Quaresima in quarantena con timore e coraggio!

 di padre Stefano Camerlengo, superiore generale dei Missionari della Consolata


Siamo molto vicini ai nostri parenti, amici e benefattori e ogni persona. Assicuriamo la preghiera quotidiana, e condividiamo profondamente le lacrime e il dolore di tutti e ciascuno, mentre attendiamo con Speranza i giorni in cui potremo tornare a cantare e danzare insieme l’inno alla Vita (a nome dei Missionari della Consolata in Italia e nel mondo).


Carissimi Missionari, parenti, amici e benefattori,

da diversi mesi stiamo vivendo il periodo più devastante della nostra storia, attaccati da questo nemico sconosciuto, piccolissimo, nascosto: il coronavirus. E, mentre tutti cerchiamo di obbedire agli  ordini dei  governi che,  consigliati dagli scienziati, cercano di  arginare il  flagello, la preoccupazione aumenta e, a volte, diventa paura. Siamo preoccupati per la nostra comunità, per la nostra famiglia, per la comunità della missione in cui viviamo, per gli amici e certamente anche per noi stessi. Siamo preoccupati ora per l’Italia e l’Europa, ma pensiamo anche a che cosa capiterà fra poco, quando questo micidiale virus dilagherà negli altri paesi, negli altri Continenti. Ci domandiamo tutti, che ne sarà di noi? Che ne sarà della nostra vita? Che futuro ci aspetta? Queste ed altre domande maturano dentro di noi in questi giorni e non abbiamo risposta.

L’emergenza causata dal micidiale virus, che dilaga e infetta ovunque e chiunque nel mondo intero, genera una situazione talmente nuova che neanche in caso di terremoti, o conflitti era stata mai vissuta. In guerra ci si può salvare fuggendo, scendendo nei rifugi, ma con il virus questo non è possibile, non esistono vie di fuga, e l’unica difesa è di impedirgli di diffondersi, attraverso la restrizione dei normali comportamenti, evitando il più possibile ogni contatto tra gli individui. Se durante la guerra le persone trovavano conforto andando a pregare in chiesa, ora con il virus non si può; le chiese restano chiuse perché altrimenti diventano luoghi privilegiati di contagio.

In questo modo il nostro bizzarro isolamento ci mette in rapporto non solo alle persone con le quali lo condividiamo materialmente, ma con altri, altri sconosciuti e fratelli al tempo stesso. La lezione tremendissima del virus ci introduce forzatamente nella porta stretta della fratellanza universale. In questo strano e surreale isolamento noi stabiliamo una inedita connessione con la vita del fratello sconosciuto e con quella più ampia del mondo, ci sentiamo veramente missionari. Indubbiamente ciò che è male rimane male e ciò che è emergenza rimane emergenza. Ma anche un fatto in sé doloroso e molto negativo assume un valore differente per la nostra vita dal modo in cui noi lo viviamo, scegliamo di viverlo e, come credenti, cerchiamo di comprendere come attraversarlo alla luce della Parola di Dio. Allora anche il tempo del Covid-19 può diventare un’occasione per riscoprire alcuni aspetti della nostra fede, mentre la Quaresima che stiamo vivendo può insegnarci ad attraversare il difficile deserto del Coronavirus.

La quarantina della quaresima ha qualche cosa da dire alla quarantena del virus. La Chiesa nella sua storia bimillenaria per questo tempo liturgico ha sempre indicato dei “rimedi”, delle “medicine” per attraversare il deserto quaresimale e giungere, rinnovati e “guariti” dalle nostre ferite, a celebrare la vittoria pasquale: l’ascolto della Parola e la preghiera, il digiuno, la carità. Non potrebbero essere anche queste “medicine” quaresimali ad indicarci come vivere questo tempo così difficile anche per la fede. Invece di protestare per la ragionevole e doverosa sospensione delle celebrazioni pubbliche, per il bene nostro e degli altri, non si potrebbe “rispolverare” alcune pratiche che ci vengono dalla sapiente tradizione cristiana? Forse allora anche la quarantena potrebbe dire qualche cosa alla nostra quarantina e “costringerci”, come spesso accade quando si è necessariamente ridotti all’essenziale, a riscoprire alcuni elementi fondamentali della fede.

Concludendo vorrei ricordare a tutti noi alcuni punti fondamentali e invitare a rispettarli in toto con impegno e amore.

  1. Rispetto e applicazione totale di tutte le norme che vengono dai nostri Governi e dalla Chiesa ufficiale: lavarsi le mani più volte a giorno, non creare assembramenti, non uscire di casa, pregare rispettando la distanza consentita tra le persone…
  2. Usare bene il tempo, non sprecarlo. Approfittare di questo tempo a disposizione per dedicarlo a qualche cosa di utile e importante per noi.
  3. Pregare per tutti, pregare molto, aiutati dalla Parola di Dio che in questo tempo di quaresima è particolarmente significativa.
  4. Essere solidali con gli altri, vicini e lontani. Non potendo incontrarsi concretamente, possiamo essere vicini agli altri con dei messaggi sms, con la preghiera, con la disponibilità a piccoli servizi possibili.
  5. Avere migliore cura di noi, per il nostro bene e per il bene degli altri.
  6. Pensare agli anziani facendo tutto il possibile per proteggerli e per proteggere chi in questo momento è più vulnerabile.
  7. Voler bene all’altro significa tutelarlo, rispettarlo, proteggerlo. L’amore al tempo del coronavirus significa l’attenzione nei confronti di coloro che non hanno nessun titolo e sono più poveri.
  8. Rimettere in ordine la nostra vita, la nostra scala di valori per scoprire quel che veramente è importante.
  9. Ricordarsi di riconnettersi con la Terra e con l’ecosistema: solo rispettandone l’equilibrio ne saremo rispettati e saremo preservati.
  10. Non dimenticare che siamo connessi per davvero e non solo in rete, i confini non esistono e che siamo tutti sulla stessa barca.

Carissimi, per il momento, considerando le informazioni che possediamo, abbiamo una comunità attaccata dal virus e in quarantena (…). Certamente il pensiero e la preghiera vanno per loro e per tutti quelli che appartenenti alla nostra famiglia della Consolata sono stati colpiti dal virus o sono nel timore che arrivi devastante. Il pensiero e la preghiera vanno anche ai nostri missionari e alle nostre comunità che vivono in Continenti e paesi poveri, meno strutturati a livello della sanità. È il momento di stare lontani tra noi fisicamente ma vicini come non mai con il cuore. È il momento di preoccuparci di tutti, è l’ora della consolazione. Che San Giuseppe sia e ci faccia custodi di tutti!

Coraggio e avanti in Domino!

Roma, 19 marzo 2020, festa di San Giuseppe!




Coronavirus. Tessere alleanze contro l’angoscia

di Luca Lorusso su amico.rivistamissioniconsolata.it


La paura nasce da un pericolo che vedo. La paura è utile perché mi avvisa che c’è da fuggire o da combattere.
L’angoscia nasce da un pericolo che non vedo. Non so dove fuggire. Non so come combattere.

La diffusione del Covid-19 provoca angoscia, perché non so da dove arriva, non so come difendermi.
Perché forse ce l’ho anche dentro di me. Mi fa intuire che il «male» può abitare pure in me, io stesso ne posso essere veicolo, oltre che vittima.

Una scorciatoia per neutralizzare l’angoscia (con il suo nemico sfuggente e indeterminato) è trasformarla in paura individuando un nemico contro il quale convogliare le mie energie.
Che il nemico sia reale o del tutto immaginario, o una via di mezzo, non importa.
Il nemico mi serve per non sentirmi perso, per avere l’illusione che l’esistenza, in fondo, è un oggetto abbastanza chiaro, lineare, dominabile, risolvibile.

Così, in questi giorni, sentendo montare l’angoscia dentro di me, sto cercando il nemico: prima era «il cinese», oggi, a seconda dei momenti e dei punti di vista nei quali mi pongo, sono «le frontiere aperte» e «l’assenza di sovranità», oppure «la finanza e le lobby internazionali», «i governi Pd-Pdl che hanno tagliato la sanità», «l’industria bellica degli Usa per distruggere la Cina… o quella cinese per distruggere l’Occidente», «l’Europa» e «l’asse franco tedesco che vuole mettere in ginocchio l’Italia», «gli allarmisti», «gli irresponsabili che non stanno a casa», «le multinazionali del farmaco», e così via.

Provare a gestire l’angoscia mi pare una pratica sana, ma la gestione non è semplice, né scontata, né spontanea.

Il primo passo forse può essere quello di rendermi conto che l’angoscia c’è, poi quello di capire da dove proviene (dall’incertezza, dalla strutturale precarietà dell’esistenza, dall’illusione del controllo…), poi quello di accettare sia l’angoscia che la precarietà dell’esistenza e l’assenza di controllo, infine quello di capire che non sono solo, che posso attraversare il male insieme agli altri, e che tutto sta dentro un quadro più ampio, di cui non vedo i confini, un quadro amato e sostenuto da Qualcuno.

Cedere alla tentazione d’individuare un nemico contro il quale scagliarmi, rischia di distrarmi dalla lotta più importante, che non è quella contro chi m’immagino voglia darmi la morte, nemmeno quella contro la morte, ma quella contro il terrore della morte. Non è la lotta contro la fragilità della condizione umana, ma quella contro il rifiuto della fragilità. E io so che il terrore, il rifiuto, la disperazione possono colpirmi più duramente se mi distraggo. La lotta più importante è quella interiore per accettare e accedere a ciò che sono e a ciò che l’umanità è. È quella per tessere e ritessere alleanze: con tutti e con tutto. È quella per rimanere aperto all’altro, accompagnato dall’Altro.

di Luca Lorusso




Kazakistan: LA GRAZIA DELL’OSPITALITÀ E DELLA BENEDIZIONE

4 marzo 2020


L’inizio della nostra presenza in Kazakistan l’abbiamo vissuta all’insegna della benedizione e dell’ospitalità. Siamo arrivate all’eroporto di Almaty alle 00:50 del 29 di febbraio. Eravamo partite dall’Italia con la convinzione di dover fare la “quarantena” a causa del coronavirus ed eravamo disposte a farla pur di partire per la missione tanto attesa nel cuore. Invece abbiamo superato tutti i controlli! Abbiamo sentito la forza della preghiera delle nostre consorelle e la benedizione ricevuta nella Santa Messa celebrata prima della partenza, alle 3 del mattino da P. Germán Arana, SJ, nella cappella di Nepi, accompagnata dalla Direzione generale, dalla comunità del Kirghizistan e da altre sorelle in Nepi.

All’arrivo ci attendevano due sacerdoti della diocesi di Almaty Don Szymon Grzywinski, polacco, e Don Gregorio Perez, spagnolo, tutti e due abitano nella parrocchia di Kapchagay, che dista circa 70 km da Almaty. I primi giorni vivremo a Kapchagay fino a quando procureremo ciò che è necessario per preparare la nostra casa in Janashar.

Sabato 29 di febbraio, il giorno in cui siamo arrivate, è una data cara per la Chiesa in Kazakistan. Si commemorano i 25 anni della consacrazione dell’Asia Centrale alla Beata Vergine Maria, Regina della Pace e patrona del Kazakistan. Per noi figlie della Consolata è stato un segno di conferma della sua presenza e della chiamata come famiglia religiosa in mezzo a questo caro popolo.

Alla sera ci siamo unite alla comunità cristiana di Kapchagay, una trentina di persone, la maggioranza bambini, per la preghiera del rosario e per la celebrazione eucaristica, la prima in terra kazaka, in un clima fortemente mariano. Alle 20.30 abbiamo pregato ancora con la comunità cristiana, la coroncina della misericordia e ricevuto la benedizione personale con il Santissimo, segno della vicinanza del Signore ad ogni persona. Ci ha toccato profondamente come questa ricorrenza fosse celebrata proprio nel giorno dell’inizio della nostra presenza come Istituto tra il popolo kazako. Veramente il Signore e la Consolata ci hanno preceduto, accolto e benedetto.

Domenica abbiamo raggiunto la nostra comunità cristiana di Janashar, insieme a Don Szymon, il parroco, e al vescovo della Diocesi di Almaty, Mons. Josè Luis Mumbiela Sierra. Ad attenderci c’era una comunità cristiana di una ventina di persone con la quale abbiamo celebrato l’Eucaristia. Lì il vescovo ci ha introdotto alla comunità e ci ha fatto vedere quale sarà la nostra casa, un appartamento al primo piano, sopra ad un ambiente preparato per le attività parrocchiali. Alla Messa è seguito un momento fraterno con dei cibi tipici del posto.

Al pomeriggio con Don Szymon siamo andate a Nura, dove abbiamo celebrato l’Eucarestia nella casa di una famiglia, insieme ad una ventina di persone. Qui ci hanno invitato a cantare e abbiamo intonato un canto in Swahili “E Mama Bikira Maria Consolata”.

Abbiamo incontrato un popolo molto accogliente e generoso. La nonna che ci ha ospitato nella sua casa si preoccupava che avessimo il nostro piatto sempre pieno di ogni bene, che avevano preparato per noi.

Ci chiederete come comunichiamo. Abbiamo studiato un po’ di russo prima della partenza, ma in questo momento sperimentiamo, come tutti i missionari, una bella confusione. Con qualcuno parliamo un po’ di spagnolo, con un altro un po’ d’inglese, con un altro un po’ d’italiano e pratichiamo le nostre piccole frasi in russo. Ci anima però l’ospitalità e l’accoglienza calda del popolo kazako e della piccola presenza della Chiesa, un dono immenso per noi tutte, in questo nuovo inizio.

Grazie di vero cuore per la vicinanza e la preghiera con cui ci accompagnate e i tanti messaggi che ci avete fatto pervenire!!!

Sr Adriana, Sr Claudia, Sr Luisa, Sr Zipporah




Missionari della Consolata da 25 anni in Costa D’Avorio


Il logo del Giubileo è un Vangelo aperto.
Sempre e ovunque il punto di partenza e di arrivo della missione non può che essere il Vangelo – la vita e le parole, i gesti e le scelte di Gesù di Nazareth. La sua vita aperta e offerta è la ragione e il cuore amorevole di ogni annuncio vero, rinnovato e fecondo (cf. Evangelii Gaudium 11).

Dalle pagine stesse del Vangelo emergono visibilmente le parole ad gentes
che esprimono l’identità e la vocazione primaria della Chiesa (cf. Evangelii Nuntiandi 14) e della nostra famiglia religiosa missionaria (cf. Costituzioni IMC 5). Ci ricordano il significato carismatico del primo annuncio che abbiamo portato (cf. EG 164) e la particolare bussola vocazionale della nostra consacrazione per tutta la vita per la missione (cf. Cost. IMC 4).

Slogan.
Per rendere più dinamico questo anno di grazia, il logo è accompagnato da uno slogan. Sono parole piene di significato e di risonanza che provengono dal cuore appassionato di Paolo di Tarso: “Tutto per il Vangelo”. Si ispirano a 1 Cor 9,16-23, dove l’Apostolo delle genti afferma con fervore la centralità del suo impegno di evangelizzazione nella sua vita di discepolo-missionario di Gesù Cristo: “Sono diventato tutto per tutti”. Quanto zelo ci fanno vedere queste parole di fuoco…! Per noi Missionari della Consolata della Costa d’Avorio questo è sinonimo del nostro “ardente desiderio” di far conoscere Gesù (cf. Cost. IMC 18) e di lasciarci invadere e trasformare dal suo amore (cf. EG 178).

La Fiamma
Nel logo, al centro del Vangelo, c’è una grande fiamma, simbolo dello Spirito Santo, vero protagonista della missione della Chiesa (cf. Redemptoris Missio 21). “Ci vuole il fuoco per essere un apostolo”, ripeteva costantemente il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, ai missionari. Alludeva al fuoco dello Spirito che si traduce in segni e gesti di gratuità apostolica. È lo stesso fuoco dello Spirito che ci guida e ci accompagna nelle scelte fondamentali della vita e della missione con la sua presenza creativa (cf. EG 259).

Le Stelle
Questa fiamma è coronata da tre stelle che ci ricordano la nostra madre e fondatrice, la Madonna della Consolata (cf. Cost. IMC 2). Sono tre, come quelle della icona della Consolata, che saggiamente evocano la totale e perpetua verginità di Maria di Nazareth: prima, durante e dopo la nascita del nostro Salvatore (cf. Lc 1,34-37; Mt 1,18-25). La Vergine Maria è anche chiamata la stella dell’evangelizzazione e offre alla nostra spiritualità uno stile tipico e un “come” caratteristico (cf. LG 65) in cui sono sempre presenti tenerezza e affetto (cf. EG 288).

Il sole che sorge
Nella parte inferiore del logo, la presenza del sole che sorge (cf. Lc 1,78), mostra i nuovi giorni che ci attendono e verso i quali tutto quest’anno vuole muoverci e orientarci: la nostra primavera missionaria in Costa d’Avorio (cf. RM 86). Questi giorni saranno segnati dalla gratitudine per la nostra storia missionaria e per i confratelli che si sono succeduti fin dal primo giorno nel Bardot. Vediamo sorgere questo nuovo giorno su un orizzonte tanto straordinario quanto inaspettato, costruito sull’unità d’intenti. Inizia un nuovo giorno, un giorno ricevuto da te, Padre (cf. Inno delle Lodi, Liturgia delle Ore), che ci invita ad approfondire le sfide della missione di oggi con una fedeltà attiva e creativa dalla nostra luminosa storia evangelizzatrice.

I luoghi
Per valutare il cammino vissuto in questi primi 25 anni di consacrazione alla missione, abbiamo voluto presentare, in modo particolare, le diocesi ivoriane che ci hanno accolto e accettato. Da sinistra a destra, in ordine cronologico di arrivo nel paese, possiamo vedere una barca e un faro – mare e pesca – simboli della diocesi di San Pedro e punto di partenza della nostra consolante presenza. Segue una piccola casa e un granaio – famiglia e provvidenza – tradizionalmente riconosciuti nella cultura dei Senufo, seconda presenza consolatrice nella diocesi di Odienné. Infine, la cattedrale di Saint Paul si riferisce alla nostra terza presenza missionaria nell’arcidiocesi di Abidjan con la casa di formazione della Beata Irene Stefani – speranza e futuro – per tutto l’Istituto.

I colori
Infine, la tavolozza dei colori utilizzati (arancione, bianco, verde) si riferisce alla bandiera tricolore della Costa d’Avorio.




Dal Sinodo per l’Amazzonia una nuova sfida per la missione

«Non indurite il vostro cuore»

testo della Fesmi, Federazione stampa missionaria italiana |


«Vi vedo un po’ inquieti, forse non capite di che cosa ha bisogno l’Amazzonia… Noi abbiamo una nostra visione, questo ci avvicina a Dio, la natura ci avvicina a poter contemplare di più il volto di Dio, a contemplare l’armonia con tutti gli esseri viventi. Mi sembra che non vi tornino i conti, vi vedo preoccupati, dubbiosi di fronte a questa realtà che noi cerchiamo. Non indurite il vostro cuore».

Tra le tante parole ascoltate in queste settimane intorno all’Amazzonia è l’appello pronunciato da Delio Siticonatzi Camaiteri – indio cattolico peruviano, membro del popolo Ashaninca, una delle 390 etnie indigene della grande foresta che il Papa ha voluto a Roma nel cuore della Chiesa universale – il riassunto più efficace che come riviste missionarie ci portiamo a casa da questo Sinodo: «Non indurite il vostro cuore».

Conferenza stampa del 7/10/2019 (foto Guilherme Cavalli_Cimi)

Fin dal suo cammino di preparazione, il Sinodo ha proposto uno sguardo unitario su una regione del mondo parcellizzata dagli interessi di un’economia assetata di materie prime e ridotta a riserva da sfruttare, senza rispetto per niente e per nessuno.

Questo Sinodo ha avuto il coraggio di mettersi in ascolto di popoli e culture che il mondo globalizzato vorrebbe ridurre a semplici reperti da museo. Persone e comunità che invece hanno un messaggio forte da portare alla società e alla Chiesa del XXI secolo e desiderano, allo stesso tempo, ascoltare la parola di Gesù.

Questo Sinodo chiede alla Chiesa di essere autenticamente missionaria, e a noi riviste missionarie (associate nella Fesmi, Federazione stampa missionaria italiana) lascia in eredità alcuni compiti.

1) Continueremo a parlare dell’Amazzonia. Abbiamo visto in queste settimane quanto anche in certe frange del mondo cattolico i pregiudizi sui suoi popoli siano radicati. Quanta ignoranza, quanta superficialità, quanto disprezzo per coloro che vivono una cultura diversa dalla nostra. ; quanti occhi chiusi sui tanti cristiani che anche in Amazzonia sono perseguitati e muoiono nell’indifferenza di un mondo che non accetta mai di porsi domande sull’unico vero idolo del nostro tempo: il proprio carrello da riempire al supermercato. Per questo moltiplicheremo i nostri racconti. Aiuteremo a scoprire che uno sviluppo amico della biodiversità fisica e culturale dell’Amazzonia è possibile ed è già realtà là dove non regna solo la legge del profitto massimo e immediato. Andremo avanti a ripetere il messaggio che Papa Francesco ha messo al cuore dell’enciclica Laudato Sì: tutto è connesso.

2) Racconteremo il cammino della Chiesa dal volto amazzonico, di comunità che alla luce del Vangelo vogliono rileggere la propria storia, la propria cultura, i propri miti. È quanto la prima evangelizzazione realizzò in Europa, dando vita a sintesi e devozioni straordinarie; perché dovrebbe creare scandalo se a compiere questa stessa inculturazione della fede oggi sono i cristiani di altri continenti?

3) Riveleremo i volti delle comunità cristiane dell’Amazzonia, con ministeri che hanno qualcosa di importante da suggerire alle nostre comunità; i volti delle donne, che in tanti luoghi sono già punto di riferimento e leader di comunità, e i volti dei martiri/testimoni che stanno pagando con la vita per un mondo nuovo.

Ma proveremo anche a far capire a chi si scandalizza che no, in Amazzonia nessun cristiano guarda alla statuetta della Pachamama come a un idolo da adorare. In quelle viscere ritrova un’immagine della misericordia di Dio che troppi cristiani in Occidente oggi fanno fatica a contemplare.

«Non indurite il vostro cuore». Alla fine, il punto è proprio questo. Perché la dove il cuore è duro non c’è posto per la missione.

In Amazzonia come nelle nostre città.

Fesmi

Foto di gruppo del 17/10/2019 – Vatican Media

Firma del Patto delle Catacombe (foto Guilherme Cavalli-Cimi)




I paradossi di una politica escludente

Comunicato dei missionari italiani riuniti nella Fesmi, nella Cimi e nel Suam


In questi giorni abbiamo assistito con tristezza al modo irresponsabile in cui l’odissea di 42 persone salvate nel Mediterraneo è stata nuovamente trasformata in una vicenda che banalizza la questione epocale e globale delle migrazioni, di cui noi missionari e missionarie siamo quotidianamente testimoni oculari nei Paesi dove ci troviamo ad operare.

Piuttosto che cercare soluzioni, in Italia si preferisce giocare alla battaglia navale esasperando toni e situazioni, con l’epilogo che tutti abbiamo visto in queste ore.

Sbaglia chi si scaglia contro la comandante della nave Sea Watch 3, Carola Rackete, accusandola di aver intenzionalmente speronato la motovedetta della Guardia di Finanza che impediva l’attracco della nave. Sarà la magistratura a stabilire come sono andate le cose e chi davvero abbia forzato la mano in tutta questa vicenda.

Come istituti e testate missionarie continuiamo a raccontare i drammi da cui origina l’odissea di chi parte in cerca di un futuro oggi negato in troppe parti del mondo, ed esprimiamo viva preoccupazione per il clima di forte ostilità contro il soccorso in mare di ogni migrante, soprattutto se proveniente dall’Africa.

Ma soprattutto non si può accettare che venga proposto a modello di gestione efficiente della questione migratoria l’indifferenza di fronte alla disperazione di persone soccorse in mare e lasciate per due settimane senza un porto sicuro d’approdo. Persone che avevano già iniziato a commettere atti di autolesionismo. Mettere il loro destino prima del proprio, accettando anche di pagarne le conseguenze, è l’essenza del Vangelo di Gesù di Nazareth, che noi missionari e missionarie cerchiamo di portare a ogni popolo.

Carola ha disobbedito al decreto sicurezza per obbedire alla sua coscienza e alla legge del mare: è la legge internazionale del “soccorso da non omettere” a chi rischia di morire.

Ancora una volta la vicenda della Sea Watch 3 rivela i paradossi di una politica che trasforma le migrazioni in un argomento su cui gridare anziché provare a elaborare risposte realiste. Una politica che sbandiera la ricetta dei porti chiusi, ma li lascia aperti per chi, senza naufragare, li raggiunge grazie a trafficanti di persone che continuano a fare affari con nuovi metodi e nuove rotte.

L’unica risposta seria è una politica che dall’Italia ricominci a guardare il fenomeno nella sua complessità, sapendo che nei prossimi anni diventerà ancora più intenso, anche per gli effetti del cambiamento climatico. E occorre collaborare con il resto del mondo. Il 10 dicembre 2018 ben 192 Paesi hanno firmato un “Patto globale” promosso dall’Onu per gestire le migrazioni in modo sicuro e ordinato, e dissolvere così il traffico di persone. L’Italia non lo ha ancora sottoscritto. Perché?

E quali alternative propone il governo italiano al di là degli slogan sulla “difesa dei confini”?

E chi, in risposta alle migrazioni, tanto aveva a cuore lo slogan “aiutiamoli a casa loro”, cosa sta facendo in questo senso oggi che è al governo di questo Paese?

Di questo l’Italia deve tornare urgentemente a parlare. Se non vogliamo ritrovarci presto a tirare fuori ancora una volta il peggio intorno a una nave bloccata al largo di Lampedusa.

FESMI – CIMI – SUAM & GPIC
(Federazione Stampa Missionaria Italiana;
Conferenza Istituti Missionari Italiani;
Segretariato Unitario Animazione Missionaria e sua commissione Giustizia e pace)

 

1° luglio 2019

 


P.S.  Il 30 giugno 2019 è circolato un messaggio a firma di padre Alex Zanotelli: si riferisce alla notte del 29 giugno e smentisce lo speronamento della motovedetta della Guardia di Finanza nel porto di Lampedusa. Ma in quelle ore padre Alex era a Verona. Chi gli ha attribuito questa notizia falsa?

Hanno pubblicato questo comunicato:

  • ComboniFem, la rivista delle Missionarie Comboniane



ORDINATO VESCOVO DI TETE,

Mons DIAMANTINO ANTUNES Imc


Sarà una data da ricordare il 12 Maggio 2019, soprattutto per la diocesi di Tete, in Mozambico. Il Signore lo ha data loro un nuovo pastore nella persona del padre Diamantino Antunes, missionario della Consolata. È il quinto vescovo da quando la diocesi è stata eretta nel 1962. Con la nomina del mons Ignazio Saure, Imc come arcivescovo di Nampula due anni fa, la diocesi di Tete ha avuto il padre Sandro Giancarlo Faedi Imc come amministratore diocesano. Questa mattina nel giardino della cattedrale di Tete, l’arcivescovo di Nampula (mons. Saure) ha ordinato vescovo mons Diamantino alla presenza di Nunzio apostolico, c’era anche la Conferenza Episcopale mozambicana quasi al completo, numerosi preti e religiosi, e autorità civili guidate dal governatore della provincia e una numerosa folla dei fedeli. “Gaudium et Spes”, è il motto del nuovo vescovo. Ispirato dallo Spirito, possa il Signore aiutarlo ad essere un pastore che ha l’odore delle pecore, portando la consolazione e speranza a tante persone che hanno sete di Dio.
Questa ordinazione ha voluto dire tanto per noi missionari della Consolata. Nel lontano 1926, i figli della Consolata toccavano questa terra, arrivando camminando a piedi nella allora missione Milulu, nel distretto di Zumbo, chi si trova nel confine con Zambia. La missione poi è stata interrotta per anni. Oggi, uno dei figli della Consolata diventa vescovo della diocesi. È un onore e rispetto data a noi.
La diocesi ha 12 preti diocesani, 39 preti missionari/religiosi e 65 suore. Buona missione, “avanti in Domino”.

Baba Godfrey Msumange imc

Vedi anche la notizia su Consolata.org (disponibile in diverse lingue)

 




Torre Maura: calpestare il pane – spezzare il pane

Quei Rom che vivono nei campi, sotto le diverse denominazioni: attrezzati, abusivi, istituzionalizzati, micro insediamenti, villaggi… sono sostanzialmente stigmatizzati da tutti, lo fanno i partiti di ogni tendenza, dalle stesse organizzazioni che vorrebbero tutelarli, dall’opinione pubblica in generale. Il risultato è sempre lo stesso, una disparità pericolosa e dannosa per i Rom che vivono nei campi, chi per scelta, per costrizione o per mancanza di alternativa. I Rom dei campi sono di fatto accusati come fossero dei “parassiti”, dei privilegiati, approfittatori, incapaci di volersi integrare. Cosa poi significhi integrare è ancora tutto da valutare e capire. I fatti di Torre Maura di Roma sono la conseguenza di questo e di altro ancora, soprattutto decenni di esclusioni, di pregiudizi e di un clima di odio che ha portato a gettare per terra e calpestare il pane destinato a quel gruppo di Rom, collocati provvisoriamente in un alloggio, dopo lo sgombero del loro campo.

Spezzare il pane è sempre stato il gesto carico di significato, esprime condivisione, accoglienza, il riconoscimento della dignità umana dell’altro, senza esclusione di ceto, classe, religione ed etnia. Nel dare un pezzo di pane, non solo riconosco la dignità dell’altro, ma valorizzo anche la mia, la nostra.” Un pezzo di pane non lo si nega a nessuno!” Era un dato di fatto indiscutibile fino a qualche anno fa, ora non più!

Questo principio, quello di non negare il pane, piano piano ha cominciato a sgretolarsi, già da diversi anni: vedi le ordinanze di diversi sindaci (di ogni orientamento politico) che vietano di dare una semplice bevanda calda con una brioche ai clochard che gravitano attorno le stazioni, o ai migranti che cercano di attraversare il confine: vietato aiutarli! Tutto per il così detto “decoro cittadino” da salvaguardare! Dare del pane a chi è nel bisogno, da qualche anno a questa parte, è diventato una minaccia al decoro cittadino. Il decoro sembra ormai avere la priorità sul quel sentimento umano, primordiale che ha caratterizzato il genere umano e l’Occidente stesso, quello di garantire e donare il pane a tutti.

Ma spezzare il pane per un cristiano o per chi vive una sua fede religiosa, ha dei significati immediati, chiari: rimandano al Mistero stesso di Dio. La Bibbia, La Torah e il Corano sono ricchi di richiami e di messaggi “teologici” riguardo il pane da spezzare, da condividere soprattutto di fronte all’affamato, al bisognoso, come all’ospite e al viandante di passaggio.

Io sono il pane vivo, disceso dal cielo!” (Gv, 6, 41) Pane come dono di Dio, Gesù pane spezzato per la salvezza di tutti: buoni e cattivi, meritevoli o meno. “Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo.” Gettare a terra il pane e calpestarlo perché non sia dato ai Rom è come calpestare il volto di Gesù, figlio di Dio che si è identificato con l’affamato, il povero, la vedova, il forestiero… Come tale è un gesto sacrilego che offende Dio e l’Uomo allo stesso tempo, umiliando non solo i Rom, ma l’intera umanità. Per il cristiano Cristo è presente in tutti, ma nei poveri tale presenza acquista una importanza tale, da essere paragonata allo stesso Mistero Eucaristico. Che senso può avere, non solo per coloro che hanno profanato il pane o per i tanti che si definiscono i “difensori della civiltà cristiana”, ma soprattutto per le nostre comunità cristiane, celebrare l’Eucarestia domenicale, se poi nella vita non riusciamo a spezzare il pane dell’amicizia e della giustizia con i privilegiati del Regno che Gesù stesso ci ha annunciato? Che senso può avere rimanere ancora distanti, indifferenti, appollaiati sui nostri balconi, assistendo passivi alla sorte di questi “poveri Cristi”, gettati per terra e calpestati?

“Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc, 18, 8)

don Agostino Rota Martir (campo Rom – Pisa)
p. Luciano Meli (Lucca)
12 Aprile 2019




L’alluvione che ha preparato il ciclone Idai


Dunque, qui è stato un disastro. C’è stato un’alluvione come quello che ho vissuto a Vilanculos nel 2000.

All’inizio di marzo, è cominciato a piovere tantissimo sull’altopiano di Angonia (nella zona montuosa a Nord della città di Tete, verso il lago Niassa), dove ha piovuto per 5-6 giorni continui, con vento forte. Nella parrocchia di Mpenha circa 200 famiglie hanno perso casa e campi. E adesso si stanno aggiustando con capanne alla meglio

Angonia è una zona particolarmente agricola con colline e valli. Le nostre prealpi. Ben 7 cappelle hanno ceduto e sono andate distrutte

L’acqua scesa dall’altopiano di Angonia, si è riversata nei ruscelli. Questi, cresciuti sono sfociati nel Rowubwe, ingrossandolo all’inverosimile. Il Rowubwe è un’affluente dello Zambesi, al quale si unisce proprio qui vicino a Tete. Il Rowubwe  di solito è mezzo secco, ma in quei giorni giorni era in piena e ha cercato di riversarsi nel fiume Zambesi, che pieno a sua volta non ha potuto accoglier quella quantità di acqua.  Per cui, il Rowubwe è straripato, invadendo campi, isolotti e villaggi in riva la fiume. Il grande ponte, ne ha risentito, e tuttora e intransitabile.

Centinaia di famiglie, si dice 860 famiglie, sono state prese di sorpresa durante la notte, e hanno appena salvato la vita. Casa, cose, utensili, tutto… alla malora. I morti… non si sa, forse una quarantina.

Le famiglie da allora accolte nella scuola industriale di Tete, alla belle-meglio.

Governo e privati hanno e stanno soccorrendo alla meglio. Noi pure per tre volte nel centro di accoglienza abbiamo dato viveri e vestiti, frutto di una generosa raccolta tra le parrocchie.

Adesso lo stato sta assegnano un pezzo di terra, in altra zona, per costruire case.  Non so se daranno anche i mezzi… Dal centro di accoglienza li stanno mandando in questo quartiere nuovo. Con tende.

Io aspetto qualche giorno, per vedere come andrà a finire e quali saranno i bisogni, almeno che non manchi il mangiare.

Non so poi come sarà la zona di Doa e Mutarara, lontana 200 e 290 Km rispettivamente dalla città di Tete, dove lo Zambesi, ha invaso tutti i campi.  Tuttora abbiamo una 15 di villaggi che non siamo riusciti a contattare, e il granoturco è a bagno nell’acqua.  Il raccolto non ci sarà per questo anno.

Altra cosa è stato il ciclone che qualche giorno dopo ha colpito Beira e dintorni. Una tragedia, quella che si vede alla TV. Non so quando Beira potrà rialzarsi. Tutto distrutto. Grazie a Dio, anche la ONU sta intervenendo. I danni sono ingenti.

padre Sandro Faedi
amministratore apostolico di Tete




Kenya: Visita alla tomba della Beata Leonella Sgorbati, martire


Suor Leonella, missionaria della Consolata italiana è stato assassinata il 17 settembre 2006 da estremisti islamici in Somalia, mentre lasciava la scuola di infermiere per rientrare a casa.

Fu colpita da sette proiettili. In ospedale, prima di morire, sussurrò: “Io perdono, perdono, perdono”. La martire è stata beatificata il 26 maggio 2018 in una cerimonia presieduta dal Cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, a Piacenza, Italia, luogo di nascita della missionaria.

La Beata è sepolta nella chiesa Nostra Signora dell’Universo, accanto alla Casa Regionale delle Suore Missionarie della Consolata a Nairobi, in Kenya.

Il luogo è stato visitato mercoledì, 13 marzo, dalla Direzione Generale dei Missionari della Consolata in occasione di un incontro di condivisione e comunione con le missionarie. Ricordando che la Beata Leonella Sgorbati è la Protettrice e modello per l’anno 2019 sia delle missionarie che dei missionari.

Attraverso la sua intercessione, chiediamo la protezione del Signore per i nuovi percorsi missionari intrapresi dalle due congregazioni fondate dal Beato Giuseppe Allamano.

Chiesa Nostra Signora dell’Universo della casa regionale delle suore della Consolata a Nairobi

Chi è la beata Leonella Sgorbati?

Leonella è nata il 9 dicembre 1940 a Rezzannella di Gazzola (Piacenza). Fu battezzata nella parrocchia di San Savino di Gazzola, proprio il giorno della sua nascita con il nome di Rosa. Riceve la sua prima comunione e confermazione il 26 maggio 1947. Entra nella congregazione il 5 maggio 1963, e il 22 novembre 1965, emette la sua prima professione religiosa. Fa gli studi infermieristici in Inghilterra e in Kenya, dove ha emette la professione perpetua il 19 novembre 1972. Lavora poi per molti anni negli ospedali del Kenya, in particolare a Nkubu nel Meru, e nella formazione di giovani infermieri e infermiere.
Nel 1993 è stata nominata Superiora Regionale MC del Kenya. Nel 2002, alla fine di questa missione, Suor Leonella parte per Somalia, in un momento in cui il paese sta attraversando una convulsione politica, e l’influenza islamica estremista sta guadagnando terreno. Nonostante ciò, vede con entusiasmo la possibilità di gestire il centro di formazione per infermieri, preparando professionisti per l’unico ospedale in Somalia. Tra i fondamentalisti islamici serpeggia il sospetto che Suor Leonella, attraverso la scuola, faccia fatto proselitismo, per formare dei cristiani. Per questo è stata brutalmente uccisa con la sua guardia del corpo.

Jaime C. Patias, IMC, Consigliere Generale per l’America

Nella casa regionale delle suore della Consolata a Nairobi la direzione generale dei missionari in visita della sorelle missionarie.

Alla tomba di suor beate Leonella Sgorbati nella chiesa Nostra Signora dell’Universo della casa regionale delle suore della Consolata a Nairobi