Africa australe. Mancano acqua, cibo ed energia

 

I campi sono gialli. Secchi. Da febbraio non piove. Neanche una goccia sull’Africa australe. La siccità si è diffusa lentamente. I raccolti sono stati bruciati. I bacini idrici si sono svuotati e anche le centrali idroelettriche sono ferme o viaggiano a ritmo ridotto. La siccità in Zambia, Zimbabwe e Malawi, i Paesi più colpiti, è un problema ricorrente, ma quest’anno le tre nazioni si sono trovate a far fronte a condizioni particolarmente dure, le più dure da 40 anni.

Le cause principali della siccità sono legate a fenomeni climatici globali come El Niño, che altera i modelli di pioggia, e al cambiamento climatico, che sta aumentando la frequenza e la gravità delle siccità. L’insicurezza alimentare è una delle conseguenze più gravi, con milioni di persone che si trovano a fronteggiare la fame e la malnutrizione. Inoltre, l’impatto economico è significativo, con perdite agricole, aumento dei prezzi degli alimenti e pressioni sulle risorse idriche che aggravano le già fragili economie.

In Zambia, la siccità, secondo i dati forniti dall’autorità governativa, ha colpito più di 6 milioni di persone, di cui la metà bambini. La carenza di piogge ha avuto un impatto significativo sulla produzione agricola, soprattutto nelle regioni meridionali, in particolare sulla coltivazione del mais, che è un alimento base per gran parte della popolazione. La mancanza di acqua ha anche influito sulla produzione di energia, poiché il Paese dipende fortemente dall’energia idroelettrica. La diga di Kariba, una delle principali fonti energetiche del Paese, ha visto un drastico calo dei livelli d’acqua, portando a interruzioni di corrente e razionamenti. L’azienda elettrica nazionale ha chiesto all’autorità dell’energia di poter aumentare le bollette del 156%.

Anche lo Zimbabwe è stato duramente colpito, con conseguenze devastanti sull’agricoltura e sulla sicurezza alimentare. Il Paese, già afflitto da una decennale crisi economica, ha visto un ulteriore peggioramento della situazione a causa della scarsità di acqua. La siccità ha colpito duramente la produzione agricola, in particolare le coltivazioni di mais, portando a carenze alimentari diffuse. Ciò ha causato un forte aumento dei prezzi alimentari che ha spinto l’inflazione alimentare sopra al 60%. Circa 2,7 milioni di persone nelle aree rurali sono minacciate dalla fame. Anche in Zimbabwe la scarsità d’acqua ha anche compromesso la produzione di energia idroelettrica rendendo più cara la bolletta.

Pure in Malawi, la siccità ha compromesso la produzione di mais, che è la principale fonte di cibo e reddito per la maggior parte della popolazione. Ciò ha portato a un aumento della fame e della malnutrizione, soprattutto nelle aree rurali. Inoltre, la siccità ha colpito la disponibilità di acqua potabile e la capacità del Paese di generare energia elettrica, poiché gran parte della sua elettricità proviene da impianti idroelettrici. Circa 9 milioni di persone necessitano ora di assistenza, la metà sono bambini.

I governi di Zambia, Zimbabwe e Malawi, insieme alle organizzazioni internazionali, stanno cercando di affrontare la crisi con varie strategie. Il Programma alimentare mondiale e l’Unicef stanno intervenendo con aiuti alimentari e supporto nutrizionale, soprattutto per i bambini più vulnerabili. Tuttavia, la frequenza crescente di questi eventi climatici estremi suggerisce che la siccità diventerà una sfida sempre più ricorrente, richiedendo soluzioni a lungo termine e un supporto internazionale più consistente per rafforzare la resilienza delle comunità locali.

Enrico Casale




Sudan. Oltre 16 milioni a rischio fame

 

Da aprile 2023, il Sudan è dilaniato da una sanguinosa guerra civile. A scontrarsi sono l’esercito governativo guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan – leader ufficiale del Paese – e le Forze di supporto rapido, un gruppo paramilitare comandato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, rivale di al-Burhan.

Mentre i due si contendono il controllo del Sudan – il più delle volte ignorando i tentativi di dialogo portati avanti dalla comunità internazionale – i civili sudanesi pagano le conseguenze di un conflitto sempre più violento. Gli sfollati interni sono oltre dieci milioni, mentre più di due milioni di persone si sono rifugiate negli Stati vicini. Gli aiuti umanitari faticano a entrare nel Paese: entrambe le fazioni in conflitto ostacolano l’accesso di operatori e organizzazioni internazionali. Tant’è che, negli ultimi mesi, tra coloro che non avevano cibo a sufficienza, solo una persona su dieci ha ricevuto l’assistenza necessaria. Secondo le Nazioni Unite, quindi, il Sudan sta vivendo la peggiore crisi alimentare della sua storia.
Per valutare le condizioni alimentari di un Paese, a livello internazionale è stato introdotto un sistema condiviso di monitoraggio, l’Integrated food security phase classification (Ipc). Un meccanismo che si articola su cinque livelli, dove il primo descrive una condizione di sufficiente disponibilità di cibo mentre l’ultimo corrisponde alla carestia. Passando per situazioni di «stress alimentare» (livello 2), «crisi» (livello 3) ed «emergenza» (livello 4).

Nel caso del Sudan, le ultime rilevazioni (pubblicate a luglio) mostrano che, tra giugno e settembre 2024, oltre 25 milioni di persone (su una popolazione di quasi 50 milioni) si sono trovate, o saranno, in una condizione di «crisi», se non peggio. E la situazione è in rapido deterioramento. Infatti, rispetto alle precedenti stime di dicembre 2023, il numero di sudanesi in situazione di «crisi» è cresciuto del 45%, raggiungendo i 16,3 milioni. Mentre il livello successivo, quello emergenziale, riguarda ormai 8,5 milioni di persone (con un incremento del 74%).
A preoccupare, però, sono soprattutto i dati relativi all’ultima fase, la carestia. Se a dicembre 2023 nessun sudanese era a rischio, ora 755mila persone – sparse in dieci località del Paese – soffrono di insicurezza alimentare estrema. Cioè un’insufficienza severa, prolungata e diffusa di cibo, tale da causare malnutrizione, fame ed elevata mortalità tra la popolazione. Già a febbraio, le Nazioni Unite avevano avvertito che nei mesi successivi sarebbero potuti morire fino a 220mila bambini per la mancanza di generi alimentari. Più recentemente, il Clingendael institute, un ente di ricerca olandese, ha stimato che entro ottobre 2,5 milioni di sudanesi potrebbero perdere la vita a causa dell’insicurezza alimentare.
Attualmente, le aree del Paese più a rischio di carestia sono 14 tra province (Greater Darfur, Greater Kordofan e Al Jazirah) e località che accolgono sfollati e rifugiati (soprattutto a Khartoum, la capitale). Ufficialmente, le Nazioni Unite non hanno ancora dichiarato uno stato di carestia ma, allo stato attuale, l’intersecarsi di diversi fattori – conflitto, ciclici disastri naturali e devastazione economica – rende la prospettiva sempre più possibile e vicina.

Secondo l’Ipc infatti, se gli scontri non cesseranno – o quantomeno non allenteranno la propria presa sui civili -, l’insicurezza alimentare si diffonderà sempre di più nel Paese. La violenza ha costretto molti sudanesi a lasciare abitazioni e attività economiche per rifugiarsi nei campi di sfollati. Dove però gli aiuti umanitari faticano ad arrivare a causa dei blocchi e dei saccheggi degli attori armati.
Diverse reti stradali e vie commerciali sono diventate impercorribili. La produzione agricola è crollata: campi, mezzi di produzione e catene di approvvigionamento sono andati distrutti. Quindi i prezzi dei generi alimentari – sia di produzione interna sia d’importazione (diventata sempre più difficile) – sono schizzati alle stelle. L’Unocha (l’agenzia delle Nazioni Unite per gli affari umanitari) ad esempio stima che i prezzi delle commodities siano aumentati dell’83% rispetto all’inizio del conflitto.
I disastri naturali – come le recenti inondazioni – si vanno a sommare a un contesto socioeconomico già estremamente fragile e non fanno altro che acuire la vulnerabilità della popolazione. Soprattutto nel caso di sfollati e rifugiati che spesso vivono in campi di fortuna.
Il Sudan – dilaniato da una guerra di potere – è sempre più vicino al baratro.

Aurora Guainazzi




Traumi migratori. Rimettere insieme i frammenti

 

«Gli eventi traumatici estremi come la tortura e la violenza intenzionale portano a una drammatica frammentazione delle funzioni psichiche di coloro che le subiscono. Allo stesso modo, il percorso di cura può essere visto – metaforicamente e nei fatti – come un processo di ricomposizione dei “frammenti” della mente e del corpo dei sopravvissuti».

Inizia con queste parole il rapporto «Frammenti» di Medici per i diritti umani (Medu), un’organizzazione che lavora per fornire una risposta al bisogno di salute mentale proveniente da migranti, rifugiati e richiedenti asilo in Italia. Le sue iniziative si rivolgono soprattutto a coloro che sono sopravvissuti a tortura e trattamenti crudeli, inumani e degradanti.

Un’esigenza di intervento evidenziata anche dai dati: dei 1.500 migranti che Medu ha assistito nei suoi progetti dal 2014, l’80% ha riferito di aver subito tali trattamenti nei Paesi di origine e/o di transito. In particolare in Libia, che Medu denuncia essere ormai una vera e propria «fabbrica della tortura».

In Italia, il sistema di accoglienza e quello sanitario sono decisamente lontani dall’essere in grado di individuare precocemente e prendere in carico efficacemente richiedenti asilo e rifugiati che hanno subito torture, stupri e altre forme gravi di violenza fisica, psicologica o sessuale.

Già si è dovuto attendere ben trent’anni dalla ratifica della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti affinché l’Italia introducesse nel proprio Codice penale il reato di tortura.

In più, le Linee guida per l’assistenza, la riabilitazione e il trattamento dei disturbi psichici dei rifugiati e delle vittime di tortura – emanate nel 2017 dal ministero della Salute – sono ancora ampiamente disattese dalla maggior parte delle regioni italiane. Mancano i fondi per riorganizzare i servizi sanitari, introdurre figure per la mediazione linguistico-culturale e formare il personale medico e psicologico.

È in questo contesto di carenza di adeguati servizi medici e psicosociali che Medu ha fondato i centri Psyché.

A Firenze, Ragusa e Roma, queste strutture si occupano della salute mentale transculturale di migranti, richiedenti asilo e rifugiati. La loro nascita è stata resa ancor più necessaria dalla riduzione dei servizi legali e psicologici nei Centri di accoglienza straordinaria a seguito dell’introduzione della legge 50 del 2023 (il cosiddetto «Decreto Cutro», l’ennesima stretta al sistema di accoglienza italiano).

I centri Psyché dunque cercano di riempire questo vuoto. Nascono per fornire assistenza psicologica, psichiatrica e psicosociale ai sopravvissuti a tortura, trattamenti inumani e degradanti, violenza sessuale e di genere. Ma sono aperti anche a tutti coloro che presentano disagi psichici di natura post-traumatica, indipendentemente da condizione giuridica, economica e sociale.

In questi centri, una figura essenziale è il mediatore linguistico-culturale. In un video contenuto nel rapporto «Frammenti», Najla Hassen, mediatrice di Medu, racconta: «Ci occupiamo di ferite, quindi è essenziale dialogare nella lingua dei pazienti per avvicinarci il più possibile a loro. La mediazione linguistica non è soltanto una traduzione letterale, è un’interpretazione e un costruire un dizionario per ogni persona che incontriamo».

Mentre il suo collega Abdoulaye Toure aggiunge: «Il mediatore non è una presenza basata solo sulla trasmissione, sulla traduzione della lingua, ma sul fatto di stare lì. Il paziente ha vicina una persona che potrebbe essere uno zio o un fratello più grande e ha fiducia. Così, riesce a raccontare molto di più di quello che il terapeuta si aspettava».

Infatti, nonostante il background sociale e anagrafico delle persone assistite nei tre centri sia diversificato, tutti coloro che vi accedono sono stati esposti a traumi complessi (intesi come eventi ripetuti, prolungati nel tempo e di natura interpersonale).

Analizzando un campione di 120 persone, ad esempio, Medu ha rilevato che, mediamente, ciascun individuo è sopravvissuto a sette eventi traumatici pre-migratori, migratori e post-migratori. Nei primi due casi si trattava di tortura, detenzione e gravi abusi fisici. Nell’ultimo invece rientrano le carenti condizioni dei centri di accoglienza, la precarietà dello status legale, lo scarso supporto psicosociale e le barriere linguistiche.

Ricomporre i «frammenti» della mente e del corpo dei sopravvissuti è quindi necessario per curare le ferite fisiche, ma soprattutto quelle psicologiche di migranti, richiedenti asilo e rifugiati. Farlo, parlando la loro lingua e interpretando le loro parole e i loro gesti, è fondamentale per garantire a tutti la possibilità di ricostruire il proprio futuro.

Aurora Guainazzi




Myanmar. La solidarietà tra le violenze

 

Nel Myanmar tormentato dalla guerra civile, la popolazione cerca di resistere al calvario senza fine che sta attraversando, tra sfollamento, povertà, violenza.

Dopo il golpe militare del febbraio 2021 e l’organizzazione delle «Forze di difesa popolare» – milizie della resistenza composte soprattutto da giovani birmani -, la nazione del Sudest asiatico, secondo l’Armed Conflict Location and Event Data Project (Acled), organizzazione internazionale senza scopo di lucro, che raccoglie dati sui conflitti, è attualmente «il posto più violento del mondo», segnato da almeno 50.000 moti in un triennio e con oltre 2,5 milioni di sfollati interni.

Che nel Paese non vi sia alcuno spiraglio di pacificazione né di ritorno alla normalità lo testimonia il fatto che la giunta militare ha prorogato lo stato di emergenza per altri sei mesi, rinviando eventuali elezioni al 2025.

Intanto gli scontri tra le forze popolari e il potente esercito birmano infuriano e il fronte della resistenza ha ora creato un’alleanza militare con gli eserciti delle minoranze etniche, da decenni in rotta con il governo centrale, in cerca di autonomia e federalismo. Tale saldatura ha generato diversi successi e conquiste dei resistenti sul terreno, soprattutto nelle aree di confine, mentre la giunta continua a controllare le principali città, nel centro del Paese.

In questo scenario di violenza diffusa, i civili continuano a fuggire da città e villaggi per scampare agli scontri e per anziani, donne e bambini si presenta ogni giorno la sfida del sostentamento.

Un recente rapporto del programma Onu per lo Sviluppo (Undp) rileva che il 75% dei 55 milioni di birmani vive oggi in condizioni di estremo disagio, e il 32% della popolazione – nota la Banca Mondiale – è in grave stato di indigenza, con ben 13,3 milioni di individui prossimi alla fame, anche perché il governo militare continua a impedire l’ingresso di organizzazioni umanitarie internazionali nel Paese.

A queste necessità interne vanno incontro parrocchie e realtà cattoliche birmane, in un Paese dove la Chiesa conta 700mila fedeli e mostra di apprezzare i ripetuti appelli che papa Francesco ha rivolto alla comunità internazionale di «non dimenticare il Myanmar».

Le diocesi cattoliche organizzano centri di accoglienza in strutture come parrocchie e scuole, procurano e distribuiscono aiuti, provvedono al sostentamento dei rifugiati. Ma lo sforzo delle comunità cristiane non è solo di carattere umanitario e caritativo, è anche morale e spirituale: fatto di vicinanza, consolazione, condivisione della vita di quanti, per salvarsi, fuggono nelle foreste o in aree isolate e montuose, luoghi nei quali, però, trovare cibo è molto difficile.

Un’esperienza esemplare è quella del «vescovo-profugo» Celso Ba Shwe, pastore di Loikaw, la capitale dello stato Kayah, nel Nord del Paese, costretto dal novembre del 2023 a lasciare la sua cattedrale e l’annesso centro pastorale perché occupati dall’esercito birmano per farne una base militare.

Il vescovo ha trascorso mesi lontano dalla sua Chiesa, dedicandosi a visitare i profughi e celebrando con loro le festività religiose come il Natale, la Pasqua, la Pentecoste. Una condizione di precarietà che ha colto come «un’opportunità per essere più vicino al mio popolo, più vicino alla gente, che ha tanto bisogno di consolazione e di solidarietà», mentre oltre la metà delle chiese della diocesi sono chiuse e svuotate a causa della fuga dei fedeli.

Nella situazione di sfollamento e di tribolazione, il vescovo e i preti della diocesi hanno potuto farsi «pastori con l’odore delle pecore» – espressone di papa Francesco – condividendo la vita degli sfollati e continuando e cercare sostegno e speranza nella vita di fede, nella preghiera, nella celebrazione comunitaria dei sacramenti anche in mezzo ai boschi. La fede per loro resta un baluardo per resistere alle avversità del tempo presente.

Paolo Affatato




I rifiuti dell’Europa nel mondo

 

Ogni anno, l’Unione europea esporta milioni di tonnellate di rifiuti in tutto il mondo, in particolare nel Sud globale. Si va dalla semplice spazzatura, ai dispositivi elettronici, passando per il fast fashion (l’industria della moda di massa).

Il business, che ruota attorno alla loro gestione e smaltimento, è enorme ed estremamente redditizio. Soprattutto per le organizzazioni criminali che guadagnano miliardi dall’esportazione illegale di rifiuti in tutto il mondo.

Secondo la Commissione europea, infatti, circa un terzo del totale dei rifiuti inviati fuori dai confini dell’Unione è gestito dalla criminalità organizzata, cioè dalle cosiddette «ecomafie».

Quanti, dove e come

I dati dell’Eurostat (l’Istituto di statistica europeo) mostrano che la maggior parte dei rifiuti prodotti nell’Ue (61 milioni di tonnellate nel 2022) si sposta tra gli Stati membri. Una quota consistente (nel 2022, circa 32 milioni di tonnellate), però, viene esportata oltre confine. Il 60% di questi rifiuti giunge in soli tre Paesi: Turchia (38%), India (17%) ed Egitto (5%).

In più, c’è l’economia sommersa controllata dalle ecomafie. Le disposizioni – che stabiliscono quali materiali possono essere o meno esportati e dove – sono facilmente aggirabili, mentre le sanzioni decisamente scarse.

Così, lo sviluppo di business illegali è semplice, e in diversi Paesi europei sono sorte reti criminali per l’esportazione di rifiuti (sia pericolosi che non) in altre aree del mondo.

L’Europol (l’agenzia dell’Unione europea per il contrasto alla criminalità), infatti, stima che il traffico illegale di rifiuti sia il più redditizio dopo quello di droga, la contraffazione e la tratta di esseri umani.

Nella sola Italia, nel 2021, l’Agenzia delle Dogane ha sequestrato oltre 7mila tonnellate di rifiuti in partenza per l’estero.

Spesso, i prodotti la cui esportazione è illegale sono mescolati ad altri legali, così da renderne difficile l’identificazione. Le norme vengono aggirate con degli escamotage. Ad esempio, la Convenzione di Basilea del 1989 sul controllo dei movimenti oltre frontiera di rifiuti pericolosi e sulla loro eliminazione permette l’esportazione solo di quei dispositivi elettronici che sono riparati subito dopo l’arrivo. Dunque, è sufficiente denunciare il trasporto di «prodotti di seconda mano» per eludere i controlli.

Lo smaltimento nel Sud globale

Ogni anno, dai porti europei partono tonnellate di rifiuti inviati illegalmente in tutto il mondo. In particolare, verso il Sud Est asiatico e l’Africa subsahariana, i quali ricevono – tra gli altri – dispositivi elettronici non più funzionanti, vestiti non più utilizzabili e materiali plastici.

In questi Paesi, uno smaltimento adeguato è difficile: mancano strutture efficaci ed efficienti. La plastica è bruciata all’aria aperta e rilascia fumi tossici e materiali inquinanti con effetti estremamente dannosi su ambiente e salute. I dispositivi elettronici si accumulano in enormi discariche a cielo aperto dove gli abitanti dell’area – senza adeguate protezioni – si recano ogni giorno alla ricerca di pezzi rivendibili o componenti minerarie riutilizzabili.

In generale, l’accumularsi di questi prodotti nel Sud globale e le modalità con cui vengono gestiti e smaltiti causano l’inquinamento di aria, acqua e suolo. Oltre a frequenti malattie – soprattutto respiratorie – tra la popolazione locale.

Il regolamento europeo

A fine 2021, la Commissione europea ha avanzato una proposta per l’introduzione di un regolamento (poi approvato l’11 aprile 2024) per combattere il traffico illegale di rifiuti e ridurre l’inquinamento e le emissioni di gas serra correlate.

Per quanto riguarda il commercio legale, la normativa vieta l’invio in Paesi terzi di tutti i rifiuti da smaltire. Così come proibisce l’esportazione di quelli destinati al recupero ma considerati pericolosi in Paesi non appartenenti all’Ocse (cioè tutti quelli africani e quasi tutti quelli asiatici e sudamericani). Verso questi Stati non è più possibile nemmeno esportare materiali plastici «non pericolosi». Quest’ultima disposizione completa il divieto (in vigore dal 2021) di inviare al di fuori dei Paesi dell’Ocse i rifiuti plastici considerati «difficili da riciclare» e «pericolosi».

Il regolamento si pone anche l’obiettivo di contrastare le esportazioni illegali. Ma in realtà su questo fronte non cambia molto rispetto alle normative già vigenti. Sebbene siano state introdotte regole ancora più stringenti su ciò che può essere esportato o meno, eluderle continua a essere molto semplice. Mentre le sanzioni restano limitate e non incentivano l’abbandono di attività criminali.

Il regolamento si limita a invitare gli Stati europei a collaborare maggiormente tra loro nel contrasto ai traffici illegali, aumentando gli sforzi di indagine e la comminazione di sanzioni. Ma nei fatti non è niente di nuovo rispetto a quanto già in vigore.

Aurora Guainazzi




Cina. Cent’anni dal concilio cattolico di Shanghai

 

Ripensare alla storia del cattolicesimo in Cina guardando alla figura del cardinale Celso Costantini (1876-1958), l’uomo che nel 1924, da Delegato apostolico in Cina, su incarico di Papa Pio XI, riunì nella città di Shanghai tutti i vicari e i leader cattolici allora presenti nel Paese, presiedendo il primo «Concilio plenario della Cina», o Primum concilium sinense, come amano citarlo gli studiosi, è un esercizio utile per riflettere sulle sfide e sulle prospettive odierne della Chiesa cattolica nel Celeste impero, in una cornice internazionale profondamente mutata.

Nelle scorse settimane si sono coinvolti in questo impegno numerosi accademici di atenei di Europa e d’Oriente, studiosi, vescovi ed esperti, in tre convegni di carattere internazionale: uno a Milano (il 20 maggio, all’Università Cattolica del Sacro Cuore); uno in Vaticano (il 21 maggio, all’Università Urbaniana); un terzo a Macao tra il 26 e il 29 giugno.

Punto di partenza della riflessione è stato il centenario di quel Concilio di Shanghai che aprì la via dell’indigenizzazione della Chiesa cattolica cinese (si iniziò cioè ad affidare la guida della comunità al clero locale) e dell’inculturazione (esprimendo la fede attraverso forme culturali tipiche delle tradizioni cinesi).

Una convinzione ha accomunato tutti gli studiosi e i leader cattolici intervenuti – della Cina continentale, come l’arcivescovo di Shanghai, Joseph Shen bin, e della Santa Sede, come i cardinali Pietro Parolin e Louis Antonio Tagle -: il Concilio di Shanghai fu un momento cruciale nella storia della Chiesa in Cina, in primis perché i cattolici avrebbero potuto, da allora in poi, godere di maggiori responsabilità ecclesiali.

Quell’assemblea avviò il processo di «decolonizzazione» ecclesiastica della Chiesa locale, come si sarebbe visto con la consacrazione di sei vescovi cinesi a Roma nel 1926, i primi vescovi nativi consacrati per la Cina in quasi 250 anni di storia missionaria.

Dopo il Concilio, Costantini continuò a opporsi alle forze che cercavano di imporre tratti europei alla presenza cattolica in Estremo Oriente: ad esempio, rientrato in Italia nel 1933, da segretario della Congregazione di Propaganda Fide (oggi Dicastero per l’evangelizzazione), sostenne la traduzione del messale in cinese per aiutare i fedeli a comprendere la messa, che allora si celebrava solo in latino (il placet definitivo sarebbe arrivato nel 1949).

«Di fronte specialmente ai cinesi, ho creduto opportuno di non dover accreditare in alcun modo il sospetto che la religione cattolica apparisca come messa sotto tutela e, peggio ancora, come strumento politico al servizio delle nazioni europee», scriveva nei suoi memoriali il cardinale friulano, la cui personalità è possibile oggi conoscere tramite il volume Il cardinale Celso Costantini e la Cina. Costruttore di un ‘ponte’ tra Oriente e Occidente, curato per i tipi di Marcianum Press da Fabio Pighin, ordinario di Diritto canonico a Venezia e delegato episcopale per la causa di canonizzazione dello stesso Costantini.

Bruno Fabio Pighin, «Il cardinale Celso Costantini e la Cina. Costruttore di un “ponte” tra Oriente e Occidente», Marcianum Press, 2024, 50 €.

Il punto di caduta di quella che è stata un’illuminante riflessione storica è stato l’evoluzione dei rapporti sino-vaticani e l’Accordo stipulato nel 2018 tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese. Infatti, come ha ricordato il cardinale Parolin nel convegno organizzato in Vaticano dall’Agenzia Fides, «l’azione missionaria e diplomatica di Costantini si fondava sulla necessità che la Santa Sede e le autorità cinesi instaurassero un dialogo diretto tra loro».

A quella necessità si ricollega, allora, l’Accordo attualmente in vigore, rinnovato per due volte nel 2020 e nel 2022, e che si attende possa essere convalidato per un ulteriore biennio. Accanto a quel patto, che garantisce il reciproco riconoscimento dei Presuli eletti – sanando ferite di un passato in cui potevano esserci vescovi nominati in modo unilaterale da Pechino -, Parolin ha ricordato che, sul piano dei rapporti diplomatici (tuttora inesistenti), la Santa Sede auspica di poter avere una presenza stabile in Cina, in un processo che parte dall’aumentare i contatti, per individuare in seguito la forma adatta, anche diversa da una nunziatura stabile.

di Paolo Affatato

Per approfondire la figura del cardinale Celso Costantini visita: https://www.associazionecardinalecostantini.it/




Venezuela. L’ultimo azzardo di Maduro

 

Nella notte di domenica 28 luglio, il Consejo nacional electoral (Cne) del Venezuela ha annunciato il vincitore delle elezioni presidenziali in anticipo, senza attendere tutti i conteggi e senza effettuare alcuna verifica. Nicolás Maduro avrebbe vinto con il 51,2% dei voti. Cina, Russia ed Iran, paesi notoriamente a digiuno di democrazia, hanno subito inviato messaggi di complimenti al (presunto) vincitore. Se le cose rimarranno tali, Maduro, ex autista e sindacalista di 61 anni, in carica dal 2013, sarà presidente del Venezuela per la terza volta, fino al 2031.

Opposto il risultato diffuso dalla Plataforma unitaria democrática (Pud), l’alleanza che riunisce i principali partiti dell’opposizione sotto la guida di María Corina Machado, la pasionaria inabilitata a partecipare alle elezioni. Secondo gli oppositori, il loro candidato, l’ex ambasciatore Edmundo González Urrutia, avrebbe vinto la consultazione con 7,2 milioni di voti pari al 67% dei voti. Tuttavia, anche sui dati della Pud è lecito nutrire qualche dubbio.

Dunque, le due posizioni appaiono inconciliabili e – purtroppo – foriere di violenze. Poco dopo la diffusione dei risultati del Cne, nelle strade di Caracas sono iniziate proteste popolari con le pentole (cacerolazos) o con le barricate (guarimbas), mentre Maduro ha sollecitato i propri sostenitori a scendere in piazza contro «fascisti e controrivoluzionari». In questo momento, cifre non verificabili parlano di una decina di morti e un migliaio di arresti.

Secondo l’opposizione, questi sarebbero i veri risultati delle elezioni di domenica 28 luglio. Dal sito: resultadosconvzla.com.

Già nelle ore successive alle elezioni, il governo venezuelano aveva interrotto le relazioni diplomatiche con ben sette paesi dell’America Latina – Argentina, Cile, Costa Rica, Perú, Panamá, Repubblica Dominicana e Uruguay -, rei di aver espresso dubbi sulla veridicità del risultato. Più cauti nei giudizi sono stati il Brasile, il Messico e la Colombia, come anche gli Stati Uniti e l’Unione europea.

Mai tenera con il governo bolivariano, la Chiesa cattolica venezuelana – che raccoglie circa il 90 per cento dei cittadini – ha chiesto una verifica dei risultati, raccomandandosi nel contempo di evitare qualsiasi azione violenta. Per parte sua, l’«Osservatorio per la democrazia in America Latina», appartenente all’associazione delle università gesuitiche latinoamericane (Ausjal), pur criticando fortemente le modalità del processo elettorale, ha concluso che le elezioni rimangono l’unico cammino per la pace. Raggiunto via WhatsApp, un missionario della Consolata che lavora tra i Warao ci ha detto: «In questo momento siamo pieni di parole, promesse,… Tanti sanno tanto… Io credo che sia il tempo di ascoltare, fare silenzio, accompagnare, rimanere con i poveri, con il popolo che soffre».

Una verifica importante del risultato potrebbe essere effettuata controllando i registri ufficiali (i cosiddetti «actas de escrutinio») di ciascun seggio elettorale. Tuttavia, a quasi una settimana dal voto, questa verifica non è ancora arrivata. Nel frattempo, il 30 luglio il Centro Carter – organizzazione indipendente (e autorevole) con alle spalle 124 elezioni in 43 paesi e la sola ammessa come osservatore dal Cne – ha rilasciato un duro comunicato in cui si dice nero su bianco che l’elezione non è stata democratica.

Elezioni a parte, la situazione generale rimane pesante. Stando alle statistiche più recenti (fonte Encovi), oltre metà della popolazione venezuelana (51,9 per cento) vive in povertà, mentre nel 2023 l’inflazione annuale è stata del 189,9 per cento (Banco Central de Venezuela). A causa della situazione economica e politica, dal 2014 circa otto milioni di cittadini (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, Unhcr) hanno abbandonato il Paese. La maggioranza di essi vive (o, più sovente, sopravvive) in Colombia, Perú, Stati Uniti e Brasile.

Senza voler giustificare le carenze governative, va anche detto che le sanzioni (bloqueo e medidas coercitivas unilaterales) a cui è sottoposto il governo di Caracas sono una causa primaria della grave situazione economica del Paese latinoamericano. Secondo l’Observatorio venezolano antibloqueo, organismo ministeriale, dal marzo 2015 il Venezuela è sottoposto a 930 misure sanzionatorie, in gran parte imposte dagli Stati Uniti. Le sanzioni più pesanti sono quelle sul petrolio e il gas, vera ricchezza del Paese.

Paolo Moiola




Niger. Sempre peggio sicurezza e diritti

 

A un anno dal colpo di stato contro il presidente Mohamed Bazoum, il 26 luglio 2023, il bilancio del governo della giunta non è certo positivo. I militari presero il potere con la forza, motivando la loro azione con la necessità di sanare problemi di mal governo e riportare la sicurezza nel Paese.

Il Cnsp (Consiglio nazionale di salvaguardia della patria, la giunta), con alla testa il generale Abdourahamane Tiani, ha il controllo totale del paese. L’attività di partiti politici rimane sospesa, così come tutti gli organi democratici di governo, a livello nazionale e locale.
Il Cnsp ha imposto al contingente militare francese di partire, e recentemente, a quello Usa e tedesco, che devono lasciare il suolo nigerino entro fine agosto. Solo alcune centinaia di militari italiani (anche loro facevano parte della forza anti terrorismo ed erano stati chiamati dai francesi) rimangono nel paese, a spese dell’ignaro contribuente della penisola, e non è chiaro con quale incarico.

Sicurezza e diritti umani
In questo anno di governo militare, la situazione della sicurezza è peggiorata. È aumentato il numero degli attacchi da parte di gruppi armati, e anche quello delle perdite tra i soldati nigerini. I gruppi jihadisti hanno esteso il territorio sotto la loro influenza: sia nella zona di frontiera tra Niger e Benin, nella zona delle tre frontiere (Burkina Faso, Mali, Niger) e addirittura nel Sud Est, dove Boko Haram pareva domato.
La società civile denuncia un forte degrado della situazione dei diritti umani. Sono state ristrette tutte le libertà civili, politiche e la libertà di stampa e di espressione. Molti politici e personalità legate al governo democratico sono ancora imprigionate, senza un preciso capo d’accusa. Diversi giornalisti sono stati arrestati o hanno subito pressioni, altri sono costretti ad applicare l’auto censura.
Il generale Tiani, che inizialmente aveva parlato di una transizione di tre anni, non ha più proposto alcun programma o scadenza per un ritorno alla democrazia. Intanto, dopo la prima fase di sanzioni, la comunità internazionale si è piegata alla realpolitik. La Cedeao (Comunità economica regionale) ha tolto le sanzioni economiche a gennaio, mentre Banca mondiale e Fondo monetario internazionale hanno inviato esperti e ripreso a finanziare il paese a partire da giugno.
L’Unione europea ha invece mantenuto la sospensione della cooperazione, fatta eccezione di Italia e Spagna.

Nuovi e vecchi amici
Intanto, nel settembre scorso, Niger, Mali e Burkina Faso – anche questi ultimi due retti da giunte militari golpiste – hanno creato l’Alleanza degli stati del Sahel (Ass). Alleanza che a inizio luglio (durante un incontro dei tre capi di stato militari proprio a Niamey) è diventata una Confederazione che si contrappone alla Cedeao, vuole intensificare gli scambi commerciali e cambiare la moneta lasciando il franco Cfa. Una tendenza all’isolamento, questa, almeno nei confronti degli stati confinanti.
A livello globale, il Niger si sta rivolgendo ad altri partner. Ha negoziato un prestito di 400 milioni di dollari con la Cina (che sta sfruttando il petrolio nigerino del giacimento di Agadem), necessario per pagare altri prestiti. Mentre per far funzionare l’apparato statale si valuta necessaria una spesa di circa 100 milioni di euro all’anno).
Il primo ministro (de facto), Ali Mahamane Lamine Zeine, inoltre, a inizio anno ha visitato Teheran, Mosca e Ankara, per rafforzare il legami con i paesi che stanno sostituendo quelli occidentali nello scacchiere saheliano.
In particolare la Cina è interessata alla cooperazione sul petrolio, ed è in vista un investimento per una raffineria nella regione di Dosso, e un secondo oleodotto verso il Ciad. Il primo, ultimato e funzionante, è gestito dalla China national petroleum corporation (Cnpc) porta il greggio in Benin, ma è soggetto alle problematiche legate al rapporto non buono tra i due paesi.
La Russia interviene con una cooperazione militare in cambio di risorse, come già in Mali e Burkina Faso. In Niger c’è un particolare interesse per l’uranio, del quale il Paese è uno dei maggiori produttori mondiali.

Marco Bello




Francia. Pulizie olimpiche

 

Oggi, 26 luglio 2024, si aprono le Olimpiadi di Parigi con una cerimonia che si preannuncia molto coreografica. Per la prima volta nella storia dei Giochi, gli atleti non sfileranno in uno stadio, ma navigheranno in barca lungo la Senna. Ad assistere, decine di autorità e migliaia di appassionati da tutto il mondo. Mentre chi non sarà a Parigi potrà comunque ammirare la bellezza e lo sfarzo de «la ville lumière» in mondovisione.

Quello che invece non verrà mostrato è il dietro le quinte, la vita reale delle migliaia di persone allontanate dalla capitale francese e dai suoi luoghi simbolo proprio in occasione dei Giochi. Da gennaio 2024, infatti, le operazioni di sfratto di edifici occupati, insediamenti informali e baraccopoli sono aumentate vertiginosamente. Azioni non nuove a Parigi, ma la cui frequenza e sistematicità si sono impennate con l’avvicinarsi delle Olimpiadi.

A tal proposito, l’Observatoire des expulsions de lieux de vie informels (un’organizzazione che monitora le espulsioni di persone che vivono in condizioni informali) tra il 2023 e il 2024 ha registrato 138 sfratti nella regione dell’Ile-de-France (che include Parigi e dintorni). Numeri in crescita rispetto ai 120 interventi l’anno documentati tra il 2021 e il 2023. A essere colpiti sono soprattutto i più fragili: migranti, senzatetto e rom. Nel solo 2023, oltre 6mila persone.

In occasione delle Olimpiadi, Parigi è stata ripulita dagli indesiderati. (Disegno di Hédrich-Présence via lereversdelamedalle.fr)

Queste operazioni, secondo Le revers de la médaille (un collettivo di circa cento organizzazioni francesi per i diritti umani), assumono i connotati di una vera e propria «pulizia sociale». La quale si manifesta attraverso minacce, espulsioni e invisibilizzazione sistematica di persone e gruppi categorizzati come non desiderabili nei luoghi in cui si terranno i Giochi e, più in generale, nella capitale francese.

Interventi di questo genere non sono una novità. Soprattutto in grandi città e in prossimità di importanti eventi internazionali. Ne è un esempio Pechino, la capitale cinese dove nel 2008, in occasione delle Olimpiadi, circa 12,5 milioni di persone furono costrette a lasciare la città.

La Senna e una Parigi da cartolina. (Foto Chris Karidis – Unsplash)

Le autorità francesi, però, hanno sempre negato qualsiasi correlazione tra le politiche di sfratto e le Olimpiadi. Tuttavia, le tempistiche e le località d’intervento lasciano ben pochi dubbi: l’obiettivo era dipingere una Parigi da cartolina, pronta ad accogliere le centinaia di migliaia di appassionati francesi e stranieri che si sarebbero riversati nella città nei mesi successivi.

Non è casuale nemmeno la scelta dei ministeri dell’Interno e delle Abitazioni di pubblicare nel marzo del 2023 delle linee guida in materia. In vista di operazioni massicce di sfratto, sono state rilasciate indicazioni comuni per la gestione amministrativa e il ricollocamento di persone in centri di ricezione temporanea in altre regioni del Paese. Quando le persone vengono sfrattate si vedono infatti offrire un posto su un autobus diretto in un’altra città francese senza sapere quale.

Nell’ammettere l’esistenza di misure di sfratto, il sindaco di Parigi ha però detto che «l’emergenza abitativa è una responsabilità del governo nazionale, il quale si occupa di pianificare e organizzare le operazioni di evacuazione». E ha rifiutato qualsiasi connotazione violenta, sostenendo che «gli interventi si basano su un principio semplice: nessuno sfratto è possibile senza fornire una soluzione alternativa e le operazioni devono essere condotte nel rispetto di persone e proprietà».

In realtà, oltre a gettare le persone nell’incertezza, sfratti e ricollocazioni assumono connotati particolarmente violenti. Ne è un esempio la storia di Omar (nome di fantasia) raccontata da «France 24». Rifugiato sudanese di 27 anni, Omar era arrivato in Francia nel 2017. Dal 2018, aveva un permesso di residenza e lavorava con contratti brevi nel settore dell’edilizia. Ma, nonostante il suo status legale, viveva in una condizione di precarietà.

Soprattutto a livello abitativo: dopo essere stato ospitato da amici, si era trasferito in edifici occupati prima a Saint-Denis e poi a Vitry-sur-Seine. Quest’ultima struttura, il 17 aprile 2024, è stata sfrattata dalla polizia e i suoi abitanti, tra cui Omar, sono stati ricollocati. Nonostante avesse ancora tre mesi di contratto, Omar è stato caricato su un autobus diretto a Orléans (130 chilometri a sud di Parigi). Dopo aver vissuto per tre settimane in una struttura predisposta dal governo, gli è stato intimato di andarsene, senza vedersi offerta un’alternativa. Omar, quindi, si è trovato ancora una volta senza una casa, un lavoro e in una città sconosciuta.

In occasione dei Giochi olimpici, nel tentativo di nascondere i lati oscuri della capitale francese le azioni di sfratto e ricollocazione si sono intensificate. Spostare le persone dalla capitale francese ad altre città del Paese non risolve, però, il problema.

Buone Olimpiadi di Parigi 2024.

Aurora Guainazzi




Kenya. I giovani contro la finanziaria e la corruzione

Quella di quest’anno è un’estate di fuoco per il Kenya. Nelle settimane scorse il Paese africano ha assistito a un’escalation di proteste legate a questioni di giustizia sociale, economia e diritti umani. Le proteste hanno coinvolto studenti, lavoratori e attivisti, che hanno espresso il loro dissenso, anche violento, contro le politiche del governo o contro specifiche ingiustizie percepite.

Il pretesto delle manifestazioni è stato il Finance Bill 2024 (la legge finanziaria del Paese), una norma che proponeva aumenti delle tasse su beni e servizi essenziali, tra cui olio da cucina e pane, con l’obiettivo di raccogliere 2,7 miliardi di dollari di entrate in un contesto di diffusa insoddisfazione per le pratiche di spesa del governo, compreso un budget di 7,8 milioni di dollari per i lavori di ristrutturazione della State House (la residenza ufficiale del presidente William Ruto). Dietro le manifestazioni, c’è però anche un diffuso malcontento per la corruzione endemica e la mancanza di trasparenza nelle istituzioni governative nella gestione dei fondi pubblici. Ma anche l’esigenza di giustizia sociale ed economica. Le disuguaglianze economiche e la mancanza di opportunità per le fasce più povere della popolazione hanno sollevato richieste di riforme nel sistema economico e di miglioramenti nelle condizioni di vita.

La risposta del governo è stata segnata dalla brutalità della polizia, che ha provocato numerose vittime (almeno 41), inclusa la morte di giovani manifestanti come Rex Kanyike Masai e Evans Kiratu. Questi incidenti hanno suscitato ulteriore indignazione e solidarietà tra i keniani, sia offline sia online. I social media hanno, infatti, svolto un ruolo cruciale nell’organizzazione del sostegno e nella raccolta di fondi per le famiglie delle vittime, dimostrando l’abilità digitale delle generazioni più giovani nel mobilitare e sostenere azioni di protesta.

Questo approccio di mutuo aiuto ha contribuito a mantenere l’indipendenza e la trasparenza del movimento, evitando le accuse di finanziamenti esterni spesso utilizzate dal governo per delegittimare tali proteste. Le proteste sono inoltre state caratterizzate dall’assenza di un organismo organizzatore centrale. Questa struttura decentralizzata ha consentito un’ampia partecipazione tra diversi dati demografici e regioni senza essere facilmente politicizzata o cooptata dal governo.

Componenti della Conferenza episcopale del Kenya (Kccb) riuniti per redigere un comunicato sulla rivolta (15 luglio 2024).

Di fronte a queste proteste, la Chiesa cattolica keniana – guidata dall’arcivescovo Maurice Muhatia Makumba – lo scorso 15 luglio ha reso pubblico un documento riguardante le manifestazioni e il contesto socio-politico del Paese. La nota esprime preoccupazione per la situazione attuale in Kenya, condannando l’uso eccessivo della forza da parte delle autorità contro i manifestanti e sottolineando l’importanza del dialogo e della pace. L’episcopato keniano ha ribadito l’importanza del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, come il diritto di manifestare pacificamente. Ha anche invitato tutte le parti coinvolte a cercare soluzioni attraverso mezzi non violenti e negoziati.

Inoltre, affronta questioni di giustizia sociale e richiama l’attenzione sulla necessità di riforme che garantiscano un’equa distribuzione delle risorse e la lotta contro la corruzione. La Chiesa cattolica in Kenya si è impegnata a lavorare con tutte le componenti della società per promuovere la riconciliazione e la coesione nazionale.

Nel complesso, le proteste estive in Kenya hanno evidenziato un cambiamento nel panorama politico del Paese, spiegano gli analisti politici, con i giovani keniani che hanno sfruttato la tecnologia e la propria organizzazione di base per chiedere al governo responsabilità e giustizia economica.

I disordini hanno anche sottolineato il crescente malcontento nei confronti del presidente William Ruto il quale, pur avendo responsabilità personali per la situazione attuale, ha ereditato una macchina pubblica malfunzionante e un’economia nazionale in difficoltà. Al momento, la scelta del presidente è stata quella di licenziare gran parte del suo governo.

Enrico Casale