Alaska. Se Fairbanks tocca i 30 gradi

Nel giro di venti giorni – tra il 13 giugno e il 3 luglio – il Servizio meteorologico nazionale degli Stati Uniti (National weather service) ha emesso due allerta per le alte temperature. Nulla di eccezionale se gli avvisi non avessero riguardato l’Alaska: per lo Stato più settentrionale e più freddo degli Usa, si è trattato della prima (e della seconda) volta. Nella regione di Fairbanks le temperature hanno raggiunto i 30 gradi (86 gradi Farenheit). Per capire la portata dell’evento, va precisato che la città di Fairbanks si trova a soli 320 chilometri dal Circolo polare artico (e questo dista circa 2.670 chilometri dal Polo Nord). In Alaska il riscaldamento climatico è da due a tre volte superiore alla media del resto del mondo: parliamo di un incremento di almeno 2 gradi Celsius. Secondo l’«Alaska climate research center» (Acrc) dell’Università di Fairbanks: «Considerando l’andamento della temperatura a lungo termine, la nuova normalità indica che lo Stato si sta riscaldando».

Le conseguenze di questa nuova normalità sono plurime, tutte molto pesanti: i ghiacciai si riducono, il ghiaccio marino artico si contrae, le coste si erodono, il permafrost si scioglie (con danni su case, strade e infrastrutture), eventi estremi (inondazioni e incendi) si intensificano, le mutate condizioni ambientali si riflettono su flora e fauna, i popoli indigeni vedono modificate le proprie abitudini (di caccia e pesca, in primis). Per l’Alaska (e la questione climatica, in generale) la situazione si è aggravata con il ritorno di Donald Trump, da sempre negazionista, alla Casa Bianca. E lo si è visto fin dal primo giorno del suo insediamento. Infatti, il presidente ha immediatamente firmato un ordine esecutivo intitolato «Liberare lo straordinario potenziale di risorse dell’Alaska» e questo in linea con il suo mantra in materia di energia, «Drill, baby, drill» (Trivella, tesoro, trivella).

Una mappa dell’Alaska, cinquantesimo Stato degli Stati Uniti.
Con Donald Trump anche la riserva naturale dell’«Arctic national wildlife refuge» (in alto, a destra) è in pericolo.

In altre parole, Trump vuole facilitare le trivellazioni in Alaska abrogando le limitazioni, definite «punitive», dell’era Biden. Il progetto include anche l’«Arctic national wildlife refuge», un’area naturale protetta che si trova nella zona nord-orientale dello Stato.

Nonostante le evidenze scientifiche e le esperienze quotidiane, il negazionismo climatico continua a imperversare. I negazionisti sostengono che le variazioni sono sempre esistite e che esse non sono dovute a cause umane. Anche in Italia ci sono molti esponenti, che riescono a trovare ascolto in partiti politici e media. «L’ideologia verde, fondata su presupposti scientifici fallaci, ha impoverito il mondo. Ecco perché Trump, ponendo fine a questa follia, sta salvando il pianeta» ha scritto su La Verità (17 giugno) Franco Battaglia, da anni leader irraggiungibile dei negazionisti italiani. «Cosa ci insegna il caldo di questi giorni? La narrazione dominante sui media dice che è colpa nostra […]. Sennonché questa ideologia è smentita dalla storia e dalla scienza, infatti sappiamo, con certezza, che il clima del pianeta cambia continuamente, da sempre» ha sottolineato il negazionista Antonio Socci su Libero (6 luglio). Pochi giorni dopo (9 luglio), commentando un calo improvviso delle temperature, lo stesso quotidiano titola «Dopo l’allarmismo per l’estate carissima», confondendo il clima con il meteo. Un errore incredibile.

I negazionisti sono stati criticati dallo stesso papa Leone XIV che, nell’omelia del 9 luglio, ha detto: «Dobbiamo pregare per la conversione di tante persone, dentro e fuori della Chiesa, che ancora non riconoscono l’urgenza di curare la casa comune. Tanti disastri naturali che ancora vediamo nel mondo, quasi tutti i giorni in tanti luoghi, in tanti Paesi, sono in parte causati anche dagli eccessi dell’essere umano, col suo stile di vita».

Paolo Moiola




RD Congo-Rwanda. Pace interessata

«Io sono chiaramente favorevole alla pace, sono sempre contento quando le armi vengono deposte, quando si decide in qualche modo di porre fine alle violenze, ma quello che non va bene è l’ipocrisia». Fridolin Ambongo, il cardinale di Kinshasa, capitale della Repubblica democratica del Condo, commenta con queste parole il recente accordo siglato a Washington tra il suo Paese e il vicino Rwanda.
Egli teme che gli interessi personali dei soggetti che hanno deciso di mettersi attorno a un tavolo renda fragile l’accordo, quando invece c’è un grande bisogno di una pace duratura, soprattutto per l’Est del Paese, piagato da decenni di conflitti violenti.

«La corsa ai minerali strategici è oggi, soprattutto in Africa – prosegue il cardinale -, all’origine della proliferazione dei gruppi armati», ma le soluzioni non possono essere calate dall’alto e non possono arrivare dall’esterno.

Monsignor Ambongo, in Vaticano, ai giornalisti presenti per la presentazione del documento delle Chiese del Sud del mondo sulle questioni climatiche, in vista della Cop30 di novembre in Brasile, ironizza sulla soluzione proposta da Donald Trump alla Rd Congo e al Rwanda: «Siete in guerra tra di voi e la causa della guerra sono i minerali. Io, il grande Trump, arriverò, vi riconcilierò e voi mi darete i minerali», dice il cardinale riferendo quello che lui ritiene essere il pensiero e l’interesse del Presidente degli Stati Uniti nella mediazione di questa contesa nel cuore dell’Africa. Ambongo ricorda che Trump «ha provato questa soluzione in Ucraina, ma non ha funzionato».

Il problema, hanno evidenziato in tante occasioni gli esponenti delle Chiese africane, è che tutti vogliono mettere le mani sul Continente: «Terra ricca di biodiversità, minerali e culture, ma impoverita da secoli di estrattivismo, schiavitù e sfruttamento. L’Africa non è un continente povero; è un continente saccheggiato», sottolinea il cardinale della Repubblica Democratica del Congo.

La pace tra Congo e Rwanda rischia dunque di essere effimera, spiegano fonti della Chiesa congolese, perché non si tocca uno dei nodi principali all’origine delle violenze che devastano in particolare la regione del Kivu, ovvero il ruolo delle milizie M23, sostenute dal vicino Rwanda che, dopo avere occupato a gennaio scorso Goma, nel Nord, sono entrati anche a Bukavu, capoluogo del Sud della stessa regione.

Nonostante i dubbi e soprattutto i timori, la Chiesa congolese sostiene il processo di pace, perché esso prevede la cessazione delle ostilità, cosa di cui c’è assoluto bisogno in quelle terre.

«Ci sono nostri fratelli e sorelle che soffrono nell’Est del Paese. Di fronte a questa situazione, sosteniamo la firma di un accordo per porre fine alla guerra e porre fine alle sofferenze del nostro popolo», ha detto Ambongo auspicando che nonostante gli interessi che hanno portato alla firma, sia possibile cominciare a scrivere una nuova pagina.

Manuela Tulli




Nato. L’insostenibile 5%

I 32 Paesi Nato hanno deciso l’aumento della spesa militare al 5% del Pil. Mentre per la sanità l’Italia spenderà nel 2025 circa 143 miliardi e per l’istruzione 57, ben 45 miliardi di Euro andranno per difesa e sicurezza. Per la Nato, nel 2035 la spesa annua italiana dovrà essere di 145: 100 miliardi in più ogni anno. Una cifra insostenibile a meno di non aumentare tasse e debito, e di non ridurre cure mediche e scuola.

Dunque, la decisione è presa: i Paesi della Nato, «si impegnano a investire il 5% del Pil all’anno in requisiti di difesa fondamentali, nonché in spese relative alla difesa e alla sicurezza, entro il 2035», si legge nella dichiarazione finale del vertice dei trentadue Paesi membri dell’Alleanza tenutosi tra il 24 e 25 giugno all’Aja.
Le minacce che giustificherebbero questa decisione sono chiaramente indicate: la Russia e il terrorismo.

Si tratta di un documento sottoscritto all’unanimità, ma molto vago e senza vincoli determinati, in modo da permettere sin da subito interpretazioni diverse: infatti Spagna e Slovacchia hanno già dichiarato che non aumenteranno le loro spese militari, altri Paesi come il Belgio hanno espresso forti dubbi, altri come l’Italia hanno già messo le mani avanti su di una interpretazione molto larga del concetto di difesa e sicurezza.

Nel testo (una paginetta) le spese che ciascun Paese membro dovrebbe sostenere, sono suddivise in due categorie: quelle per la difesa vera e propria a cui si dedicherebbe il 3,5% del Pil; quelle per infrastrutture di sicurezza, di cui nel documento si dà un generico elenco, alle quali verrebbe destinato l’1,5%. Il tutto deve essere raggiunto in 10 anni: quindi entro il 2035.
Sulla prima categoria c’è un impegno dei Paesi a produrre piani annuali «credibili e progressivi», ma senza alcuna verifica, se non nel 2029.

Le conseguenze per l’Italia

Il Pil italiano del 2024 è stato pari a 2.192 miliardi di euro, le previsioni parlano di una crescita di spesa per la difesa stimata del 2,6% annuo.
Nel 2025, la spesa militare farà un balzo di 9,7 miliardi rispetto al 2024, ma con un artificio contabile che permetterà di raggiungere il 2% del Pil.
L’obiettivo di aumentare la spesa al 5% in dieci anni significa passare dai 45 miliardi di oggi (35 in difesa e quasi 10 in sicurezza) a ben 145 nel 2035 (oltre 100 in difesa e quasi 44 in sicurezza), con un salto di 100 miliardi.

Tutto questo porterà l’Italia a spendere in totale, nei prossimi dieci anni, quasi mille miliardi di euro in difesa e sicurezza (quasi 700 miliardi in difesa e quasi 300 in sicurezza).

Tanto per fare un raffronto, la spesa sanitaria prevista per il 2025 è di 143 miliardi, quella per l’istruzione di 57 miliardi.

Dove verranno trovati questi soldi? Il bilancio dello Stato del 2024 è stato di 1.200 miliardi circa, si tratta di aumentare le spese del 9%!

Sono due sono le principali fonti di entrata per uno Stato: i tributi, il debito.
Dato che nessuna delle due fonti si potrà allargare più di tanto, per raggiungere la spesa prevista dall’accordo Nato per difesa e sicurezza, bisognerà gioco forza ridurre la spesa in altri settori del bilancio dello stato: aspettiamoci, quindi, considerevoli tagli al già disastrato welfare, un salasso per le tasche dei cittadini, un debito già fuori controllo ulteriormente ingigantito.

A questo, sul profilo politico, si aggiunga il rafforzamento di un blocco militare-industriale che condizionerà le scelte pubbliche per i prossimi decenni.

Le attuali spese per gli armamenti sono insufficienti?

Come scritto più volte sulle pagine di MC (vedi ad esempio: «Spese militari nel mondo. Mai così alte», le spese militari sono in costante aumento da più di un decennio.

Diamo uno sguardo alla situazione complessiva: secondo l’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma, nel 2024 sono stati spesi 2.718 miliardi di dollari in armi a livello globale, con un aumento del 9,4% rispetto all’anno precedente, più 20% in 3 anni.

La spesa militare nell’Europa geografica, Russia inclusa, è aumentata del 17 per cento, raggiungendo i 693 miliardi di dollari, e ha contribuito in modo significativo all’aumento globale.

La spesa militare della Russia ha raggiunto una cifra stimata di 149 miliardi di dollari nel 2024, con un aumento del 38 per cento rispetto al 2023.
La spesa militare aggregata degli Stati membri dell’UE ha raggiunto i 370 miliardi nel 2024, il secondo più alto dopo gli Stati Uniti. Tra i Paesi Ue, la Germania ha visto un aumento del 28 per cento, raggiungendo gli 88,5 miliardi di dollari all’anno. In tal mondo, la Germania è diventata il Paese che ha allocato più denaro per le spese militari in termini assoluti dell’Europa centrale e occidentale, il quarto al mondo. Anche Francia e Gran Bretagna hanno toccato cifre importanti.

I trentadue paesi della Nato rappresentano il 55% della spesa militare globale totale, pari a 1,5 trilioni di dollari.

Anche la Cina ha aumentato il suo budget militare per il trentatreesimo anno consecutivo, con 314 miliardi di dollari nel 2024.

Imparare dalla storia

Siamo in presenza di una folle corsa agli armamenti in tutto il pianeta, e l’Europa è già ai primi posti.

Tutto ciò non dà maggiore sicurezza, al contrario, stanno saltando tutti gli organismi internazionali preposti alla prevenzione dei conflitti, vengono stracciati i Trattati internazionali, mentre la guerra viene vista come unico metodo per risolvere i conflitti.

Non c’è nulla di più falso del motto «si vis pacem para bellum», un motto attribuito all’impero romano, una macchina da guerra che seguendo quel principio ha esteso il suo dominio in tutto il mondo allora conosciuto. Da allora tutte le volte che gli stati si sono armati, ne sono conseguite guerre.

Basterebbe rileggere la storia dei primi anni del secolo scorso, quando la corsa agli armamenti è sfociata nella Grande guerra, un conflitto che tutti volevano evitare ma che ha sconquassato il mondo con conseguenze fino ai nostri giorni.

Ma allora che fare per la pace?

Proponiamo qui un elenco non esaustivo di azioni che pensiamo siano da inserire in un progetto per la pace che l’UE dovrebbe fare proprio.
Siccome, però, questa Uè non lo farà, lo faccia proprio il movimento per la pace, e lo proponga a forze politiche vecchie e nuove per riuscire a ribaltare questa deriva pericolosa verso una nuova Grande Guerra, che questa volta sarà nucleare.

• Ripristinare quel sistema di equilibrio diplomatico che ha permesso di conservare la pace anche ai tempi della guerra fredda: rafforzare l’Onu e la Csce (Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa). Anzi, lavorare per una nuova conferenza di Helsinki.
• Riprendere negoziati sulla limitazione e il controllo degli armamenti, misure di rafforzamento della fiducia, diplomazia e disarmo in Europa.
• Rinnovare il trattato Start sulla riduzione degli armamenti strategici, che scade nel 2026.
• Creare zone libere da armi nucleari, nel Mediterraneo e in Europa.
• Sostenere e aderire al trattato Onu che mette al bando le armi nucleari (Tpan).
• Rafforzare la cooperazione tra Stati e tra associazioni della società civile.
• Promuovere l’educazione alla pace nelle scuole e nelle comunità, insegnando i valori del rispetto, della tolleranza e della nonviolenza.
• Promuovere la difesa civile non armata e nonviolenta, come alternativa alla difesa militare tradizionale.
• Sostenere la ricerca e lo sviluppo di modelli di difesa basati sulla prevenzione dei conflitti, la gestione nonviolenta delle crisi e la protezione dei civili.

Siamo ancora in tempo!

Paolo Candelari

Links utili

La dichiarazione NATO

Sui costi secondo Milex

Sintesi dei dati da SIPRI sulle spese militari

Presentazione report SIPRI (in inglese)

Una analisi da Vatican news




Siria. Attacco agli «infedeli»

Damasco, 22 giugno 2025. Nella chiesa greco-ortodossa di Sant’Elia, nel quartiere di Dweila, sono più di 300 le persone che si sono radunate in occasione della messa domenicale.

Durante la preghiera, i fedeli vengono investiti da una violenta deflagrazione. Un attentatore suicida si è fatto esplodere all’ingresso della chiesa. Sono 25 i morti e più di 60 i feriti. Si tratta dell’attacco terroristico più grave dell’era post-Assad.

Il kamikaze viene identificato con il nome di Mohammed Zain al-Abidin, un uomo meglio conosciuto con il suo soprannome: Abu Othman. Nelle prime ore, le agenzie di stampa riportano la tragedia come un attacco perpetrato dall’Isis, ma, poche ore dopo l’attentato, sui canali social ne viene rivendicata la paternità. L’attacco non è stato compiuto da Daesh ma da un nuovo gruppo terroristico, un’organizzazione che fa già molta paura alle minoranze religiose siriane. Si fanno chiamare Sas, acronimo di Saraya Ansar al-Sunna (Brigate a sostegno/fedeli del sunnismo).

Da chi è formato questo nuovo gruppo? Quali sono le sue origini? Particolarmente attivo sui social, in particolare su Telegram, Sas è formato da miliziani sunniti.  Sotto il regime di Assad, ha combattuto a fianco dell’Hts, soprattutto durante la riconquista della Siria. Sas, quindi, faceva parte a tutti gli effetti di quelli che l’Occidente ha soprannominato i «ribelli anti-Assad». Oggi, questi miliziani accusano il nuovo governo di essersi avvicinato troppo all’Occidente e, per questo, «infedele».

La cittadina cristiana di Ma’Lula vista dal campanile del monastero di Santa Tecla. Foto Angelo Calianno.

Anche l’attuale presidente della Siria, Ahmed al-Sharaa (vero nome di al-Jawlani), è stato bersaglio della campagna d’odio e di minacce portate avanti dal nuovo gruppo estremista. I membri del Sas si sono schierati, in particolare, contro le minoranze cristiane, druse, e sciite.

Sono proprio gli sciiti, oggi in Siria, a correre il pericolo maggiore, in particolare quelli della corrente alawita. Sono più di 1.500, infatti, gli alawiti uccisi in 40 diverse località siriane, tra il 7 e 9 marzo scorso. Molti degli attentati sono stati rivendicati dal Sas e da altre milizie loro simpatizzanti.

Le autorità siriane, e le organizzazioni per il monitoraggio del terrorismo in Medioriente, hanno dichiarato che è ancora presto per dare una precisa identità al Sas. Difficile rintracciarne una base fisica o luogo di provenienza, anche se, nelle ultime indagini, si è identificata la città di Homs come una delle sue possibili roccaforti.

Nelle ultime ore, cercando di ricostruire i movimenti dell’attentatore alla chiesa di Sant’Elia, Mohammed Zain al-Abidin, si è scoperto che questi sarebbe cresciuto nel campo di semidetenzione di Al-Hol, nel Nord-Est della Siria.

Nel 2023, con un nostro reportage su MC, raccontavamo proprio del potenziale pericolo che poteva nascere da questo campo. Al-Hol raccoglie, al suo interno, oltre 55mila persone. Sono mogli, figli e figlie dei terroristi dell’Isis detenuti nei penitenziari. L’interno di questi campi è quasi totalmente autogestito. Le autorità si limitano solo a sorvegliarne i perimetri.

I timori che luoghi come questo possano essere una fucina per nuove organizzazioni terroristiche, come Daesh, sta purtroppo trovando riscontri con gli ultimi attentati in Siria.

L’attacco del 22 giugno riporta la comunità cristiana a temere per la propria incolumità. Il cardinale Claudio Gugerotti, prefetto del dicastero per le Chiese orientali, ha espresso grande preoccupazione per il futuro dei cristiani in Siria. Il cardinale ha, inoltre, sottolineato la necessità di un aiuto, e di un intervento umanitario, in un Paese che è ancora sotto le sanzioni dell’Unione europea, anche se di recente meno rigide.

Uno degli ingressi al quartiere cristiano di Bab Tuma, a Damasco. Foto Angelo Calianno.

Abbiamo raggiunto telefonicamente alcuni negozianti del quartiere cristiano di Bab Tuma, a Damasco, persone che avevamo già incontrato nello scorso dicembre 2024, subito dopo la caduta del regime di Assad.

In particolare, Youssef ci dice: «Come comunità perseguitata, siamo sempre stati molto cauti nel gioire pienamente della nostra libertà. Certo, dopo la caduta di Assad, avevamo tutti una grande speranza di cambiamento. Non sappiamo come verrà gestita questa nuova emergenza. Posso dirvi, però, che molti stanno nuovamente pensando di fuggire all’estero. Siamo stati un bersaglio per Al-Qaida, poi Daesh, poi Al-Nusra, tutto questo sotto il regime di Assad, e ora Sas. I più anziani, come me, hanno ormai accettato questa situazione. Ma i giovani che pensano ad un futuro, lo sognano lontano da qui. Purtroppo».

Angelo Calianno




Kenya. I giovani contro la violenza

A un anno dalle proteste che, tra giugno e agosto 2024, hanno paralizzato il Kenya, i giovani continuano a manifestare, venendo spesso repressi dalle forze dell’ordine. L’intensità delle proteste è cresciuta nelle ultime settimane, dopo la morte del blogger e insegnante Albert Ojwang, mentre era in custodia della polizia. E, al contempo, anche la violenza delle forze dell’ordine keniane è tornata sotto i riflettori.

Mesi di manifestazioni
Lo scorso anno, i giovani keniani – o meglio, la «generazione Z», i nativi digitali – si sono mobilitati per mesi sui social media per manifestare contro la nuova legge finanziaria. La disposizione infatti – attraverso l’apposizione di nuove tasse o l’aumento di altre già in vigore – puntava a raccogliere 2,7 miliardi di dollari. In un Paese dove la disoccupazione, soprattutto tra i giovani, è estremamente elevata e il costo della vita cresce di anno in anno.
La finanziaria poi è stata modificata, rimuovendo alcune delle disposizioni più controverse. Ma, in realtà, per i giovani keniani rappresentava solo l’apice di un sistema sociale, politico ed economico allo sbando. Manifestando, denunciavano la corruzione sistemica della classe politica, più interessata ad aumentare il proprio tenore di vita che a investire in servizi pubblici e politiche sociali.

Ben presto, l’obiettivo delle proteste sono diventate le dimissioni del capo di Stato, William Ruto. Il quale ha risposto con un rimpasto dell’esecutivo che, però, di fatto, non ha cambiato nulla. Nel frattempo, molti giovani sono stati repressi dalla polizia – secondo Amnesty International (Ong per la difesa dei diritti umani) sono state uccise almeno cinquanta persone e tante altre – non meno di 80 – sono sparite nel nulla.

La morte di Ojwang
La storia ha poi iniziato a ripetersi a inizio giugno 2025, quando Albert Ojwang, giovane blogger e insegnante di Migori (Ovest del Paese), è stato arrestato. Accusato di aver pubblicato sui suoi profili social contenuti critici nei confronti del governo, è stato rapidamente trasferito a Nairobi, nella sede centrale della polizia. Il giorno successivo, le forze dell’ordine ne hanno annunciato il suicidio. Una tesi rapidamente smentita dall’autopsia che ha invece evidenziato ferite compatibili con la tortura a morte.

Infatti, che le forze dell’ordine keniane silenzino voci di dissenso e attivisti non è una novità. Secondo l’Independent policing oversight authority (ente che monitora la violenza della polizia keniana), negli ultimi quattro mesi, almeno 20 persone sono morte mentre erano in custodia. Poco prima dell’arresto di Ojwang, invece, Rose Njeri, sviluppatrice di software, era stata arrestata per aver ideato uno strumento digitale che facilitasse la partecipazione dei cittadini alle audizioni sulla nuova finanziaria. Il tutto mentre, paradossalmente, il governo incita i cittadini alla «partecipazione pubblica».

Nuove proteste, vecchia storia
Dopo la morte di Ojwang, i giovani keniani sono tornati in strada. Questa volta, oltre a criticare il nuovo innalzamento delle tasse previsto nella finanziaria del 2025 e il crescente costo della vita, hanno anche denunciato la violenza della polizia. E sono stati, di nuovo, repressi. Diversi manifestanti hanno denunciato di essere stati colpiti dai proiettili delle forze dell’ordine. Altri sono stati attaccati da un gruppo di ciclisti, armati di mazze e fruste e conosciuti per collaborare con la polizia.

Il 25 giugno poi, in occasione dell’anniversario delle proteste del 2024, in diverse città keniane, centinaia di persone sono scese in strada per commemorare le vittime e denunciare quanto la violenza sia un tratto distintivo delle forze dell’ordine. Anche quest’anno, si è sentito riecheggiare uno degli slogan delle proteste del 2024: «Ruto must go» (Ruto se ne deve andare).

A Nairobi, ci sono stati scontri tra la polizia e i manifestanti con il lancio incrociato di gas lacrimogeni e pietre. Almeno 16 persone sono morte e i feriti sono più di 400. Le attività commerciali e le scuole sono rimaste chiuse, mentre polizia ed esercito hanno bloccato le strade principali della capitale e i maggiori edifici governativi sono stati circondati con il filo spinato. Il ministro dell’Interno ha accusato i manifestanti di «tentato colpo di stato».
Ancora una volta, le città keniane si sono riempite di giovani in protesta, mostrando che la strada verso un Paese più giusto e democratico è ancora lunga.

Aurora Guainazzi




Iran. Dubbi nucleari

Teheran. Israele ha iniziato gli attacchi all’Iran con l’obiettivo di distruggere gli impianti del programma nucleare iraniano che, stando ai rapporti dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), aveva ormai accumulato 400 kg di scorte di uranio arricchito di fino al 60% di U-235. Un tale livello è incompatibile con programmi civili, che utilizzano al massimo uranio arricchito al 20% di U-235. Vi sono reattori ad uso civile che possono essere alimentati con uranio arricchito al 60%, ma la quantità massima che questi reattori possono utilizzare è di 30-40 kg ogni 3-4 anni, molto inferiore, quindi, ai 400 kg prodotti dall’Iran.

Un secondo obiettivo che si era dato il governo israeliano, è l’eliminazione dei principali scienziati impegnati nel programma (almeno 14 di questi scienziati sarebbero stati eliminati). Se rimpiazzare tecnici e tecnologie è relativamente semplice e veloce, diverso è sostituire le menti di un programma come quello nucleare.

Le immagini diffuse dalle Agenzie governative mostrano folle di iraniani per le strade a difesa della teocrazia.
Gli oppositori sono molti ma ancora divisi.
Foto Meghdad Madadi per Tasnim News Agency.

Al tempo stesso, i missili di Tel Aviv hanno mirato alle capacità militari iraniane, in particolare colpendo le basi di missili balistici che l’Iran aveva puntato contro Israele per ritorsione in caso di attacco.

Del migliaio di missili predisposti da Teheran, nei successivi 12 giorni dopo l’attacco ne sono stati lanciati 543 missili balistici (circa il 50%) in 43 ondate, con un grado di successo che si aggira attorno all’11% (60 missili a bersaglio); il restante 89% (483 missili) sarebbe stato neutralizzato dalla difesa israeliana. Occorre notare, inoltre, che i sistemi di difesa israeliani non cercano di intercettare tutti i missili, ma solo quelli diretti verso centri abitati. Gli ordigni indirizzati verso zone isolate non sono oggetto di intercettazione immediata e vengono lasciati passare (questo è il motivo principale dell’11% non intercettato). Ancora più alta (99,99%) sarebbe stata l’intercettazione dei circa 1.000 droni lanciati dall’Iran su Israele (solo un drone avrebbe raggiunto l’obiettivo).

Ogni tipo di missile balistico lanciato su Israele ha un suo differente Cep (Circular error probable, Probabilità di errore circolare), il raggio di precisione con cui si colpisce un obiettivo stabilito.

I missili iraniani che hanno colpito Israele sono di quattro tipi: Fattah-1 (Cep 10-25 metri), Khorramshahr-4 (Cep 10-30 metri), Kheybar Sjekan (Cep 100-300 m) e infine i Ghadr (Cep 1,2 km) e gli Emad (Cep 2.000 m), gli ultimi due costruiti da un disegno nordcoreano.

Dopo giorni di silenzio, la Guida suprema, ayatollah Ali Khamenei, ha parlato alla Tv di Stato.
(Screenshot da video)

Dal 20 giugno, gli attacchi israeliani si sono concentrati sulle istituzioni iraniane, colpendo sedi militari, politiche della Guardia rivoluzionaria Islamica (Islamic revolutionary guard corps – Irgc, conosciuti come Pasdaran) a Teheran nonché impianti di produzione – sia militari che civili – di proprietà o gestiti dall’Irgc. Tra gli obiettivi colpiti vi sono la sede Imam Hassan Mojtaba dell’Irgc nella provincia di Alborz e il Comando per l’applicazione della legge iraniana. Sono stati presi di mira anche impianti energetici (ad esempio una raffineria di gas, un impianto di produzione di gas naturale, un deposito di petrolio a Teheran) costringendo l’Iran a rallentare la sua produzione energetica, già comunque fortemente limitata dalle sanzioni internazionali. L’intento di questa seconda fase di attacchi israeliani non sarebbe stato quello di far cadere il regime sostituendolo con un altro, quanto quello di dimostrare che l’Idf fosse in grado di colpire il cuore delle istituzioni iraniane. Israele è conscio che un drastico cambio di governo in Iran non garantirebbe automaticamente un cambio di politica verso lo Stato ebraico: preferisce quindi mantenere lo status quo facendo capire alla fazione più potente e più ostile verso Tel Aviv (l’Irgc) di essere costantemente sotto tiro.

Il risultato di questa politica è un indebolimento della fazione clericale e più ideologizzata (gli ayatollah) favorendo i Pasdaran, più duri nella loro condanna a Israele, ma anche più pragmatici e forse più propensi ad una intesa con Tel Aviv. Questo, però, comporta il rischio di un cambio generazionale verso un gruppo di rivoluzionari più inclini ad accelerare il programma nucleare in chiave militare. Se questo dovesse accadere, Israele è sempre pronta a riprendere gli attacchi, questa volta colpendo in modo più sistematico i quartieri generali dei Pasdaran in tutto il territorio iraniano.

I siti nucleari di Fordow, Natanz e Isfahan: quali danni?

I tre siti nucleari iraniani colpiti dai bombardamenti Usa (U.S. strikes).
(Screenshot da FoxNews)

Per quanto riguarda il programma nucleare iraniano, ogni rapporto sui danni compiuti dai bombardamenti è fuorviante.

Il Bda (Bomb damage assessment), l’unico documento che afferma con ufficialità il risultato delle azioni militari, non è stato ancora emesso e le relazioni fatte da singoli o da agenzie sono da prendersi con le pinze (comprese le dichiarazioni di Trump e quelle più recenti della Dia, la Defence intelligence agency, pubblicata dalla Cnn)

Le fotografie satellitare a disposizione dopo gli attacchi statunitensi del 21 giugno, mostrano sei crateri nel sito di Fordow, il principale centro di arricchimento d’uranio concentrati in due punti, che sono considerati i punti deboli del centro nucleare. In totale sarebbero state sganciate su Fordow 12 bombe Gbu-57 ad alta penetrazione.

David Albright, presidente dell’Institute for science and International security (Isis), ha dichiarato alla Cnn che le immagini satellitari suggeriscono che «la sala di arricchimento e le sale adiacenti che forniscono supporto all’arricchimento potrebbero aver subito danni considerevoli. La distruzione totale della sala sotterranea è del tutto possibile», aggiungendo però che una valutazione completa dei danni richiederà del tempo.

I bombardamenti di Natanz avrebbero arrecato danni molto più gravi sin dai primi attacchi israeliani, distruggendo la quasi totalità delle centrifughe presenti nel sito. Gli isotopi di uranio all’interno della struttura avrebbero aumentato la radioattività (che non si sarebbe sprigionata all’esterno), rendendo difficoltoso e pericoloso un suo ripristino a breve termine.

Natanz disponeva di tre siti sotterranei che sarebbero stati colpiti da due bombe Gbu-57 a cui si sono aggiunti missili da crociera.

Il terzo sito nucleare colpito dagli attacchi Usa è stato quello di Isfahan, un complesso inaugurato nel 1984 e costruito con l’aiuto della Cina e che è il cuore del programma nucleare iraniano. Qui, in sale sotterranee, che dalle immagini sarebbero state colpite da missili Tlam, verrebbe immagazzinato l’uranio arricchito. Le entrare oggi appaiono occluse da detriti e da terra, probabilmente accumulata dagli stessi iraniani per evitare dispersione di radioattività all’esterno.

A titolo di cronaca, un eventuale trasferimento delle centrifughe dai centri colpiti ad altri (come hanno fatto intendere aver fatto gli iraniani e le cui notizie sono state riprese acriticamente dai media italiani) non è cosa semplice: un impianto di arricchimento non si costruisce da un giorno all’altro e le centrifughe, per essere trasferite e rese operative, hanno bisogno di lunghe tempistiche oltre che tecnici specializzati, cosa di cui oggi l’Iran, dopo l’eliminazione dei fisici nucleari specializzati, manca.

Ciononostante, l’Iran avrebbe avuto il tempo di trasferire le scorte di uranio arricchito fino al 60% in siti segreti. Facendo questo, però, Teheran ammetterebbe di aver consciamente violato l’accordo Jcopa in almeno due punti: mantenendo siti non dichiarati all’Aiea e trasferendo materiale nucleare senza avvisare neppure in questo caso l’agenzia. Il direttore dell’Aiea, Rafael Mariano Grossi ha affermato che l’unico modo per avere la certezza sull’uranio arricchito iraniano è riprendere le ispezioni il prima possibile: «Non abbiamo informazioni sulla posizione di questo materiale», ha dichiarato in un’intervista alla Fox News.

L’uscita dalla Aiea

La sospensione degli accordi con l’Agenzia per l’energia atomica, organo dell’Onu, votata dal Parlamento iraniano mercoledì 25 giugno, potrebbe riflettere la volontà dell’Iran di riprendere l’arricchimento dell’uranio e rivedere i trattati Jcopa firmati nel 2015.

Piergiorgio Pescali, da Teheran




Iran. Una tregua carica di incognite

Teheran, 24 giugno. L’annuncio del cessate il fuoco tra Iran e Israele, mediato dal presidente Trump, ha trovato Teheran in una posizione complessa e contraddittoria. Dopo dodici giorni di conflitto che hanno scosso il Medio Oriente, la tregua rappresenta un momento di svolta per gli equilibri interni della Repubblica islamica, dove le diverse anime del potere si confrontano su strategie e prospettive future.

La risposta iraniana al cessate il fuoco ha immediatamente evidenziato le tensioni interne al regime. Il ministro degli Esteri Abbas Araghchi ha inizialmente negato l’accordo annunciato da Trump, precisando che l’Iran ha intenzione di continuare la risposta militare finché Israele cesserà le sue aggressioni. Questa posizione riflette la necessità di mantenere un punto fermo davanti all’opinione pubblica interna, evitando di apparire come il soggetto che ha ceduto per primo.

Il silenzio prolungato della Guida suprema dopo gli attacchi Usa è particolarmente significativo. L’ayatollah Ali Khamenei ha impiegato più di 36 ore prima di rilasciare una dichiarazione pubblica, mentre la leadership militare ha rotto il silenzio attraverso dichiarazioni più moderate. Questo comportamento suggerisce un momento di riflessione strategica ai vertici del regime, dove si stanno probabilmente valutando le opzioni future e i rapporti di forza interni.

La popolazione iraniana ha accolto la notizia del cessate il fuoco con sentimenti contrastanti. Da un lato, il sollievo per la fine (o la temporanea interruzione) di una escalation che minacciava di trascinare il paese in un conflitto più ampio. Dall’altro, la frustrazione per un regime che ha portato l’Iran sull’orlo del baratro senza ottenere risultati tangibili. Le limitazioni imposte dall’economia di guerra e le conseguenze degli attacchi alle infrastrutture nucleari pesano sulla vita quotidiana dei cittadini, già provati da anni di sanzioni internazionali.

Teheran, che durante il conflitto aveva vissuto momenti di tensione con evacuazioni e timori di attacchi diretti, sta gradualmente tornando alla normalità. Tuttavia, la percezione di vulnerabilità rimane alta: gli attacchi israeliani hanno dimostrato che anche il cuore del potere iraniano non è inviolabile, infrangendo un mito che il regime aveva coltivato per decenni.

Il conflitto ha accentuato le tensioni tra i diversi soggetti. I Pasdaran (Guardie rivoluzionarie) erano emersi come il braccio più influente del regime durante l’escalation, gestendo tanto la strategia militare quanto quella diplomatica attraverso i loro proxy regionali. La loro influenza si era rafforzata a scapito dell’establishment clericale tradizionale, rappresentato dagli ayatollah.

Tuttavia, il cessate il fuoco potrebbe segnare un momento di riequilibrio e gli ayatollah potrebbero utilizzarlo per riprendere il controllo della narrativa e delle decisioni strategiche, presentandosi come i garanti della stabilità e della continuità del regime. La prudenza mostrata nella gestione del cessate il fuoco potrebbe essere interpretata come un segnale di questa ripresa di controllo da parte dell’establishment religioso.

Il ruolo futuro dei Pasdaran dipenderà largamente dalla loro capacità di adattarsi a una fase di de-escalation. Se durante il conflitto il loro peso politico era cresciuto, ora dovranno dimostrare di saper gestire anche la pace, mantenendo il controllo sui proxy regionali e sulle attività economiche che costituiscono una parte significativa del loro potere.

La foto di rito dei rappresentanti di vari paesi il giorno dell’accordo sul nucleare iraniano. Era il 2 aprile 2015, dieci anni fa. (Foto United States Departament of State)

Gli attacchi israeliani alle infrastrutture nucleari iraniane rappresentano un colpo significativo al programma atomico del paese. Tuttavia, la leadership iraniana potrebbe paradossalmente utilizzare questi attacchi come giustificazione per una ripresa più aggressiva del programma nucleare, presentandola come necessaria per la sicurezza nazionale.

La questione atomica rimane centrale per gli equilibri interni iraniani. I Pasdaran vedono nell’arma nucleare la garanzia ultima della loro influenza regionale, mentre una parte della classe clericale e civile preferirebbe una soluzione negoziata che alleggerisca le sanzioni economiche. Il cessate il fuoco potrebbe aprire uno spazio per questa seconda opzione, soprattutto se accompagnato da iniziative diplomatiche che offrano all’Iran una via d’uscita onorevole.

L’Iran post-tregua si trova a un bivio strategico. Da un lato, la necessità di ricostruire e modernizzare un’economia devastata dalle sanzioni spinge verso un approccio più pragmatico che potrebbe includere concessioni sul programma nucleare in cambio di un allentamento delle sanzioni. Dall’altro, l’ideologia rivoluzionaria e la necessità di mantenere la credibilità regionale spingono verso il mantenimento di una postura di sfida.

Il futuro degli equilibri interni dipenderà largamente dalla capacità del regime di gestire queste contraddizioni. Se gli ayatollah riusciranno a riprendere il controllo, sarà probabile una fase di maggiore pragmatismo, con aperture diplomatiche e tentativi di normalizzazione. Se invece i Pasdaran manterranno la loro influenza, l’Iran potrebbe continuare sulla strada del confronto, utilizzando il cessate il fuoco solo come pausa tattica per riorganizzarsi.

La società iraniana, intanto, osserva questi sviluppi con un misto di speranza e scetticismo, consapevole che il suo destino dipende dalle scelte che la leadership compirà nelle prossime settimane. Il cessate il fuoco rappresenta un’opportunità per tutti gli attori coinvolti, ma solo il tempo dirà se sarà sfruttata per costruire una pace duratura o semplicemente per preparare il prossimo round di confronto.

da Teheran, Piergiorgio Pescali




Italia-Libia. La battaglia dei rifugiati

Prende il via la campagna guidata da «Refugees in Libya» per chiedere la revoca dell’intesa che lega Roma e Tripoli nella gestione dei flussi migratori. A guidarla sono i sopravvissuti alle violenze delle autorità libiche, sostenute anche dal governo italiano.

Il 20 giugno, «Giornata mondiale del rifugiato», è stata scelta come data simbolica per il lancio della campagna che chiede la revoca del «Memorandum d’intesa» che sancisce la collaborazione italo-libica in materia migratoria. Il trattato ufficialmente si propone di contrastare l’immigrazione illegale e la tratta di esseri umani ma, sin dalla sua promulgazione nel 2017, numerose organizzazioni umanitarie hanno denunciato le gravi conseguenze che ha sulle vite dei migranti che transitano dalla Libia: respingimenti violenti in mare, detenzione arbitrarie e violenze sistematiche nei centri di detenzione gestiti da milizie, ufficiali e non.

A promuovere l’iniziativa è «Refugees in Libya», organizzazione nata nel 2021 a Tripoli da un gruppo di giovani migranti che, vedendo le sofferenze a cui erano costretti compagni e compagne di viaggio, hanno deciso di denunciare la situazione. Oggi alcuni di loro si trovano in Europa, mentre altri sono ancora in Libia dove registrano un acuirsi delle violenze. Alla campagna hanno aderito numerose Ong e realtà della società civile tra cui Amnesty, Emergency, Mediterranea Saving Humans, Medici Senza Frontiere, Open Arms, Sea Watch, Tavolo asilo immigrazione.

L’obiettivo è chiaro: bloccare il rinnovo automatico dell’accordo, previsto per il 2 novembre 2025, data in cui, in assenza di una decisione contraria da parte del governo italiano, il Memorandum verrà prorogato fino al 2028. Nei prossimi mesi, le organizzazioni partner si mobiliteranno per sensibilizzare l’opinione pubblica e fare pressione sulle istituzioni italiane ed europee.

David Yambio, presidente di «Refugees in Libya», spiega come in questi anni di impegno abbiano raccolto evidenze e prove tangibili delle conseguenze del Memorandum sulle vite delle persone migranti, racconta di come abbiano visto amicizie e affetti perdere la vita in Libia e nel Mediterraneo e di come ora vogliano usare il privilegio di essere sopravvissuti a tutto questo per cercare di fermare la complicità italiana ed europea. 

Il messaggio che condivide è chiaro: «Chiediamo che i governi di Italia e Unione Europea pongano immediatamente fine al Memorandum e a ogni forma di cooperazione con la Libia. Qualunque fossero le buone intenzioni alla base di questo accordo, esso ha fallito dal punto di vista umanitario. Oggi invitiamo i cittadini europei a unirsi a noi in questa necessaria campagna per porre fine a questa follia una volta per tutte».

Oltre alla revoca del Memorandum, la campagna chiede giustizia per le vittime delle torture nei centri libici, attraverso il rilascio di visti umanitari e risarcimenti per le vittime degli abusi. Allo stesso tempo, propone soluzioni per il futuro: rafforzare le operazioni di salvataggio in mare statali, aprire corridoi umanitari sicuri e sostenere le organizzazioni della società civile che, in Libia, difendono i diritti dei migranti.

Il Memorandum e la cooperazione italo-libica

Le relazioni tra Italia e Libia affondano le proprie radici in un passato complesso, segnato dalla colonizzazione italiana e da un’eredità storica che, per decenni, ha influenzato i rapporti bilaterali. Nonostante le tensioni ricorrenti, soprattutto legate all’instabilità interna della Libia, i due Paesi hanno mantenuto nel tempo un dialogo, rafforzato da interessi comuni in ambiti strategici come l’energia e la gestione dei flussi migratori.

Fin dal 2000, infatti, la cooperazione italo-libica si è articolata in una serie di accordi bilaterali che hanno introdotto, in modo sempre più esplicito, l’obiettivo comune della lotta all’immigrazione irregolare. In particolare, durante l’ultimo decennio al potere del colonnello Mu’ammar Gheddafi, i rapporti tra i due Paesi si intensificarono, anche grazie al rapporto personale tra il leader libico e il presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi. Tra i punti culminanti del periodo ricordiamo la firma del Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione del 2008 – anche conosciuto come «Trattato di Bengasi» – che aveva come scopo principale quello di sviluppare un rapporto «speciale e privilegiato» tra le due nazioni. L’attuale testo di riferimento per la cooperazione italo-libica nel Mediterraneo è il Memorandum d’Intesa del 2017, sottoscritto dall’allora presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e dal presidente del Governo di riconciliazione nazionale Fayez al-Sarraj.

Alla base del Memorandum vi è l’idea che solo l’amicizia tra i due paesi possa offrire gli strumenti necessari per affrontare i flussi migratori attraverso il Mediterraneo e le tensioni che ne derivano, come si legge nel preambolo. Nel testo si afferma il desiderio italiano di aiutare le autorità libiche a ridurre le partenze via mare dalle sue coste, motivo per il quale offre un supporto innanzitutto tecnico e tecnologico nei confronti di coloro che sono «incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina, e che sono rappresentati dalla guardia di frontiera e dalla guardia costiera del Ministero della Difesa, e dagli organi e dipartimenti competenti presso il Ministero dell’Interno» (art. 1 par. c). Come è internazionalmente noto da anni, però, le violazioni dei diritti umani subite dalle persone migranti in Libia avvengono anche all’interno dei centri di detenzione ufficiali, senza alcuna distinzione rispetto a quanto accade nei centri non ufficiali gestiti dalle milizie. In nessun punto del trattato si fa riferimento alla tutela dei diritti umani ma, al momento della sua adozione, la comunità internazionale era già consapevole delle violenze e torture compiute nei centri di detenzione libici, che venivano denunciate da diverse Ong e organi internazionali.

Inoltre, era già risaputo che la Guardia costiera libica fosse una realtà endemicamente corrotta, così come l’implicazione dei suoi membri nel traffico di migranti. Tra questi, già da tempo, la giornalista Nancy Porsia denunciava Abd al-Rahman al-Milad (Bija), il capitano della sezione di Zawiya della Guardia Costiera e noto trafficante di esseri umani.  

Il Memorandum del 2017 è ancora oggi il punto di riferimento della cooperazione italo-libica nel Mediterraneo. Il testo, infatti, prevede una durata triennale con rinnovo automatico salvo disdetta scritta da una delle due parti almeno tre mesi prima della scadenza, e si è rinnovato tacitamente il 2 novembre 2022 per altri tre anni. Né il governo Draghi né quello guidato da Giorgia Meloni hanno chiesto di rivederne i contenuti. Ora bisognerà monitorare se l’azione congiunta delle organizzazioni umanitarie coordinate da Refugees in Libya verrà presa in considerazione dalle autorità e riuscirà a far mettere in discussione l’accordo prima del prossimo rinnovo previsto per il 2 novembre 2025.

Mattia Gisola e Eva Castelletti




Brasile. Le giravolte di Lula

Il prossimo novembre la città brasiliana di Belém do Pará, considerata la porta d’ingresso dell’Amazzonia, ospiterà la trentesima edizione della Conferenza delle parti (Cop30). Un evento di rilevanza mondiale che cade in un periodo storico in cui i cambiamenti climatici sono sempre più evidenti ma, al tempo stesso, minimizzati o addirittura negati dai leader politici al potere.

A quest’ottica revisionista sembra iscriversi anche il Paese ospitante. Tre autorevoli siti web brasiliani – Amazonia Real, Infoamazonia e Sumauma – stanno svelando le contraddizioni ambientali del governo Lula.

Per accennare soltanto ai fatti più recenti, ricordiamo due questioni: la prima riferita all’esplorazione petrolifera lungo la costa oceanica dell’Amazzonia, la seconda alla discussione del progetto di legge 2159, «Dispõe sobre o licenciamento ambiental» (Disposizioni sulle licenze ambientali).

Il primo caso riguarda il cosiddetto Blocco 59, un grande sito petrolifero offshore che si trova a circa 160 chilometri dalla costa di Oiapoque, nello stato di Amapá. Da tempo Petrobras, l’azienda petrolifera dello Stato brasiliano, aveva chiesto a Ibama, l’Istituto brasiliano dell’Ambiente e delle risorse naturali rinnovabili, la licenza per l’esplorazione e lo sfruttamento del giacimento petrolifero individuato sui fondali oceanici. I tecnici dell’Ibama avevano risposto negativamente a causa dei rischi ambientali e della pericolosa vicinanza con le foci del Rio delle Amazzoni.

Nella mappa elaborata dal sito Infoamazonia, vengono evidenziate le zone dell’Amazzonia in cui sono
in corso – a diversi livelli di avanzamento – esplorazioni petrolifere.
La situazione interessa non soltanto il Brasile, ma tutti i paesi amazzonici.

Alla fine, nella contesa tra Petrobras e Ibama, il presidente Lula ha scelto la prima, spingendo i dirigenti dell’organismo di controllo ambientale – in particolare, il presidente Rodrigo Agostinho e la direttora Magda Chambriard – ad andare contro i propri stessi tecnici. Quindi, mentre l’agenda climatica prevede un graduale abbandono delle fonti energetiche fossili, il Brasile sceglie di incrementarle.

Il secondo caso si riferisce al progetto di legge sulle licenze ambientali, approvato a fine maggio dal Senato e ora in discussione alla Camera. Si tratta di un progetto che mira a semplificare le regole ambientali. In particolare, riduce gli obblighi in materia ambientale degli imprenditori che potranno autocertificarsi, diluisce il potere di ispezione dei controllori e non protegge i territori indigeni non ancora omologati. Effetti talmente gravi che esso è stato soprannominato «projeto de lei da devastação» (disegno di legge sulla devastazione). Se anche la Camera approvasse il progetto, toccherà al presidente Lula porre la firma o il veto.

Sarà la forza della «bancada ruralista» (lo schieramento parlamentare dell’agrobusiness), sarà l’epoca storica di eclissi della democrazia, sarà forse l’età (compirà 80 anni il prossimo ottobre), ma il terzo mandato alla guida del Brasile sta mostrando un Lula diverso. Sicuramente non migliore dei precedenti.

Paolo Moiola




Burundi. Il dominio del partito

I prossimi cinque anni, nell’Assemblea nazionale burundese siederà un solo partito, il Consiglio nazionale per la difesa della democrazia-Forze per la difesa della democrazia (Cndd-Fdd), movimento che guida il Burundi dalla fine della guerra civile nel 2005 e di cui fa parte l’attuale capo di Stato, Evariste Ndayishimiye.
Infatti, secondo quanto comunicato l’11 giugno dalla Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni), dopo le legislative del 5 giugno, il Cndd-Fdd si è aggiudicato il 96,5% dei consensi. Mentre nessun altro partito o coalizione è riuscito a superare la soglia del 2% necessaria per entrare in Parlamento.

Repressione pre elettorale
Fin da subito, sono arrivate da più parti accuse di brogli e manipolazione dei risultati. D’altronde, che il voto non sarebbe stato trasparente era evidente già da mesi.
Ad aprile 2024, il Parlamento aveva adottato un nuovo Codice elettorale. Oltre a innalzare la tassa da pagare per potersi candidare, il testo introduceva anche l’obbligo, per coloro che abbandonavano un partito, di attendere almeno due anni prima di presentarsi con un’altra forza politica. Una mossa chiaramente diretta a escludere Aghaton Rwasa – grande rivale di Ndayishimiye e appena fuoriuscito dal Congresso nazionale per la libertà (Cnl) – dalle imminenti legislative.
Qualche mese dopo, a dicembre, la Ceni ha respinto diverse candidature dell’opposizione, sostenendo che le liste non rispettassero i requisiti etnici (60% di hutu e 40% di tutsi) e di genere (30% di donne). Alcuni – come Rwasa – erano membri della coalizione Burundi bwa bose (Burundi per tutti, in kirundi), nata nel 2024 e formata da diversi oppositori di spicco. Altri facevano parte del Cnl, il maggior partito di opposizione.
Ad aprile, inoltre, il presidente della Commissione nazionale indipendente per i diritti umani, Sixte Vigny Nimuraba, è fuggito dal Paese, dopo che la sua abitazione era stata perquisita dall’intelligence in circostanze poco chiare. Era la ritorsione del governo per l’ultimo rapporto della commissione che documentava centinaia di violazioni dei diritti umani, tra cui omicidi, sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie.
Nel frattempo, la popolazione era costretta con la forza dalle autorità e dagli Imbonerakure (la milizia giovanile del Cndd-Fdd) a registrarsi per il voto.

Elezioni manipolate
Dopo una campagna elettorale dominata dal partito di governo e dove all’opposizione sono stati lasciati ben poco spazio e risorse, il risultato ufficiale ha confermato la svolta sempre più autoritaria del Burundi: oltre a controllare l’intera Assemblea nazionale, il Cndd-Fdd, ufficialmente, ha vinto pressoché ovunque anche alle comunali.
Il risultato è frutto di una campagna – documentata da Human rights watch (Hrw), organizzazione per la difesa dei diritti umani – di intimidazioni, minacce e torture nei confronti della popolazione. Fuori da ogni seggio, gli Imbonerakure intimavano ai cittadini di votare per il Cndd-Fdd. Un membro della milizia, addirittura, ha raccontato a Hrw: «Ci è stato detto di fare tutto il necessario per essere certi che le persone votassero solo per il Cndd-Fdd».
Il personale al lavoro nei seggi apparteneva solo al partito di governo. Ai rappresentanti dell’opposizione, ai giornalisti indipendenti e agli osservatori – tra cui quelli della Chiesa cattolica, fortemente critica nei confronti del governo – è stato impedito di accedere ai seggi, soprattutto durante lo spoglio. E così, in molti comuni, è stato facile riportare un numero di voti espressi superiore agli elettori realmente registrati.
La copertura delle elezioni è avvenuta a reti unificate, sotto lo stretto controllo del ministero della Comunicazione. Solo alcuni giornalisti selezionati dal governo hanno potuto occuparsene e i loro contenuti sono stati sottoposti al vaglio di una commissione deputata a censurare tutto ciò che non si allineava con la narrativa ufficiale.

Nessuna libertà
Per Hrw, quindi, «le elezioni legislative e locali in Burundi si sono svolte in un contesto dove libertà di parola e spazio politico sono stati fortemente limitati». Un’affermazione che stride fortemente con quanto dichiarato dagli osservatori dell’Unione africana, che hanno elogiato lo svolgimento «pacifico» del voto, l’elevata affluenza, il «clima di libertà e trasparenza» e l’ampia copertura mediatica.
Ma l’obiettivo – neanche nascosto – del Cndd-Fdd e di Ndayishimiye era assicurarsi un controllo totale del sistema politico burundese. Il tutto ignorando la frustrazione della popolazione, sulla quale gravano un tasso di inflazione annuo del 40%, la mancanza cronica di beni essenziali e il taglio degli aiuti internazionali. Ma anche l’escalation del conflitto nella vicina Repubblica democratica del Congo che, nei primi mesi del 2025, ha provocato la fuga di circa 70mila congolesi in Burundi, impattando su un sistema di accoglienza già fragile.

Aurora Guainazzi




Argentina. Cristina e la corruzione

Dopo la sentenza della Corte suprema argentina, Cristina Fernández de Kirchner, ex presidenta (dal 2007 al 2015) e vicepresidenta (dal 2019 al 2023), si è affacciata al balcone di casa sua per salutare i propri sostenitori. Per la leader dell’opposizione l’organo di giustizia ha confermato una condanna a sei anni di carcere e – soprattutto – all’interdizione perpetua dalle cariche pubbliche. A inizio giugno, pochi giorni prima della sentenza, Cristina Fernández aveva annunciato la propria candidatura a deputata nelle elezioni del prossimo 7 settembre.

La signora Fernández è stata giudicata colpevole di corruzione («caso Vialidad»). Vista la sua età (72 anni), probabilmente sconterà la pena ai domiciliari. Sarà questa condanna la «morte politica» di Cristina Fernández de Kirchner?

Già alle prese con l’ennesima crisi economica e il controverso governo dell’iperliberista Javier Milei, l’Argentina si trova oggi ad affrontare una crisi politico-giudiziaria dagli esiti incerti. Manifestazioni di protesta – guidate dai kirchneristi (la corrente di sinistra del peronismo) – sono in corso e in programma in varie parti del Paese latinoamericano. «Cristina es inocente», gridano i suoi sostenitori, parlando di persecuzione politica.

Solidarietà è arrivata da molti leader stranieri, soprattutto latinoamericani e, in particolare, dal presidente brasiliano Lula, politico con alle spalle una vicenda simile: dall’aprile 2018 al novembre 2019 fu detenuto in carcere per corruzione, successivamente liberato e quindi rieletto alla guida del Paese.

All’opposto, hanno gioito per la condanna Milei e i suoi ministri. Un governo, questo, non certo immune da scandali: a febbraio con la vicenda legata a una criptovaluta, a maggio per utilizzo di denaro pubblico (del Pami, l’ente di assistenza per i pensionati) per finanziare La libertad avanza, il partito del presidente.

«La decisione della Corte non è motivo di gioia – ci dice José Auletta, missionario in Argentina -. D’altra parte, la corruzione si vede ovunque: con Cristina e i suoi, con Macri e i suoi, con il signor Milei e i suoi. Sarebbe importante che la giustizia intervenisse in tutti questi ambiti per fare una grande opera di pulizia e restituire allo Stato le risorse sottratte, necessarie per creare lavoro vero, per offrire assistenza agli anziani e ai pensionati, per fare opere pubbliche essenziali. In altre parole, andrebbero usate per il bene di tutti. Personalmente, mi rimane però un dubbio: le tante risorse deviate potranno mai essere recuperate?»

Capitali argentini all’estero

Indipendentemente dalla condanna di Cristina Fernández de Kirchner, la corruzione è una patologia che mina gravemente il sistema economico argentino. Come lo minano gli argentini che, legalmente o illegalmente, tengono cospicui depositi in dollari fuori del Paese. Secondo i dati dell’Istituto nazionale di statistica (Indec), alla fine del 2024 gli argentini detenevano 214,5 miliardi di dollari al di fuori del sistema finanziario locale. Una cifra questa che rappresenta circa un terzo del Pil annuo (646 miliardi nel 2023). I numeri raccontano che l’Argentina è il Paese latinoamericano con il maggior volume di denaro all’estero, nonostante un’economia più piccola di quella di Brasile o Messico. Una situazione – dicono gli analisti – che riflette in gran parte la mancanza di fiducia nell’economia locale, nelle istituzioni finanziarie e nella stabilità politica ed economica dell’Argentina.

Paolo Moiola




Usa. Chi protesta e chi se ne va

Mentre Donald Trump rilancia la retorica della «crisi migratoria» e minaccia deportazioni di massa, una parte del Paese si ribella. Dallo scorso venerdì 6 giugno, Los Angeles è diventata l’epicentro del malcontento contro la narrativa anti migrante del presidente, trasformandosi in teatro di manifestazioni che durano ormai da giorni. Oltre mille persone sono scese in piazza per protestare contro le nuove retate dell’Ice, l’agenzia federale per l’immigrazione, che ha preso di mira il distretto tessile della città, portando all’arresto proprio venerdì scorso di 44 migranti presi durante un raid condotto con spray urticanti e accerchiamenti della polizia federale.
Le proteste si sono rapidamente estese a San Francisco, Paramount e diverse città della California. La risposta di Trump è stata immediata: ha schierato 4mila soldati della Guardia nazionale e, per la prima volta da decenni, anche 700 marines in assetto antisommossa. Il tutto senza il consenso del governatore della California, Gavin Newsom, quando in genere questo tipo di dispiegamento della Guardia nazionale avviene solo con l’autorizzazione dello Stato interessato.
Di fatti, Newsom ha condannato duramente la decisione di Trump, definendola una violazione del diritto che ha portato a un’escalation di violenza ingiustificata che non fa altro che alimentare il caos nelle strade. Il governatore ha ricordato che le manifestazioni erano iniziate in modo pacifico per cui, dal suo punto di vista, non era necessario l’intervento militare.
Infatti, dopo l’entrata in scena della Guardia nazionale, la tensione è esplosa: sono state arrestate almeno 150 persone, descritte dallo stesso presidente come colpevoli di promuovere «anarchia» o «violenza generalizzata».

Perché l’esercito
Trump giustifica il dispiegamento come una misura necessaria per ristabilire «l’ordine e la sicurezza nazionale». Per Trump, la «crisi» è diventata un vero marchio di fabbrica, un brand funzionale a concentrare nelle sue mani un potere sempre più autoritario. E infatti, se la crisi non c’è, la crea. Dietro la sua retorica emergenziale si nasconde la volontà di concentrare poteri straordinari e agire in modo autoritario, come se il Paese fosse in guerra. Anche se gli Stati Uniti non stanno vivendo un conflitto armato nei i propri confini, Trump costruisce le base di una guerra interna contro i migranti, chi li sostiene e le istituzioni democratiche degli Stati federati. In questo caso, il bersaglio è la California, il cui governatore ha denunciato l’intervento come una provocazione e un abuso di potere. Il fatto che Trump abbia mobilitato la Guardia nazionale senza l’assenso dello Stato di California ne è una prova evidente. Questo attacco appare anche come una sfida aperta alla California e alle sue «città santuario».

Le «città santuario»
Le «città santuario» sono le città, contee o Stati le cui amministrazioni limitano intenzionalmente la propria cooperazione con le autorità federali in materia di immigrazione. In pratica, le forze dell’ordine locali non trasmettono informazioni sullo status migratorio dei residenti e, in alcuni casi, non detengono persone solo perché prive di documenti. È una forma di resistenza istituzionale delle città e giurisdizioni democratice, che però si scontra frontalmente con la linea dura dell’amministrazione Trump. Da anni molte città della California sono considerate città santuario, così come ad esempio Los Angeles.
Il governatore Newsom ha definito lo schieramento militare come un attacco diretto ai governi locali democratici, accusando la Casa Bianca di voler trasformare la questione migratoria in una guerra politica.

Le autordeportazioni
Negli ultimi mesi si sta diffondendo un fenomeno meno visibile ma in crescita: quello delle autodeportazioni. Sempre più migranti, spaventati dal rischio di arresto o separazione familiare, scelgono di lasciare volontariamente – e spesso in tutta fretta – gli Stati Uniti. Alcuni fanno ritorno nei loro Paesi di origine, altri cercano rifugio in Canada o Messico.
Le retate non servono solo ad aumentare gli arresti: hanno l’effetto collaterale, forse voluto, di instillare paura. Una vera strategia del terrore che spinge molti a partire prima di essere presi, detenuti e deportati con la forza.
Trump, da parte sua, ha introdotto incentivi economici per chi sceglie di andarsene spontaneamente, offrendo tra i 600 e i mille dollari.
«Molti arrivano volontariamente in Guatemala, pagandosi il biglietto – spiega una fonte dell’Istituto di migrazione guatemalteco – perché richiedere il contributo significa essere identificati, e questo è rischioso perché temono di essere arrestati, anche se di fatto intendono lasciare il Paese di propria iniziativa».

Simona Carnino