una parte la reazione degli Stati Uniti che hanno giudicato le elezioni non libere e non giuste, dall’altra quella della Cina che si è congratulata con i vincitori per il successo elettorale.

Il Bangladesh conta oltre 171 milioni di abitanti, al 90 per cento di religione islamica (e un 9 per cento di induisti). Con i suoi 1.315,1 abitanti per chilometro quadrato, possiede una delle più alte densità demografiche al mondo. Nonostante l’impetuosa crescita economica degli ultimi anni (più 6-7 per cento all’anno, incremento dovuto soprattutto all’industria dell’abbigliamento), il Paese rimane una nazione povera, diseguale e con un alto tasso di emigrazione. Vivono all’estero 7,5 milioni di bangladesi. In Italia, ce ne sono oltre 150mila (secondo i dati ministeriali), formando la più numerosa comunità del Paese asiatico in Europa.

Dalle elezioni in Bangladesh si possono trarre alcune lezioni di carattere generale: l’autoritarismo e e la trasformazione dei governi in principati (nel senso descritto da Machiavelli) sono tendenze mondiali sempre più diffuse; la contrapposizione tra i paesi a democrazia occidentale e gli altri è destinata ad acuirsi sotto la spinta di Cina e Russia; non basta essere donna per rendere la politica migliore.

Paolo Moiola




Taiwan. In gioco la stabilità mondiale?

 

Il 13 gennaio è sempre più vicino. Sarà quello il giorno in cui Taiwan deciderà il suo prossimo presidente. Una scelta che non determinerà solo il futuro di quella che la Cina considera una La lunga campagna elettorale ha vissuto il suo culmine sabato 30 dicembre, quando si è svolto il primo e unico dibattito televisivo tra i candidati alla presidenza della Repubblica di Cina, il nome ufficiale con cui Taiwan è indipendente de facto. Si tratta tradizionalmente del momento decisivo, visto che a dieci giorni dalle urne viene imposto il blocco di tutti i sondaggi.

Il dibattito è stato dominato dal tema delle relazioni intrastretto, su cui sono emerse le grandi differenze tra i candidati. Tutti e tre dicono di voler mantenere lo status quo, ma ognuno propone una ricetta diversa per farlo, svelando non solo diverse strategie politiche, ma anche un diverso sentimento identitario sul sottile filo che corre tra il definirsi «cinese» oppure «taiwanese».

Il favorito, Lai Ching-te del Partito progressista democratico (Dpp, sigla in inglese), ha giocato in difesa. Noto per le sue posizioni a favore dell’indipendenza formale di Taiwan, l’attuale vicepresidente ha provato a porsi in perfetta continuità con la presidente uscente, la moderata Tsai Ing-wen. Durante il dibattito, Lai ha ribadito l’impegno a mantenere la pace e si è detto disposto al dialogo con Pechino, ma senza fare concessioni sulla sovranità e soprattutto sottolineando la necessità del rafforzamento dell’esercito e di nuovi acquisti di armi dagli Stati Uniti. Ha poi attaccato i rivali definendoli «filocinesi», presentando il voto come una «scelta tra democrazia e autoritarismo», e alludendo dunque a un possibile rischio di «inglobamento» in caso di vittoria del Kuomintang (Kmt), il partito nazionalista tradizionalmente più dialogante con Pechino.

Hou Yu-ih, il candidato del Kmt, ha invece descritto le elezioni come una «proposta» di Xi Jinping: ha infatti reiterato il rifiuto a «un paese, due sistemi», il modello di fatto fallito a Hong Kong che Pechino vorrebbe applicare anche a Taiwan.

Il terzo incomodo, Ko Wen-je, è in realtà apparso a molti come il più convincente dei tre durante il dibattito. Soprattutto dai più giovani che hanno commentato sui social. Ko, ex sindaco di Taipei e leader del Taiwan People’s Party (Tpp), si racconta come l’unica possibile novità nel tradizionale bipolarismo taiwanese. Durante il dibattito ha più volte esaltato il suo Sui rapporti intrastretto descrive il Dpp come «troppo anticinese» e il Kmt «troppo filocinese», proponendosi come depositario della linea di «riduzione del rischio», coniata da Unione europea e Stati Uniti: «Taiwan può diventare un ponte tra Washington e Pechino invece che un punto di tensione», sostiene, anche se non ha elaborato una proposta concreta per riavviare il dialogo.

Il favorito è senza dubbio Lai, che negli ultimi sondaggi disponibili era dato in vantaggio con una forbice che a seconda dei casi variava tra i 3 e i 10 punti. Al secondo posto Hou, con Ko non lontano. L’alleanza tra i due, naufragata a fine novembre, avrebbe con ogni probabilità messo fine al dominio del Dpp che dura dal 2016. Portando a un abbassamento delle tensioni militari con Pechino, ma a un prevedibile aumento del pressing politico per arrivare a un accordo che lo stesso Kmt non può garantire. Nel discorso di fine anno, Xi Jinping ha ribadito che la «riunificazione è una necessità storica». Un avvertimento che non cambierà i calcoli dei taiwanesi alle urne.

Molto importante poi il risultato delle elezioni legislative. Secondo tutte le proiezioni, nessun partito dovrebbe avere la maggioranza allo yuan legislativo (il parlamento unicamerale). Ciò significa che un’ipotetica presidenza Lai partirebbe azzoppata, con potenziali problemi nel far passare una serie di riforme e provvedimenti, a partire da quelli in materia di difesa. Uno scenario instabile che potrebbe non dispiacere a Pechino, che potrebbe provare a far leva sulle divisioni interne per guadagnare posizioni anche a livello politico.

Lorenzo Lamperti, da Taipei




Cina. Stretta sui social network

Il 31 ottobre scorso, diverse piattaforme social cinesi hanno annunciato nuove regole che impongono agli utenti più popolari di rendere pubblici i loro veri nomi. Le nuove disposizioni sono state per ora applicate su Weibo solo agli utenti con oltre un milione di follower, mentre su WeChat, Kuaishou e Douyin, basta averne 500mila. I netizen (persona che partecipa attivamente su internet, ndr) interessati dalle misure – spiegano i gestori delle piattaforme – sono principalmente quelli legati all’attualità, alle notizie militari, alla finanza, al diritto e all’assistenza sanitaria. Chi condivide dettagli della propria vita personale potrà ancora avvalersi di nickname, sebbene ormai da diversi anni chiunque voglia aprire un account social sia già tenuto a registrarsi con il proprio nome legale. Ufficialmente il provvedimento verrà applicato dagli internauti «su base volontaria». Ma, secondo i comunicati emessi dalle piattaforme, la mancata autenticazione da parte dei soggetti interessati potrebbe incidere sul numero dei nuovi follower nonché sulle entrate accumulate con le attività online fino al completamento del processo richiesto.

Prevedibile la reazione degli utenti: c’è chi ha manualmente rimosso migliaia di seguaci per scendere sotto la soglia «rossa», chi invece, per non rischiare, si è completamente tolto dai social. Molti hanno criticato pubblicamente la nuova politica, avanzando preoccupazioni relative alla privacy, soprattutto a fronte del rapido aumento di casi di cyberbullismo. Tra le voci contrarie figurano anche personalità di un certo spessore. Per Lao Dongyan, docente di diritto presso la prestigiosa Università di Tsinghua, le nuove regole agevoleranno l’appropriazione illecita di informazioni riservate. L’esperto ha anche dichiarato che le disposizioni scoraggeranno le persone dall’esprimere opinioni personali contrarie alla linea ufficiale. Con il crescente controllo delle autorità sul web, l’autocensura è diventata un fenomeno piuttosto diffuso negli ultimi anni. Ma ora, dopo la stretta sui nomi, non è più solo il giudizio di Pechino a spaventare. È anche la gogna pubblica a intimorire le voci fuori dal coro.

«l’era del cyberbullismo». «Sono sempre le persone rispettose della legge a rimetterci», recitava un post comparso sull’account e poi cancellato. Ma, secondo Eric Liu, ex censore oggi editor del sito China digital Times, le ultime misure interesseranno soprattutto chi ha conoscenze specialistiche su argomenti, come la scienza e la medicina: pubblicare informazioni contraddittorie rispetto alle narrazioni ufficiali (pensiamo all’origine del Covid-19) potrebbe comportare conseguenze professionali nella vita reale.

Si sa, internet è una giungla: se grazie ai social è diventato più facile informare, ugualmente lo è anche disinformare. Una distinzione che nella Repubblica popolare si colora di connotazioni politiche. A luglio, la Cyber administration of China, il massimo regolatore di internet in Cina, ha emanato direttive ad hoc per regolamentare i cosiddetti «valori sbagliati» o contenuti «fuorvianti» e «pessimistici». «Parlare di declino della Cina serve essenzialmente a creare una “trappola narrativa” o una “distorsione cognitiva”», diceva venerdì scorso il ministero della Sicurezza dello Stato, pochi giorni dopo il taglio dell’outlook cinese da parte dell’agenzia di rating americana Moody’s. Se un tempo bastava astenersi dal parlare di politica, oggi lo spettro dei temi sensibili a rischio censura comprende persino il rallentamento dell’economia cinese.

Il perché è deducibile dall’importanza attribuita al concetto di “guerra cognitiva”. Un termine utilizzato ormai con una certa frequenza dall’intelligence cinese nonché dall’esercito popolare di liberazione (Pla, in ingelse). A febbraio – dopo l’abbattimento del pallone spia cinese negli Stati Uniti – il quotidiano militare Pla daily ha delineato quattro strategie tese a sfruttare i social media come armi di «disturbo dell’informazione». Il messaggio è chiaro: manipolare l’opinione pubblica può rivelarsi una tattica decisiva durante un conflitto. Per Pechino è quindi imperativo non solo imparare come attaccare a colpi di social, ma anche come difendersi.

Alessandra Colarizi




Paesi Ue della Nato. Sempre più armati e insicuri

 

È aumentata del 10% nel solo 2023 rispetto al 2022 la spesa pubblica per il comparto militare nei paesi dell’Unione europea membri della Nato. Complice (anche) la guerra in Ucraina che sta consumando gli arsenali dei paesi donatori.

Se prendiamo un arco temporale più ampio, la voce «Difesa» nei bilanci di questi stessi paesi tra il 2014 e il 2023 si è ingrossata del 46%: da 145 miliardi a 215. In media, ogni cittadino ha pagato per la spesa militare, tramite le imposte, 508 euro nel 2023 contro i 330 del 2013: il conto per ogni cittadino italiano è stato di 436 euro.

Nel medesimo periodo di dieci anni la spesa pubblica per l’istruzione è aumentata solo del 12%, quella per la protezione ambientale del 10%, quella per la sanità (che ha affrontato l’emergenza Covid) del 34%.

Insomma, mentre le economie dei paesi dell’Unione europea sono in grave affanno, le disuguaglianze sociali aumentano insieme alle difficoltà dei cittadini a curarsi, a progettare il proprio futuro, a vivere in un ambiente sano, il comparto militare fa festa: la sola spesa per gli armamenti nei Paesi Ue membri della Nato ha raggiunto nel 2023 i 64,6 miliardi di euro (+270% in un decennio).

L’obiettivo di arrivare a una spesa per la difesa pari al 2% del Pil, imposto dagli Usa ai suoi partner della Nato, è quasi realizzato. Quello di una maggiore sicurezza, sia interna ai singoli paesi, che internazionale, invece, sembra allontanarsi a grandi passi.

È interessante sottolineare che le importazioni di armi da parte dei paesi Ue sono triplicate tra il 2018 e il 2022, e che la metà di queste importazioni proviene proprio dagli Usa.

Il rapporto Arming Europe pubblicato di recente da Greenpeace, con un focus particolare sulle spese militari di Germania, Spagna e Italia, mette in fila questi dati e diversi altri.

La copertina della sintesi in lingua italiana di Arming Europe.

Tra le valutazioni centrali dello studio c’è quella che sottolinea l’irrazionalità dell’aumento delle spese militari: irragionevole sia dal punto di vista della sicurezza che da quello della crescita economica e sociale.

La corsa agli armamenti (in alternativa agli strumenti della cooperazione, della giustizia redistributiva, della diplomazia, della difesa civile), infatti, è da sempre uno dei fattori di inquinamento delle relazioni tra stati e, quindi, scatenanti delle guerre. Ed è anche una palla al piede per l’economia e, di conseguenza, per le politiche sociali dei singoli paesi.

La ricerca di Greenpeace ha il merito di confrontare le stime di crescita economica per diversi ambiti di spesa pubblica: cosa comporta – si chiede la ricerca – una spesa di 1.000 milioni in termini economici ed occupazionali? «In Germania – si legge nel report -, una spesa di 1.000 milioni di euro per l’acquisto di armi porta a un aumento della produzione interna di 1.230 milioni di euro. In Italia, l’aumento risultante è di soli 741 milioni di euro, poiché una parte maggiore della spesa è destinata alle importazioni. In Spagna, l’aumento della produzione interna è di 1.284 milioni di euro. L’effetto sull’occupazione sarebbe di 6.000 posti di lavoro aggiuntivi (a tempo pieno) in Germania, 3.000 in Italia e 6.500 in Spagna.
Invece, quando i 1.000 milioni di euro vengono spesi per l’istruzione, la salute e l’ambiente, l’impatto economico e occupazionale è maggiore.

I risultati più elevati si registrano per la protezione ambientale, con un aumento della produzione di 1.752 milioni di euro in Germania, 1.900 milioni di euro in Italia e 1.827 milioni di euro in Spagna. Per l’istruzione e la sanità, la produzione aggiuntiva varia da 1.190 a 1.380 milioni di euro. In termini di nuovi posti di lavoro, in Germania 1.000 milioni di euro potrebbero creare 11.000 nuovi posti di lavoro nel settore ambientale, quasi 18.000 posti di lavoro nell’istruzione, 15.000 posti di lavoro nei servizi sanitari. In Italia, i nuovi posti di lavoro andrebbero da 10.000 nei servizi ambientali a quasi 14.000 nell’istruzione. In Spagna, l’effetto occupazionale sarebbe compreso tra 12.000 nuovi posti di lavoro nel settore ambientale e 16.000 nell’istruzione. L’impatto sull’occupazione è da due a quattro volte superiore a quello atteso da un aumento nella spesa per le armi».

Se non bastassero le considerazioni etiche contro il riarmo, almeno quelle economiche dovrebbero indurre i governanti a valutare con maggiore attenzione l’uso del denaro pubblico e orientarlo in direzione di una maggiore giustizia, sia sociale che ambientale, sia nazionale che internazionale. Purtroppo pare, invece, che al momento gli interessi siano altri.

Luca Lorusso