Sudafrica. Trump minaccia sanzioni

 

La restituzione delle terre sottratte dal regime dell’apartheid o un atto di razzismo al contrario nei confronti della minoranza bianca sudafricana (8,5% della popolazione)? Come leggere l’Expropriation act 13 approvata dal governo sudafricano il 23 gennaio 2025? Il tema è diventato di attualità dopo le dichiarazioni del presidente Donald Trump che ha firmato un ordine esecutivo per tagliare i fondi al Sudafrica accusato di discriminare la comunità bianca. La questione, in realtà, è più complessa di quanto la veda il capo di Stato Usa.

L’Expropriation act 13 è una legge che disciplina l’espropriazione di proprietà private per scopi pubblici o nell’interesse pubblico. Questa normativa, che sostituisce l’Expropriation act 63 approvato nel 1975, all’epoca dell’apartheid, mira ad allineare la legislazione sudafricana alla Costituzione del 1996 e a fornire una base legale per la riforma agraria ideata dal presidente sudafricano Cyril Ramaphosa e volta a correggere le profonde disuguaglianze fondiarie ereditate dal passato.
La nuova legge prevede che lo Stato possa espropriare terreni per infrastrutture pubbliche (strade, scuole, ospedali) o per riforme agrarie che garantiscano un accesso più equo alla terra. Nel testo è previsto che i proprietari siano indennizzati equamente in base al valore della proprietà, al suo utilizzo e al contesto storico. Si prevede però anche la possibilità di un esproprio senza alcun indennizzo nel caso di terreni abbandonati, non produttivi o acquisiti illegalmente durante l’apartheid. Quest’ultimo punto ha fatto tremare la comunità bianca. Gli agricoltori temono che si ripeta in Sudafrica quanto avvenuto in Zimbabwe dove, nel 2000, una riforma agraria mal studiata ha portato all’occupazione illegale dei terreni coltivati e al crollo dell’economia locale.

Pieter Kemp, un agricoltore bianco, ha dichiarato all’emittente britannica Cnn: «Questa legge mette a rischio il nostro sostentamento e crea incertezza sul futuro delle nostre terre». Allo stesso modo, Annelie Botha, rappresentante di un’associazione di agricoltori, ha affermato: «Temiamo che l’espropriazione senza compenso possa portare a instabilità economica e sociale».
Timori che, al momento, paiono infondati. Nonostante le preoccupazioni diffuse, non si sono verificati espropri di massa, né confische di proprietà private senza indennizzo. Finora, la redistribuzione della terra è avvenuta attraverso acquisti volontari da parte dello Stato. La stessa AgriSA, organizzazione commerciale per gli agricoltori sudafricani, ha riconosciuto come infondate le affermazioni sui sequestri di terreni definendole «disinformazione». «L’Expropriation act ha scatenato tumulti politici e inutili tensioni all’interno del sistema agroalimentare. Ciò è stato esacerbato dalla disinformazione riguardante l’intento della legge, con un impatto negativo sul clima degli investimenti per l’agricoltura sudafricana», ha affermato il direttore esecutivo di AgriSA, Johann Kotzé. Che ha aggiunto: «Per essere chiari, non si sono verificati sequestri o confische di proprietà private. Né è stata espropriata alcuna terra senza indennizzo. Sono stati gestiti casi isolati di accaparramento di terreni e violazione di proprietà privata».

Nonostante ciò Donald Trump ha criticato la riforma agraria sudafricana, sostenendo che essa rappresenta «un’espropriazione razziale». Già nel 2018, Trump aveva ordinato di indagare sulle «confische di terre e sugli omicidi di agricoltori bianchi» in Sudafrica, alimentando una narrazione allarmistica diffusa da media conservatori. Nelle ultime settimane, Trump ha inasprito la sua posizione, sospendendo 440 milioni di dollari di aiuti al Sudafrica. Questa decisione ha avuto conseguenze gravi, in particolare sul finanziamento di programmi sanitari cruciali per il Paese, come quelli per la lotta all’Hiv e alla tubercolosi.
Il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa ha respinto con le accuse di Trump, definendole «fuorvianti e radicate in pregiudizi coloniali». Ramaphosa ha sottolineato che la riforma agraria non è una misura punitiva contro i bianchi, ma un tentativo di riparare alle ingiustizie storiche, garantendo stabilità economica e sicurezza giuridica per i proprietari terrieri.

Enrico Casale




Mondo e tortura. Cresce l’uso dei Taser

 

L’uso dei dispositivi a scarica elettrica, noti come Pesw (Projectile electric shock weapons) o Taser (dal nome del modello più diffuso), da parte delle forze di polizia è in costante aumento in tutto il mondo.

Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani denunciano da anni il loro abuso, soprattutto in contesti di detenzione, manifestazioni pubbliche e contro gruppi vulnerabili come bambini, anziani, fasce di popolazione emarginate. Tuttavia, manca ancora un trattato internazionale che ne limiti la produzione, la commercializzazione e l’uso indiscriminato.

 

Ne parla un rapporto dell’organizzazione per i diritti umani pubblicato lo scorso 6 marzo: «I still can’t sleep at night». The global abuse of electric shock equipment. («Non riesco ancora a dormire la notte». L’abuso globale di apparecchiature per le scosse elettriche). Un lavoro che descrive i due tipi di apparecchiature a scarica elettrica in commercio: quelle a contatto diretto, che Amnesty assieme a molte altre organizzazioni internazionali chiedono di eliminare, e le Pesw a proiettili, armi paralizzanti che funzionano con una carica elettrica a distanza, legittime, ma il cui uso è da limitare a casi estremi.

Il costo umano del commercio e dell’uso non regolamentato di questi prodotti richiede l’urgente necessità di un’azione coordinata e globale.

Esempi concreti di abuso: Iran e Francia

Il lavoro di Amnesty presenta casi di tortura e maltrattamenti avvenuti in tutto il mondo tramite queste apparecchiature negli ultimi dieci anni.

L’Iran è uno dei Paesi nei quale Amnesty International ha documentato l’uso di dispositivi elettrici contro manifestanti pacifici, prigionieri politici e dissidenti.
Molti detenuti hanno subito torture con scariche elettriche prolungate per estorcere confessioni o come forma di punizione.
Le conseguenze per le vittime sono di diversa gravità: ustioni; danni neurologici permanenti, traumi psicologici profondi.

Anche in Francia, per fare solo un altro esempio, nonostante le rigide normative europee, sono stati segnalati abusi. Le forze dell’ordine hanno utilizzato i Taser durante operazioni di polizia, spesso su persone che non rappresentavano una minaccia immediata.

Torture con scosse elettriche: una lunga storia

L’uso della scossa elettrica come strumento di tortura ha radici storiche lontane.

I dispositivi per elettroshock, scrive Amnesty, sono stati a lungo utilizzati per la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti in tutto il mondo, spesso utilizzando metodi improvvisati, come pungoli elettrici per bovini, fili collegati alla rete elettrica o alle batterie delle auto.
I telefoni da campo a manovella «magneto» o «dinamo» furono utilizzati per la prima volta per la tortura dall’esercito francese in Indocina e dalla polizia militare giapponese in tutto il Giappone imperiale negli anni 30.
Dopo la Seconda guerra mondiale, il telefono da campo fu utilizzato per la tortura in tutta la Francia coloniale, dall’Algeria al Madagascar, nel Kenya britannico e in Vietnam dai marines statunitensi. Nello stesso periodo, negli Stati Uniti sono emerse armi a scossa elettrica a contatto diretto progettate per le forze dell’ordine.

Negli anni 30 la polizia argentina ha adottato l’uso della picana eléctrica (manganello elettrico), un dispositivo che si sarebbe diffuso in Uruguay, Paraguay e Bolivia, mentre la tortura basata sulla scossa elettrica sarebbe stata ampiamente adottata in America Latina sotto le dittature militari degli anni 70 e 80 per reprimere il dissenso politico.

Oggi, la disponibilità commerciale di Pesw e dispositivi affini ha reso questa pratica più diffusa e difficile da monitorare.

Le conseguenze sulla salute

L’uso di strumenti a scossa elettrica può avere effetti devastanti sulla salute delle persone. Le scariche causano dolore intenso, convulsioni, perdita di controllo motorio e, in alcuni casi, arresto cardiaco.

Sono stati registrati numerosi decessi in seguito all’uso del Taser su individui in precarie condizioni di salute. Gli effetti psicologici, tra cui ansia, depressione e disturbi da stress post-traumatico, sono altrettanto gravi.

Uso contro gruppi vulnerabili

Il problema più allarmante è l’uso di questi trumenti contro categorie di persone vulnerabili.
I detenuti subiscono scosse elettriche come forma di punizione o coercizione. I manifestanti vengono colpiti per disperdere le folle, anche quando non costituiscono una minaccia reale. Le persone con problemi di salute mentale, i minori e gli anziani sono particolarmente vulnerabili agli effetti delle scariche elettriche, che possono causare danni irreversibili.

Amnesty International ha documentato diversi casi di abuso contro minori, spesso in situazioni in cui non rappresentavano alcun pericolo.

Negli Stati Uniti, alcuni bambini di appena 10 anni sono stati colpiti con i Taser da agenti di polizia durante interventi scolastici, per aver mostrato segni di disagio o per piccoli atti di ribellione. In un caso, un bambino autistico è stato colpito durante una crisi emotiva.

Per quanto riguarda gli anziani e le persone con problemi di salute mentale, Amnesty ha registrato casi in cui individui in evidente stato di confusione o in emergenza medica sono stati immobilizzati con Taser, aggravando le loro condizioni.

Negli ospedali psichiatrici e nei centri di detenzione, l’uso dei Taser è stato denunciato come una forma di abuso sistematico.

In alcune occasioni, l’uso della scarica elettrica ha provocato arresti cardiaci fatali.

Produzione e commercio: un mercato in crescita senza regole globali

Il mercato dei dispositivi a scarica elettrica è in espansione. Il modello più diffuso di Pesw è il Taser. Tanto diffuso che nel linguaggio comune il suo nome raggruppa per antonomasia tutti i dispositivi Pesw. È prodotto da Axon Enterprise, la principale azienda del settore, che fornisce le sue armi a oltre 18mila agenzie di polizia in più di 80 Paesi.

Non esistono, però, regolamenti internazionali vincolanti per limitare la produzione e la vendita di questi strumenti. La maggior parte degli Stati non ha controlli adeguati per evitare che questi dispositivi finiscano nelle mani di regimi repressivi o forze di polizia che violano i diritti umani.

La proposta di un Trattato internazionale

Per colmare questa lacuna, Unione Europea, Argentina e Mongolia hanno lanciato l’Alleanza per un commercio libero dalla tortura, con l’obiettivo di vietare la produzione e la compravendita di strumenti di tortura, compresi i Pesw.

Amnesty International e altre Ong chiedono un trattato internazionale che vieti completamente la produzione e l’uso di dispositivi a scarica elettrica da contatto diretto, e che regoli rigorosamente l’uso dei Pesw, imponendo limiti chiari e meccanismi di controllo efficaci.

Un trattato di questo tipo stabilirebbe regole chiare per il commercio e l’uso dei Pesw, riducendo il loro uso come strumenti di repressione e tortura. Solo una regolamentazione globale potrà proteggere i diritti umani e prevenire ulteriori abusi nel mondo.

Luca Lorusso




Stati Uniti. Trump e la caccia alle streghe

 

Prima e dopo il suo rientro alla Casa Bianca, Donald Trump ha ripetutamente promesso di cacciare milioni di immigrati illegalmente presenti sul territorio statunitense. È stato calcolato che, per espellere anche solo un milione di persone all’anno, l’Ice – Immigration and customs enforcement, un’agenzia della Homeland security, il Dipartimento della sicurezza interna – dovrebbe arrestare e deportare una media di 2.700 persone al giorno.

Conscio della portata politica e mediatica del tema migratorio, Trump è passato senza indugi dalle parole ai fatti. E così stanno facendo i suoi uomini. Il video del raid dell’immigrazione del 28 gennaio a New York City, condiviso dalla Casa Bianca, mostra una raffica di attività da parte dell’Ice e di altri agenti federali in azione per rendere effettive le deportazioni di massa promesse dal presidente Trump.

Indossando un giubbotto antiproiettile, Kristi Noem, capo della Homeland security, si è rivolta alla telecamera con un linguaggio molto trumpiano: «Faremo sparire questi dirtbags (sacchi di spazzatura) dalla strada», ha detto.

Kristi Noem, capo della Homeland security, ha voluto presenziare al raid dell’Ice a New York City lo scorso 28 gennaio. La funzionaria ha parlato di «dirtbags» per riferirsi agli immigrati. (Foto ICE)

È un clima da caccia alle streghe che sta producendo conseguenze pesanti a più livelli. Da New York a Los Angeles, Chicago e Denver, i distretti scolastici stanno segnalando che molti studenti restano a casa per paura che loro o i loro genitori possano essere deportati. La Costituzione degli Stati Uniti garantisce un’istruzione pubblica gratuita a ogni bambino, indipendentemente dallo stato migratorio, ma la nuova politica dell’amministrazione Trump dà agli agenti dell’Ice più margini di manovra per colpire scuole, fermate degli autobus e altre strutture pubbliche come luoghi di culto e ospedali.

L’episodio più tragico è accaduto a Gainesville, un piccolo comune a settanta miglia a Nord di Dallas, in Texas, lo scorso 8 febbraio. La polizia scolastica sta indagando sulle accuse di una madre secondo cui la figlia undicenne – si chiamava Jocelynn Rojo Carranza – si è suicidata dopo essere stata bullizzata dai suoi compagni di classe in merito allo status di immigrazione della sua famiglia.

Negli Stati Uniti, si calcola che più di 16,7 milioni di persone condividano una casa con almeno un membro della famiglia, spesso un genitore, che è clandestino. Circa sei milioni di queste persone sono bambini di età inferiore ai 18 anni. Le deportazioni di genitori o di altri familiari hanno gravi conseguenze sui bambini, compresi quelli che – essendo nati negli Stati Uniti – sono cittadini (in base al 14° emendamento del 1866).

La stretta migratoria di Trump sta producendo risultati al confine Sud del Paese, uno dei più trafficati al mondo. Secondo cifre ufficiali, le persone fermate delle autorità di frontiera statunitensi sono passate dalle 176.195 del gennaio 2024 alle 61.465 dello scorso gennaio. Questo trend si è confermato anche a febbraio e marzo.

Nel frattempo, Trump ha pensato a una nuova misura in tema di immigrazione, in sé piccola, ma molto significativa per intendere meglio la filosofia che anima il presidente Usa. Questi ha detto che sta pianificando di introdurre un nuovo visto per attrarre ricchi stranieri in America, qualcosa che lui chiama «gold card» (in contrapposizione alla «green card»). Per cinque milioni di dollari, le persone potranno fare domanda per diventare residenti permanenti legali. Secondo Trump il programma attirerebbe negli Stati Uniti «persone di altissimo livello».

Alla domanda di un giornalista – ha raccontato la radio pubblica Npr – se gli oligarchi russi potessero fare domanda per le «gold card», Trump ha risposto: «Sì, forse. Ehi, conosco alcuni oligarchi russi che sono delle brave persone».

Paolo Moiola




Turchia. La mano tesa di Öcalan

 

Lo scorso primo marzo è stata resa pubblica una dichiarazione di Abdullah Öcalan, con la quale il leader del Pkk – il Partito dei lavoratori del Kurdistan – lancia uno storico appello ai suoi sostenitori: «Deponiamo le armi e sciogliamo il partito».

Öcalan, che del Pkk ne è stato fondatore nel 1978, è in carcere da 26 anni in una condizione di semi-isolamento nella prigione di İmralı, a Bursa, un’isola nel Mar di Marmara in Turchia. La sua dichiarazione ha prodotto reazioni contrastanti in tutto il Medioriente, sorprendendo sia i suoi alleati che i suoi nemici. Tuttavia, non è la prima volta che Turchia e Pkk, in conflitto dal 1984, tentano una tregua.

Sempre in seguito ad appelli di Öcalan, si era già provato un cessate il fuoco tra il 2009 e il 2011 (il presidente della Turchia, allora, era Abdullah Gül), e, di nuovo, tra il 2013 e il 2014. Proprio nel 2014 però, iniziò la presidenza di Tayyip Erdoğan. Con l’arrivo dell’attuale presidente, si spense qualsiasi possibilità di dialogo tra governo turco e popolazione curda.

Sin dai primi giorni della sua presidenza, Erdoğan ha inasprito il conflitto contro il Pkk, da lui condannato come organizzazione terroristica. Il presidente turco, inoltre, ha vietato l’uso e l’insegnamento della lingua curda, considerandola illegale e punibile con il carcere.

Abdullah Öcalan, il leader del Pkk – il Partito dei lavoratori del Kurdistan -, è detenuto nelle carceri della Turchia da 26 anni. Ha chiesto ai suoi di deporre le armi ma non tutti sono convinti che questa richiesta sia stata spontanea. (Foto Wikimedia)

Erdoğan non si è limitato a combattere i curdi sul territorio turco, ma ha incessantemente tentato di attaccare e invadere i territori curdo-siriani, oggi conosciuti come Stato autonomo del Rojava. Il Rojava, in particolare, ha sempre interessato la Turchia per le sue risorse petrolifere e di gas.

Cos’è cambiato oggi? Come mai la Turchia, dopo anni di conflitto, si è detta disposta a un dialogo? Secondo molti analisti, Erdoğan, attraverso una tregua, potrebbe ottenere una sorta di vittoria indiretta. Con Assad fuori dai giochi ed i suoi ottimi rapporti con i nuovi leader a Damasco, il presidente turco conquisterebbe nuovi territori, senza ricorrere alla guerra.

Cosa chiedono le due fazioni per poter raggiungere un accordo di cessate il fuoco? Gli esponenti del Pkk hanno dichiarato che: qualsiasi negoziato può essere portato avanti solo da Öcalan e, quindi, deve presuppore la sua scarcerazione, o quantomeno gli arresti domiciliari. Su questo punto, il partito dei lavoratori si è detto inamovibile e non disposto a trattare. Le altre richieste sono: l’autonomia delle province curde dell’Est della Turchia, e la reintroduzione dell’uso della lingua curda, compreso il suo insegnamento nelle scuole.

La Turchia, di contro, chiede: lo smantellamento del Pkk e lo scioglimento di tutte le milizie combattenti curde, comprese quelle del Nord-est della Siria, milizie come l’Ypg (Unità di protezione popolare), dichiarata da Erdoğan indistinguibile dal Pkk. È proprio su questa questione che la trattativa di pace potrebbe arenarsi.

Le forze dell’Ypg sono state in prima linea nella guerra contro l’Isis, gruppo che, seppur rimaneggiato, continua ad esistere nelle zone rurali di Raqqa, Kobane e Deir el-Zor. In Rojava, tutte le milizie curde sono oggi convogliate nell’Sdf (Syrian democratic forces), organizzazione militare supportata economicamente dagli Stati Uniti. L’Sdf, inoltre, detiene nelle sue carceri la maggior parte dei terroristi di Daesh, arrestati in questi anni.

Immagine dal campo di detenzione di Al-Hol, nello stato curdo di Rojava, Nord-est della Siria.
Qui si trovano le famiglie – per lo più mogli e figli – dei terroristi dell’Isis detenuti nelle carceri di massima sicurezza. Foto Angelo Calianno.

Il gruppo è anche responsabile della sorveglianza dei campi di semi-detenzione dove si trovano le famiglie dei terroristi. Chi vive in Rojava, alla luce delle richieste della Turchia, è preoccupato che l’indebolimento delle forze armate curde possa sfociare in nuove ondate di terrorismo.

Subito dopo la dichiarazione di Öcalan, abbiamo partecipato on-line alla conferenza stampa del comandante dell’Sdf, Mazloum Abdi. Lo avevamo già incontrato qualche anno fa, durante la nostra inchiesta nel Nord-est della Siria, proprio all’indomani degli attacchi da parte della Turchia.

Il comandante Abdi ha affermato: «Questa è sicuramente una dichiarazione storica da parte di Öcalan, necessaria per mettere fine a un conflitto che va avanti da decenni. Sicuramente, avrà risvolti positivi in tutta la regione. Ma, l’appello di Öcalan è stato rivolto solo al Pkk e non coinvolge noi in Siria». Queste diverse vedute, tra Turchia e Rojava, potrebbero essere l’ago della bilancia durante i colloqui per una possibile tregua.

Al momento, sono state scelte due date per poter avviare le trattative, entrambe proposte dal Pkk: l’8 marzo, giorno della Festa della donna. La Costituzione politica dei curdi, ispirata da Öcalan, ha sempre messo il ruolo della donna in primo piano e al pari di quello dell’uomo, sia nel governo che nelle forze armate. L’altra data richiesta è quella del 21 marzo, il giorno del Newroz, il Capodanno curdo. Questa giornata, in particolare, sembra essere la più probabile, soprattutto per il suo altissimo valore simbolico di «nuovo inizio».

Tuttavia, la pace sembra ancora lontana dall’ essere raggiunta. Giovedì 27 e venerdì 28 febbraio, i militanti dell’Sna (Syrian national army), gruppo sostenuto e finanziato da Erdoğan, hanno attaccato la diga di Tishreen. La diga è un punto nevralgico che, da anni, la Turchia prova a sfondare per entrare a Kobane e conquistarne i territori. Dalle montagne Qandil, rifugio dei combattenti curdi tra Iraq e Iran, le fazioni più estremiste hanno dichiarato di sospettare che l’appello di Öcalan sia stato estorto con la forza dal governo turco, e di non essere assolutamente disposti a deporre le armi.

Negli ultimi 41 anni, gli scontri tra Turchia e Pkk hanno causato più di 40 mila vittime.

Angelo Calianno




Italia. La legge che vuole nascondere il commercio di armi

 

Il controllo dei cittadini italiani sul commercio di armi è a rischio. La campagna «Basta favori ai mercanti di armi!» fa pressione sul Parlamento perché i limiti posti dalla legge 185/90 e la trasparenza sui flussi finanziari legati alle armi non vengano azzerati.

C’era una volta la legge 185/90 sul controllo del commercio di armi e sulla trasparenza dei finanziamenti delle banche al settore.

C’era una volta e c’è ancora, nonostante anni di tentativi da parte dei diversi governi di ridurne gli effetti.

Oggi, però, corriamo il rischio che il primo governo Meloni riesca nell’intento.

È all’esame delle Commissioni esteri e difesa della Camera, infatti, il disegno di legge di iniziativa governativa numero 1730 – «Modifiche alla legge 9 luglio 1990, n. 185», già approvato dal Senato -, che, oltre a ridurre il controllo del Parlamento sul commercio italiano di armi, vuole azzerare la trasparenza sui dati delle transazioni finanziarie operate dalle banche.

La società civile perderebbe uno strumento fondamentale per sapere quante armi l’Italia vende e a chi (compresi regimi autoritari e Paesi in conflitto), e quali sono le organizzazioni finanziarie che si offrono come canali per questo commercio. Uno strumento che permette, ad esempio, l’attività di informazione e denuncia della Campagna Banche armate, promossa da Nigrizia, Missione Oggi e Mosaico di pace.

La discussione delle linee generali del disegno di legge avverrà in aula il prossimo 17 marzo.

Prima di allora, ciascuno può fare la sua parte mettendo la propria firma alla petizione online della campagna lanciata dalla Rete italiana pace e disarmo: «Basta favori ai mercanti di armi!» già sostenuta negli ultimi mesi da un nutrito gruppo di organizzazioni che sta facendo sentire la sua voce.

«Diciamo no agli affari armati irresponsabili che alimentano guerre e insicurezza», recita il testo della petizione online.

E prosegue:

«Il Disegno di Legge di iniziativa governativa che modifica, peggiorandola […], la normativa italiana sull’esportazione di armi (la Legge 185/90) è stato approvato dal Senato nel febbraio 2024 e ora […] dovrà essere votato alla Camera dei deputati.

La società civile ha da subito espresso la propria preoccupazione […] evidenziando l’intenzione di indebolire il controllo sulle vendite all’estero di armi voluta da tempo da alcuni gruppi di pressione legati all’industria militare. Ma nonostante interventi di merito nel dibattito al Senato […], il Governo non ha voluto sentire ragioni e ha completamente ignorato e rigettato tali indicazioni […]. Il voto definitivo del Senato ha confermato un rifiuto totale del confronto (anche su questioni specifiche in chiaro conflitto con la normativa internazionale che l’Italia ha sottoscritto) segno evidente che l’obiettivo vero della modifica della Legge 185/90 è solo quello di favorire affari armati potenzialmente pericolosi e dagli impatti altamente negativi.

[…] le richieste della nostra Campagna sono chiare e si possono realizzare concretamente approvando gli emendamenti al DDL illustrati e proposti fin dall’inizio dell’iter parlamentare […]».

Seguono sei proposte molto precise, tra cui, per esempio, quella di «Inserire nella norma nazionale un richiamo esplicito al Trattato sul commercio delle armi (Arms Trade Treaty)» e quella di «Migliorare la trasparenza complessiva sull’export di armi rendendo più completi e leggibili i dati».

Come partecipare alla campagna?

Firmando la petizione online; facendo aderire la propria organizzazione (associazione, sindacato, parrocchia, circolo,…) al documento di richieste della Rete; promuovendo presso il proprio Comune l’adozione di una mozione in difesa della Legge 185/9o; contattando i Deputati della propria Circoscrizione, Provincia, Regione tramite una bozza di lettera già pronta; rilanciando la mobilitazione sui social media, «in particolare facendo un “tag” ai profili social di Rete pace disarmo della Camera dei deputati e dei partiti politici o parlamentari che ritieni più opportuno sollecitare».

Luca Lorusso




Taiwan. Cambio di passo?

 

Gli scorsi 25 e 26 febbraio si è tenuto a Pechino l’annuale Congresso con tema Taiwan. Durante gli incontri, Wang Huning, membro del Comitato permanente dell’ufficio politico del Pcc (i sette uomini più potenti del partito), e incaricato per le politiche su Taiwan, ha fatto dichiarazioni particolarmente esplicite, che sembrano cambiare l’approccio finora utilizzato.

Dopo aver ricordato che «occorre attenersi alla guida del pensiero di Xi Jinping, sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era», per la prima volta, l’alto funzionario ha detto che è necessario «prendere l’iniziativa sui rapporti tra le due sponde [dello Stretto di Taiwan] e promuovere senza esitazione la grande causa della riunificazione nazionale», come riporta la Xinhua, agenzia di stampa ufficiale di Pechino.
Wang ha detto – inoltre – che occorre «unire il vasto numero di compatrioti di Taiwan, sostenere fermamente le forze patriottiche e unite sull’isola, reprimere con risolutezza gli atti provocatori per l’”indipendenza di Taiwan” e plasmare l’inevitabile tendenza alla riunificazione della madrepatria».
Sul piano internazionale ha anche sottolineato come «dobbiamo opporci con fermezza alle interferenze esterne e limitarle, nonché consolidare l’adesione della comunità internazionale al principio di una sola Cina».
Sono espressioni che potrebbero preludere a un cambio di passo. Se è vero che la «riunificazione» di Taiwan alla madrepatria è nel progetto strategico del presidente e segretario generale Xi Jinping, fino ad oggi, l’assioma era che prima o poi la riunificazione avrà luogo.

Esercitazioni ravvicinate
Nelle stesse ore, il 26 febbraio, la marina militare dell’Esercito popolare di liberazione (Epl) della Repubblica popolare cinese ha intrapreso una vasta operazione nelle acque a Sud ovest dell’isola di Taiwan. A una distanza di circa 75 km dalla costa (città di Kashoung), sono stati mobilitati 45 aerei e 14 navi. Le esercitazioni sono durate l’intera giornata hanno interessato ampie zone dello Stretto, tanto da suscitare una reazione del ministero della Difesa di Taiwan che ha condannato l’episodio e il fatto di non essere stato preceduto da una segnalazione. Le esercitazioni, sebbene non sia state realizzate con munizioni reali, avrebbero potuto infatti perturbare il normale traffico aereo e marittimo in tutta l’area.
Da segnalare anche, nei giorni scorsi, l’incidente che ha visto la recisione del cavo sottomarino in fibra ottica che collega Taiwan all’isola Penghu (che fa parte della Repubblica di Cina, insieme alle isole Matsu e Kinmen). È stata fermata una nave commerciale battente bandiera togolese, ma con comandante ed equipaggio cinese, la Hong tai. La nave girava in zona fin da sabato 22.

Effetto Trump
È possibile anche un cambiamento nella politica Usa nei confronti di Taiwan. Donald Trump, in conferenza stampa, si è rifiutato di rispondere alla domanda se la sua amministrazione difenderebbe Taiwan in caso di attacco cinese: «Non commenterò questo. Non voglio mettermi in quella situazione», ha detto.
Ma l’ambiguità resta. In questi giorni dalla scheda del Dipartimento di Stato Usa su Taiwan è scomparsa la dicitura «[gli Usa] non supportano l’indipendenza di Taiwan».
Le recenti politiche di Trump sull’Ucraina possono infatti fare pensare a un alleggerimento della protezione Usa di Taiwan. Gli osservatori si chiedono se potrebbe essere un segnale verde per la Cina.

Marco Bello

Per approfondimenti su Taiwan




Mondo. Questo, un tempo, era un ghiacciaio

 

In un clima politico che sta diffondendo il negazionismo climatico, le Nazioni Unite hanno istituito la «Giornata mondiale dei ghiacciai», prevista per il 21 marzo di ogni anno, giorno dell’equinozio di primavera. Il 2025 è anche l’Anno internazionale per la preservazione dei ghiacciai. Si tratta di un appello – fatto su iniziativa dell’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) e dell’Unesco – per salvare i ghiacciai della Terra che si stanno rapidamente riducendo a causa del cambiamento climatico.

Il problema interessa tutta la criosfera (che è la porzione di superficie terrestre coperta da ghiaccio e neve). Oltre al ritiro dei ghiacciai, da tempo si sta assistendo a una riduzione dello spessore della neve (in particolare, nelle Alpi) e a un incremento dello scongelamento del permafrost (un tipo di terreno perennemente ghiacciato).

Stando a un articolo pubblicato su Nature (19 febbraio 2025), dal 2000, i ghiacciai hanno perso tra il 2% e il 39% del loro ghiaccio a livello regionale e circa il 5% a livello globale. Lo studio ha osservato la perdita di massa glaciale in 19 regioni del mondo. A livello globale, le perdite maggiori sono state causate dall’Alaska (22%), dall’Artico canadese (20%), dalla Groenlandia (13%) e dalle Ande meridionali (10%). A livello regionale, la più grande scomparsa di massa di ghiaccio si è verificata nelle Alpi (39%). È proprio nelle regioni alpine che si prevede la quasi totale scomparsa dei ghiacciai entro la fine del secolo.

Un’immagine del ghiacciaio Harding (catena montuosa di Kenai), in Alaska. L’Onu ha dichiarato il 21 marzo di ogni anno «Giornata mondiale dei ghiacciai». Il 2025 è anche l’«Anno internazionale per la preservazione dei ghiacciai». (Foto Paolo Moiola)

Ghiacciai e calotte glaciali immagazzinano circa il 70% dell’acqua dolce globale, rifornendo attualmente almeno due miliardi di persone. Il loro scioglimento minaccia, quindi, la sicurezza idrica. Ma le conseguenze non si fermano a questo. La perdita di massa potrebbe contribuire a un innalzamento del livello del mare fino a circa 20 centimetri entro fine secolo. Inoltre, la riduzione del permafrost avrà implicazioni dirette sulla stabilità di terreni e costruzioni e porterà al rilascio di gas serra (ma anche di agenti patogeni) intrappolati nel suolo ghiacciato.

I periodici rapporti dell’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change) confermano che la situazione è grave e molto probabilmente compromessa. Eppure, la politica ha scelto di essere cieca. Per esempio, Donald Trump ha sempre sostenuto che il cambiamento climatico è una bufala («It’s a hoax»). Così, appena entrato alla Casa Bianca (lo scorso 20 gennaio), ha firmato un ordine esecutivo per uscire dagli accordi sul clima di Parigi e uno anche per l’Alaska, la terra dei ghiacciai. L’obiettivo di questo secondo viene dichiarato fin dalle prime righe: «Lo Stato dell’Alaska detiene una riserva abbondante e in gran parte inutilizzata di risorse naturali […]. È pertanto imperativo revocare immediatamente le restrizioni punitive attuate dalla precedente amministrazione». Quelle definite «restrizioni punitive» sono divieti e limiti fissati dall’ex presidente Biden per proteggere e preservare un ambiente unico ma molto delicato come quello dell’Alaska.

Paolo Moiola




Uruguay. L’eredità politica e umana di Mujica detto Pepe

Il prossimo primo marzo Yamandú Orsi assumerà la carica di presidente dell’Uruguay, succedendo a Luis Lacalle Pou.

Stretto tra Argentina e Brasile, con appena 3,4 milioni di abitanti, l’Uruguay è una piccola isola di stabilità in una regione che naviga spesso in acque burrascose. Come praticamente tutti i paesi latinoamericani, anch’esso ha conosciuto una dittatura (dal 1973 al 1985), ma poi ha saputo costruire una solida democrazia dell’alternanza.

Caratteristica quest’ultima che lo distingue dai vicini. In Brasile, governa Luiz Inácio Lula da Silva, ma il suo esecutivo è assediato dai seguaci dell’ex presidente Jair Bolsonaro, recentemente incriminato per un presunto golpe ai danni dello stesso Lula. In Argentina, è al governo Javier Milei, presidente di estrema destra, attualmente al centro di uno scandalo scoppiato a causa di una criptovaluta. All’instabilità politica dei due paesi si affiancano problemi economici. Un dato su tutti: il tasso di povertà in Argentina tocca il 38,9 per cento e in Brasile il 27,4 per cento. In Uruguay, le persone in povertà sono molte meno, il 9,1 per cento.

Nato in una famiglia cattolica, nonno paterno immigrato dalla Liguria, di professione insegnante di storia, Yamandú Orsi ha vinto – al secondo turno – le elezioni del novembre 2024 con il Frente Amplio, storica coalizione politica di centrosinistra, ma ha vinto soprattutto per aver avuto al suo fianco l’ex presidente José Mujica detto Pepe.

Antenati paterni venuti dalla Liguria, professore di storia, dal 1 marzo 2025 Yamandú Orsi è il nuovo presidente dell’Uruguay. Ha vinto le elezioni di novembre 2024 anche per l’aiuto determinante dell’ex presidente José Mujica. (Foto X | Yamandú Orsi)

Al di là della sua collocazione politica, Mujica è tuttora una figura di grande carisma e popolarità ben oltre i confini nazionali. Già guerrigliero del movimento Tupamaros, incarcerato per quasi dodici anni ai tempi della dittatura, presidente della Repubblica dal 2010 al 2015, oggi Mujica ha quasi 90 anni (li compirà il prossimo maggio) ed è affetto da un cancro in fase terminale.

Conosciuto per uno stile di vita da sempre improntato all’assoluta sobrietà, ritirato nella sua modesta casa di campagna (una «chacra», fattoria, a Rincón del Cerro, località non lontana dalla capitale Montevideo), l’ex presidente ha recentemente rilasciato alcune interviste testamento nelle quali riflette sulla vita e sulla morte e si congeda dai propri concittadini.

«La vita – ha detto tra l’altro – è una meravigliosa avventura e un miracolo. Prestiamo troppa attenzione alla ricchezza e non alla felicità. Ci concentriamo solo nel fare cose e, prima che tu te ne accorga, la vita ti è passata accanto». E sulla morte ha aggiunto: «È una signora che non ci piace e che non vorremmo, ma che inevitabilmente in qualche momento arriverà. Quindi, devi rassegnarti».

In un’epoca dominata da presidenti spacconi ed egocentrici, José Mujica detto Pepe è una persona esemplare a cui Yamandú Orsi dovrebbe sempre cercare d’ispirarsi.

Paolo Moiola




Myanmar. Quattro anni di guerra civile

 

Nel conflitto civile che da quattro anni insanguina il Myanmar non si vedono spiragli di pace. In primis perché nessuno dei due contendenti in lotta – la giunta militare al potere e le forze di opposizione – è disposto a fare concessioni all’avversario, continuando a dichiarare di volerlo sconfiggere. In seconda battuta a causa dell’assenza della comunità internazionale che finora si è dimostrata impotente o indifferente. Con due eccezioni: Cina e Russia. Mentre, infatti, il blocco occidentale e gli Stati Uniti d’America hanno lasciato campo libero, le due potenze hanno continuato a sostenere la giunta militare al potere, al fine di tutelare i loro interessi strategici ed economici.

La Casa Bianca, nel tempo dell’amministrazione Trump, non sembra volersi coinvolgere per promuovere il ritorno della democrazia in Myanmar.
Nel 2022, il Congresso Usa aveva approvato il Burma Act, un provvedimento legislativo che autorizzava «l’assistenza umanitaria e il sostegno alla società civile» tramite un programma Usaid (United States agency for international development) volto ad assistere giovani esuli birmani nel loro percorso di istruzione e formazione.
Il presidente Trump, bloccando i finanziamenti all’agenzia governativa, ha fermato anche 45 milioni di dollari stanziati per oltre 400 studenti birmani che erano sostenuti tramite il Development and inclusive scholarship program dell’Usaid.

L’opposizione birmana e il governo in esilio, il National unity government (Nug), hanno incassato lo stop degli aiuti Usa con amarezza, puntualizzando che le forze della resistenza birmana non si fermeranno e che continueranno nella lotta fino al rovesciamento del regime.

Anche nelle giornate di analisi e riflessione organizzate a Roma dall’Associazione Italia-Birmania insieme, in occasione del quarto anniversario del golpe, all’inizio di febbraio, si è osservato con disappunto l’atteggiamento dell’Occidente che – focalizzato sulla guerra in Ucraina e sul conflitto in Medio Oriente – sembra aver dimenticato il quadrante del Sudest asiatico e la sofferenza del popolo birmano.

I quattro anni di guerra civile, gli ultimi due particolarmente cruenti, restituiscono ora il volto di un paese tormentato e deturpato da profonde ferite. Dal golpe che il 1° febbraio del 2021 ha rovesciato il governo democraticamente eletto, la nazione si ritrova a essere definita «il luogo più violento del mondo», come ha scritto l’Armed conflict location and event data project (Acled), organizzazione che monitora i conflitti nel mondo, rilevando oltre 50mila morti – tra i quali oltre 8mila civili -, più di 3,8 milioni gli sfollati e circa 23 milioni di cittadini interessati dal conflitto civile in corso, su una popolazione complessiva di 51 milioni di abitanti.
La popolazione è allo stremo, ha avvertito il Programma alimentare mondiale (Wfp) dell’Onu, prevedendo che oltre 15 milioni di persone soffriranno la fame nel 2025, sperimentando alti livelli di insicurezza alimentare, soprattutto nelle aree attraversate da scontri armati (in particolare negli Stati di Chin, Kachin e Rakhine, e nella regione di Sagaing). La crisi unitaria, si avverte, è destinata ad aggravarsi, anche perché le associazioni e Ong internazionali non hanno la possibilità e l’autorizzazione per soccorrere e portare aiuti ai civili.

In tale scenario la situazione sul terreno militare, nonostante il prosieguo dei combattimenti, sembra cristallizzarsi: da un lato, l’esercito birmano ha a disposizione, grazie ai rifornimenti dei potenti alleati, arsenali di armi pesanti, forze aeree, carri armati, e mantiene il controllo della parte centrale del Paese e delle grandi città come Mandalay, Naypyidaw, Yangon; dall’altro, le forze di opposizione hanno conquistato aree e municipalità nelle zone di confine, quelle che vengono orgogliosamente definite «zone liberate», cioè sottratte al potere della giunta, e controllano, secondo gli analisti, il 50% del territorio nazionale.

Intanto il regime militare al potere, che ha lanciato una campagna di reclutamento obbligatorio per rafforzare le fila dell’esercito, ha prolungato lo stato di emergenza fino a luglio 2025 e ha annunciato che entro l’anno terrà una tornata elettorale.
Si tratta, tuttavia, di un piano difficile da realizzare, dato che il censimento elettorale è stato possibile soltanto in 145 municipalità sulle 330 che compongono lo Stato, cioè meno della metà, e in zone abitate solo dalla gente dell’etnia maggioritaria, i bamar, in una nazione che si configura come multietnica e multiculturale.

La sola notizia positiva negli ultimi mesi è stata quella dell’accordo di cessate il fuoco, limitato alla regione del Nordest, siglato tra esercito e gruppi ribelli grazie alla mediazione della Cina che, come detto, tiene a tutelare i propri interessi commerciali e ha così ristabilito il traffici alla frontiera.

In un quadro di violenza generalizzata, la Chiesa cattolica ha registrato il tragico episodio dell’uccisione del primo sacerdote: si tratta di don Donald Martin Ye Naing Win, ucciso il 14 febbraio nella sua parrocchia di Nostra Signora di Lourdes dell’arcidiocesi di Mandalay, nella regione di Sagaing, nel Centro Nord del Paese, una delle aree maggiormente interessate da scontri e combattimenti.
A compiere il brutale omicidio (il prete è stato accoltellato e mutilato) un gruppo di miliziani di forze di difesa locali per motivi ancora tutti da chiarire. Sulla morte del religioso le Forze di difesa polare, che combattono sotto l’egida del National Unity Government e che controllano quella porzione di territorio in Sagaing, hanno aperto un’indagine arrestando un gruppo di dieci aggressori.

Paolo Affatato




Argentina. «Viva la libertad, carajo»

Il presidente argentino Javier Milei viene spesso descritto come un economista di successo. E tale egli stesso – spaccone per natura – si ritiene. Lo «scandalo Libra» ha intaccato pesantemente la sua immagine «vincente», anche se – come sempre accade – lui e il suo governo hanno immediatamente proclamato la propria estraneità ai fatti e addossato la colpa ai nemici.

La vicenda inizia venerdì 14 febbraio. Quel giorno Milei pubblica sul suo account di X, la piattaforma social dell’amico Elon Musk, un tweet che pubblicizza una nuova criptomoneta denominata Libra (si scrive $Libra), emessa da una società privata chiamata Kip Protocol.

«L’Argentina liberale – scrive il presidente – cresce!!! Questo progetto privato sarà dedicato a promuovere la crescita dell’economia argentina finanziando piccole imprese e startup argentine. Il mondo vuole investire in Argentina». Il messaggio si conclude con il consueto grido di battaglia, tanto populista quanto grossolano: «Viva la libertad, carajo!» (traducibile con «Viva la libertà, dannazione»).

Il tweet su X – la piattaforma social di Elon Musk – del presidente argentino Milei nel quale si pubblicizza la criptovaluta Libra, poi dimostratasi una truffa milionaria. Scoppiato lo scandalo, il messaggio è stata cancellato. Si noti lo slogan finale, «grido di battaglia» di Milei.

La criptomoneta attira migliaia di investitori (si parla di 40mila). Nel giro di pochi minuti, $Libra passa da un valore di frazioni di centesimo a 4,97 dollari per unità. Tuttavia, questa crescita è di breve durata. Solo poche ore dopo (circa undici), la criptovaluta subisce un forte e rapidissimo calo, precipitando a 0,19 dollari, lasciando un pugno di soggetti con un incasso di cento milioni di dollari e la gran parte degli investitori con perdite considerevoli. Insomma, un disastro finanziario propiziato dal tweet presidenziale che, infatti, viene cancellato.

Milei non è un neofita del settore, essendo da sempre un sostenitore di un’economia «tokenizzata», cioè fondata sulle criptovalute (un mondo nel quale si sta cimentando anche il presidente Usa Donald Trump). Anche per questo, l’opposizione argentina ha denunciato il comportamento del presidente. Sono state aperte inchieste per frode e corruzione. In mezzo allo scandalo, Milei ha prima concesso un’intervista televisiva (canal Todo Noticias) «sistemata» ad hoc e poi, il 20 febbraio, è partito per l’ennesimo viaggio negli Stati Uniti. Dove, all’assise dell’estrema destra (Conservative political action conference, Cpac), ha subito incontrato il suo «idolo» (copyright del quotidiano Pagina12) Musk al quale ha regalato una motosega, simbolo (buffonesco) del suo mandato presidenziale.

Durissimo il commento di padre José Auletta, raggiunto in Argentina: «Dallo scorso novembre la Commissione episcopale della pastorale sociale sta spingendo perché si approvi il progetto di legge sulla ludopatia. Ebbene, secondo me, le criptovalute sono un gioco d’azzardo di alto livello, che alla fine diventano una tentazione che imbriglia e invoglia anche i “piccoli”, grazie all’esempio che viene dall’alto, addirittura dal presidente della nazione. È così – conclude il missionario – che si salva l’Argentina da una situazione economica tanto complicata?».

Paolo Moiola