Italia. Un Ramadàn di polemiche

Con circa tre milioni di persone, i musulmani d’Italia costituiscono la seconda comunità religiosa dopo quella cattolica. Anche loro – al pari di tutti i fedeli islamici del mondo – hanno rispettato il mese del Ramadàn, che quest’anno è caduto tra il 10 marzo e il 9 aprile. Durante questo mese, dall’alba al tramonto, è fatto obbligo ai musulmani di astenersi da cibi, bevande e rapporti sessuali. Il primo giorno dopo il Ramadàn si tiene l’«Eid al-fitr» (ci sono diverse traslitterazioni dall’arabo), la festa di rottura del digiuno, quest’anno celebrata dal 10 aprile e per tre giorni.

In Italia, le polemiche attorno alla ricorrenza islamica sono state copiose e hanno coinvolto politici e mezzi di comunicazione, evidenziando ancora una volta le difficoltà del Paese ad accettare la convivenza con culture diverse. I casi più eclatanti sono scoppiati a Pioltello (Milano), Renate (Monza) e Monfalcone (Gorizia).

A Pioltello, involontario protagonista della polemica è stato l’Istituto comprensivo statale Iqbal Masih, un istituto che, sul proprio sito, si presenta con queste parole: «La scuola si propone di garantire il successo formativo a tutte le alunne e gli alunni secondo il principio guida di Don Milani “Non uno di meno!”. Coordinate valoriali chiave per la realizzazione di tale ideale sono: l’equità dei percorsi e degli esiti, l’inclusività dei modelli, la flessibilità delle pratiche, la partecipazione attiva della comunità scolastica». A marzo, una delibera del consiglio d’istituto ha deciso di chiudere la scuola nella giornata del 10 aprile 2024, in coincidenza con la festa di fine Ramadàn, prevedendo un «altissimo tasso di assenza» tra i molti alunni di fede islamica (circa il 40 per cento del totale). Insomma, una misura di buon senso assunta in conformità alle proprie prerogative in materia di calendario scolastico. Invece, la polemica è subito divampata con titoli infuocati da parte di alcune trasmissioni televisive (Fuori dal coro su Rete 4, ad esempio) e di alcuni quotidiani (la Verità e Libero, in primis). «È una pessima iniziativa. Non dobbiamo indietreggiare sui nostri valori, sui valori dell’Occidente» ha sentenziato la ministra Daniela Santanchè. Mentre il presidente Mattarella e la Curia di Milano hanno espresso solidarietà alla scuola.

Non troppo lontano da Pioltello, a Renate, don Claudio Borghi ha concesso la disponibilità del cortile dell’oratorio per una cena (gratuita e aperta a tutti) di Ramadàn, anche qui generando una sequela di polemiche. Più a Nord, a Monfalcone, la sindaca leghista Anna Maria Cisint ha scelto, invece, lo scontro con la folta comunità islamica della città alla quale – a fine 2023 – aveva imposto la chiusura dei due centri che fungevano da moschea. Anche in questo caso sono stati due esponenti della locale Chiesa cattolica don Flavio Zanettie don Paolo Zuttion – a intervenire per difendere la libertà di culto. Mentre, in occasione del Ramadàn, monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, arcivescovo di Gorizia, ha inviato un messaggio di auguri alle comunità islamiche cittadine.

Nel frattempo, da poche settimane è in vendita un libro-intervista della prima cittadina di Monfalcone con la prefazione del ministro Matteo Salvini. Il titolo è molto esplicativo: «Ora basta. Immigrazione, islamizzazione, sottomissione».

Paolo Moiola

 




Italia. Studenti di serie B

 

La scuola italiana fa fatica a sviluppare una didattica inclusiva e interculturale e a superare gli stereotipi sulla migrazione. Una ricerca su cinque città italiane conferma fenomeni di segregazione.

 

In un mondo attraversato da continui flussi migratori, l’intercultura, la condivisione e lo scambio sono sempre più urgenti, e la scuola è uno dei luoghi dove lo sono di più.

L’istruzione, infatti, ha un ruolo cruciale nel determinare il futuro dei giovani. Può essere un potente vettore di emancipazione, tanto più se i ragazzi provengono da situazioni di povertà ed esclusione sociale, come quelli che hanno alle spalle un background migratorio. Ma questo avviene a condizione che l’ambiente scolastico combatta le diseguaglianze educative e favorisca incontro e scambio tra culture, saperi e lingue.

 

Il progetto Integration mapping of refugee and migrant children in schools and other experiential environments in Europe (Immerse, Mappatura dell’integrazione dei bambini rifugiati e migranti nelle scuole e in altri ambienti esperienziali in Europa), finanziato dal programma Horizon 2020, ha analizzato l’inclusione scolastica e sociale di minori migranti e rifugiati in Belgio, Germania, Grecia, Irlanda, Italia e Spagna.

In Italia, la ricerca è stata condotta da Save the Children e ha coinvolto 7.168 studenti tra 10 e 17 anni delle città di Catania, Milano, Napoli, Roma e Torino.

Il rapporto conclusivo, Il mondo in una classe. Un’indagine sul pluralismo culturale nelle scuole italiane, denuncia la mancanza di risorse economiche e professionali, soprattutto negli istituti presenti in aree svantaggiate. L’Ong evidenzia le difficoltà della scuola italiana nello sviluppare approcci didattici inclusivi e interculturali e nel superare gli stereotipi sulla migrazione.

 

Molti istituti, soprattutto in aree periferiche, manifestano fenomeni di segregazione. Il white flight, ad esempio, è la tendenza delle famiglie italiane a iscrivere i figli nelle scuole di aree centrali o in istituti privati, incentivando la concentrazione di alunni stranieri nelle periferie. Altro fenomeno riguarda la propensione, denunciata dalla Fondazione Ismu – Iniziative e studi sulla multietnicità, ad assegnare docenti meno preparati e motivati alle classi con maggiore concentrazione di studenti stranieri.

L’abitudine a inserire gli studenti di origine straniera in classi inferiori alla loro età, il mancato riconoscimento di titoli di studio conseguiti nei Paesi di origine e la scarsa offerta di attività extra-scolastiche, sono altri fattori di marginalizzazione.

 

Nell’anno scolastico 2021/2022, l’11% degli studenti con background migratorio ha dichiarato di non aver frequentato la scuola per sei mesi o più (a fronte del 5,9% tra gli italiani). Alcune delle motivazioni addotte (barriere linguistiche, necessità di aiutare i genitori, inutilità della scuola) sottolineano l’incapacità inclusiva del sistema scolastico.

Allo stesso modo, gli studenti con background migratorio hanno un minore accesso alle attività extra scolastiche: corsi di sport, arte e musica sono frequentati dal 20% degli studenti stranieri e dal 43% di quelli italiani.

 

Preoccupante è anche il rapporto con i docenti: se il 64,5% degli studenti italiani ritiene di avere sempre o quasi la fiducia degli insegnanti, tra gli alunni di origine straniera lo pensa solo il 53,4%. Inoltre, il consiglio orientativo dei docenti per la scelta della scuola superiore mostra la tendenza a sottovalutare il potenziale di questi alunni: a parità di risultati nelle prove Invalsi, essi ricevono meno frequentemente il consiglio di iscriversi a un liceo.

 

In Italia, l’acquisizione della cittadinanza è regolata dalla legge 91 del 1992 che stabilisce il principio dello ius sanguinis: si diventa cittadini alla nascita se si è figli di uno o due genitori italiani. Chi è nato in Italia da genitori stranieri può acquisire la cittadinanza a diciotto anni se ha risieduto legalmente e senza interruzione nel Paese. Fino a quell’età, quindi, molti ragazzi, nati e cresciuti in Italia, restano esclusi dalla cittadinanza.

 

Alcuni studi condotti in diversi Paesi europei hanno evidenziato una correlazione positiva tra successo scolastico e cittadinanza. Save the Children conferma questa tendenza anche in Italia: la cittadinanza favorisce un livello più elevato di istruzione: il 46% di italiani e il 43% di alunni con background migratorio ma cittadini italiani aspirano a laurea, master o dottorato. Tra coloro che non hanno la cittadinanza solo il 35%.

 

Per rendere la scuola italiana un ambiente inclusivo e interculturale, in grado di valorizzare il potenziale di tutti i giovani, la strada è ancora lunga. Non si tratta solo di intervenire sulla qualità delle istituzioni scolastiche e dell’insegnamento ma anche di garantire pari opportunità nella sfera socioeconomica e, soprattutto, dei diritti umani.

Aurora Guainazzi




L’Ue indaga le big tech

La Commissione europea vuole fare sul serio nei confronti delle big tech californiane. Alphabet (Google), Apple e Meta (Facebook, Instagram e WhatsApp) sono sotto indagine ai sensi del Digital markets act e se non dimostreranno di essersi adattate in conformità alle nuove leggi europee rischiano pesanti multe.

Il primo novembre 2022 è entrato in vigore il Digital markets act (abbreviato Dma), la legge europea sui mercati digitali che punta a regolamentare l’azione delle grandi aziende tecnologiche cercando di costruire un panorama più equo garantendo una libera concorrenza.
La Commissione europea ha identificato le grandi aziende che ha deciso di definire «gatekeeper», ossia con una importante capacità di controllo degli accessi a contenuti e servizi, e a queste ha affidato nuovi obblighi da rispettare in modo da garantire condizioni e opportunità più eque a fornitori di contenuti, prodotti e servizi terzi, spesso oscurati dai monopoli delle big tech.
Sono state designate come gatekeeper sei aziende: Alphabet (proprietaria di Google e dei servizi collegati), Amazon, Apple, ByteDance (proprietaria di TikTok), Meta (Facebook, Instagram e WhatsApp) e Microsoft.
Adesso, a marzo 2024, sono scaduti i termini entro i quali queste grandi aziende avrebbero dovuto adattarsi alla legge e la Commissione europea ritiene che alcune di esse non abbiano fatto abbastanza. Per questo nella mattina del 25 marzo è stato annunciato l’inizio di un’investigazione in particolare su alcune presunte inadempienze di Alphabet, Apple e Meta.

Uno dei primi punti in questione riguarda la libertà, sancita dal Dma, degli sviluppatori di promuovere e far conoscere le proprie app in maniera libera. Alphabet e Apple sono sotto indagine perché l’Unione europea teme che pongano veri e propri ostacoli a sviluppatori terzi e ad altre modalità di scaricamento che esulino dai loro app store ufficiali.
La seconda questione riguarda i risultati del motore di ricerca Google, l’azienda è sospettata di favorire i propri servizi di ricerca verticale – come Google shopping per gli acquisti o Google flights per i voli aerei – a discapito di servizi terzi, falsando quindi la concorrenza che dovrebbe essere libera ed equa.
Apple è anche accusata di rendere difficoltosa e sconveniente la disinstallazione delle app proprietarie e la modifica di alcune impostazioni predefinite, limitando la libera scelta degli utenti.
Infine Meta – azienda proprietaria di Facebook, Instagram e WhatsApp – è sotto accusa per il modello «pay or consent» con cui obbliga gli utenti dei suoi social network a pagare un abbonamento nel caso vogliano proteggere la loro privacy e limitare il numero di dati ceduti. Questo metodo non sembra fornire infatti una vera e propria libertà agli utenti per il controllo dei propri dati personali.

L’indagine dovrebbe concludersi in 12 mesi e, in caso di violazione, la Commissione può imporre multe fino al 10% del fatturato globale delle società, che possono salire al 20% in caso di violazione reiterata. Stiamo quindi parlando di miliardi di dollari a rischio.

Mattia Gisola




Mozambico. Nuova ondata jihadista

 

Il fuoco sembrava spento. Invece si è riacceso improvvisamente e Cabo Delgado, in Mozambico, è tornato a incendiarsi. Dopo diversi mesi di relativa tranquillità, la provincia è stata teatro di una nuovi attacchi terroristici che il mese scorso, stando a stime dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), hanno costretto più di 99.000 persone, tra cui 61.492 bambini, ad abbandonare le proprie case. Molte aree sono tornate sotto il controllo dei miliziani islamici senza che l’esercito mozambicano e i suoi alleati, le truppe del Rwanda e quelle della Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (Sadc), riuscissero a contenerne l’avanzata.

Nei mesi precedenti la nuova offensiva, secondo quanto riportano gli analisti, i gruppi jihadisti hanno lavorato sul campo con le comunità locali con un’azione di indottrinamento instillando odio nei confronti del governo di Maputo che ha sempre trascurato il Nord del Paese. I jihadisti si sono poi presentati come alleati delle comunità locali acquistando anche le merci dei contadini a prezzi maggiorati.
Dopo l’uccisione in battaglia, nell’agosto 2023, di Bonomado Omar, o Ibn Omar, considerato il carismatico leader locale dei jihadisti mozambicani, in molti si erano illusi che fosse iniziata la parabola discendente del terrorismo a Cabo Delgado. I fatti stanno dimostrando che così non è stato.

Con un sostrato popolare in certe aree non ostile, i terroristi si sono riorganizzati. Fonti locali credibili indicano che si sia addirittura formato un nuovo gruppo, con base nella zona di Macomia, più giovane, dinamico e aggressivo rispetto al precedente, e per adesso non necessariamente in competizione. Sarebbe proprio questa compagine ad avere scatenato l’inferno nel corso del 2024. I suoi biglietti da visita sono distinguibili rispetto a quelli degli attacchi tradizionali: anzitutto, una chiara retorica anti cristiana.
Nel posto di blocco che hanno stabilito per entrare a Mucojo (che, secondo quanto si sa da fonti non ufficiali, starebbe ancora sotto il controllo dei jihadisti), negato veementemente dalle autorità locali, passano soltanto autisti musulmani o chi può pagare più di 50mila meticais (equivalente a circa 650 euro). I terroristi hanno addirittura condiviso nelle reti sociali una loro dichiarazione, scritta in portoghese e inglese, spiegando le regole di questo «casello» da loro controllato.
Ancora in senso anti cristiano, l’attacco del 12 febbraio a Mazeze (distretto di Chiúre, estremo sud di Cabo Delgado, al confine con la provincia di Nampula) ha visto la distruzione, oltre che del mercato e del piccolo ospedale locale, anche della chiesa e della casa del parroco. In secondo luogo, i jihadisti che hanno portato gli ultimi attacchi rivelano un’eccellente capacità di sorprendere l’avversario, fatto che dimostrerebbe un lavoro di contro intelligence di alto livello, assai preoccupante.

Il grande interrogativo che tutti, in Mozambico, si pongono, è quale sarà il futuro di Cabo Delgado e dei suoi abitanti, al netto di ciò che Total vorrà fare rispetto al suo investimento sul gas. La Missione Samim (Sadc mission in Mozambique) ha già annunciato che lascerà il paese a giugno, anche se non è da escludere un ripensamento, viste le condizioni attuali sul terreno. Il Rwanda è presente con più di duemila effettivi; certo, potrebbe ancora aumentare il numero dei suoi militari, ma il prezzo che il Mozambico dovrà pagare a Paul Kagame sarà poi altissimo. Sullo sfondo, una disponibilità russa nell’aiutare l’alleato mozambicano a debellare il nemico jihadista. La prima volta, con la Wagner, andò male, ma adesso, forse, l’esperienza potrebbe essere più positiva, per gli interessi di Mosca.

Gli Stati Uniti hanno promesso ulteriori aiuti. L’annuncio è stato fatto dall’ambasciata Usa a Maputo in una nota diffusa al termine di una visita di cinque giorni nel Paese di Anne Witkowsky, assistente segretario di Stato americano per le operazioni di stabilizzazione.
«Gli Stati Uniti intendono fornire 22 milioni di dollari in nuovi finanziamenti nel 2024, una volta avuta l’approvazione del Congresso, per aiutare il Mozambico negli sforzi di stabilizzazione nelle regioni settentrionali – si legge nella nota – con questo investimento, gli Stati Uniti avranno destinato quasi 100 milioni di dollari all’assistenza incentrata sulla stabilità nel nord del Mozambico a partire dal 2022».

Le autorità del Mozambico temono che il contrabbando di legname nella provincia di Cabo Delgado, che si stima frutti circa 1,8 milioni di euro al mese, possa finanziare le attività dei gruppi ribelli che agiscono nell’area nord orientale del Paese.
«Sebbene non vi sia traccia di legami diretti con il terrorismo, il fatto che il contrabbando di legname e di altri prodotti forestali avvenga in aree con una attiva minaccia terroristica suggerisce che questa attività sia stata una fonte di reddito per i terroristi, dal momento che si stima che il contrabbando di legname a Cabo Delgado frutti ai contrabbandieri circa 125 milioni di metical al mese», si legge nel Rapporto nazionale di valutazione del rischio di finanziamento del terrorismo, riportato dall’agenzia Lusa.

Il Regno Unito sosterrà il Mozambico con circa 10 milioni di euro per far fronte alla crisi umanitaria nella provincia settentrionale di Cabo Delgado dovuta agli attacchi terroristici, ma anche alle conseguenze negative degli eventi meteorologici estremi. È quanto riferito negli scorsi giorni da Radio France internationale (Rfi), citando l’Alto commissario britannico a Maputo, Helena Lewis, al termine di una visita di tre giorni nel nord del Paese, colpito da attacchi terroristici.
«Data la situazione con nuovi sfollati, forniremo oltre 8,3 milioni di sterline nei prossimi tre anni nel settore dell’accoglienza, della salute mentale e anche per il coordinamento della comunità internazionale, e in un settore molto importante dell’identità per rifare e offrire nuovamente i documenti di identificazione per gli sfollati», ha sottolineato Helena Lewis, ricordando che questo sostegno si aggiunge a quello dell’anno scorso: «Abbiamo già fornito più di 28 milioni di euro alla provincia di Cabo Delgado in termini di aiuti umanitari non solo in risposta agli attacchi e per gli sfollati, ma anche a causa degli eventi climatici», ha concluso.

Enrico Casale




India. Modi, l’autocrate induista

 

Con 1,4 miliardi di persone l’India è il paese più popoloso al mondo. Un paese in rapida crescita economica e politica, dal 2014 guidato con mano ferma da Narendra Modi. Per la sua abilità a muoversi su fronti opposti, il primo ministro indiano può essere paragonato a Recep Erdoğan. E, come il presidente turco, Modi utilizza la religione – nel suo caso, l’induismo – per consolidare il proprio potere. Il primo ministro ha gioco facile essendo il leader del «Bharatiya janata party» (Bjp), partito della destra nazionalista e induista, che detiene solide maggioranze in entrambe le camere del Parlamento indiano.

Nel paese gli induisti sono circa l’80 per cento del totale, i musulmani il 14 per cento e i cristiani il 2,3 per cento. Da anni i cristiani – circa 30 milioni, concentrati soprattutto nel Kerala e nel Tamil Nadu – sono oggetto costante di violenze e attacchi. Nel maggio 2023, soltanto nello stato di Manipur (India del Nordest) sono state distrutte 249 chiese.

Per i musulmani – che comunque sono circa 200 milioni (la più consistente minoranza religiosa al mondo) – non va meglio. Anzi, le discriminazioni nei loro confronti iniziarono già nel 1947, quando l’Impero britannico divise il subcontinente indiano nell’India (a maggioranza induista) e nel Pakistan (a maggioranza islamica), quest’ultimo nel 1971 scissosi dalla sua parte orientale divenuta Bangladesh (anch’essa islamica).

A fine luglio 2023, ci sono stati gravi incidenti tra induisti e musulmani nello stato di Haryana (India settentrionale). Il risultato è stata la distruzione di circa 1.200 tra case e negozi appartenenti alla minoranza islamica.

La Costituzione indiana parla della libertà di religione negli articoli dal 25 al 28. In particolare, l’articolo 25 afferma: «[…] tutte le persone hanno ugualmente diritto alla libertà di coscienza e al diritto di professare, praticare e diffondere liberamente la religione». Nonostante questo, l’ultimo attacco alla parità sancita dalla carta costituzionale arriva da una norma dello Stato, il «Citizenship amendment act», legge approvata nel dicembre 2019, ma entrata in vigore soltanto in questo mese di marzo. Essa prevede una corsia preferenziale verso la naturalizzazione per indù, parsi, sikh, buddisti, giainisti e cristiani fuggiti in India da Afghanistan, Bangladesh e Pakistan prima del 31 dicembre 2014. La legge esclude i musulmani, che sono maggioranza in tutte e tre le nazioni.

La presidente dell’India è Droupadi Murmu, donna di etnia Santhal. La carica è altisonante, ma il potere effettivo è inconsistente. Il paese è saldamente nelle mani di Narendra Modi che, a partire dal 19 aprile, cercherà di ottenere il suo terzo mandato. Come sempre accade per gli autocrati, il successo è assicurato.

Paolo Moiola




Pakistan. L’eredità di Bhatti, difensore delle minoranze

 

Sono passati tredici anni dall’assassino del ministro per le Minoranze del Pakistan Shahbaz Bhatti che difendeva i cristiani e le altre persone discriminate nel suo paese. Parla il fratello Paul Bhatti che oggi ne ha preso l’eredità.

«Shahbaz ci manca, ma il suo messaggio è arrivato in tutto il mondo e il suo sacrificio ha portato tanti frutti», ci dice Paul Bhatti, fratello del ministro per le Minoranze del Pakistan ucciso il 2 marzo del 2011 per la sua azione di difesa delle persone discriminate del suo Paese. A partire dalla sua comunità: quella cristiana.

Oggi Paul, medico che vive tra l’Italia e il Pakistan, ne ha assunto la difficile eredità.

Lo abbiamo incontrato l’11 marzo scorso al Senato della Repubblica italiana in occasione di un evento dedicato proprio all’opera di Shahbaz Bhatti a tredici anni dalla morte.

«II Pakistan è un Paese che ha avuto, e che ancora ha, gravi problemi dal punto di vista economico, sociale e politico – sottolinea Paul Bhatti -. Per quanto riguarda la libertà religiosa e l’integrazione delle persone più emarginate, i problemi restano, ma molto è stato fatto da Shahbaz. È quanto riconoscono in Pakistan ma anche a livello internazionale. La sua perdita ci ha fatto soffrire, mio fratello Shahbaz ci manca. Però il messaggio che è stato percepito a livello nazionale in Pakistan e anche internazionale in qualche modo ha ridotto questa sofferenza. Ci dà sollievo che il suo sacrificio in qualche modo non è stato vano».

Paul racconta quanto la perdita del fratello abbia inciso sulla sua vita personale: «Io facevo il medico in Italia, ero contento. Lui mi diceva sempre: “Devi tornare in Pakistan, anche qui ci sono gli ospedali”. Io gli rispondevo: “Ma tu vuoi che io passi dal paradiso all’inferno…”. E invece con la sua morte ho capito che dovevo tornare e fare qualcosa per il mio Paese».

Parla dei suoi incontri per pacificare il Pakistan: «Nei giorni scorsi ho avuto un incontro con politici, leader religiosi musulmani, vescovi cattolici. Tutti riconoscevano quanto fatto da Shahbaz e questo mi dà sostegno e coraggio.

Dopo la morte di mio fratello – confida – ho avuto alti e bassi. Però ci sono state anche grandi soddisfazioni. Prima mi ero limitato al mio lavoro in campo medico e alla famiglia. Ora sono esposto al mondo intero e spesso non riesco a credere a quante persone ritengono importante il messaggio di fratellanza e di pace di Shahbaz».

Paul Bhatti nel corso di questi anni ha incontrato più volte Papa Francesco ed è in stretto collegamento con la Segreteria di Stato vaticana per portare avanti le sue iniziative.

Per Shahbaz Bhatti, che aveva scelto la via politica per difendere gli ultimi del suo Paese e ha pagato con la vita il suo impegno, è in corso il processo di beatificazione. «La fede è stata fondamentale. Lavorare in Pakistan parlando contro determinate leggi, come quella sulla blasfemia, e contro alcune ideologie fondamentaliste, comporta dei rischi. Lui con grande coraggio ha affrontato questi temi. Noi, in famiglia, quando ha cominciato, eravamo tutti terrorizzati. Non riuscivamo a capire da dove gli arrivava questo coraggio, poi abbiamo capito – dice Paul Bhatti – che la sua fede era talmente forte che non aveva paura».

Shahbaz, infatti, diceva che «lui aveva scelto di seguire Gesù Cristo e che non faceva altro che quello che Lui gli aveva insegnato».

Manuela Tulli




Missionari martiri. I molti Romero

 

Il 24 marzo la Chiesa italiana celebra la giornata dei missionari martiri. Secondo il rapporto annuale di Fides nel 2023 sarebbero stati 20 quelli uccisi mentre erano impegnati nell’annuncio in contesti difficili. Le loro storie di «cristiani normali» sono la testimonianza della presenza viva del Vangelo tra gli ultimi.

Sono le 21 del 29 marzo 2023. Fratel Moses Simukonde Sens, 35 anni, viene ucciso da un proiettile nei pressi di un posto di blocco militare a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso.

Originario dello Zambia e attivo dal 2016 prima in Niger e poi in Burkina Faso, fratel Moses, membro dei Missionari d’Africa (padri Bianchi) è uno dei venti «battezzati impegnati nella vita della Chiesa morti in modo violento» nel 2023 censiti dal rapporto annuale di Fides, l’agenzia di stampa delle Pontificie opere missionarie.

Gli altri diciannove sono un vescovo, otto sacerdoti, un altro religioso non sacerdote, un seminarista, un novizio e sette tra laici e laiche. «Quest’anno il numero più elevato torna a registrarsi in Africa – scrive Stefano Lodigiani, curatore del rapporto -, dove sono stati uccisi nove missionari: cinque sacerdoti, due religiosi, un seminarista, un novizio. In America sono stati assassinati sei missionari: un vescovo, tre sacerdoti, due laiche. In Asia […] quattro laici e laiche. Infine in Europa è stato ucciso un laico».

Il rapporto di Fides sottolinea che la normalità di vita è l’elemento che accomuna tutte le vittime: nessuna azione eclatante o impresa fuori del comune che avrebbero potuto farle entrare nel mirino di qualcuno. «Scorrendo le poche note sulla circostanza della loro morte violenta troviamo sacerdoti che stavano andando a celebrare la Messa o a svolgere attività pastorali in qualche comunità lontana; aggressioni a mano armata perpetrate lungo strade trafficate; assalti a canoniche e conventi dove erano impegnati nell’evangelizzazione, nella carità, nella promozione umana. Si sono trovati a essere, senza colpa, vittime di sequestri, di atti di terrorismo, coinvolti in sparatorie o violenze di diverso tipo».

Giornata di preghiera

Per ricordare questi venti missionari, ma anche tutti i cristiani, cattolici e di altre confessioni, che nel mondo ogni anno perdono la vita mentre testimoniano la fede in Cristo, la Chiesa italiana celebra il 24 marzo la Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri.

Istituita nel 1992 su proposta Movimento giovanile delle Pontificie opere missionarie, ora Missio Giovani, si è deciso di celebrarla nel giorno dell’anniversario dell’uccisione, nel 1980, di monsignor Oscar Romero in Salvador: un difensore degli oppressi, assassinato dagli oppressori.

La giornata è l’occasione per ricordare tutte le situazioni difficili nelle quali i cristiani, laici e consacrati, comunicano il Vangelo, spesso tramite la promozione umana, la difesa dei diritti degli ultimi, la tutela dell’ambiente.

Online, sul sito di missioitalia.it si possono trovare diversi strumenti per celebrarla. Tra essi, anche una scheda di presentazione di un progetto missionario che i Missionari della Consolata hanno attivato in Marocco nella missione di Oujda per soccorrere i migranti che transitano attraverso il confine tra Algeria e Marocco con il sogno di arrivare in Europa.

Luca Lorusso




Somalia ed Eritrea: sempre più amiche

 

Somalia ed Eritrea sono sempre più amiche. La loro alleanza si è fatta, negli ultimi anni, sempre più solida, suggellata da un ottimo rapporto personale tra i due presidenti, l’eritreo Isaias Afwerki e il somalo Hassan Sheikh Mohamud.

Domenica scorsa i due leader si sono visti ad Asmara, la capitale eritrea, per una sessione di colloqui bilaterali. Questa è stata la seconda visita del presidente Mohamud in Eritrea quest’anno e la sesta da quando è salito al potere nel maggio 2022.
Il ministro eritreo dell’Informazione, Yemane Meskel, ha scritto su X che l’incontro di è stato «ampio» e nel corso di esso i due leader hanno discusso di questioni regionali, inclusa la lotta della Somalia contro i militanti di al-Shabaab, milizia jihadista legata ad al-Qaeda che da anni controlla ampie porzioni del territorio somalo. Nel loro incontro, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa somala Sonna, sono anche stati affrontati «importanti temi regionali e globali», senza però fornire ulteriori dettagli.

Al di là dei contenuti specifici dell’incontro del fine settimana, Eritrea e Somalia hanno interessi comuni a livello regionale che stanno rafforzando la loro amicizia. Il primo e, forse, il più importante di questi interessi è il contenimento dell’influenza etiope nel Corno d’Africa. Negli anni scorsi, il presidente eritreo Isaias Afewerki ha stretto i rapporti con il premier etiope Abiy Ahmed. Il riavvicinamento ha portato a un miglioramento dei rapporti tra i loro due Paesi, rapporti che erano stati molto testi a partire dalla guerra tra Eritrea ed Etiopia combattuta dal 1998 al 2000. Il sodalizio tra il presidente eritreo e il premier etiope ha portato le truppe eritree a schierarsi a fianco di quelle di Addis Abeba nella guerra civile che si è combattuta in Tigray (2020-2022). La pace tra il Fronte popolare di liberazione del Tigray e il governo federale etiope siglato a Pretoria ha imposto un cessate-il-fuoco tra le parti, ma le truppe eritree, schierate sul confine, hanno continuato e continuano a occupare porzioni di territorio etiope (quelle rivendicate dal 2000 al termine della guerra tra Asmara e Addis Abeba).
È chiaro che l’Eritrea ha interesse a mantenere alta la pressione sull’Etiopia per poter continuare a occupare queste aree.

In questa crisi, la Somalia ha svolto un ruolo che, per molti versi, rimane misterioso. Di sicuro c’è che molti soldati somali sono stati inviati ad addestrarsi in Eritrea. Fonti citate dai media somali hanno testimoniato che molti di questi militari sono poi stati impiegati nei combattimenti in Tigray e alcuni di essi sarebbero morti. Tesi negata dalle autorità di Mogadiscio. È però un fatto che reparti somali sono ancora in fase di training nelle caserme eritree.
D’altra parte anche la Somalia ha interesse a tenere alta la tensione con l’Etiopia. L’accordo firmato recentemente tra Addis Abeba e il Somaliland, che prevede che quest’ultimo ceda un porto all’Etiopia in cambio di un possibile riconoscimento diplomatico di Hargeisa (capitale del Somaliland), ha scatenato una crisi tra l’Etiopia e la Somalia. Il presidente Hassan Sheikh Mohamud e il suo premier Hamza Abdi Barre hanno dichiarato che l’intesa è una aperta violazione della sovranità della Somalia e hanno dichiarato nullo l’accordo. La tensione con l’Etiopia è cresciuta, nonostante truppe etiopi siano in Somalia a fianco di quelle somale per contrastare la milizia fondamentalista al-Shabaab.
La visita di Hassan Sheikh Mohamud ad Asmara rischia quindi di buttare benzina sul fuoco in un contesto già caldo, non solo per i cambiamenti climatici.

Enrico Casale




Europa armata. Negoziati invisibili

 

Il coinvolgimento dell’Europa nel conflitto ucraino sarà sempre maggiore. Ne sono convinti alcuni autorevoli leader europei come il presidente francese Emmanuel Macron – che di recente ha proposto di prepararci a un intervento diretto di Paesi Ue e Nato per difendere l’Ucraina – e la presidente della commissione europea Ursula Von der Leyen – che invita a entrare in una vera economia di guerra, dove la produzione militare diventi prioritaria -.

Alle loro dichiarazioni, si aggiungono quelle di vari esponenti della Nato sull’inevitabilità di una guerra tra l’alleanza atlantica e la Russia nei prossimi anni.

Perché queste prese di posizione?

È possibile che esse siano dei messaggi diretti a qualcuno? A chi?

Un messaggio a Putin

La prima ipotesi è che i messaggi siano degli avvertimenti a Vladimir Putin e alla Russia: nel momento in cui la situazione militare sul campo sembra volgere a suo favore, il Cremlino potrebbe essere tentato di provare di nuovo a realizzare quell’invasione completa dell’Ucraina che gli è fallita due anni fa.

Il messaggio allora è il seguente: se le forze russe sfondassero e arrivassero a Kiev, l’Occidente non lo potrebbe tollerare. Ci sarebbe un suo intervento diretto con conseguente terza guerra mondiale: un’eventualità che né la Russia, né gli Stati Uniti, né, tanto più, i vari Stati europei vorrebbero. Ma l’avvertimento a Putin è quello di non spingersi troppo oltre, non superare una fantomatica linea rossa che però non si capisce dove si trovi, e dunque rende la situazione particolarmente pericolosa.

Un messaggio all’Europa

La seconda ipotesi è che l’avvertimento sia rivolto agli stessi governi e classe dirigente europei. Questi, al di là dei loro proclami roboanti, vogliono fare la guerra per procura e rimanere fuori da un coinvolgimento diretto. Come, infatti, ha incautamente rivelato la nostra presidente del consiglio, c’è molta stanchezza, ci si vuole impegnare di meno, anche perché il sentimento popolare è tutt’altro che favorevole alla guerra.

Allora il messaggio potrebbe essere proprio questo: attenzione che, se la Russia, approfittando di questa situazione, dovesse sfondare e invadere tutta l’Ucraina, ciò non sarà tollerabile, pena la perdita della faccia, e allora sì che bisognerà intervenire direttamente con tanto di mobilitazione, cadaveri che tornano a casa e i rischi di terza guerra mondiale di cui già abbiamo scritto sopra.

Meglio continuare a sostenere l’Ucraina indirettamente che trovarsi in guerra aperta. Non bisogna fare troppo gli schizzinosi, bisogna invece mettere mano al portafogli e continuare a fornire all’Ucraina tutte le armi di cui ha bisogno adesso. Per far questo, poiché le scorte sono finite, occorre ristrutturare l’apparato industriale in economia di guerra.

Un messaggio all’opinione pubblica

La terza ipotesi è che i messaggi siano rivolti all’opinione pubblica occidentale, allo scopo di rompere un tabù: poiché presto potremmo dover intervenire, è bene cominciare a parlarne. Tanto più che gli Stati Uniti sembrano meno propensi di un tempo a sostenere il carico della difesa e della sicurezza europea, soprattutto se dovesse diventare presidente Donald Trump.

Come sempre la prima reazione è quasi di scandalo, poi, però, l’argomento diventa oggetto di discussione, di dibattito, e infine diventa un’opzione possibile.

Il coraggio della trattativa

Probabilmente tutte e tre le ipotesi illustrate contengono una parte della verità.

Si sta andando verso la terza guerra mondiale senza che nessuno la voglia veramente, semplicemente perché nessuno dei protagonisti vuole essere il primo a cedere. Esattamente come successe nel 1914, quando all’inizio della Prima Guerra mondiale, l’inutile strage, si pensava a una guerra di pochi mesi.

Occorrerebbe un sussulto di saggezza, soprattutto da parte dei governi europei: avere il coraggio di proporre una trattativa, esattamente come suggerisce papa Francesco, il quale non ha consigliato la resa, al contrario ha affermato che il negoziato non significa arrendersi.

E un negoziato può funzionare se si convince l’altra parte che una trattativa capace di fermare la guerra conviene di più che continuare i combattimenti.

Questo è ancora possibile, anche se oggi la situazione è ben peggiore di quella del marzo 2022, quando la Russia aveva sostanzialmente fallito i suoi piani e l’Occidente era in una posizione di maggiore forza. Sarà ancora più difficile, per non dire impossibile, se Putin riterrà di poter chiudere vittoriosamente la partita.

Putin non è desideroso di trattare: è un criminale e un violento che crede solo nella forza, ed è anche un irresponsabile, altrimenti non avrebbe neanche iniziato una guerra che pensava di chiudere in poche settimane. Trattare con lui, quindi, è possibile solo se si convince che la continuazione della guerra sarebbe per il suo regime più pericolosa e costosa della cessazione.

Invece di preparare guerre che poi non si potranno combattere, sarebbe meglio puntare su una trattativa finché è possibile che essa disinneschi la macchina infernale che rischia di travolgerci tutti.

È probabile che se si riuscisse a fermare la guerra con un compromesso provvisorio, anche in Russia, all’interno del regime, si inizierebbero a contare i morti, le perdite, le distruzioni. Allora nel potere di Putin potrebbe crearsi qualche crepa, cosa che a oggi, perdurando i combattimenti, non sembra realistica.

Paolo Candelari

Questo articolo è frutto di una collaborazione tra il Centro studi Sereno Regis e Missioni Consolata.




Europa e migranti. Le quattro forme di violenza

 

«Non pensavamo di dover continuare a fuggire anche una volta giunti in Europa», dice un migrante agli operatori di Medici senza frontiere (Msf) a Ventimiglia, al confine con la Francia.

Sono parole contenute nell’ultimo rapporto di Msf, Morte e disperazione. Il costo umano delle politiche migratorie dell’UE, uscito a febbraio 2024 per denunciare quanto le politiche europee su migrazione e asilo generino diverse forme di violenza sulle persone.

Una conclusione a cui Msf è giunta grazie a testimonianze raccolte tra i beneficiari di dodici dei suoi progetti in Paesi europei (come Italia, Grecia e Polonia) ed extraeuropei (come Libia, Niger e Serbia).

Dal momento della partenza dai Paesi di origine a quello dell’ingresso nell’Ue, e anche dopo, salute, benessere psicofisico e dignità dei migranti sono messi a repentaglio.

In particolare, l’organizzazione umanitaria individua quattro fasi del percorso migratorio nelle quali la violenza diventa esplicita: la prima è l’intrappolamento nei paesi con i quali l’Ue ha preso accordi di contenimento; la seconda è l’assenza di assistenza e la violenza sui confini; la terza è la detenzione in condizioni spesso degradanti all’interno dei confini dell’Ue; la quarta è l’insicurezza sistematica, l’esclusione e l’indigenza sperimentate nei Paesi di approdo.

Intrappolati nei Paesi extra Ue

Accordi di cooperazione tra Ue e Paesi extra Ue (ad esempio, Libia, Tunisia e Serbia), da cui spesso i migranti transitano per compiere l’ultimo tratto di viaggio, permettono a Bruxelles di esternalizzare le proprie frontiere, intrappolando le persone in Stati non sicuri, dove le condizioni di vita sono difficili e le violenze quotidiane.

La Libia è l’esempio per eccellenza di questa prima forma di violenza fisica e psicologica sui migranti. Tra il 2016 e il 2022, la quantità di persone che dopo aver tentato di lasciare il Paese nordafricano vi sono state riportate a forza è cresciuta fino alla metà del totale delle partenze. Nei primi otto mesi del 2023, più di 11mila persone sono state intercettate e respinte in Libia. Dietro a questo incremento si nascondono i cospicui finanziamenti di Ue e governo italiano per rafforzare la capacità libica di controllare i propri confini.

Muri, barriere, assenza di soccorsi

Nonostante questo, i flussi verso l’Europa continuano. Ed è a questo punto che i migranti si scontrano con una seconda tipologia di violenza. Muri e barriere, dotati delle più moderne tecnologie di sorveglianza, costellano i confini esterni dell’Ue e testimoniano la brutalità dell’approccio securitario europeo alle migrazioni.

Ad esempio, lungo il confine tra Polonia e Bielorussia corre una barriera di filo spinato alta 5,5 metri. Questa crea quella che viene chiamata la «zona della morte»: una terra di nessuno tra i due Paesi alla quale le organizzazioni umanitarie non possono accedere e dove i migranti – esposti alle intemperie e oggetto di violenze e umiliazioni da parte della polizia polacca di frontiera – si trovano bloccati.

Ma non sono solo muri e barriere a tenere fuori i migranti dell’Ue. Anche la decisione, sempre più frequente, dei Centri maltese e italiano per il coordinamento dei salvataggi in mare di ignorare la presenza di barche in difficoltà nelle proprie aree di competenza costituisce una forma di violenza psicofisica sui migranti. Questo mentre le organizzazioni umanitarie che cercano di supplire alla mancanza di operazioni di salvataggio sono criminalizzate e le loro attività osteggiate.

Detenzioni

Giunti nell’Ue, i migranti si scontrano con una terza forma di violenza, la detenzione. Molti si trovano a vivere in strutture di accoglienza che di accogliente hanno ben poco.

Sono gli hotspot, introdotti in Italia e Grecia per velocizzare le operazioni di identificazione dei migranti ed eventuali processi di rimpatrio. Luoghi dove le persone sperimentano privazioni e restrizione di diritti e libertà. Questo genera in loro un senso di coercizione che aumenta le sofferenze fisiche e psicologiche già accumulate durante il viaggio.

Marginalizzazione

Infine, a testimonianza di quanto la violenza sia connaturata alle politiche migratorie europee, in diversi Paesi si verificano forme di rifiuto ed esclusione che impediscono ad adulti e bambini di accedere al sistema di accoglienza. In questo modo, i migranti sono forzati a vivere nella precarietà e non beneficiano, ad esempio, di un’abitazione o di assistenza sanitaria di base.

In più alcuni Paesi destinatari di movimenti secondari, come la Francia, ostacolano i flussi: per i migranti, superare il confine italo-francese a Ventimiglia è diventato molto difficile a causa del ripristino dei controlli alla frontiera.

Violenza connaturata alle politiche Ue

Quelle descritte dal rapporto di Medici senza frontiere sono quattro forme di violenza che generano un costo umano enorme. L’organizzazione umanitaria, infatti, riscontra tra i migranti, oltre a problemi fisici come malnutrizione, disidratazione, malattie della pelle e dell’apparato gastrointestinale, anche un’allarmante crescita di disturbi psicologici: disturbi del sonno, ansia, stato di allerta costante e flashback ricorrenti di momenti traumatici.

Nonostante l’evidenza dei dati, le politiche e le pratiche dell’Ue sulle migrazioni sono state confermate e normalizzate nell’ultima versione del Patto europeo su migrazioni e asilo del dicembre 2023. Lo scopo rimane quello di contenere i flussi, senza considerare però l’impatto su coloro che quei flussi li compongono: persone.

Aurora Guainazzi