Egitto: I Copti


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Questo è il terzo dossier che dedichiamo alle minoranze dimenticate ed oppresse. Il primo ha parlato degli Yazidi dell’Iraq (marzo 2017), il secondo dei Rohingya del Myanmar (aprile 2017).

 


Introduzione:
Nonostante tutto

I copti sono i discendenti degli antichi egizi. Attorno alla metà del primo secolo dopo Cristo si convertirono al cristianesimo. Sei secoli dopo in Egitto arrivarono gli arabi e l’islam. Tra invasori e conversioni, la comunità copta si ritrovò minoranza. Oggi i copti sono 10-13 milioni su una popolazione egiziana complessiva di 90. Non hanno mai avuto un’esistenza facile: violenze e attentati contro di loro sono da sempre una costante. In questi anni, in particolare, prima la Fratellanza musulmana, poi l’Isis, ne hanno fatto l’obiettivo preferito.

In Egitto la shari’a è stata ufficialmente introdotta nell’ordinamento con un emendamento costituzionale del 1980, durante la presidenza di Sadat. Da allora sono cambiati i presidenti, ma l’articolo 2 della Costituzione recita sempre: «I principi della shari’a islamica sono la fonte principale della legge». Un macigno sulla testa di chiunque non sia musulmano.

Per ora pare impossibile prevedere un cambio: la shari’a, intollerabile in qualsiasi paese che abbia la democrazia e la laicità come pilastri della propria esistenza, rimarrà a decidere della vita e della libertà delle persone. Shari’a, Fratellanza musulmana, Isis, tutto sembra congiurare contro i copti. Eppure resistono. Nonostante tutto.

 Paolo Moiola


La Chiesa copta ortodossa:
Tra persecuzioni e inattese fioriture

Nata all’ombra delle piramidi attorno al 40 dopo Cristo in seguito alla predicazione dell’evangelista Marco, la Chiesa copta ha una lunga storia di persecuzioni e sofferenze, soprattutto in Egitto, paese islamico. Eppure, con 15 milioni di fedeli sparsi nel mondo, questa Chiesa è fiorente, viva e dinamica oltre ogni aspettativa.

Gli ultimi attentati e la recentissima storica visita in Egitto di papa Francesco hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale le vicende di una Chiesa antica che sconta secoli di discriminazioni e persecuzioni: la Chiesa copta ortodossa. Nata all’ombra delle piramidi dalla predicazione dell’evangelista Marco, rappresenta uno dei più grandi paradossi della Storia. Pur portando, infatti, tutto il peso di una eredità storica antica quanto il cristianesimo appare al contempo viva e dinamica come fosse nel fior fiore della gioventù. «Lo straordinario rinascimento della Chiesa copta ortodossa degli ultimi decenni – scriveva il coptologo tedesco Otto Meinardus – è uno dei grandi eventi storici della cristianità a livello mondiale. Mentre in altre parti del mondo, gli storici diagnosticano una certa stagnazione della testimonianza cristiana, i figli e le figlie dei faraoni sono pieni di un entusiasmo inaudito per il Regno di Dio e per l’evangelizzazione». Una Chiesa in piena fioritura, dunque, la più seguita nei territori dominati dall’islam, che dalla metà del secolo scorso ha scavalcato i suoi confini naturali. La migrazione dei copti, infatti, ha raggiunto praticamente ogni parte del globo. Nelle principali città italiane è ormai possibile conoscere da vicino questa realtà grazie a una comunità coesa e dinamica, capace di convivere e di integrarsi a livello sociale e lavorativo, che offre una testimonianza cristiana sempre discreta ma intensa. È guidata da un metropolita e da un vescovo ed è servita da numerose parrocchie. In Italia si parla, dunque, anche copto.

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Tawadros II, il papa dei copti

Una fioritura, quella dei copti, avvenuta a prezzo di grandi sacrifici. Le cronache degli ultimi anni ci raccontano di cristiani egiziani cacciati dalle loro terre, che vedono le loro chiese distrutte, le loro case date alle fiamme. La stampa mondiale racconta di uomini e di donne pacifici trucidati dalla furia fondamentalista. Come dimenticare i martiri copti di Sirte, in Libia, che, nel 2015, fino al momento di essere sgozzati per la propria fede, non hanno smesso di invocare sui propri nemici il nome di colui «che ci ha amati e ha consegnato se stesso per noi» (Gal 2,20), Gesù? La storia non è stata di certo clemente con questa Chiesa orientale. Si può dire che – tranne brevi periodi – i cristiani egiziani hanno vissuto grandi sofferenze. Recentemente un monaco del deserto egiziano, un abba, mi ha mostrato un’antica icona in cui era dipinta una croce fiorita. Poi mi ha consegnato una massima che sintetizza la storia di questa comunità: «Solo dall’albero della Croce nascono i fiori!». È tenendo bene in mente il paradosso della Croce che dobbiamo leggere il miracolo di questa Chiesa che fiorisce e cresce mentre, temprata nella fede, viene irrorata dal sangue dei suoi martiri. Non diceva già Tertulliano che «il sangue dei martiri è seme di cristiani»?

Malgrado i media parlino molto spesso delle tragedie dei copti, si fa sempre più urgente la necessità di conoscersi di più. Dopo secoli di estraniamento, è necessario incontrarsi faccia a faccia, ascoltarsi, comprendere le ragioni dell’altro. Basti pensare che non è scontato sapere che in queste terre è nata e si è sviluppata la scuola teologica probabilmente più importante del cristianesimo antico, quella di Alessandria, che ha conosciuto personaggi del calibro di Origene e Clemente. Qui il monachesimo ha mosso i suoi primi passi grazie all’ispirazione dei grandi padri del deserto Antonio, Macario, Pacomio per poi irradiarsi in tutto il Mediterraneo. Qui si prega ancora secondo una delle liturgie più antiche al mondo, quella alessandrina. La Chiesa copta è anche l’unica Chiesa che, insieme a quella romana, chiama il proprio patriarca «papa». L’attuale papa si chiama Tawadros II, un vero «dono di Dio» (questo significa il suo nome) alla Chiesa universale.

Monofisita? Il peso di un’etichetta eretica

Tra i cliché duri a morire c’è quello legato al monofisismo. Spesso si sente purtroppo ancora parlare di «chiesa monofisita». Questa etichetta, affibbiata per secoli ai copti, li ha di fatto bollati come eretici associandoli all’eresia di Eutiche (378-456), monaco di Costantinopoli, anatematizzato al Concilio ecumenico di Calcedonia (451), che paragonava l’umanità di Cristo a una goccia di vino in un oceano di acqua (divinità). Sarebbe quanto meno sorprendente che la Chiesa che ha generato un sant’Atanasio (ca. 296-373), campione del primo concilio ecumenico di Nicea (325) e autore di un’opera intitolata «L’incarnazione del Verbo», abbia potuto in pochi decenni deviare verso un’eresia che nega un mistero cristiano così fondamentale. I copti credono, invece, profondamente sia alla divinità che all’umanità di Gesù e quando parlano di ‘una natura’ riprendono un’espressione usata da Cirillo di Alessandria (ca. 375-444), dottore della Chiesa universale: «Una sola natura del Verbo di Dio incarnato» (mía phýsis, in greco). In Cristo esiste una sola natura composita, al contempo divina e umana, senza confusione (umanità e divinità, seppur unite, sono rimaste distinte) e senza cambiamento (Dio è rimasto Dio pur diventando uomo). Questa formula intende esprimere il mistero dell’unità insita nella persona del «Dio fattosi carne», dell’Emmanuele, mistero che è continuamente cantato dalla spiritualità copta. Data la taccia che è stata attribuita al termine «monofisismo» nel corso della storia, è bene non chiamare mai la Chiesa copta «chiesa monofisita» (da evitare anche l’infelice neologismo «miafisita»), anche perché la Chiesa egiziana non si autodefinisce mai così ma si chiama, semplicemente, «ortodossa». La famiglia ecclesiale della Chiesa copta ortodossa (detta «precalcedonese» o degli «ortodossi orientali») comprende anche la Chiesa siro-occidentale, l’etiopica, l’eritrea, la malankarese e l’armena e conta circa 85 milioni di fedeli.

Copto ovvero cristiano d’Egitto

Cosa significa «copto»? Semplicemente «egiziano». Il termine inizia a comparire in epoca islamica ma la sua origine è più antica ed è connessa a uno dei nomi sacri della città di Menfi, capitale dell’antico regno (dal 2700 a.C. al 2200 a.C.) che si trova a pochi chilometri dall’attuale Cairo: Hikaptah, cioè «la dimora del Ka (principio vitale per la religione egizia) di Ptah». Da questo nome derivò il nome greco Aigyptos da cui Egitto. La parola storpiata in arabo, «qibti», indicava quindi solamente un’origine etnica: «egiziano». Ma fu presto confuso con «cristiano» perché la maggioranza degli egiziani all’epoca dell’invasione islamica del VII secolo era cristiana. Oggi il termine indica un dato religioso ed etnico insieme e cioè «cristiano d’Egitto». Inoltre con «copto» si designano anche la lingua, l’arte e la civiltà dell’Egitto tra la fine dell’epoca tolemaica e l’islamizzazione del paese, cioè dal 30 a.C. fino al VII sec. all’incirca. Non è un caso che, profondamente egiziani e radicati nella cultura del proprio territorio, i copti si considerino discendenti degli antichi egizi e depositari della loro cultura.

Egitto, terra biblica

In principio, dunque, è l’Egitto. Terra misteriosa, ben presente nella storia della salvezza, è da sempre legata alle sorti del popolo di Israele. «Egitto» appare nella traduzione Cei ben 594 volte. Molti dei personaggi dell’Antico Testamento li troviamo di qui. Terra di rifugio per Abramo, Isacco e Giacobbe; terra di schiavitù per Giuseppe e Mosè. Proprio Mosè, prima di diventare capo e simbolo del popolo di Israele, si forma alla scuola della civiltà egizia tanto da venire descritto dalla Scrittura come «istruito in tutta la sapienza degli Egiziani» (At 7,22). Il popolo ebraico, liberato dalla schiavitù egizia in maniera miracolosa, mentre è nel deserto, si lamenta con Mosè di non poter più mangiare i succosi cocomeri, i meloni, i porri, le cipolle e l’aglio d’Egitto (cf. Nm 11,5).

Ma l’Egitto non è stato solo il teatro di una storia «non sua». Al contrario, è stato esso stesso oggetto di molte profezie bibliche. Basta citarne soltanto una che i copti hanno sempre letto come profezia dell’evangelizzazione del paese. Si trova in Isaia 19, il cosiddetto «oracolo sull’Egitto»:

«Ecco, il Signore cavalca una nube leggera ed entra in Egitto […]. Il Signore si rivelerà agli Egiziani e gli Egiziani riconosceranno in quel giorno il Signore, lo serviranno con sacrifici e offerte, faranno voti al Signore e li adempiranno […]. In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: «Benedetto sia l’Egitto mio popolo, l’Assiria opera delle mie mani e Israele mia eredità».

Quell’Egitto che aveva tenuto come schiavi gli ebrei, divenuto simbolo del male per eccellenza, diventerà «benedetto», diventerà «suo popolo».

Marco arriva ad Alessandria

Stando a Eusebio di Cesarea, pochi anni dopo la Resurrezione di Gesù, verso gli anni 40, san Marco Evangelista va ad annunciare la buona novella ad Alessandria. È in un’Alessandria cosmopolita e multireligiosa che giunge l’apostolo Marco che proveniva da Roma. Centro dell’Oriente ellenistico, Alessandria è testimone di un’intensa attività culturale. Qui esiste un’importante comunità ebraica che è stata protagonista della prima traduzione dell’Antico Testamento in greco, la cosiddetta versione dei Settanta, realizzata tra il III e il I sec. a.C.. Qui Filone, ebreo di Alessandria, nel tentativo di conciliare ellenismo e giudaismo, sviluppa un’esegesi della Bibbia che preferisce, all’interpretazione letterale, una allegorica che influenzerà molto il Didaskaleion, la prima «università» teologica cristiana, nata ad Alessandria verso la fine del II secolo d.C..

In realtà, i copti ritengono che il primo ad evangelizzare l’Egitto non sia san Marco (che pure considerano il «fondatore» della propria Chiesa) ma Gesù stesso. Bisogna risalire ad almeno una quarantina di anni prima quando la Sacra Famiglia scappa in Egitto per sottrarsi all’ira di Erode. Anche qui, una profezia veterotestamentaria sull’Egitto diceva: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Os 11,1). Diversi testi apocrifi, tra cui il Vangelo arabo dell’infanzia (ca. V sec.), e numerose tradizioni copte, riferiscono i dettagli del soggiorno di Gesù, Maria e Giuseppe che fu ricco di eventi miracolosi e portò molti a credere in Cristo. Ancora oggi esistono delle chiese fondate sui luoghi delle tappe più importanti di questo passaggio. L’Egitto è quindi l’unica terra, oltre a quella di Palestina, ad essere stata calpestata dal Verbo incarnato.

Dall’imperatore Diocleziano alla spaccatura di Calcedonia

I copti chiamano affettuosamente la loro chiesa Umm al-shuhada’, la «Madre dei martiri». Iniziate nel III secolo, le discriminazioni nei confronti dei cristiani copti non si sono praticamente mai arrestate. Con l’arrivo di Diocleziano nel 284 la Chiesa egiziana vive una drammatica persecuzione che miete un gran numero di martiri. Quest’epoca terribile ha avuto un tale effetto che la Chiesa copta fa cominciare il suo calendario il 29 agosto (calendario giuliano) 284, data d’inizio dell’impero di Diocleziano. Il 2017 corrisponde al 1733 del calendario copto. La persecuzione, arrestatasi nel 313 con l’editto di Milano che decreta la libertà religiosa per i cristiani dell’impero romano, riprenderà in altre forme poco più tardi. Inizia l’epoca d’oro di questa Chiesa, IV e V secolo, stroncata dal disastro del 451. Al Concilio di Calcedonia si consuma una delle più dolorose spaccature all’interno dell’ecumene cristiana. Incomprensioni sulla natura di Cristo, mescolate a ragioni di tipo geoecclesiale, portano la Chiesa egiziana a essere estromessa dalla comunione con le altre Chiese. Il risultato è una nuova era di persecuzioni a opera dell’establishment ecclesiale appoggiato dall’imperatore, fino al momento all’avvento dell’islam nel VII secolo.

Il Grande Imam di al-Azhar, Sheikh Ahmed Mohamed al-Tayeb, e Popa Tawadros II di Alessandria.
/ AFP PHOTO / Khaled DESOUKI AND KHALED DESOUKI

Vivere da cristiani in un paese islamico

Isolando i copti dagli altri cristiani, l’islam certifica definitivamente la definizione di «Chiesa di martiri». I nuovi dominatori islamici, infatti, fanno di tutto per favorire la conversione alla loro religione dei cristiani egiziani, spesso con metodi per nulla pacifici.

Considerati cittadini di seconda categoria, i cristiani devono aspettare un millennio, l’epoca moderna, per reclamare e ottenere alcuni diritti civili. Per esempio, è solo nel 1855 che i copti vengono esentati dal pagare la jizya, una pesante tassa pro-capite imposta dallo stato islamico ai non musulmani. Ma il movimento islamico radicale, che si rafforza in Egitto soprattutto a partire dagli anni Settanta, rimette nuovamente in discussione i diritti acquisiti nel XIX e XX secolo e i copti, con l’imposizione di una costituzione che fa della shari‘a la sua fonte legislativa, subiscono un’ondata di persecuzioni che continua a tutt’oggi in un paese profondamente islamizzato.

La visita di papa Francesco, molto amato dai cristiani egiziani, è giunta a infondere coraggio e speranza non solo ai copti ma a tutti gli abitanti di questa terra sofferente che, sequestrata dal fanatismo, cerca con fatica un po’ di pace, condizioni di vita migliori e, soprattutto, maggiore tolleranza. Oggi come ieri, la Chiesa di Alessandria continua a donare ai suoi vicini musulmani e al mondo una delle testimonianze cristiane più fedeli: dall’albero della Croce non possono che nascere fiori di riconciliazione e di pace.

Markos el Makari

Cronaca degli ultimi attacchi:
Egiziani (eppure stranieri in patria)

Dallo stato egiziano ai Fratelli musulmani fino all’Isis. Ai copti non sono mai mancati i nemici, come dimostra la lunga sequela di fatti di sangue. Oggi sostengono il presidente al-Sisi. Più per questioni di sopravvivenza che per reale convinzione.

Un patrimonio culturale immenso, un ruolo cruciale nella storia del cristianesimo, una pietra miliare della spiritualità. Ma non è per nessuna di queste ragioni che oggi i copti sono così in voga.

L’11 dicembre 2016 un attentatore suicida entra nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo, e, non conoscendo bene l’anatomia di una chiesa copta (o forse perché la conosce fin troppo bene), si dirige nella navata nord, quella delle donne, e lì, dalle ultime file, si fa esplodere.

Al-Sisi non ha dubbi: l’autore dell’atroce atto sarebbe stato il giovane ventiduenne Mahmoud Shafiq Mohammed Mustafa, carico con 12 kg di tritolo. L’esplosione è fortissima, i morti sono 29, quasi tutte donne e bambine. La chiesa si trova nel complesso della cattedrale di San Marco, a pochi passi da Sua santità papa Tawadros II che rivendica: «Non è un disastro soltanto per la Chiesa, ma per tutta la Nazione». Pochi mesi dopo – nella domenica delle Palme – l’Isis colpisce di nuovo e in maniera devastante: in due attentati rimangono uccise 47 persone.

Tensioni quotidiane

La persecuzione dei copti in Egitto è un fenomeno peculiare e con forti componenti sociali dal carattere strisciante (difficile per un copto, ad esempio, diventare dirigente di una struttura pubblica).

I copti vivono nello strettissimo ghetto che si trova fra il potere militare e la teocrazia underground degli integralisti islamici. Fra l’incudine e il martello, impossibilitati ad avere una vita sociale aperta: amori, contenziosi o anche liti condominiali con la restante popolazione di fede islamica, ma solo cordialità di facciata, timidi e diffidenti rapporti di lavoro.

Un esempio è quello della settantenne di al-Minya che, nel maggio 2016, è stata denudata e portata in processione per le strade del villaggio perché accusata di avere una liaison sentimentale con un uomo musulmano sposato. E questo per non parlare degli esiti di vicende amorose analoghe, ma a parti invertite. Si tratta di un vissuto che però viene meno nel momento in cui attraversiamo il confine del benessere. È molto difficile, infatti, che gli egiziani dei ceti più alti vivano conflitti di questo genere.

Un altro caso simbolo è quello di Nag Hammadi, cittadina a 80 km da Luxor. Il primo dell’ultima serie di attacchi «natalizi» che si sono verificati in questi ultimi anni. È la vigilia di Natale, la notte fra 6 e 7 gennaio 2010, terminata la messa i fedeli si scambiano gli auguri in un clima a dir poco infuocato. Pochi giorni prima, il vescovo Kyrillos aveva già allertato le forze dell’ordine, che gli avevano consigliato di far anticipare la messa di mezzanotte di un’ora. Ma non basta a evitare il massacro. Uomini armati attraversano il cortile della chiesa in macchina sparando sui fedeli. Muoiono in nove, otto cristiani e un musulmano.

Nei giorni successivi viene fuori il movente (per altro già ben noto ai locali): una spedizione punitiva nei confronti della comunità per vendicare una ragazzina dodicenne vittima di abusi sessuali da parte di un copto. Non è né la prima né l’ultima volta che a pagare le spese degli errori e dei crimini (ma anche dei passi falsi e delle passioni) di un solo uomo, sia tutta la comunità dei fedeli.

Il caso di Nag Hammadi è uno dei primissimi ad avere un’ampia copertura mediatica, godendo anche di una diffusione virale sui social network.

Tutto ciò consente agli attivisti di organizzarsi in manifestazioni al Cairo contro l’assordante silenzio delle autorità egiziane. A ben due settimane (oggi impensabile) dall’evento, l’allora presidente Hosni Mubarak si esprimerà condannando per la prima volta il massacro, non senza una cospicua campagna di arresti nei confronti degli attivisti.

“I Cristiani sono Egiziani” è scritto nel cartello di questo manifestante copto durante una manifestazione al Cairo nell’agosto 2016. (Mohamed El Raai / Anadolu Agency)

Sospetto, diffidenza, deferenza

È per tutti questi meccanismi sociali, che agli occhi dei comuni musulmani – quelli che noi definiremmo «moderati» – la popolazione dei copti è un po’ come se facesse vita a sé, sempre pronta a rimarcare il fatto di essere cristiana. A molti musulmani viene quindi da pensare: «Ma perché non si comportano normalmente? Come mai sono così chiusi?». E da qui a «Nascondono forse qualcosa?», il passo non è breve, di più. L’alone di mistero che circonda i copti non è quindi fonte di ammirazione, curiosità o fascino per gli egiziani, ma soltanto di sospetto e diffidenza ulteriore.

Lo stato, d’altro canto, non è mai stato un amico. E questo concetto è ben chiaro a molti copti, nonostante le accoglienze messianiche che hanno sempre riservato ad ogni visita di sua maestà al-Sisi.

Un occhio psicoanalitico sarebbe in grado di rivelare come i copti quasi si compiacciano della propria servilità dimostrata nei confronti del potere militare. Se a livello internazionale c’era da dimostrare che i diritti umani erano rispettati, i militari tiravano in mezzo la pacifica convivenza di cui godono i copti all’interno del paese; se serviva ridimensionare i copti per calmare i bollenti spiriti degli islamisti, venivano ridimensionati; e se serviva mobilitarli in massa per andare a «votare», venivano mobilitati tranquillamente. Il tutto con il soddisfatto consenso dei cristiani d’Egitto, come se questi si sentissero in qualche modo importanti. Una sorta di «sindrome di Stoccolma», ma anche un attaccamento fortissimo alla patria. La storia degli ultimi anni è quanto mai emblematica di tutto questo meccanismo.

Da un attentato all’altro

Siamo nel 2011. Un anno dopo il massacro di Nag Hammadi, più o meno lo stesso periodo dell’anno. È l’inizio dei rivolgimenti per tutta una serie di governi del Nord Africa e del Medio?Oriente sulla cui stabilità ci saremmo giocati tutto: è l’inizio delle cosiddette «Primavere arabe».

Chiesa dei Santi, Alessandria d’Egitto, notte di Capodanno: i fedeli sono tutti in chiesa per celebrare l’arrivo del 2011. Moriranno in ventitré. Si tratta di un attentato preso ad esempio per i successivi, quello del dicembre 2016 e quello della domenica delle Palme 2017. Un attentato suicida che arriva in un paese in fortissima crisi sociale, e c’è chi comincia a insinuare che ci possa essere anche la mano del governo… Sì, è l’inizio della fine.

Muhammad Hosni Mubarak cadrà qualche settimana più tardi in seguito a una rivoluzione popolare dalla portata faraonica.

Nessuno può dire esattamente quale sia stato il movente dell’attentato di Capodanno. Ma c’è uno scandalo (apparentemente davvero irrilevante) che, da qualche tempo, è sulla bocca di tutti: lo strano caso «Camelia Shehata e Wafaa Costantine». È la storia di due donne cristiane che, nel loro tentativo di convertirsi all’islam, sarebbero state rapite da membri del clero copto e tenute prigioniere in un monastero.

Non sapremo mai la verità, ma quello che sappiamo è che su internet sono stati diffusi dei video di queste due donne (velate con velo integrale) che si dichiaravano musulmane, libere e convinte.

Lo ricordiamo per un motivo ben preciso: questo «scandalo» sarà anche il movente che lo Stato islamico citerà nel video ufficiale della decapitazione dei ventuno giovani copti martiri rapiti in Libia nel 2015. Cinque anni dopo.

Le responsabilità della strage di Alessandria rimangono tutt’oggi poco chiare, anche dopo la rivoluzione. Ma esistono indagini molto nebulose che porterebbero addirittura al nome dello stesso ex ministro degli interni Habib Al-Adly, in carica al tempo dei fatti.

Quello di Alessandria è uno dei primissimi attentati ad avere una ripercussione anche in Europa. In particolare, nel 2011 tutte le comunità copte in Italia celebreranno la vigilia di Natale sotto la protezione degli uomini della Digos. Dalla più piccola e sperduta parrocchia, alla più grande cattedrale.

Foto del 2010 del leader supremo dei Fratelli Musulmani Mohammed Badie. (AP Photo/Amr Nabil)

Gli attacchi dei Fratelli musulmani

Caduto Hosni Mubarak, i copti pensano che sia arrivato il momento per chiedere a gran voce la parità dei diritti. In particolare, il dibattito pubblico si sta concentrando sull’abolizione dell’articolo della Costituzione che prevede che la principale fonte per la legislazione sia la shari’a islamica, ma anche sulla semplificazione della procedura di ottenimento dei permessi per la costruzione di nuovi luoghi di culto cristiani.

L’illusione svanisce subito. Nell’ottobre 2011, in seguito alla demolizione dell’ennesima chiesa, i copti decidono di scendere in piazza a Maspero, sede della Tv di stato egiziana, per manifestare ancora una volta contro l’assordante silenzio dei media. È un vero massacro: ventotto morti letteralmente schiacciati dai blindati dell’esercito, mentre la cronista della Tv pubblica invita tutti gli «onorevoli cittadini» a proteggere i militari dalla violenza dei copti. All’esercito si aggiungono quindi gruppi di salafiti armati, tutti contro i copti.

Oggi la Chiesa copta ha ufficialmente «perdonato» ai militari questo massacro in nome dell’unità nazionale. Ed è stato proprio in nome dell’unità nazionale che papa Tawadros II ha sostenuto in primissima persona l’ascesa di al-Sisi, e la caduta di Morsi, il primo presidente egiziano democraticamente eletto, che però aveva il difetto di appartenere ai Fratelli musulmani. Una storia davvero tumultuosa che culmina in un golpe e violenze generalizzate.

Agosto 2013: un attacco su vasta scala da parte degli attivisti della Fratellanza prende di mira – immediatamente dopo l’annuncio del golpe – decine di chiese in tutto l’Egitto. Vengono colpiti anche siti archeologici, manoscritti antichi, icone, reliquie… Tutto bruciato.

I militari rispondono con una strage. A Rabi’a muoiono fra i seicento e gli ottocento (ancora non si sa con esattezza) attivisti dei Fratelli musulmani, e l’organizzazione viene ufficialmente definita come «terroristica». Mohammed Morsi è tutt’ora in carcere e sotto processo per accuse gravissime.

Costretti a sostenere al-Sisi

È su questo scenario che si è affacciato papa Francesco, il 28 e 29 aprile scorsi, nella sua prima visita ufficiale in Egitto. Fra la memoria di Giulio Regeni e il bene dei copti e del futuro dei cristiani in Medio Oriente, costretti a sostenere gli uomini forti per potersi garantire un’esistenza accettabile. Ma – lo abbiamo visto con gli attentati della domenica delle Palme – non scevra da pericoli mortali.

Andrea Boutros

Il presidente dell’Egitto, Abdul Fattah al-Sisi a Washington, D.C. in aprile 2017 (DOD photo by U.S. Army Sgt. Amber I. Smith).


Incontro con esponenti della comunità copta:
Al-Sisi (meglio degli altri)

Per gli oltre dieci milioni di egiziani di fede cristiana è difficile e rischioso vivere in un paese dove «tutto ciò che non è musulmano è considerato contro Dio».

«Con al-Sisi è cambiato tutto o, forse, non è cambiato nulla». Girgis è perplesso. Lui, cristiano, non riesce a sintetizzare la situazione in cui vive attualmente la Chiesa copta ortodossa in Egitto. «Certo – riprende – se guardiamo alla storia della nostra comunità, qualcosa di diverso c’è. Ed è un qualcosa di positivo. Se guardiamo alla cronaca, che parla di attentati, morti e feriti, non possiamo essere così ottimisti».

Da Mubarak a Morsi

Non si può comprendere l’attuale situazione se non si fa un passo indietro. I copti sono gli eredi degli antichi egizi che si convertirono al cristianesimo, a partire dal primo secolo, grazie alla predicazione di San Marco. La loro Chiesa è quindi antichissima e fino al VII secolo è stata maggioritaria in Egitto. Con l’arrivo degli arabi e dell’islam, per i copti è iniziata una difficile convivenza, fatta di periodi di relativa libertà alternati ad anni di dure repressioni.

La situazione non è migliorata con l’indipendenza dell’Egitto. Sotto i governi di Anwar Sadat e Hosni Mubarak, la Chiesa ha vissuto un periodo particolarmente difficile. «Ai tempi di Mubarak – osserva Awad, giornalista egiziano di fede cristiana -, la state security (un dipartimento speciale della polizia di stato, ndr) dominava la scena politica e religiosa. Per i copti era difficile, se non impossibile, costruire o anche ristrutturare una Chiesa perché era necessario il nullaosta della state security, che non lo rilasciava facilmente. La polizia arrestava i musulmani che si convertivano. Agenti erano coinvolti nei rapimenti di ragazze copte, organizzati per convertirle (andando contro la legge che prevedeva e prevede che qualsiasi conversione possa avvenire solo dopo i 18 anni). I musulmani che attaccavano le chiese rimanevano impuntiti».

Queste violenze contro la minoranza copta erano legate alla politica interna del raiss. Per rimanere al potere, Mubarak aveva bisogno del sostegno anche delle frange islamiche più estremiste. «Il presidente – osserva Girgis – lasciava quindi che i copti subissero le angherie e le discriminazioni più palesi. Sono stati anni molto duri».

La speranza di un cambiamento è arrivata nel 2011 con la caduta del regime. Musulmani e cristiani sono scesi in piazza insieme per invocare la caduta del raiss. «La parte migliore del mondo musulmano e di quello cristiano – ricorda Awad – lottava per un cambiamento reale della società egiziana. Volevano un paese in cui le componenti religiose convivessero senza dissidi, insieme come cittadini di un unico paese, l’Egitto. Ma è arrivata subito la doccia fredda». La strage nel quartiere Maspero, in cui nel 2011 la polizia ha represso con la violenza una manifestazione di cristiani (facendo 26 vittime tra i copti), e il governo della Fratellanza musulmana, guidato dal presidente Mohammed Morsi, hanno subito rimesso in un angolo la comunità cristiana. «Il progetto di riforma costituzionale promosso dalla Fratellanza musulmana – spiega Youssef, ingegnere egiziano di fede cristiana – era inaccettabile per la nostra comunità. Se fosse stato approvato ci avrebbe riportato indietro di secoli. I cristiani sarebbero diventati cittadini di serie B. Ma, va sottolineato, discriminava anche i laici e i musulmani che non si riconoscevano nella visione totalizzante dell’Islam della Fratellanza musulmana. È per questo motivo che la maggioranza degli egiziani è scesa in strada e ha iniziato a contestare Morsi, obbligandolo alle dimissioni».

Il fondamentalismo islamico e al-Sisi

Non è un caso che, quando Abdel Fattah al-Sisi è arrivato al potere nel 2013, è comparso in televisione con al fianco sia Tawadros II, papa dei copti, sia Ahmad Muhammad Ahmad al Tayyib, imam della moschea-università di al-Azhar (massima autorità dell’Islam sunnita). In al-Sisi, militare e musulmano devoto, i copti hanno subito visto un politico in grado di proteggere la comunità cristiana. «Al Sisi – osserva Girgis – ha certamente cambiato in meglio la situazione dei cristiani. Ha varato leggi, decreti e regolamenti per favorire la costruzione di chiese, luoghi di incontro, ecc. Ma, intendiamoci, la libertà religiosa non si impone per decreto. Costruire una chiesa è ancora oggi difficile, professarsi copto anche. Questo perché la società egiziana è fortemente permeata da una visione fondamentalista dell’islam. Tutto ciò che non è musulmano è considerato contro Dio».

Non è un caso che, solo nel primo anno di governo di al-Sisi, 85 chiese siano state attaccate, bruciate o demolite. L’11 dicembre 2016 un attentato alla cattedrale del Cairo ha fatto 25 morti. Il 9 aprile scorso due attentati, il primo davanti chiesa di Mar Girgis a Tanta e il secondo davanti alla chiesa di San Marco ad Alessandria, hanno provocato 45 vittime. «Ciò dimostra – osserva Awad – che la violenza nei nostri confronti non è sparita. E che, nonostante al-Sisi abbia promesso maggiori controlli e maggiore protezione, noi siamo ancora in balia dei fondamentalisti».

Al-Sisi però non sta lavorando solo sul piano della sicurezza. Sta facendo pressioni affinché gli studiosi dell’Islam recuperino la tradizione pluralista e dialogante della fede musulmana. «Il lavoro sul piano culturale – continua Awad – è fondamentale. Bisogna scardinare dalla società egiziana la visione wahabita dell’islam, che è a noi estranea (proviene dall’Arabia Saudita) ed è portatrice di intolleranza e violenza. Siamo coscienti che il cammino da percorrere per raggiungere una piena libertà religiosa è ancora lungo e la strada è tortuosa. Se non ci incamminiamo su questo sentiero culturale e teologico, però, difficilmente le cose potranno cambiare».

Le scelte di papa Tawadros II

AFP PHOTO/KHALED DESOUKI

La stessa Chiesa copta ortodossa sta cambiando pelle. Negli ultimi anni ha vissuto una profonda trasformazione in parte legata alla figura di papa Tawadros II e in parte alla progressiva secolarizzazione dei fedeli.

Tawadros II ha incarnato per i copti quella rivoluzione che Francesco ha rappresentato per i cattolici. «Il nuovo papa – osserva Girgis – ha portato una ventata di novità. Ha introdotto, in un ambiente un po’ ingessato, un modo informale di porsi. Non si è mai visto un patriarca di Alessandria che ama farsi i selfie con i giovani, che si fa abbracciare, che ha un modo spontaneo di parlare. Il fatto che tra lui e papa Francesco si sia instaurata una solida amicizia non è dovuto solo a una vicinanza teologico-dottrinale, ma anche a uno stile aperto, semplice, cordiale che esprime la serenità e la gioia della fede cristiana. Anche il suo modo di vivere è frugale, essenziale, senza sfarzo».

La vera novità però non è nello stile, ma nel suo modo di lavorare. «Shenouda III, il vecchio papa copto, era un accentratore – continua Girigis -. Non discuto se fosse o meno giusto il suo approccio. Tawadros ha instaurato un sistema diverso. Ama lavorare in gruppo, coinvolgere i collaboratori nel processo decisionale. In Europa, per esempio, ha riorganizzato la Chiesa copta e spesso viene in visita per parlare e confrontarsi con i vescovi che operano nel continente».

Per Tawadros, poi, assume un’importanza fondamentale la dimensione ecumenica. Con i cattolici il rapporto è ottimo, anche per quella sintonia personale con Francesco di cui abbiamo parlato. Ma dal 4 novembre 2012, giorno in cui è stato eletto dal sinodo, Tawadros ha iniziato a tessere rapporti sempre più stretti con le differenti Chiese ortodosse e, in particolare, con quella russa, quella greca e quella ecumenica di Costantinopoli. «Quelle ortodosse – spiega Girgis – sono Chiese “sorelle”, con le quali storicamente abbiamo rapporti. Ma con il nuovo papa queste relazioni sono diventate molto più strette. Tawadros ha avviato un confronto serrato con le Chiese protestanti. Lui crede nella fratellanza con i riformati, anche se una parte dei copti, i più tradizionalisti, hanno fatto numerose resistenze perché vedono i protestanti come i nemici dell’ortodossia».

Il clero e i fedeli

La Chiesa copta, però, sta subendo una profonda trasformazione nei suoi stessi fedeli. Da sempre i copti sono legati alla loro gerarchia (vescovi, monaci, sacerdoti). «È un legame solido, a volte fin troppo – sottolinea Youssef -. In passato, per i credenti, il clero era tutto. Dal clero dipendevano per qualsiasi cosa: chiedevano aiuti materiali, consigli e ascolto nei momenti difficili, direttive in campo politico ed economico. Oggi questo “totale affidamento” sta venendo meno. I copti partecipano ancora in massa alle funzioni religiose, ma molti di essi stanno tagliando il cordone ombelicale con la gerarchia. Soprattutto i giovani non ascoltano più le direttive ecclesiastiche in campo politico ed economico. Si muovono da soli, rivendicando il loro essere cittadini egiziani che lavorano nella società per farla crescere. Si ispirano ai valori cristiani, ma senza legami vincolanti con la chiesa. Stanno seguendo un processo di laicizzazione non dissimile a quello che è avvenuto in molti paesi europei».

Enrico Casale


Scheda 1:
Matta el Meskin

Personaggio dallo straordinario carisma umano e spirituale, padre Matta el Meskin (1919-2006), al secolo Yusuf Iskandar, rappresenta una delle più luminose figure spirituali dei cristiani d’Egitto. È stato il fautore di una importante rinascita spirituale, monastica e culturale, all’interno della Chiesa copta ortodossa.

Farmacista in carriera, Yusuf, si avventura in un viaggio dello spirito che lo porterà in tre monasteri e a una lunga esperienza di vita eremitica. Monaco dal 1948, dal 1969 al 2006 è stato padre spirituale del monastero di San Macario nel deserto di Scete (Wadi el-Natrun). Alla sua morte nel 2006 questo monastero era diventato un piccolo Eden e il numero di monaci che lo abitavano era centotrenta. Oggi il monastero è guidato da un suo discepolo, il vescovo anba* Epiphanius.

L’anelito di questo monaco copto è stato sempre quello di vivere radicalmente il Vangelo. È a partire da ciò che Matta el Meskin ha creato attorno a sé una vera e propria scuola di spiritualità del deserto. Il Signore gli ha donato uno straordinario carisma, quello di parlare con la forza del linguaggio e della spiritualità degli antichi padri del deserto agli uomini contemporanei di ogni latitudine. Prova ne è il fatto che le sue opere sono state tradotte in ben sedici lingue. Il cuore della spiritualità meskiniana è la «grazia» dello Spirito Santo, l’ineffabile azione d’amore di Dio, che in Cristo ha realizzato la riconciliazione tra terra e Cielo. Essa è sempre più grande e più generosa della nostra miseria e pochezza ed è capace sempre di «trasformarci in quella medesima immagine, di gloria in gloria (cf. 2Cor 3,18)». L’azione dell’uomo è primariamente sinergia con lo Spirito Santo.

Instancabile sostenitore dell’unità dei cristiani, abuna* Matta è autore di un centinaio di scritti. La sua opera più conosciuta è certamente La vita di preghiera ortodossa tradotta in italiano con il titolo di L’esperienza di Dio nella preghiera (Qiqajon). È da qui che traiamo alcune parole sulla preghiera incessante.

«La preghiera – scrive Matta el Meskin – è quell’atto essenziale nel quale Dio stesso, senza che noi ce ne rendiamo conto, opera in noi il cambiamento, il rinnovamento e la crescita dell’anima. Né il benessere, né la pace interiore, né l’impressione di essere esauditi, né nessun altro buon sentimento possono eguagliare l’azione segreta dello Spirito Santo sull’anima e renderla degna della vita eterna. La preghiera è apertura all’energia attiva di Dio, forza invisibile, forza intangibile. Secondo la promessa di Cristo (Gv 6,37) l’uomo non può ritirarsi dalla presenza di Dio senza ottenere un cambiamento essenziale, un rinnovamento che non apparirà come improvvisa esplosione, bensì come costruzione minuziosa e lenta, quasi impercettibile.

Colui che persevera davanti a Dio e persiste nel confidare in lui per mezzo della preghiera, riceverà molto più di quanto sperava e molto più di quanto avrebbe meritato. Colui che vive nella preghiera accumula un immenso tesoro di fiducia in Dio. La forza e la certezza di questo sentimento superano l’ordine del visibile e del tangibile, poiché l’anima, in tutto il proprio essere, si impregna profondamente di Dio e l’uomo percepisce la presenza di Dio con grande certezza, tanto da sentirsi più grande e più forte di quanto non sia. Acquisisce allora la convinzione di un’altra esistenza, superiore alla sua vita temporale, pur non ignorando la propria debolezza, né dimenticando i propri limiti.

Dal momento in cui l’anima comincia a elevarsi nel mondo delle «luce vera» (Gv 1,9) che è in lei, comincia a porsi in armonia con Dio attraverso la preghiera continua fino a eliminare ogni divisione, ogni dubbio, ogni inquietudine, allora la Verità dirige il suo movimento e tutti i suoi sentimenti e il fuoco dell’amore divino fonde le sue esperienze passate e presenti, sopprimendo le parzialità e i timori dell’io, gli errori dell’egoismo e i suoi sospetti, cosicché in fondo all’anima non resta altro che la pienezza della sovranità dello Spirito e l’estrema felicità di sottomettersi alla sua volontà».

Markos el Makari

* «Anba» e «abuna» significano «padre». Il primo è usato per papi, vescovi e santi; il secondo per monaci e preti.

  • AA.VV., Matta el Meskin: un padre del deserto contemporaneo, Edizioni Qiqajon, Magnano, 2017.

Scheda 2:
Anche nel calcio

Tutti gli egiziani amano e seguono il calcio, specie quando a giocare è la leggendaria Nazionale dei Faraoni. Hassan Shehata (nato nel 1949) è stato uno dei Ct più amati in assoluto, capace di portare l’Egitto sulla vetta d’Africa per ben tre volte consecutive, un vero record.

Il mister ha sempre puntato sul gruppo, ma ha sempre avuto una caratteristica controversa che ha spesso suscitato polemiche (in primis fra i musulmani). Il suo criterio principe – diceva – per la selezione dei convocati era la pietas: va benissimo la tecnica, la qualità e la forza, ma se non sei un buon musulmano non farai mai parte del gruppo. Inutile dire che i copti sono esclusi a priori (un fenomeno che si sta sempre più allargando alle basi del calcio egiziano, con una progressiva esclusione delle giovani promesse cristiane dai principali club), così come i calciatori musulmani più laici.

È l’esempio di re Mido (Abdelamid Hossam Ahmed Hussein, nato nel 1983), personaggio al confine fra Bobo Vieri e Mario Balotelli, sia per temperamento che per i molteplici vizi, in eterno conflitto con Hassan Shehata, fino all’esonero definitivo dalla Nazionale.

È una tendenza relativamente nuova, ma degna di nota. Non esiste copto che non conosca Hany Ramzy (nella foto), uno dei più forti difensori dell’Egitto di sempre, classe 1969 e idolo per tutti gli egiziani. Calciatore di fede cristiana, oggi allenatore. All’epoca, nessun problema. Oggi non è più così, e a tante giovani promesse viene chiesto di convertirsi all’Islam, conditio sine qua non per fare carriera nel mondo del pallone.

Andrea Boutros

Scheda 3:
La diaspora copta

La crisi economica persistente (che si è accentuata notevolmente dopo le Primavere arabe) e le discriminazioni subite in patria hanno portato molti copti a emigrare. La maggior parte si è trasferita in Nord America o in Australia. Molti, però, sono arrivati in Europa. In Italia, sono circa 45mila: 25mila nella diocesi di Milano e 15mila in quella di Roma. «Questo dato – osserva Girgis – si riferisce alle persone che frequentano la comunità religiosa. Credo quindi che sia sottostimato, probabilmente sono molti di più».

I copti sono molto bene integrati nel tessuto sociale italiano. Sono professionisti, dirigenti, impiegati, artigiani, commercianti. Molti giovani studiano nelle nostre università e, una volta laureati, entrano con facilità nel nostro sistema produttivo. «D’altra parte – continua Girgis – nulla impedisce ai copti di integrarsi. Non ci sono ostacoli evidenti alla loro integrazione: né la fede, né la cultura».

Dal 2013, in Parlamento siede un deputato di origine egiziana e di fede copta ortodossa. È Girgis Giorgio Sorial (nella foto), bresciano, appartenente al Movimento 5 Stelle. I suoi genitori si sono rifugiati in Italia perché in patria erano stati perseguitati da musulmani radicali.

«Dialogo con i musulmani? – conclude Youssef -. No, in Italia non c’è una relazione istituzionale con i musulmani. Molte famiglie egiziane cristiane e musulmane si frequentano, ma sono relazioni a livello personale. Il professor Farouq Wael Eissa dell’Università Cattolica di Milano ha dato vita a un gruppo di lavoro con ragazzi islamici e copti. Organizzano alcune iniziative insieme. È questa la strada giusta. Credo che per favorire l’integrazione non serva costruire moschee o chiese, ma luoghi di incontro dove sia possibile fare insieme attività culturali o sportive».

Enrico Casale

Scheda 4:
La Chiesa copta cattolica

Esiste anche una Chiesa copta cattolica, il patriarcato cattolico di Alessandria, eretto nel 1824, ristabilito nel 1895 e governato da un patriarca. Comprende 6 diocesi con circa 200.000 fedeli. L’attuale patriarca è Abramo Isacco Sidrak (nella foto). Il 28 e 29 aprile si è incontrato con papa Francesco nella due giorni del pontefice in Egitto.

Scheda 5:
Cronologia essenziale 2010-2017.
Una comunità sotto attacco

2010, 7 gennaio – La notte del Natale copto, a Nag’ Hammadi (vicino a Luxor), fedeli copti vengono attaccati da un gruppo di musulmani: 7 morti.

2011, 1 gennaio – Attentato alla chiesa copta dei Due Santi ad Alessandria: 23 morti e 97 feriti.

2011, 11 febbraio – Caduta di Hosni Mubarak. Era presidente dall’ottobre del 1981.

2011, 9 ottobre – Al Cairo, nella via Maspero, davanti al palazzo della radio e della televisione di stato, reparti dell’esercito egiziano uccidono 28 persone che partecipavano a una marcia di protesta dei cristiani copti.

2012, 18 novembre – Elezione di papa Tawadros II, 118° patriarca di Alessandria.

2013, 3 luglio – Un golpe militare guidato dal generale al-Sisi destituisce il presidente Mohamed Morsi dei Fratelli Musulmani (organizzazione islamista fondata nel 1928). Morsi era stato eletto nel giugno 2012. Il magistrato Mansur viene nominato presidente ad interim.

2013, 23 settembre – Al-Sisi dichiara fuorilegge i Fratelli musulmani.

2014, 8 giugno – Dopo la transizione di Mansur, viene eletto presidente il generale al-Sisi.

2015, 12 febbraio – A inizio gennaio l’Isis sequestra 21 copti che vengono uccisi un mese dopo in Libia. I terroristi islamici mettono in rete il video della decapitazione (foto a sinistra).

2016, 11 dicembre – Un attacco suicida uccide 25 persone nella chiesa copto ortodossa di San Pietro e Paolo al Cairo.

2017, febbraio – Nella penisola del Sinai jihadisti egiziani legati all’Isis attaccano ripetutamente le comunità copte.

2017, 9 aprile – Nella domenica della Palme due attentati dell’Isis contro chiese copte – a Tanta (delta del Nilo) e ad Alessandria – provocano 45 morti e 126 feriti. Il presidente al-Sisi decreta tre mesi di stato d’emergenza.

2017, 28-29 aprile – Viaggio di papa Francesco in Egitto. Incontri con il patriarca Tawadros II, il presidente al-Sisi e il grande imam al-Tayeb.

2017, 26 maggio – Un autobus che trasportava i fedeli copti è stato assalito da un commando di dieci uomini a Menyah, a 250 Km a sud dal Cairo. Bloccato il mezzo e saliti a bordo, hanno aperto il fuoco sui passeggeri. Almeno 28 i morti.

Paolo Moiola

PS:?oggi esiste un portale web – http://eshhad.timep.org/database -, aggiornato in tempo reale, che riporta ogni singolo atto di violenza a significato settario e persecutorio contro i copti in Egitto. Con tanto di data, luogo, vittime, feriti, danni a proprietà, negozi o abitazioni. Un rapido sguardo fornisce un’idea della portata del fenomeno.


Gli autori di questo dossier

  • Markos el Makari – Nato in Italia, bilingue italiano e arabo, attualmente è monaco novizio del monastero di San Macario il Grande a Wadi el-Natrun (l’antica Scetes) e del monastero di Bose (Biella). È collaboratore della rivista di geopolitica Limes. Il suo nome da civile è Marco Hamam.
  • Andrea Boutros – È nato a Genova da genitori egiziani nel 1993. Laureando in Medicina e Chirurgia, ha collaborato come giornalista per Il Secolo XIX e yallaitalia.it trattando la tematica migratoria e le problematiche sociali riguardanti le seconde generazioni. Parla italiano e arabo. È un membro attivo della comunità copta di Genova.
  • Enrico Casale – Giornalista freelance, si occupa di Africa. Laureato in Scienze politiche presso l’Università cattolica di Milano. È stato redattore del mensile Popoli. Attualmente collabora con Missioni Consolata, Africa, Combonifem, Nigrizia, Radio Vaticana e per le pubblicazioni dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) di Milano.
  • Paolo Moiola – giornalista redazione MC, ha curato il tutto.

 

 




Passaggi, storie di straordinaria integrazione


Indice

Introduzione: Da migrante a nuovo cittadino

Articolo: Come ti libero le schiave del sesso

Box: Noi, della prima generazione

Articolo: Missione: costruire i «nuovi cittadini»

Box: l’integrazione che si coltiva

Articolo: L’angelo dei sans papiers

Box: il calcio che conta

 



Da migrante a nuovo cittadino

Secondo l’Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) nel 2016 hanno messo piede in Italia 181.436 esseri umani. A questi si aggiungono i 5.096 morti in mare e gli invisibili, viaggiatori mai arrivati a vedere le coste dell’Africa del Nord, di-spersi nel deserto o dimenticati nelle carceri libiche. La somma dà un numero imprecisato di migranti, donne e uomini, accomunati da un’unica somiglianza: l’urgenza di fuggire dalla terra in cui sono nati.

Essere migrante non è uno status permanente, ma una fase di passaggio e c’è un preciso momento in cui lo si diventa. Succede quando una causa di forza maggiore – una guerra, un disastro ambientale o una persecuzione personale – esercita una pressione su una persona tale da obbligarla ad abbandonare una vita stanziale.

E così inizia il movimento che, nell’ultimo anno, ha portato centinaia di migliaia di disperati ad attraversare il Mediterraneo, per approdare in un centro di accoglienza in stati che, nella maggior parte dei casi, sono scelti dagli scafisti.

Ma c’è anche un preciso momento in cui si smette di essere migranti. La fuga dal proprio paese non si esaurisce in un viaggio tortuoso, ma in un ritorno alla stabilità. Ed è proprio quando si ha l’opportunità di piantare le proprie radici in una nuova cultura che si abbandona questa condizione. E si diventa un nuovo cittadino.

Gli stranieri regolarmente residenti in Italia nel 2016 – secondo i dati Istat – sono 5 milioni e 26 mila. Persone dalla doppia anima, allo stesso tempo stranieri e nuovi abitanti, hanno acquisito la lingua e la cultura del paese ospitante, senza dimenticare le peculiarità del mondo da cui sono arrivati. Esseri umani che chiamano «casa» l’Italia con la stessa forza con cui rivolgono il pensiero al paese di origine.

Tra di loro, qualcuno ha compiuto un passaggio ulteriore. Ha capito che il personale percorso di integrazione, fatto di tentativi, errori, ma anche successi, può essere tradotto in un bagaglio di esperienze utili e trasferibili ai nuovi migranti, per rendere più fluido e rapido il loro processo di inclusione.

Alcuni stranieri residenti hanno deciso di tendere una mano a chi è arrivato dopo di loro, aiutandolo a vivere l’approdo in Italia. Tra di essi c’è chi si occupa di fornire cure gratuite ai richiedenti asilo, chi prova a insegnare un lavoro, chi li ospita in casa, chi ne migliora le occasioni di socialità attraverso lo sport, chi ancora promuove un passaggio di competenze e conoscenze, con attività di educazione alla pari.

Stranieri, forse non più stranieri, che sfidano la retorica di chi li vede come invasori, dimostrandosi, al contrario, anelli forti nei processi di integrazione, ponti tra due mondi, in grado di semplificare e ammorbidire il dialogo tra chi arriva e chi invece è sempre vissuto in Italia.

E così facendo contribuiscono non solo al perfezionamento del sistema di accoglienza italiano, ma alla costruzione di una società in cambiamento, dove migranti, ex migranti, stranieri e italiani hanno la possibilità di incidere sul futuro del paese in cui vivono e fare, tutti insieme, un passaggio in più. Diventare esempi di cittadinanza attiva.

Simona Carnino


 

Fatima Issah e Princess Inyang Okokon, Ghana e Nigeria

Come ti libero le schiave del sesso  

Loro, trafficate con l’inganno, riescono a liberarsi grazie alla propria tenacia e a un’associazione. Rimaste in Italia, sono diventate un riferimento per le ragazze che continuano ad arrivare numerose e sono sbattute sulle nostre strade. Molte di loro vogliono fuggire, ma hanno bisogno di tutto. Altre sono ricattate. Fatima e Princess ci sono passate.

Fuori è ancora buio. Sono le 7.30 di un giorno di una settimana qualsiasi. Fatima tira sù le tapparelle, scosta le tende e guarda verso il palazzo davanti a casa sua. Nell’alloggio di fronte, la luce spenta e la mancanza di movimenti lasciano trasparire un piccolo mondo addormentato.

«Le ragazze non si sono ancora svegliate – pensa Fatima -. Ora le chiamo perché altrimenti fanno tardi a scuola».

Squilla il telefono. Dopo pochi minuti, giovani donne dalla pelle d’ebano si affacciano al balcone. A pochi metri in linea d’aria vedono Fatima appoggiata al davanzale. La salutano. Dall’altra parte la donna sorride, le guarda e nella sua mente le conta una a una. Ci sono tutte. La giornata può iniziare.

Dal 2009, Fatima vive ad Asti dove si occupa dell’accoglienza e della protezione di vittime di tratta. Lavora presso il Piam onlus (www.piamonlus.it), associazione nota in Italia e all’estero per il recupero psicofisico delle schiave del sesso. Un mestiere complesso, per cui ci vuole preparazione psicologica, conoscenza delle disposizioni in materia di protezione delle vittime di tratta e una buona analisi del contesto storico e geografico in cui il commercio di esseri umani avviene.

«In genere le ragazze arrivano dalla Nigeria e hanno una media di 18-20 anni – spiega la donna -. A volte sono minorenni. Il mio compito è accompagnarle verso una nuova vita e dare consigli utili».

Fatima sa che quello che dice viene ascoltato con particolare interesse. Sa di essere un punto di riferimento per le ragazze. E in effetti nessuno è più credibile di chi ha vissuto le stesse vicissitudini. Nessuno è più credibile di lei.

Una storia d’inganno e di riscatto

Ghanese d’origine, Fatima Issah arrivò in Italia come vittima di tratta, nel 2008. Raggirata da un uomo nigeriano conosciuto ad Accra, accettò di partire per l’Europa con l’illusione di un lavoro come cuoca o inserviente in qualche ristorante. Senza saperlo si mise al seguito di un trafficante, iniziando un viaggio rocambolesco: palleggiata da Accra a Dubai, da Istanbul a Pristina, fino in Macedonia. Da lì, in treno verso Tessalonica e poi in volo in Repubblica Ceca, dove il faccendiere la imbarcò per Milano Malpensa prima di darsi alla macchia, per schivare i controlli sul traffico di esseri umani. All’aeroporto, un secondo uomo la stava aspettando per condurla a Torino, a casa di una donna nigeriana che si rivelò essere una madam pronta ad offrire a Fatima una vita d’inferno, invece di un lavoro legale.

«Mi dissero che dovevo pagare un debito di viaggio di 45mila euro lavorando in strada come prostituta – ricorda Fatima -. Non volevo fare una cosa del genere, ma non sapevo come fuggire e allora ho finto di essere d’accordo».

La sera successiva Fatima, insieme ad altre donne, venne costretta a salire su un furgone con destinazione Asti. Un’ora dopo era in piedi sul marciapiede di fronte al cimitero. «Una ragazza mi disse che dovevo avvicinare le macchine e propormi per 50 euro – spiega la donna -. Se il prezzo fosse stato considerato troppo alto, dovevo chiedere 20 euro per prestazione. Volevo scappare ma non sapevo come».

E il modo arrivò, come quando in un film tragico sopraggiunge uno spiazzante lieto fine. Una giovane nigeriana si rese conto dell’atteggiamento restio di Fatima. «Mi chiese come mai non facessi come tutte le altre. Le raccontai che mi avevano ingannato e volevo scappare, anche se era pericoloso. Lei allora mi aiutò, consegnandomi un volantino dell’associazione Piam con un numero di emergenza». Fatima aspettò di non essere vista, prese coraggio e si mise a correre. «Era buio e non sapevo dove stessi andando. Poi ho visto degli alberi e mi sono nascosta. Al mattino sono andata alla stazione dei treni e ho chiamato il Piam». I volontari dell’associazione si presentarono immediatamente e portarono Fatima nel centro di accoglienza femminile, dove ebbe la possibilità di fare denuncia di tratta alla polizia e da lì a poco ottenere il permesso di soggiorno per motivi sociali rilasciato ai sensi dell’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione.

Il ricatto del malocchio

Stessa sorte è capitata alla vicepresidente del Piam, Princess Inyang Okokon, originaria della Nigeria. In questo paese spesso le ragazze, prima di partire, vengono convinte a partecipare alla cerimonia del juju, un rituale religioso tradizionale, presieduto da una guida spirituale, che suggella un patto tra i trafficanti e le donne. I primi si impegnano a garantire un trasferimento sicuro in Europa e le seconde giurano che pagheranno il debito contratto. Il juju assume una funzione repressiva e schiavizzante quando le giovani, ormai consapevoli di essere cadute in una condizione di sfruttamento, cercano di fuggire. I trafficanti lo utilizzano con fare intimidatorio, ricordando alle donne che si tratta di un giuramento sacro, un contratto da cui non si può recedere, se non pagando il debito di viaggio, pena la morte della ragazza stessa o dei suoi famigliari. La cifra per l’affrancamento dai responsabili del meretricio è molto più alta di un normale biglietto aereo e arriva anche ad alcune decine di migliaia di euro.

«Io sono scappata – ricorda Princess -. Oggi sono qui a testimoniare alle ragazze che di juju non si muore e si può provare a uscire da questo incubo».

Identikit delle vittime di tratta

«Sono una delle poche ghanesi finite nelle mani del racket della prostituzione – afferma Fatima -. La maggior parte delle donne di colore che si vedono sulla strada sono nigeriane».

Secondo i dati dell’Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati) il 15% dei migranti arrivati in Italia nel 2016 proviene dalla Nigeria.

Tra di loro circa 11mila sono donne, di cui l’80% è vittima di tratta, come confermato dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). Un numero elevato se confrontato con il dato del 2015 che riporta 5.633 arrivi di ragazze in fuga da una nazione resa instabile dalle incursioni di Boko Haram e da una iniqua ripartizione delle risorse economiche. Nel saggio «Sex Trafficking in Edo State, Nigeria», edito dall’Unicri (Istituto di ricerca interregionale per il crimine e la giustizia dell’Onu) nel 2013, si evidenzia che l’85% delle vittime di tratta nigeriane proviene dalla regione denominata Edo, in particolare da Benin City e dai villaggi vicini. Abusando delle condizioni di vulnerabilità economica delle famiglie, i trafficanti cercano nei genitori delle ragazze dei complici, facili da abbindolare con la promessa di un benessere garantito dagli introiti della prostituzione delle figlie in Europa. Un’illusione rafforzata dall’incontro con alcune madam, ex prostitute diventate sfruttatrici, che spesso ritornano nel paese d’origine sfoggiando simboli di ricchezza quali telefonini di ultima generazione e case di proprietà.

«Oggi alcune ragazze sanno che la prostituzione è il prezzo da pagare per essere portate in Europa – spiega Fatima -. Ma quando si trovano davanti all’inferno della strada, alcune provano a scappare e altre continuano il lavoro per paura di ritorsioni».

Spesso è bassa la consapevolezza delle ragazze rispetto al loro futuro in Europa. Il saggio «Nigeria – La tratta di donne a fini sessuali», prodotto dall’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo nel 2015, afferma che «le donne possono sapere che lavoreranno come prostitute, senza però rendersi conto delle condizioni in cui ciò avverrà o dell’effettivo ammontare del debito, oppure possono essere sottoposte a pressioni nell’ambiente in cui vivono, o ancora possono essere vittime di inganni o raggiri».

Che siano convinte di arrivare in Italia per fare le badanti, o che sappiano cosa le attende, le ragazze si affidano a persone senza scrupoli. «Spesso sono vittime di violenza e sfruttamento sessuale durante il viaggio e poi in Libia – continua Fatima -. Alcune rimangono incinte dei loro stessi trafficanti».

Protezione delle ragazze trafficate

Le giovani donne inserite nei progetti di accoglienza gestiti da Fatima e Princess hanno raggiunto la Sicilia in barcone, come la maggior parte delle loro connazionali. Ad aspettarle all’arrivo normalmente c’è un intermediario che, come è successo a Fatima, ha il compito di accompagnarle da una madam.

«Quando sono ancora in Africa, le ragazze ricevono un numero telefonico da chiamare una volta approdate – spiega Princess -. In questo modo si possono mettere in contatto con i trafficanti qui in Italia».

Proprio per evitare che le ragazze si consegnino ai propri aguzzini, nei primi giorni a ridosso dell’arrivo, Fatima e Princess si impegnano a dare tutte le informazioni necessarie perché le giovani donne decidano consapevolmente se denunciare i propri carnefici ed entrare in un progetto di accoglienza per richiedenti asilo politico.

«Se arriva una ragazza nigeriana non accompagnata, diciottenne o ventenne, è al 100% vittima di tratta – dice Princess -. Ci possono dire che la persona che le sta aspettando è loro cugino, zio o un amico di famiglia, ma noi sappiamo che non è vero. Ci siamo passate prima di loro».

Tuttavia sta alle ragazze denunciare la propria condizione e, ad oggi, poche nigeriane trafficate si identificano come vittime. Per la maggior parte di loro il pagamento di somme ingenti di denaro per approdare in Europa è considerato la normalità e la prostituzione un passaggio obbligato verso l’affrancamento. Altre sanno che una denuncia suonerebbe come una dichiarazione di guerra nei confronti dei trafficanti che potrebbero minacciare le loro famiglie.

«Alcune ragazze invece non vogliono andare sulla strada a nessun costo – dice Fatima -. Si sono affidate a trafficanti per riuscire ad arrivare in Europa, ma non hanno nessuna intenzione di svolgere quel lavoro. In questi casi, le aiutiamo a sporgere denuncia e le inseriamo in progetti di accoglienza e di protezione».

Un percorso di accompagnamento che Fatima e Princess svolgono con passione e dedizione, incoraggiando le ragazze ad andare a scuola di italiano, immaginare un futuro lavorativo e provare a sanare le ferite fisiche e psicologiche che hanno subito durante il processo migratorio.

«Non è semplice valutare se una ragazza è davvero fuori dal giro della prostituzione – spiega Princess -. Capita che denunci il trafficante, ma che dopo un periodo scappi dal progetto di protezione, perché teme gli effetti del juju per non aver pagato il debito». E così può accadere che una ragazza inizialmente strappata allo sfruttamento sessuale venga ricontattata dai suoi aguzzini e, intimorita per le possibili ritorsioni, cominci un percorso di miseria sulla strada, schiavizzata per un numero di anni difficile da calcolare.

«Quando ci accorgiamo che una ragazza viene minacciata da uno di questi delinquenti, proviamo a trasferirla in un’altra città, prima che scappi senza dirci nulla – conclude Princess -. È nostro compito provare a proteggerla fino a quando ne abbiamo la possibilità».

Guadagnarsi la fiducia delle vittime di tratta non è facile. Eppure Fatima e Princess non demordono. Dalla loro parte hanno un’esperienza, triste e dolorosa, che le rende un esempio concreto. «Io sono come te, ma sono cresciuta. Ho studiato e ho un lavoro», dice Fatima, ogni volta che incoraggia le giovani a trovare la forza di dire no alla tratta, ogni volta che le ascolta e le accompagna per diventare donne libere. E ogni volta che le chiama dalla finestra, perché non facciano tardi a scuola.

Simona Carnino


Noi, della prima generazione

Dalla cucina arriva un profumo di curcuma che si mischia alle note intense della cipolla e dell’aglio. I borbottii della casseruola sul fuoco annunciano un piatto dalla lunga cottura. Moussa, un 23enne originario del Mali, sta controllando che il riso non si attacchi al fondo. A intervalli regolari dà una mescolata, poi posa il cucchiaio e si mette a pelare patate e carote. Alle sue spalle Mallam, ghanese di 25 anni, lava le pentole. Poco più in là Alioune prepara la tavola per tutti. Qualche mese fa l’apparecchiava solo per sé.

Siamo nella primavera del 2016 Mallam e Moussa sono in Italia da circa 5 anni. Prima di conoscere Alioune avevano vissuto tra grandi centri e case occupate. Nel 2015 hanno ottenuto la possibilità di partecipare al progetto «Rifugio diffuso», un’accoglienza in casa di privati che prevede un contributo alla famiglia ospitante di circa 400 euro per ogni richiedente asilo o titolare di protezione alloggiato. Ad aprire la porta ai due giovani c’era Alioune Djouf senegalese di 58 anni, residente in provincia di Cuneo e in Italia da più di metà della sua vita. «Questi ragazzi appena arrivati hanno bisogno di essere aiutati – commenta Alioune -. Noi, che siamo di prima generazione, dobbiamo essere in prima linea».

 

L’accoglienza in casa è ancora poco praticata in Italia. In Piemonte ha cominciato ad avere una parziale diffusione nel 2008 ed è stata rilanciata nel 2014 dal comune di Torino, insieme all’Ufficio pastorale migranti della diocesi e altre associazioni. Questo tipo di servizio permette alle persone ospitate di avere un immediato contatto con il territorio, facilitato dal conduttore dell’alloggio che, in genere, è residente in loco da molti anni. E i risultati possono essere particolarmente interessanti quando il rifugio viene offerto da uno straniero che vive in Italia da parecchio tempo. «Noi che siamo arrivati in Italia da anni, conosciamo la lingua, il sistema culturale e sociale italiano, ma abbiamo anche una grande conoscenza dei paesi di provenienza. Siamo dei ponti naturali e possiamo dare una mano concreta a chi arriva ora», spiega Alioune che nel 2016 ha accompagnato i due ragazzi nel processo di iscrizione al centro per l’impiego, li ha messi in contatto con una ditta per svolgere un tirocinio e li ha sostenuti nella creazione di una piccola rete di amicizie e incontri sul territorio.

A volte possono subentrare delle difficoltà di convivenza, come tra normali coinquilini, certo è che l’accoglienza in casa permette un processo di integrazione più rapido di quello che avviene nei grandi centri.

«Quando i ragazzi arrivano, parliamo subito – racconta Alioune -. Non siamo più in Africa. Il sistema europeo è molto diverso da quello a cui sono abituati, per cui diventa prioritario per loro provare a capire la gente, rispettare le regole e farsi conoscere. In questo modo si riuscirà a fare un buon inserimento. E naturalmente è importante trovare un lavoro. Per questo faccio di tutto perché Mallam e Moussa abbiano un’opportunità di impiego». Un proposito che si scontra con le precarietà ormai tipiche del sistema lavorativo italiano, ma che non ha scoraggiato i giovani.

Marzo 2017: Mallam ha iniziato un tirocinio presso una mensa e si è trasferito più vicino alla sede di servizio, mentre Moussa ha cominciato il servizio civile e vive ancora a casa di Alioune.

Simona Carnino


Abdullahi Ahmed, Somalia

Missione: costruire i «nuovi cittadini»

È un ragazzo come molti altri. La paura del viaggio era tanta, ma quella di rimanere e non potersi realizzare ha prevalso. Una grande volontà di rendersi utile. Per caso diventa mediatore. Un naturale «ponte» tra due mondi. Capisce che occorre preparare i ragazzi italiani all’accoglienza e in un anno incontra 10.000 giovani nelle scuole.

Corre veloce, Abdullahi. Sulle spalle lo zaino con gli appunti per spiegare nelle scuole del Piemonte il motivo che convince i ragazzi come lui a fuggire dal proprio paese. Nelle mani l’orario dei colloqui con i richiedenti asilo appena arrivati in Italia, in tasca il biglietto di uno studente con scritto «grazie». E nello sguardo il guizzo vitale di chi sogna un dialogo pacifico tra italiani e stranieri. O per usare le sue parole, «nuovi cittadini, perché sono sicuro che se il processo di inclusione avviene in modo corretto, chi approda oggi, sarà il cittadino di domani».

Abdullahi Ahmed, classe 1988, originario della Somalia, oggi è cittadino italiano e fa il mediatore culturale a Settimo Torinese. Parla la nuova lingua come un libro stampato, conosce la Costituzione italiana a menadito, si destreggia tra i meandri della burocrazia e sa orientarsi lesto per le vie di Torino, città in cui abita. Difficile considerarlo straniero, migrante, rifugiato, profugo. Abdullahi è un ragazzo come tanti altri, somalo, italiano, europeo che si è messo in viaggio in cerca di stabilità economica, sociale e, nel suo caso, politica.

La traversata che ti segna

Abdullahi è arrivato in Italia nel giugno 2008, ma è partito dalla Somalia nel novembre 2007. Il paese è dilaniato da guerre civili e dittature fin dal 1960, anno dell’indipendenza. L’economia ne ha sofferto, piegata inoltre da ondate di carestia, che hanno accelerato i moti migratori e collocato la Somalia al terzo posto nel mondo per numero di richieste di asilo politico, con 1,1 milioni di abitanti in fuga, secondo il 3° Rapporto sulla Protezione internazionale 2016 (di Caritas Italiana e altre organizzazioni). «Da quando sono nato non ho mai vissuto un giorno di pace, fino a quando non ho deciso di partire – racconta Abdullahi -. La paura del viaggio era tanta, ma quella di rimanere, e non potermi realizzare come essere umano, era più forte». Compiuti 19 anni, ha preso il suo bagaglio e ha cominciato un viaggio di 7 mesi, affidandosi a organizzazioni di trafficanti che si occupano di gestire il viaggio dei migranti verso l’Europa. Mesi trascorsi ad attraversare l’Etiopia, il Sudan e poi la Libia. «Mi sarebbe piaciuto prendere un aereo, ma non è stato possibile – ricorda il ragazzo -. Con il passaporto somalo non si può andare neanche in Kenya, mentre con i documenti italiani si può viaggiare in 175 paesi. Oggi c’è chi ha diritto di viaggiare e chi no. E i somali non ce l’hanno», per cui il viaggio è stato precario e insicuro a ogni passo. L’attraversamento del mare tra Libia e Italia è stato più semplice del passaggio nel deserto, durato sette giorni. La paura che la macchina si inceppasse a causa della sabbia, che i soccorsi non arrivassero o che le riserve d’acqua terminassero, ha seguito Abdullahi fino all’arrivo in Libia, dove, pagando un biglietto salato, è salito sul barcone che lo ha portato in Europa. «Tu non scegli in che punto attraversare il Mediterraneo né dove arrivare – racconta -. Ti affidi e basta. Il viaggio in mare dura mediamente 24 ore. Se c’è un problema, speri di essere soccorso e preghi Dio».

Dopo quattro giorni dall’arrivo a Lampedusa, Abdullahi è stato imbarcato su un volo per Torino e accolto nel Centro Fenoglio di Settimo Torinese, gestito dalla Croce Rossa. Dopo tre mesi, ha ottenuto il permesso di soggiorno come rifugiato politico.

«Vorrei fare qualcosa di buono»

«Certezze non ce ne sono, ma per ora vorrei mettere qui il mio mondo e fare qualcosa di buono». Nel 2009, Abdullahi ha posato la pietra miliare della sua nuova vita in Italia, ma non ha smesso di muoversi. Almeno con le idee e con la volontà di rendersi utile.

A un anno dal suo arrivo in Italia ha iniziato a svolgere il mestiere di mediatore culturale. «Nel 2009 sono arrivati al Fenoglio 150 richiedenti asilo politico dalla Somalia – racconta Abdullahi -. Io mi sono messo a disposizione per aiutare gli operatori del centro a trasmettere le comunicazioni». Un’attività iniziata per caso, diventata una professione che lo ha reso indispensabile per la sua funzione di ponte linguistico. «Ma il mediatore è molto di più di un interprete. È una persona che conosce la cultura del paese d’origine e ha acquisito la cultura del paese ospitante», dice Abdullahi che da anni ha il compito di aiutare i ragazzi somali a iscriversi al sistema sanitario, alla scuola di italiano per stranieri, a conoscere il territorio e a seguire l’iter di ottenimento dei documenti.

«Se i ragazzi non hanno ancora fatto richiesta di asilo politico, li accompagno in questura per compilare i moduli necessari – spiega -. I tempi di attesa oggi sono molto più lunghi del 2008. A volte ci vogliono due anni per ricevere una risposta».

Secondo i dati mensili raccolti dal ministero dell’Interno, da gennaio a dicembre del 2016 sono state presentate 124.382 domande di asilo, mentre ne sono state esaminate 90.552, indipendentemente dall’anno di arrivo del richiedente in Italia. L’attesa è sfiancante e in più del 50% dei casi la risposta è negativa. Una doccia fredda. Esseri umani dichiarati illegali, spinti a lasciare il paese, nonostante spesso abbiano già imparato la lingua e magari trovato un’occupazione. «In quei momenti il mio lavoro si fa duro e posso fare ben poco – racconta Abdullahi -. In ogni caso, continuo a frequentare chi non riceve il permesso, aiutandolo a costruire una rete sociale. Non voglio che si senta abbandonato».

Due mondi che s’incontrano

L’avvicinamento tra due mondi è possibile solo se entrambi hanno la volontà di camminare verso l’altro. «Una volta pensavo che fosse compito solo di noi stranieri fare lo sforzo di integrarci – ricorda Abdullahi – ma mi sbagliavo. È importante preparare il territorio, coinvolgere i giovani nati in Italia, parlare con loro». A dargli l’occasione per iniziare una nuova tappa di dialogo è stato, paradossalmente, un evento tragico.

Il 3 ottobre del 2013 un barcone affondò al largo di Lampedusa causando 368 morti e 20 dispersi. Il giorno dopo in una scuola del Piemonte, un professore propose ai propri studenti un minuto di silenzio per le vittime del mare. Alcuni si rifiutarono. «Ma che ce ne frega a noi di questi. Facevano meglio a non venire», disse uno. Spiazzato dall’atteggiamento della classe, il docente provò a correre ai ripari, pensando di mettere i propri studenti a confronto con l’oggetto stesso della loro diffidenza. Alcune telefonate dopo, Abdullahi si presentò a scuola per raccontare la sua storia, in buona parte simile a quella dei ragazzi annegati il 3 ottobre. Due ore di resoconto serrato, un’antologia di emozioni mescolate a fatti di storia contemporanea incisi sulla pelle.

Grazie a quell’incontro il ragazzo che aveva detto di «fregarsene» iniziò invece a interessarsi e invitò Abdullahi a partecipare a un’assemblea di istituto per portare la sua testimonianza a tutta la scuola.

«Da allora ho deciso di raccontare la mia storia per ridurre le distanze tra italiani e migranti. È diventata la mia missione. In tre anni ho incontrato più di 10mila studenti e i riscontri sono sempre positivi». Un’attività di volontariato che Abdullahi svolge con spirito civico, ma anche autornironia e simpatia. Pronto a rispondere a domande senza filtri, come quella volta che gli chiesero perché non se ne fosse andato in Botswana, invece che in Italia. «Non ci sono domande scomode o cattive.
È stimolante discutere con chi la pensa diversamente, altrimenti che confronto sarebbe! – sorride Ahmed -. I ragazzi mi chiedono della mia famiglia, della mia religione, se vengo pagato dallo stato, se pago l’affitto, se lavoro. Io rispondo alle loro curiosità. E così ci conosciamo e siamo un po’ meno lontani. È un’esperienza magnifica».

L’impegno civile

L’impegno di Abdullahi non conosce confini e nel 2014, rimasto senza lavoro come mediatore, con diritto all’assegno di disoccupazione, ha deciso di rifiutare l’aiuto dello stato per svolgere il servizio civile nazionale e restituire una parte di sé a Settimo Torinese, la città che lo aveva accolto anni prima.

Un esempio di partecipazione civica che non è sfuggita alla giunta comunale che il 18 settembre 2014 ha insignito Abdullahi della cittadinanza onoraria. A marzo del 2016 è diventato cittadino italiano a tutti gli effetti, ottenendo la possibilità di votare, di viaggiare e di poter vivere dove vuole.

Anche nel tempo libero il giovane mediatore non perde occasione di portare un contributo all’incontro interculturale. Dal 2014 è uno degli organizzatori della cellula torinese, e da poco anche settimese, di Arte Migrante, un evento serale informale, una corrida senza pomodori, in cui persone provenienti da tutto il mondo, di ogni ceto sociale e di ogni età, si esibiscono in performance di danza, canto, recitazione e molto altro. «Si sta insieme per il piacere di farlo. Tanti richiedenti asilo, rifugiati e nuovi cittadini partecipano con me alle serate e per un momento smettono di pensare ai problemi quotidiani. Ci divertiamo e le occasioni di socializzazione si moltiplicano in un’atmosfera magica».

E mentre ricorda tutto questo Abdullahi si tocca il collo. Dalla camicia fa capolino una maglietta rossa. O meglio granata. Improvvisamente una luce di orgoglio illumina il suo sguardo. «Sì, sono del Toro. La più grande squadra del mondo», dice serio Abdullahi che, appena ne ha avuto la possibilità, ha cominciato a sedersi in curva Maratona.

«All’inizio della mia esperienza in Italia, i tifosi mi hanno aiutato a sentirmi parte di un gruppo. Ogni volta che il Toro faceva gol ci abbracciavamo e a nessuno importava se io fossi nero, somalo, straniero, migrante o altro. Ero come loro, un tifoso granata».

Quell’abbraccio che lo ha fatto sentire a casa lo restituisce ogni volta che fa quello che gli riesce meglio. Essere l’ingranaggio funzionante di un dialogo appena iniziato.

Simona Carnino


Mamadou Ndiaje, Senegal e Abdulwahab Afa, Eritrea

l’integrazione che si coltiva

«Maramao perché sei morto? Pan e vin non ti mancava. L’insalata era nell’orto e una casa avevi tu», cinguettava il trio Lescano nel 1939. Negli anni 2000 la stessa cantilena ha cominciato a riecheggiare tra alcuni contadini di Canelli (Asti) che la usavano per indicare, con atteggiamento beffardo, i braccianti migranti finiti nel giro del caporalato, sfruttati nelle campagne del Dolcetto e del Barolo.

Oggi però Maramao ha un nuovo significato. Dal 2014 è il nome di una cooperativa agricola fondata da rifugiati politici e alcuni italiani. Maramao, sì. Per farsi beffa della beffa.

«Io e il mio collega Afa siamo i vicepresidenti – spiega Mamadou Ndiaje, senegalese -. Noi due e una nostra amica italiana rappresentiamo il comitato direttivo. Abbiamo iniziato questo lavoro coltivando le terre che alcuni anziani del paese hanno deciso di darci in comodato d’uso gratuito». Mamadou è arrivato dal Senegal e Abdulwahab Afa dall’Eritrea circa 4 anni fa. Oggi sono due giovani imprenditori di 30 anni, con alle spalle un passato trascorso in uno Sprar gestito dalla cooperativa Crescere Insieme di Acqui Terme (Alessandria), dove hanno imparato a destreggiarsi tra vendemmie, raccolta di nocciole e trasformazionie di pomodori. Imparato il mestiere, i due ragazzi, insieme a chi li aveva accolti, hanno unito le forze per la creazione di Maramao, start up di produzione e vendita di prodotti agricoli biologici.

«Oltre a coltivare, abbiamo deciso di accogliere in tirocinio lavorativo dei ragazzi che stanno nei centri di accoglienza, per insegnare loro un lavoro», racconta Afa. Una scelta importante che ha portato i due imprenditori agricoli a estendere quello che hanno imparato sull’auto imprenditorialità ai ragazzi, in gran parte richiedenti asilo, che sono un passo dietro a loro nel cammino verso l’integrazione lavorativa.

«Quando parti dal tuo paese d’origine, pensi che una volta arrivato in Italia sia facile trovare lavoro – ricorda Mamadou -. Poi ti rendi conto che ci sono tanti limiti. Prima di tutto bisogna avere i documenti a posto e parlare la lingua. Senza lavoro qui non è facile». E così i due giovani vicepresidenti fanno quello che possono per rendere a chi è arrivato dopo di loro più fluido il passaggio a una nuova vita lavorativa. Un tirocinio non è certo una sicurezza, ma rappresenta un primo passo per migliorare le proprie competenze e per venire in contatto con la popolazione locale. Molti dei ragazzi in stage si occupano della vendita dei prodotti al mercato, dove hanno l’opportunità di parlare con i clienti ed essere apprezzati per il proprio lavoro. Una gratificazione che stimola i giovani richiedenti asilo a mettercela tutta per dare nuova dignità ai campi abbandonati per anni (molte sono infatti terre lasciate incolte). Almeno per un periodo. Almeno fino a quando non avranno le idee più chiare sul loro futuro. «A volte i nostri tirocinanti non ottengono il permesso di soggiorno, oppure vogliono andare in Nord Europa – conclude Mamadou -. Non tutti loro rimarranno in Italia, ma noi proviamo a coinvolgerli nella coltivazione, nella raccolta, nella vendemmia e in tutto ciò che c’è da fare in una cooperativa agricola, perché ovunque vadano possano portarsi un mestiere con loro».

Sim.Car.


Joelle kamgaing, Camerun

L’angelo dei sans papiers

Arrivata a 19 anni in Italia per studiare medicina. Ha sviluppato grande empatia con i pazienti stranieri. Forse per la sua esperienza di studentessa «diversa» che ha dovuto integrarsi. Spesso gli assistiti hanno bisogno di un supporto umano più che di un consulto medico. E lei si mette a disposizione come volontaria.

Studia, studia, studia. È il mantra che ha accompagnato Joelle Kamgaing negli ultimi sei anni e mezzo, da quando ha iniziato a frequentare la facoltà di medicina e chirurgia a Torino.

A 19 anni aveva l’atteggiamento determinato di una velocista ai blocchi di partenza, con la mente concentrata al traguardo, pronta a fare il miglior tempo su un percorso ad ostacoli. «Avevo un obiettivo difficile – dice Joelle -. Volevo fare il medico. Mi sono impegnata, ho dato tutta me stessa».

E Joelle ce l’ha fatta. Nel 2016 si è laureata in medicina e chirurgia, con lode e dignità di stampa. Ha superato l’esame di abilitazione alla professione all’inizio del 2017 e ora sogna la specializzazione in nefrologia. Non male per una ragazza di 25 anni. Per una giovane donna che bagaglio in spalla e coraggio in pancia, ha lasciato il Camerun ed è partita alla volta dell’Italia per diventare medico.

Solidarietà studentesca

«Appena arrivata non sapevo una parola di italiano e non conoscevo nessuno, né la cultura, né il cibo. Era tutto diverso e io mi sentivo diversa. Tutti mi guardavano perché ero nera. Poi i miei compagni di corso mi hanno dato una mano. Mi parlavano in italiano e io li aiutavo con i concetti di medicina, spiegandomi in francese. E così poco a poco mi sono sentita accolta».

Un inizio tumultuoso per la ragazza che allo studio doveva affiancare lo sforzo di imparare la lingua e la volontà di comprendere un sistema culturale dai punti di riferimento diversi da quelli conosciuti nei primi due decenni di vita in Africa.

Senza scoraggiarsi e con la metodologia tipica di una scienziata, Joelle ha trasformato una debolezza in opportunità. Quell’iniziale sentirsi straniera in un paese straniero le ha permesso di sviluppare doti di empatia e ascolto che oggi rivolge ai suoi pazienti, in particolare a chi è arrivato da poco in Europa e fatica a esprimere il proprio malessere.

Appena ha un momento libero, Joelle opera come dottore volontario in medicina generale presso Camminare Insieme (camminare-insieme.it), un’associazione torinese di volontariato con un poliambulatorio in via Cottolengo, che si occupa di fornire farmaci e visite gratuite a indigenti e a stranieri che, per ragioni diverse, non abbiano diritto al servizio sanitario nazionale.

Medico, donna e africana

A volte non credono ai loro occhi. Stupiti e meravigliati, i pazienti stranieri che si siedono di fronte a Joelle rimangono a bocca aperta nel vedere una ragazza dell’Africa subsahariana con stetoscopio al collo e cartellino recante la dicitura «dottore» sul camice. «Mi chiedono come abbia fatto a raggiungere uno status così elevato – sorride Joelle -. Pensano che sia stata adottata. A loro sembra incredibile che qualcuno nato in Africa e arrivato in Italia possa riuscire a laurearsi in medicina».

Chi si presenta presso gli ambulatori dell’associazione Camminare Insieme nella maggior parte dei casi parla la lingua di chi ha fatto un lungo viaggio, con ferite psicologiche oltre che fisiche, e un passato da dimenticare. Difficile per loro pensare a un domani e ancora più arduo immaginare di realizzare i propri sogni.

Tanti di loro fanno parte di quel 61,3% di stranieri che nel 2016 ha ricevuto il diniego alla richiesta di asilo, secondo i dati del ministero dell’Interno. Cittadini invisibili che si muovono sul territorio italiano senza la possibilità di rimanere, ma neppure l’opportunità di andare verso un altrove più favorevole alla loro vita. Esseri umani privi di documenti che non hanno il diritto di iscriversi al sistema sanitario nazionale e quindi si rivolgono a centri ambulatoriali gestiti da volontari per ottenere visite generali e medicinali gratuiti. Tra i 2.547 pazienti totali, sono 2.113 le persone provenienti da paesi non dell’Unione europea che si sono registrate ai servizi dell’associazione Camminare Insieme nel 2016.

Pazienti senza documenti

«Chi è senza documento preferisce farsi curare presso centri come il nostro perché noi non esigiamo la presentazione del permesso di soggiorno – spiega Joelle -. Ogni volta che una persona considerata irregolare si presenta in strutture pubbliche teme una registrazione formale e conseguenti ripercussioni amministrative o penali».

Una paura che non avrebbe ragione di esserci se fosse più conosciuto l’articolo 35 del testo unico sull’immigrazione che cita: «L’accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di segnalazione all’autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano».

In Italia il dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’uomo, indipendentemente dall’etnia, dalla religione e dal sesso, in tempo di pace e guerra. Così recita ancora oggi l’articolo 3 del codice deontologico medico.

Certezze messe in dubbio qualche anno fa dal pacchetto sicurezza del 2008 e dalla successiva legge 94/2009 emanati dal governo Berlusconi che crearono panico diffuso tra gli stranieri e un acceso dibattito tra i medici determinati ad alzare le barricate per difendere il proprio dovere a operare nell’interesse del paziente.

Nel mirino c’era l’introduzione del reato di ingresso e soggiorno irregolare, punito con una sanzione fino a 10mila euro, e l’obbligo di denuncia per pubblici ufficiali e incaricati del servizio pubblico che venissero a conoscenza di una persona in condizione di clandestinità. Il mondo sanitario si trovò a dover fronteggiare una situazione ambigua. Da una parte il divieto di segnalazione propria della deontologia e dall’altra il possibile obbligo di denuncia del migrante irregolare, non perché avesse commesso un atto criminale, ma per il motivo di essere nella condizione di sans papiers.

«È stato un periodo difficile – spiega Fiorella Ferro, socio fondatore di Camminare Insieme -. Tutti i medici, paramedici e corpo sanitario italiano si sono allineati in una ferma opposizione alla legge». Sulla porta dell’associazione di Via Cottolengo campeggiava un grosso e rosso adesivo che recitava «Noi non segnaliamo» e in quell’anno le code di fronte alle porte si duplicarono, mentre il libero e spontaneo accesso alle cure pubbliche da parte degli stranieri senza documenti si riduceva.

La federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontorniatri alzò la voce in difesa del ruolo del medico e chiese al governo chiarimenti.

La vicenda trovò una sua conclusione nella circolare n. 12 del novembre 2009, in cui il ministero dell’Interno ribadì, come riportato dal portale sull’immigrazione del governo, «la vigenza del divieto di segnalazione anche dopo l’entrata in vigore del reato di ingresso e soggiorno irregolare sul territorio nazionale, precisando che l’obbligo di denuncia non si applica in riferimento al reato di ingresso e soggiorno irregolare sul territorio dal momento che si tratta di una contravvenzione e non di delitto».

Sebbene si fosse fatta chiarezza su un’ambiguità di fondo, la legge aveva contribuito a rendere diffidenti i pazienti senza documenti che, in quel periodo, preferivano rinunciare al proprio diritto all’assistenza sanitaria pubblica.

«Ancora oggi alcuni stranieri, a cui è stata rifiutata la richiesta di protezione internazionale, non sanno che si possono rivolgere al pronto soccorso liberamente – spiega Joelle -. Il mio compito in questi casi è provare a rassicurarli e convincerli ad andare all’ospedale in caso di emergenza».

Mediazione culturale e linguistica

Attualmente, davanti all’associazione Camminare Insieme si forma ogni giorno una fila che non di rado accoglie fino 70 persone. Al 98% sono stranieri, provenienti soprattutto da Marocco, Romania, Nigeria e Siria, che nel 2016 si sono affidati alle mani esperte di 76 medici volontari.

«La maggior parte delle persone si presenta per consulti di medicina generale e per visite odontorniatriche che privatamente non potrebbero permettersi – racconta Fiorella Ferro -. Tanti vengono da noi attirati dall’atteggiamento accogliente e attento dei nostri dottori».

E in fatto di empatia con i pazienti stranieri Joelle è naturalmente portata. Oltre al ruolo di medico, la giovane dottoressa svolge un’attività di mediazione culturale e linguistica fondamentale per comprendere, ma anche mettere a proprio agio, le persone che si presentano all’ambulatorio. «Quando i pazienti dell’area subsahariana mi vedono si sentono più rassicurati. Capita che mi spieghino le patologie in inglese o francese. Parliamo la lingua che conoscono meglio e in questo modo si sentono maggiormente compresi», racconta la dottoressa.

Pazienti che si sentono a casa anche se sono in un emisfero diverso da quello di provenienza e che riescono a raccontare i propri problemi medici senza inibizioni, sicuri che dall’altra parte della scrivania c’è qualcuno che sa capire anche le ansie relative a malattie tipiche dell’area geografica di origine.

«Mi è già successo che alcuni pazienti abbiano paura di essere affetti da malaria – continua Joelle -. Effettivamente è una malattia endemica della zona d’origine di numerosi stranieri. Io li capisco, ma cerco di spiegare loro che la maggior parte delle volte sono solo paure irrazionali e che in Italia è più facile contrarre l’influenza che la malaria». Consigli semplici, ma che suonano più autorevoli se pronunciati da qualcuno che può essere riconosciuto come un punto di riferimento famigliare da chi è appena arrivato in Italia.

«A volte i miei assistiti hanno bisogno di un supporto umano più che di un consulto sanitario – racconta Joelle -. Sono spesso abbattuti, senza un lavoro e rete sociale. Io dico sempre loro di non cedere, di darsi degli obiettivi e perseguirli, senza dimenticare da dove sono arrivati».

Così ha fatto lei, con la gioia e la risolutezza della giovane donna che ha pedalato in salita senza darsi mai per vinta, prestando la sua opera «con diligenza, perizia e prudenza secondo scienza e coscienza», come dice Ippocrate, e donando in più la sua esperienza di ex migrante per infondere ai pazienti il coraggio. Per affrontare il dottore e le sfide di un mondo nuovo.

Simona Carnino


Aboudala Dembelé, Mali

Il calcio che conta

Alle 6 del mattino è già sveglio. Per prima cosa rivolge la preghiera quotidiana a Oriente. Poi prepara il borsone. Tacchetti, calzettoni, parastinchi, scaldamuscoli, pantaloncini, una maglia a maniche corte, una felpa dell’Italia. Alle 7 è pronto per andare al lavoro, ma non prima di inviare il messaggio di rito: «Ricordatevi che stasera c’è allenamento. Cercate di essere puntuali. Vi aspetto davanti al cancello del campo alle 18.30». Il tono è quello compassato di un allenatore che convoca i suoi giocatori con la serietà asciutta di chi non fa tanti giri di parole. Proprio come Aboudala Dembelé, per gli amici Abu, che di giorno fa l’operaio e nel tempo libero è il mister di una squadra di calcio che unisce sotto la stessa maglia richiedenti asilo e rifugiati politici maliani residenti in alcuni centri di accoglienza di Torino.

Anche Abu è titolare di protezione internazionale. È arrivato dal Mali nel 2011, sulle rotte consuete che dalla Libia lo hanno portato in un centro di accoglienza torinese. «All’inizio non potevo lavorare e non conoscevo nessuno – racconta Abu -. Per cui ho iniziato a studiare l’italiano e poi, per non stare inattivo fisicamente, mi sono messo a giocare a calcio in un campetto vicino al centro».

Con un pallone, la fantasia e la forza dei suoi 25 anni, le cose hanno cominciato a muoversi. Da lì a poco è entrato a far parte dell’associazione sportiva dilettantistica Balun Mundial, fondata da un gruppo di ragazzi italiani e stranieri che, dal 2007, ogni estate organizza a Torino la «Coppa del mondo delle comunità migranti», una sfida all’ultimo gol per costruire uno spazio di incontro tra residenti e chi è appena arrivato in Italia.

Abu non ha perso tempo e ha portato il suo contributo costituendo la nazionale del Mali di cui è l’allenatore dal 2015. «Volevo comunicare a tutti che c’è una comunità di maliani a Torino», spiega Abu. La selezione dei giocatori è avvenuta nei centri di accoglienza, dove l’invito di Abu è stato accolto come un’opportunità per conoscere nuove persone in un ambiente divertente e multietnico. «Il calcio dà ai miei giocatori la possibilità di parlare italiano con i ragazzi delle altre nazionalità, di stare all’aria aperta e di imparare il concetto di puntualità che per noi africani a volte è un po’ vago – ride Abu -. All’allenamento non si sgarra. Chi non arriva puntuale non si allena. Così si impara la puntualità e la disciplina utile alla vita». In un passaggio educativo alla pari Abu cerca di insegnare quello che ha imparato sulla sua pelle. «So cosa significa stare in un centro di accoglienza – racconta il giovane -. La maggior parte della giornata non si svolge nessuna attività. Quando ho tempo libero, vado a trovare i ragazzi e parliamo. Provo a dare loro i miei consigli, li spingo ad andare a scuola e li ascolto. Fuori o dentro al campo, io ci sono sempre per i miei giocatori».

Sim.Car.

 


Fonti e Sitografia

  • www.iom.int -Sito dell’Organizzazione internazionale dei migranti (Oim), con l’aggiornamento di arrivi e decessi in mare.
  • www.ecoi.net -European Asylum Support Office, Nigeria. La tratta di donne a fini sessuali, ottobre 2015.
  • www.asgi.it -Assistenza sanitaria per stranieri non comunitari (scheda).
  • s2ew.caritasitaliana.it -Rapporto sulla protezione internazionale in?Italia 2016, Anci, Caritas Italiana, Cittalia, Fondazione Migrantes, Servizio Sprar.

Questo dossier è stato firmato da:

  • Simona Carnino Giornalista, è specializzata in diritti umani, migrazioni e cooperazione internazionale. Ha scritto per anni di temi ambientali e politici. Nel 2015 ha realizzato il documentario «Aguas de Oro» (www.aguasdeoro.org) sulla lotta di Maxima Acuña Chaupe (vincitrice del premio Goldman) in Perù. Ha lavorato 5 anni per Amnesty International e ha maturato esperienza nella gestione di progetti di cooperazione in America Latina. In Italia ha lavorato nel sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati politici. Attualmente vive e lavora in Guatemala.
  • Carolina Lucchesini Videoreporter e digital strategist. Si occupa di comunicazione e giornalismo da diversi anni, realizzando reportage video e multimediali, documentari e campagne di comunicazione per l’agenzia .puntozero, di cui è cofondatrice (www.puntozerohub.com).
  • A cura di: Marco Bello, giornalista redazione MC.
  • foto delle copertine: Le immagini di questo dossier sono tratte dalle puntate delle webserie «Passaggi». In prima di copertina Joelle Kamgaing e in ultima di copertina Abdullahi Ahmed.

 




Popolazioni perseguitate /2: Rohingya


Indice:

Una tessera senza mosaico

I Rohingya, minoranza islamica del?Myanmar

La diaspora degli invisibili

I musulmani del Myanmar

I Rohingya e le radici coloniali del conflitto

Anno 1974: l’inizio della discriminazione

Anno 1982: la legge di cittadinanza

Anno 2010: le aperture democratiche

Buddhisti contro musulmani

Le leggi antislamiche del governo

Una delusione di nome Aung San?Suu Kyi

Movimenti islamici e chiamata al «jihad»

Il Rakhine e il peso della povertà

La diaspora dei Rohingya: in Bangladesh, Thailandia, Malesia e Indonesia

I barconi dei trafficanti d’uomini

Aung San Suu Kyi: dopo le parole, è l’ora dei fatti


Una tessera senza mosaico

Il Myanmar – o Birmania (Burma), secondo la vecchia denominazione coloniale – è sempre stato un paese di forte attrazione turistica. Anche quando – dal 1962 al 2011 – era governato da una dura giunta militare. I visitatori trovavano un paese affascinante abitato da gente gentilissima e sorridente. Ma era una visione parziale perché i loro movimenti erano limitati a zone geografiche circoscritte, per lo più abitate dai Bamar, il gruppo etnico predominante e di religione buddhista. Rimanevano esclusi ampi territori, abitati da altre etnie, che in Myanmar sono centinaia. Non è un modo di dire che il paese sia un mosaico etnico. Un mosaico turbolento: sono ben 18 i gruppi armati che operano sul territorio, tutti con la propria bandiera, il proprio esercito, i propri leader, i propri obiettivi. Insomma, dietro quei sorrisi si celava un paese diviso e in guerra.

Altra immagine che è necessario sfatare è quella dei monaci buddhisti visti come personificazione dell’atarassia. Come sinonimo di tranquillità, pace interiore ed esteriore, vita monasatica. Invece anche loro sono uomini con passioni e pulsioni. Le immagini dei monaci che manifestano in piazza contro la minoranza musulmana dei Rohingya e la comunità internazionale ne sono un’evidente testimonianza. Gli striscioni da loro mostrati parlano chiaramente: «No, Rohingya», «I profughi non sono del Myanmar», «Nazioni Unite, basta inventare storie sui Rohingya», «Non distruggete la storia e l’immagine del Myanmar», «Basta incolpare il Myanmar», «Gli amici dei Rohingya sono nostri nemici». Va ricordato che, nella nuova Costituzione del maggio 2008, il Myanmar riconosce al buddhismo una posizione speciale in quanto – si precisa – essa è la fede professata dalla grande maggioranza dei cittadini (art. 361). Nell’articolo successivo si dice però che lo stato riconosce altresì il cristianesimo, l’islam, l’induismo e l’animismo.

Da un paio d’anni si cerca di mettere ordine al mosaico etnico del Myanmar. Il 15 ottobre del 2015 il governo, al tempo ancora guidato dall’ex generale Thein Sein, ha firmato un accordo per il cessate il fuoco con 8 gruppi armati, tra cui quello dei Karen (Knu), l’organizzazione combattente più vecchia del paese. Dal 31 agosto al 3 settembre 2016, il nuovo governo di Aung San Suu Kyi ha organizzato, nella capitale Nay Pyi Taw, una grande conferenza di pace, convocando i rappresentanti di tutti i gruppi ribelli. Si è presentata anche la forte organizzazione per l’indipendenza dei Kachin (Kio). Nulla di decisivo secondo il Myanmar Times, ma il segnale c’è stato. Tanto che, a fine febbraio 2017, è iniziato un secondo incontro («Second Panglong Peace Summit»).

In questo quadro in divenire i Rohingya non trovano spazio. Sono più di un milione di persone, residenti per la quasi totalità nello stato di Rakhine. La particolarità è che non sono riconosciuti dallo stato birmano: sono considerati immigrati illegali bengalesi, anche se la maggior parte è in Myanmar da generazioni. Nel 2012, nel Rakhine, sono iniziati gli attacchi violenti e distruttivi della popolazione locale ai villaggi abitati dai Rohingya, senza che le forze di polizia intervenissero. Oggi migliaia di essi vivono in campi d’internamento privi dei requisiti minimi di vivibilità. Altre migliaia tentano di lasciare il Myanmar – via mare o via terra, usando mezzi di fortuna, quasi sempre gestiti dai trafficanti di uomini – per raggiungere soprattutto i paesi confinanti: Bangladesh, Malesia, Indonesia. Nonostante si tratti di paesi musulmani, anche qui i Rohingya sono respinti (come fa il Bangladesh da fine 2013) o comunque accettati con difficoltà. Siamo davanti alla tragedia di un popolo senza patria. Una tessera che nessuno vuole nel proprio mosaico.

Paolo Moiola


 


I Rohingya, minoranza islamica del?Myanmar

La diaspora degli invisibili

I Rohingya – oltre un milione di persone – sono una minoranza islamica che vive in Myanmar, nello stato di Rakhine. Esclusi dai censimenti perché non riconosciuti dallo stato, a causa delle discriminazioni e delle violenze patite, i Rohingya hanno cominciato a fuggire, via mare e via terra. Nella fuga molti hanno perso la vita, molti altri sopravvivono in campi profughi totalmente inadeguati per un’esistenza dignitosa. La persecuzione contro di essi ha radici storiche e non è iniziata di recente. Ultimamente però la situazione è precipitata, coinvolgendo più paesi, due a maggioranza buddhista e tre a maggioranza islamica: il Mynamar, la Thailandia, il Bangladesh, la Malesia e l’Indonesia. In questa vicenda le responsabilità di Aung San Suu Kyi, già icona del Myanmar, oggi ministro e consigliere di stato, non vanno taciute.

La luce del sole penetra attraverso le sottili fessure del tempio di Le-myet-hna, a Mrauk-U (stato di Rakhine, già Arakan), illuminando il volto sereno di una delle statue del Buddha. Percorro solitario lo stretto e claustrofobico corridoio lungo il quale i pellegrini buddhisti circumambulano recitando le preghiere. L’ultima volta che avevo visitato Mrauk-U, cinque anni fa, i templi erano affollati di turisti, per lo più birmani. Le cantilene dei fedeli si mescolavano ai commenti dei visitatori e i bagliori dei flash delle macchine fotografiche combattevano contro i raggi del disco solare appiattendo i suggestivi giochi di penombra.

La storia di Mrauk-U è un paradosso religioso: il buddhista Min Saw Mon, fondatore della dinastia, visse per 23 anni presso la corte islamica di Jalahuddin Muhammad Shah prima di riprendersi, con l’aiuto del sultano, il trono usurpatogli nel 1406 dal re di Ava, Minye Kyawswa, correligionario di Min Saw Mon.

Una storia di intreccio religioso che nel 2012 sarebbe diventato anche oggetto di contenzioso storiografico. Allora mi accompagnava nella visita Ma Thiri, studentessa di Museologia all’Università nazionale di arte e cultura di Yangon, la quale amava sottolineare che «i musulmani pretendono di riscrivere la storia chiamando Min Saw Mon col nome islamico di Suleiman Shah». Un’affermazione che prefigurava un conflitto culturale e religioso tra le comunità buddhiste e musulmane già in atto dall’era coloniale, ma che sarebbe scoppiato in tutta la sua violenza solo pochi mesi dopo la mia visita.

I musulmani del Myanmar

Nello stato del Rakhine, al confine con il Bangladesh, dal XIX secolo, vive – accanto a buddhisti di etnia rakhine – la maggioranza dei due milioni di islamici del Myanmar, il 4,3% della popolazione totale.

I musulmani dello stato Rakhine sono a loro volta divisi in due gruppi: i Kaman, discendenti di popolazioni che seguirono il principe Mughal Shah Shuja rifugiatosi nel 1660 a Mrauk-U, e i Rohingya il cui gruppo, a differenza dei Kaman, non è riconosciuto etnicamente dalla Costituzione birmana.

Ufficialmente i Rohingya non esistono e il censimento, effettuato nel 2014, ha registrato solo i 2.100.000 Rakhine nello stato omonimo, relegando altri 1.090.000 abitanti, identificati come «non conteggiati»1, in una postilla. Lo stesso documento precisa che «nel Rakhine una popolazione stimata in 1.090.000 abitanti non è stata conteggiata perché a loro non è stato permesso di autornidentificarsi usando un nome non riconosciuto dal governo»2.

I media generalmente fanno coincidere l’inizio degli scontri con una data precisa, il 28 maggio 2012, delineando erroneamente uno spartiacque cronologico con un periodo di convivenza pacifica che, nella realtà, non c’è mai stata.

Quel giorno l’uccisione da parte di tre musulmani di Thida Htwe, una donna ventisettenne di etnia rakhine, aveva dato avvio a quello che oggi viene comunemente chiamato il genocidio dei Rohingya.

Da quel fatidico giorno «zero» i media internazionali hanno iniziato ad occuparsi di un argomento di cui erano a digiuno, ma non certamente nuovo per il Myanmar.

I Rohingya e le radici coloniali del conflitto

Per comprendere cosa stia accadendo nel Rakhine, occorre risalire alle radici del conflitto che, come la maggior parte delle guerre etniche che affliggono il Myanmar, ha i suoi semi nella colonizzazione britannica.

I numerosi contatti tra l’area birmana e indiana avvenuti nel corso dei secoli, vennero intensificati dall’annessione della Birmania all’India conclusasi nel 1885 a seguito della Terza Guerra anglo-birmana. Tra il 1886 e il 1899, seguendo un copione già in atto nell’Indocina francese, dove funzionari vietnamiti venivano trasferiti negli uffici pubblici della Cambogia, anche nella colonia britannica migliaia di indiani chettyar, in particolare bengalesi, furono distaccati nelle regioni birmane in parte per compensare la mancanza di contadini che coltivassero le risaie, in parte per aiutare i colonizzatori nella gestione dell’amministrazione politica ed economica. In entrambe le regioni, queste decisioni avrebbero provocato negli anni a venire conseguenze catastrofiche.

Molti di loro divennero prestatori di denaro a contadini che, pressati dalle tasse e dal governo coloniale, cercavano nuovi terreni da coltivare, attrezzi e concimi chimici per velocizzare le operazioni di aratura, disboscamento, semina e raccolta del riso. L’apertura del Canale di Suez, infatti, aveva accelerato i commerci e diminuito drasticamente i prezzi dei trasporti provocando un’impennata della richiesta di prodotti esotici in Europa e obbligando i paesi colonialisti ad aumentarne la produzione e l’importazione. La quantità di denaro prestata dai chettyar era accompagnata da interessi esorbitanti che, spesso, i contadini non riuscivano a pagare. In questo modo si creava un meccanismo a spirale alla fine del quale le famiglie si trovavano costrette a cedere gran parte della loro terra, se non tutta, agli usurai. I campi, che tradizionalmente appartenevano ai villaggi e venivano coltivati dalle famiglie in base al loro bisogno e alla loro possibilità, si trasformarono in merce di scambio e venne introdotto, per la prima volta, il concetto di proprietà privata terriera.

L’avanzata giapponese nel Sud Est asiatico, avvenuta tra il 1942 e il 1944, radicalizzò le tensioni già esistenti: i Rakhine, buddhisti come i Bamar (il gruppo etnico più noto con il nome di Birmani e che ancora oggi rappresenta il 68% della popolazione del paese) di Aung San (padre di Aung San Suu Kyi, ndr), si schierarono a fianco delle armate imperiali nipponiche, mentre i musulmani, che sotto il dominio britannico avevano goduto di privilegi economici e territoriali, contraccambiarono il favore collaborando con gli alleati. Gli scontri furono intensi e spietati. Lo stesso Aung San, ministro della Guerra del governo fantoccio birmano instaurato da Tokyo, diede fulgido esempio di insensibilità quando, durante una battaglia contro i Karen – con l’intento di mostrare la sua idea di unità nazionale – uccise a sangue freddo un prigioniero di quella etnia e, sapendo che questi era musulmano, ordinò che il suo corpo venisse mostrato al villaggio su un carro destinato al trasporto di maiali (per questo atto i britannici, dopo la guerra, accusarono di omicidio Aung San tentando di processarlo).

Terrorizzati e sapendo di essere odiati dai Bamar, almeno quattrocentomila indiani abbandonarono il paese via terra per rifugiarsi in India mentre dietro di loro i britannici cercavano di fare terra bruciata, distruggendo ponti, navi e battelli, pozzi petroliferi, equipaggiamenti.

Nel Rakhine, allora chiamato Arakan (cambierà nome nel 1973), i musulmani si rifugiarono nel Nord della regione, nelle municipalità di Taung Po Lat Wae, Maungdaw e Buthidaung dove ancora oggi costituiscono la maggioranza della popolazione.

La fine della guerra e l’indipendenza della Birmania nel 1948 portò una nuova ondata di violenza, specialmente con il varo della nuova Costituzione che identificava 135 «razze indigene della Birmania»3, escludendo, tra queste, i musulmani del Nord dell’Arakan, i Rohingya, ma accettando un’altra comunità musulmana insediatasi nello stato, i Kaman. Fu in questo periodo che cominciò a diffondersi il senso di identità Rohingya, un termine sino ad allora pressoché sconosciuto che identificava quelle popolazioni di religione islamica provenienti dal Bengala Orientale (oggi Bangladesh), con cui il Rakhine condivide 275 chilometri di confine.

Prima degli anni Cinquanta il termine era comparso sporadicamente. Occorre risalire al 1799 per trovare, in un libro di un chirurgo scozzese, Francis Buchanan-Hamilton, il primo accenno a questa cultura: «Ora parlerò di tre dialetti parlati nell’Impero birmano, ma che derivano chiaramente dalla lingua della nazione hindù. Il primo è quello parlato dai maomettani che da lungo risiedono nell’Arakan e che chiamano se stessi Rooinga, o nativi dell’Arakan, chiamati dai veri indigeni dell’Arakan, Kulaw Yakain o stranieri Arakan»4.

Dopo di allora i documenti ufficiali non fanno quasi cenno ai Rohingya fino al 10 marzo 1950, quando un gruppo di musulmani dell’Arakan presentò un documento all’allora primo ministro U Nu, definendosi Anziani Rohingya.

Esiste, dunque, un’etnia Rohingya? Jacques Leider, il maggiore studioso di storia dell’Arakan e membro dell’Efeo (la Scuola francese dell’Estremo Oriente) mi dice che «Rohingya è un vecchio termine reclamato come identità politica che non implica alcun elemento distintivo etnico».

Anno 1974: l’inizio della discriminazione

Gruppo etnico o no, fino agli anni Settanta i Rohingya furono accettati e integrati nella società senza grossi problemi: la radio birmana trasmetteva tre volte la settimana un programma dedicato alla lingua rohingya, e il termine appariva addirittura nei testi scolastici. A Rangoon c’era anche un’associazione studentesca, la «Rangoon University Rohingya Students Association». È altresì vero che fino al 1961 un gruppo di Rohingya aveva lottato affinché le regioni settentrionali dell’Arakan, raggruppate nell’Amministrazione della Frontiera Mayu, aderissero al Pakistan Orientale e che un musulmano, Hla Tun Pru, chiedeva la formazione di uno stato indipendente, l’«Arakanistan»; ma tutti questi movimenti autonomisti erano marginali e lo stesso Pakistan (e in seguito il Bangladesh) non mostrava alcun interesse ad appoggiare i gruppi secessionisti. Le prime avvisaglie di intolleranza verso i Rohingya sorsero nel 1974, quando l’allora presidente birmano, il generale Ne Win, varò l’«Emergency Immigration Act», negando ufficialmente la cittadinanza birmana al gruppo musulmano. Al termine Rohingya, il governo sostituì quello di bengalesi, ad indicare che questa popolazione apparteneva ad un altro stato, il Bangladesh, il quale, a sua volta, non la riconosceva come propria entità. Tre anni più tardi l’operazione «Naga Min» (Re Dragone), il cui scopo era quello di espellere gli immigrati illegali dal paese, costrinse tra i 200 e i 250 mila musulmani del Rakhine (su un totale che allora si aggirava attorno ai 700.000) a guadare il fiume Naf e trovare rifugio nel Bangladesh. Le condizioni di vita nei campi in Bangladesh erano talmente dure che, prima che Arabia Saudita, India e Unhcr riuscissero ad organizzare un programma di rientro (due anni più tardi), 12.000 profughi erano morti d’inedia.

Anno 1982: la legge di cittadinanza

Il varo della legge di cittadinanza del 1982 («Myanmar Citizenship Law»), in vigore ancora oggi, segnò un altro punto di svolta nella vicenda dei Rohingya. La nuova legge, sostituendo la «Union Citizenship Act» del 1948, restringeva ulteriormente i termini di cittadinanza dividendo la popolazione del paese in tre gruppi: cittadini a tutti gli effetti, cittadini associati e cittadini naturalizzati.

Nel primo gruppo rientrano coloro che appartengono alle otto principali nazioni etniche (Kachin, Kayah, Karen, Chin, Birmani o Bamar, Mon, Rakhine e Shan) e chiunque abbia avuto avi che risiedevano in Birmania prima del 1823 (anno dello scoppio della Prima guerra anglo-birmana)5. Al secondo gruppo appartengono coloro che hanno ottenuto la cittadinanza birmana nel 1948 sotto la «Union Citizenship Act»6. Infine, i cittadini naturalizzati sono coloro che possono provare di risiedere in Myanmar da prima del 4 gennaio 1948, data dell’indipendenza nazionale, ma che non avevano inoltrato richiesta di diventare cittadini associati sotto la «Union Citizenship Act»7.

I Rohingya non appartengono ad alcuna di queste categorie e sono, quindi, considerati stranieri a tutti gli effetti.

«Come è possibile provare di risiedere in Myanmar dal 1823?», chiede sarcasticamente Shukur Khan, un quarantenne di Buthidaung, il quale continua: «Prima del 1951 non c’era alcun obbligo di registrare la residenza e comunque molti documenti sono andati perduti, bruciati o eliminati, spesso intenzionalmente, visto che gli archivi sono gestiti da Rakhine e Bamar».

Lo sfogo di Shukur e il risentimento contro i Rakhine, con cui i Rohingya dividono in modo turbolento la coabitazione nello stato, mostrano chiaramente la frattura e la sfiducia reciproca tra le due comunità.

«È vero che abbiamo la carta di scrutinio di cittadinanza che ci permette di votare, ma dato che per il governo noi non esitiamo, non abbiamo alcun diritto, a differenza dei Rakhine e dei Kaman», lamenta Nur Kawim, madre di sei figli, di cui tre emigrati in Arabia Saudita, dove esiste la più numerosa comunità Rohingya fuori dal Myanmar dopo quella del Bangladesh.

La legge di cittadinanza del 1982 sconvolse la società musulmana birmana: la giunta militare, prima indifferente alla presenza della comunità rohingya, cominciò a guardare con attenzione le aree di confine e nel 1991 il «ministero del Progresso delle Aree di confine, delle Etnie nazionali e dello Sviluppo» (conosciuto come NaTaLa) avviò un intenso programma di trasferimento di buddhisti nelle zone abitate prevalentemente dagli islamici offrendo amnistie a prigionieri e nuove sistemazioni abitative con terreni annessi ai senzatetto di Yangon e Mandalay. Nello stesso periodo vennero fondati i famigerati NaSaKa, le «guardie di frontiera» gestite dalle comunità rakhine in modo pressoché autonomo rispetto al potere centrale e che comprendevano 1.200 membri fra polizia, servizi segreti e funzionari di dogana.

L’illegalità dello status cui erano relegati i Rohingya li ingabbiava: da una parte le loro terre venivano confiscate, dall’altra il NaSaKa, abolito nel 2013 da Thein Sein, obbligava chiunque avesse più di 10 anni a lavorare gratuitamente almeno due giorni al mese per i servizi dello stato.

In pochi mesi dal varo del programma di colonizzazione interna 250.000 musulmani fuggirono di nuovo nel Bangladesh, mentre nel capoluogo Sittwe e in altre città del Rakhine, iniziarono a registrarsi i primi scontri tra le comunità buddhiste e islamiche.

Il rientro di 200.000 rifugiati in Myanmar, effettuato a seguito di un accordo tra governo birmano e Unhcr, fu aspramente criticato da numerose organizzazioni non governative. Secondo un sondaggio di Médecins Sans Frontières (Msf), il 63% dei 60.000 Rohingya che, in un primo tempo, accettò di rientrare fu rimpatriato contro la propria volontà8. Entro il 1996 i campi profughi del Bangladesh vennero praticamente svuotati a forza e 200.000 esuli furono costretti a varcare di nuovo il confine e stanziarsi nel Rakhine.

(Zakir Hossain Chowdhury / Anadolu Agency)

Anno 2010: le aperture democratiche

Le aperture democratiche avviate nel 2010 dal governo Thein Sein stravolsero, nel bene e nel male, l’intero sistema sociale del Myanmar. L’unica forza interetnica in grado di garantire l’unità della nazione, il Tatmadaw (l’esercito), cominciò a perdere potere inducendo i gruppi etnici ad accelerare le pressioni centrifughe autonomiste. I governatori dei singoli stati, che fino al 2010 erano stati anche capi militari e che garantivano la stabilità regionale (usando anche il pugno di ferro per reprimere sul nascere ogni conflitto), diventarono funzionari civili e si trasformarono essi stessi in difensori di una delle fazioni coinvolte nella lotta. La libertà di stampa, di parola, di viaggiare all’interno del paese e la possibilità per i giornalisti stranieri di entrare nella nazione portarono alla ribalta internazionale il problema dei Rohingya. Questa volta, però, i Rakhine buddhisti, che fino ad allora avevano combattuto l’amministrazione centrale, trovarono nel governo e nelle stesse forze di polizia un formidabile alleato per le loro rivendicazioni ai danni dei musulmani.

Da parte sua Nay Pyi Taw cercò con successo di ammortizzare il risentimento delle minoranze etniche cercando aiuto tra i buddhisti ed utilizzando la religione come deterrente. Il buddhismo divenne, quindi, uno dei principali veicoli di unione nazionale da contrapporre alle religioni considerate estranee alla tradizione birmana.

In una sessione di addestramento teorico militare, venne presentata una relazione in cui si affermava che «i musulmani bengalesi si infiltrano tra la popolazione per propagandare la loro religione. La popolazione aumenta grazie all’immigrazione illegale»9.

Buddhisti contro musulmani

L’inversione demografica è, ancora oggi, uno dei temi di più facile appiglio per chiunque voglia gettare benzina sul fuoco: «I bengalesi fanno più figli di noi buddhisti, inoltre il Bangladesh ha tre volte la popolazione del Myanmar, ma su un territorio che è più di quattro volte più piccolo del nostro. Logico che il governo del Bangladesh sostenga l’emigrazione clandestina nel Rakhine. Nel giro di pochi anni i Rakhine diventeranno la minoranza e saranno comandati dai musulmani», afferma Kyaw Naing Tun, studente della facoltà di fisica della Technological University di Sittwe.

Persino la «Sangha» (comunità, ndr) buddhista, in particolare i monaci più giovani, è scesa in campo contro gli islamici. Organizzazioni come il «MaBaTha» («Associazione per la protezione della razza e della religione») e il «Movimento 969» hanno lanciato proclami xenofobi definendo i Rohingya «serpenti» o «cani pazzi» ed invitando i Rakhine a non assumere musulmani, non comprare alcun bene nei loro negozi e ai conducenti a non far salire Rohingya sui loro mezzi. In uno dei proclami lanciati dal MaBaTha si legge che «se compri qualcosa in un negozio di musulmani, i tuoi soldi non si fermeranno lì, ma verranno utilizzati per distruggere la tua razza e la tua religione. Quei soldi verranno usati per avere una donna birmana buddhista che molto preso sarà costretta a convertirsi all’islam […]. Una volta che i musulmani diventeranno numerosi, ci sommergeranno e prenderanno il nostro paese per trasformarlo in una satanica nazione islamica»10.

Nge Le Lun, una Rakhine buddhista che appoggia l’idea di un dialogo tra le comunità, mi mostra una email che ha ricevuto dall’Associazione dei monaci di Mrauk U: «I bengalesi sono crudeli per natura; i Rakhine devono capire che loro vogliono distruggere la terra dei Rakhine; i bengalesi mangiano riso coltivato dai Rakhine e al tempo stesso stanno pianificando lo sterminio dei Rakhine e usano i loro soldi per comprare armi al fine di uccidere la gente rakhine»11.

Il risentimento antimusulmano si ripercuote anche contro le organizzazioni umanitarie e non governative che operano sul territorio, viste come alleate dei Rohingya.

«Quello dei bengalesi è un problema interno al Myanmar. Le Nazioni Unite e le organizzazioni occidentali appoggiano i bengalesi che sono immigrati illegali. In ogni altro paese l’illegalità è combattuta, qui, invece, ci voglio imporre persone che, oltre che essere qui illegalmente, portano anche violenza», lamenta Thet Win, un giovane rakhine che incontro in un ristorantino di Maungdaw.

Le leggi antislamiche del governo

Questa insofferenza nei confronti di chi si prodiga a favore di chi necessita di aiuto (sia esso Rohingya che Rakhine) si trasforma in aperta ostilità. Basta un nonnulla, come la rimozione di una bandiera buddhista da un ufficio di rappresentanza internazionale da parte di una cooperante, come avvenuto a marzo 2014, per scatenare il putiferio: una folla rabbiosa di Rakhine ha devastato 33 uffici di Ong e di organizzazioni dell’Onu costringendo 300 cooperanti a lasciare lo stato.

Nel febbraio 2014 il governo ha sospeso le attività di diverse Ong tra cui Msf (nel luglio dello stesso anno l’organizzazione francese è stata invitata a rientrare e dal gennaio 2015 ha ripreso le sue operazioni in Myanmar)12. La «All Rakhine Refugee Committee» ha dichiarato di rifiutare ogni tipo di aiuto da parte delle Ong e dall’Onu13.

In questo clima, per il parlamento birmano è facile approvare, su espressa richiesta di alcuni movimenti buddhisti, una serie di norme volte a contrastare la società islamica nel Myanmar: il «Religious Conversion Bill», l’«Interfaith Marriage Bill», il «Monogamy Bill», il «Population Control Bill», tutte leggi rientranti nel pacchetto della «National Race and Religion Protection».

Il «Programma nazionale di protezione della razza e della religione», approvato nel 2014 e ancora in vigore, ostacola la conversione all’islam e i matrimoni di donne buddhiste con uomini musulmani, obbliga gli uomini musulmani a tagliarsi la barba per le fotografie su passaporti, mentre limita a due il numero di figli per le coppie musulmane, oltre che ad obbligare le donne a lasciare passare un periodo minimo di 36 mesi tra un parto e l’altro14.

Una delusione di nome Aung San?Suu Kyi

( AFP PHOTO / AUNG HTET)

La liberazione di Aung San Suu Kyi, avvenuta nel novembre 2010, aveva portato una ventata di speranza tra i Rohingya.

In una intervista rilasciata nel 2013, la Lady (soprannome di Suu Kyi, ndr) aveva identificato il problema di fondo che divideva le comunità nel Rakhine: «Ciò che è venuto a mancare durante gli anni della dittatura militare, è la capacità del dialogo e del compromesso. Nessuno vuole cedere sulle proprie richieste e questo porta inevitabilmente ad uno stallo dei negoziati»15.

Purtroppo questa capacità di dialogo non sembra sia stata sviluppata dalla stessa Aung San Suu Kyi. Nay San Lwin, militante Rohingya e autore di un blog su quello che sta avvenendo nella sua comunità, mi confida la sua delusione, condivisa da molti e che si avverte in tutte le comunità etniche e religiose: «Aspettavamo che la Lady prendesse una netta posizione di condanna nei confronti delle violenze nel Rakhine. Purtroppo tutte le sue belle parole spese sui diritti umani, sulla democrazia e a favore delle minoranze etniche si sono dissolte appena lei è entrata in politica».

La ritrosia della Lady nel condannare in modo netto le violenze contro le comunità islamiche, non solo nello stato Rakhine e non solo contro i Rohingya, ha attirato numerose critiche verso quella che, un tempo, era vista come paladina dei diritti umani, così la sua elezione a ministro e consigliere di stato, nel marzo del 2016 non ha generato nella società islamica (e non solo) quella euforia e quelle speranze che ci si sarebbe potuti aspettare soltanto sei o sette anni prima.

La lettera – datata 29 dicembre 2016 – dei tredici premi Nobel16 e dieci personalità del mondo della politica, dell’editoria e della cultura a livello internazionale17, è solo l’ultimo dei tanti giudizi negativi sull’operato di Suu Kyi, anche lei premio Nobel per la pace nel 1991: «Nonostante i ripetuti appelli a Daw Aung San Suu Kyi siamo delusi che non abbia preso alcuna iniziativa per assicurare pieni ed eguali diritti di cittadinanza ai Rohingya. Daw Suu Kyi è la leader (del paese, ndr) ed è sua responsabilità primaria guidarlo e guidarlo con coraggio, umanità e compassione».

La lettera termina con un’esortazione che significativamente ripete le stesse richieste avanzate dalla comunità internazionale dal 2012, segno che le politiche dei governi Thein Sein e Aung San Suu Kyi (foto) nei confronti delle minoranze etniche non si distanziano molto le une dalle altre: «Esortiamo le Nazioni Unite a fare tutto il possibile per incoraggiare il governo del Myanmar ad eliminare ogni restrizione in materia di aiuti umanitari, in modo che le persone possano ricevere beni di prima necessità. L’accesso ai giornalisti e agli osservatori delle agenzie per i diritti umani dovrebbe essere consentito e si dovrebbe formare una commissione internazionale e indipendente per stabilire la verità sulla situazione attuale»18. La negligenza di Aung San Suu Kyi non ha scuse avendo accentrato su di sé tutti gli incarichi chiave del governo. Ha la possibilità di dettare legge e la responsabilità di ciò che accade nel paese. Non potendo candidarsi alla presidenza della nazione, ha aggirato la Costituzione retrocedendo il presidente, il suo consigliere più fidato, Htin Kyaw (foto) a pura figura emblematica19. Ha avocato il ruolo di ministro dell’Ufficio del presidente e di ministro degli Esteri che le permette di sedersi nel potentissimo «Consiglio nazionale di difesa e sicurezza», un organismo di undici membri che si occupa di sicurezza interna. Ha, inoltre, creato ad hoc la figura di «Consigliere di stato» che presiede i due più importanti comitati che si occupano della politica nello stato Rakhine: il neonato «Comitato centrale sull’implementazione di pace, stabilità e sviluppo dello stato Rakhine» (formato il 31 maggio 2016) e il «Comitato di unione, pace e dialogo».

Htin Kyaw e Suu Kyi hanno anche sfruttato l’opportunità conferita loro dalla Costituzione di nominare i capi di governo dei sette stati e delle sette regioni non tenendo conto dei risultati elettorali. Così nonostante nel Rakhine l’«Arakan National Party» abbia ottenuto il 52,6% dei voti contro il 14,5% della «Lega nazionale per la democrazia» (il partito della Lady), il capo del governo è U Nyi Pu, membro di quest’ultima.

Movimenti islamici e chiamata al «jihad»

Il nuovo governatore, insediatosi nell’aprile 2016, si è posto come obiettivo la pace e la stabilità politica. Il suo mandato, però, si è inaugurato con nuovi fatti di violenza repressi col sangue, uccisioni di massa e stupri20. Fin qui nulla di nuovo rispetto agli anni passati, se non che gli attacchi di ottobre e novembre 2016 che hanno coinvolto le guardie di frontiera, sono stati rivendicati da un nuovo attore: l’«Harakah al-Yaqin» (Movimento della fede). Lo stesso gruppo ha postato alcuni video in cui si invitano i musulmani birmani a unirsi alla lotta contro gli infedeli21. Poco si sa di questa organizzazione fondata da una ventina di Rohingya residenti in Arabia Saudita e guidati da Hafiz Tohar, nome di battaglia Ata Ullah, e da Ameer Abu Amar, un pakistano nato da una famiglia Rohingya immigrata a Karachi. Il movimento avrebbe iniziato a reclutare affiliati nel 2013, subito dopo gli scontri del 2012 e, nel 2014, con aiuti sauditi, sarebbero iniziati i primi addestramenti sulle colline del Mayu, al confine con il Bangladesh. Secondo i servizi segreti birmani, l’Harakah al-Yaqin potrebbe contare su una rete di centinaia di collaboratori, responsabili di attacchi a militari e di uccisioni di presunti informatori e collaborazionisti. A differenza di altri gruppi, l’Harakah al-Yaqin non contiene un riferimento ai Rohingya nella sua denominazione: un chiaro segno dell’intenzione di internazionalizzare il conflitto inserendolo nel disegno più ampio del jihad. Non è un caso che, già nel 2012, un altro movimento, il «Tehreek-e-Taliban Pakistan» avesse invocato la guerra santa e che, nel giugno 2015, avesse offerto aiuti per addestrare Rohingya al jihad.

Anni di politiche sbagliate e, in particolare, lo scoramento seguito alla grande delusione verso Aung San Suu Kyi hanno contribuito a far emergere questi gruppi armati d’ispirazione internazionale. Significativo, in questo senso, il video postato da MulMujahidin il quale spiega che «durante il governo della giunta militare in Myanmar, noi Rohingya pensavamo che quando sarebbe arrivata Aung San Suu Kyi avremmo potuto vivere liberi […]. Ci siamo sbagliati […]. Ora dobbiamo unirci al jihad. Se non uccidiamo i kafir (miscredenti, infedeli, ndr) non avranno mai timore di noi»22.

Il Rakhine e il peso della povertà

Una guerriglia organizzata e internazionalizzata è una nuova emergenza per il Myanmar. Essa è stata favorita anche dall’allontanamento dell’esercito (Tatmadaw) dalla vita sociale: senza il controllo capillare del territorio da parte del Tatmadaw, gli scontri tra le due comunità si sono moltiplicati e oggi circa 120 mila Rohingya sono rinchiusi in campi profughi in cui mancano i servizi essenziali (cibo, acqua, servizi igienici, medicine)23.

La sete di terra ha indotto il governo di Nay Pyi Taw a creare i campi per i rifugiati interni in aree depresse e su terreni soggetti ad inondazioni, aggravando la già precaria condizione igienica dei profughi.

Un sondaggio commissionato dall’«Integrated Household Living Conditions Assessment» (Ihlca-2) ha rivelato che il 24,6% della popolazione non ha terra di sua proprietà con punte massime che arrivano al 60% nella zona settentrionale dello stato, dove si concentra la maggioranza dei Rohingya24.

«Il problema non è solo religioso o etnico – mi dice l’economista Wai Shwe Yee -. Il governo da anni sta cercando investitori per innalzare il tenore di vita degli abitanti, ma durante gli anni della dittatura l’intero commercio era in mano ai militari e ai Bamar. La democratizzazione, che ha liberalizzato l’economia, ha portato i Rakhine, impiegati nei posti pubblici, ad accorgersi che il piccolo commercio era dominato dai musulmani».

Il Rakhine è lo stato più penalizzato del Myanmar dal punto di vista economico: un rapporto dell’Unicef fissa l’indice di povertà al 43,5%25, secondo solo allo stato Chin, mentre la Banca mondiale, utilizzando nuovi e più ampi criteri di analisi, innalza lo stesso indice al 77%, superando anche quello del Chin26.

Le condizioni sociali sono le peggiori della nazione: il 16,3% dei bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione, contro una media nazionale del 9,1%27 e il 37,4 dei bambini tra i zero e i 59 mesi sono sottopeso rispetto ad una media nazionale del 22,6%28. Anche il consumo energetico pro capite, indice di benessere e di sviluppo economico e industriale, è il più basso del Myanmar: solo 3 kw/h di elettricità contro i 121 kw/h della media nazionale; questo significa che i Rakhine e le industrie dello stato sono obbligati e far uso di generatori elettrici, il cui costo è proibitivo.

In questa situazione trovare investitori, come spiega Wai Shwe Yee, è un’impresa proibitiva, ma non impossibile. Il 29 gennaio 2015 è stata inaugurato l’oleodotto e il gasdotto che collega il porto di Kyaukpyu, nella parte meridionale del Rakhine, alla cinese Kunming. Un progetto faraonico di 2.400 chilometri i cui 2,5 miliardi dollari sono stati interamente investiti dalla China National Petroleum Company, la quale, per zittire le polemiche e le recriminazioni dei contadini, per la maggioranza rakhine, che protestavano per l’espropriazione dei propri terreni, ha promesso un ritorno di 53 miliardi di dollari in royalties in 30 anni e che il 10% del gas resterà in Myanmar. La protesta popolare, però ha indotto il governo di Nay Pyi Taw a cancellare il progetto ferroviario che avrebbe dovuto costeggiare il gasdotto e congiungere Kyaukpyu a Kunming.

Alla fine del 2015 il governo ha anche approvato il progetto della «Zona ad economia speciale» di Kyaukpyu che porterebbe nella zona investimenti per 100 miliardi di dollari.

Le organizzazioni rakhine locali lamentano che gli investimenti non beneficeranno l’economia locale: «Le compagnie che hanno investito nei progetti nello stato Rakhine, cinesi, indiane, singaporeane, thailandesi, tendono a portare manodopera dei loro paesi o, quando questa non è sufficiente, bamar. Noi Rakhine non traiamo alcun vantaggio da questi investimenti», mi dice Kyal Nyein Han, un abitante del villaggio di Maday.

Senza volerlo Kyal Nyein Han ha toccato un’altra conseguenza del conflitto in atto con i Rohingya. Le compagnie che investono nel Rakhine necessitano di manodopera a basso costo e la disponibilità nello stato non è sufficiente rispetto alla qualità e quantità di domanda. I Rohingya avrebbero potuto rappresentare una soluzione, ma molti di loro sono confinati nei campi profughi in Myanmar o nel Bangladesh, altri sono fuggiti in Malesia, Thailandia o Indonesia, altri ancora sono emigrati nei paesi arabi.

La diaspora dei Rohingya: in Bangladesh, Thailandia, Malesia e Indonesia

La diaspora Rohingya ha come risultato, oltre che privare di preziosa manodopera il paese, di fomentare il malessere delle famiglie musulmane nel Rakhine, molte delle quali sono costrette a dividersi.

Il deterioramento della situazione nel Rakhine e la paura di una destabilizzazione del paese, secondo Aung San Suu Kyi sarebbero da attribuirsi alla facilità con cui i musulmani possono varcare il confine birmano-bengalese. «Io e il mio partito abbiamo sempre sostenuto che il governo avrebbe dovuto controllare e far rispettare il confine tra Birmania e Bangladesh. Per anni nessuno se n’è occupato con il risultato che migliaia di immigrati clandestini oggi sono in territorio birmano. La radice del problema è tutta qui, oltre al fatto che in Birmania c’è la paura che elementi esterni possano destabilizzare il paese»29.

Myanmar e Bangaldesh si sono sempre rimpallati il «disturbo» dei Rohingya: il governo birmano, definendoli bengalesi, afferma che sono cittadini del vicino stato islamico, mentre Dacca li rispedisce al mittente in quanto, da decenni, residenti nel Rakhine.

Nel Bangladesh vi sono solo due campi ufficialmente riconosciuti dal governo e gestiti dall’Unhcr: quelli di Nayapara (o Noapara) e di Kutupalong che ospitano rispettivamente 19.000 e 14.000 Rohingya. Accanto a questi vi sono altri insediamenti considerati illegali: Shamlapur, in cui vi sarebbero 8.000 rifugiati, Leda, con 15.000 persone e altri 30.000 Rohingya si sarebbero stabiliti nel campo di Kutupalong senza essere registrati. Questo significa che l’Unhcr ha una capacità logistica di gestire la situazione dei profughi inferiore a quella reale.

Dato che il Bangladesh non aderisce alla Convenzione del 1951 sullo status dei rifugiati, questi vivono perennemente in una condizione precaria senza che possano sperare in una veloce e definitiva risoluzione della loro situazione.

Dall’ottobre 2016, inoltre, oltre 50.000 Rohingya avrebbero attraversato il fiume Naf cercando riparo dalla nuova ondata di violenze che ha infiammato il Rakhine.

Il governo bengalese ha redatto, nel settembre 2013, uno Strategy paper, un documento, su rifugiati e indocumentati in Bangladesh in cui si ufficializza per la prima volta che i Rohingya sono cittadini del Myanmar e che «vi sono tra le 300.000 e le 500.000 persone di nazionalità del Myanmar che vivono non registrate fuori dai campi e che sono entrati in Bangladesh in modo irregolare»30.

Il Bangladesh, come già ricordava Kyaw Naing Tun, lo studente di fisica di Sittwe, è uno degli stati più popolati al mondo (163 milioni di abitanti si assiepano su un fazzoletto di terra di 148.000 km2 – circa metà del territorio italiano -, in confronto il Myanmar ha 55 milioni di abitanti con 677.000 km2 di superficie disponibile) e, obiettivamente, fa molta fatica a prendersi cura di così tante bocche da sfamare.

Il ministro della Giustizia Syed Anisul Haque nel luglio 2014 ha proibito matrimoni tra bengalesi e Rohingya: molti di questi, infatti, per ufficializzare la loro posizione, sposavano bengalesi prendendo così la cittadinanza del Bangladesh.

Il principale timore del governo di Dacca, guidato dall’Awami League di Sheikh Hasina Wazed, è che i Rohingya possano divenire strumenti di disturbo in mano ai due principali partiti dell’opposizione, il Jatiya Party di Muhammad Ershad e il Jamaat-e-Islami, il più popolare partito islamico bengalese, che hanno nelle provincie delle Chittagong Hill Tracts e di Cox’s Bazar, confinanti con il Myanmar, i loro principali serbatorni elettorali.

La diaspora rohingya non colpisce solo il Bangladesh, ma anche le nazioni che si affacciano sul Golfo del Bengala e il Mar delle Andamane: la Thailandia, la Malesia e l’Indonesia (si veda la mappa qui sopra, ndr).

(AFP PHOTO / JANUAR / AFP PHOTO / JANUAR)

I barconi dei trafficanti d’uomini

L’allentamento delle misure di sicurezza e di controllo da parte delle autorità del Myanmar dopo il 2010, ha accelerato il flusso di migranti via mare.

Solo dal gennaio 2014 circa 94.000 Rohingya sono fuggiti dal Rakhine e dal Bangladesh a bordo di barconi verso le coste malesi, thailandesi e indonesiane31, ma secondo il ministero degli Esteri del Bangladesh vi sarebbe da calcolare almeno un terzo di emigrati cittadini bengalesi in più32.

La mancanza di scrupoli da parte delle organizzazioni di trafficanti d’uomini che, in maniera del tutto illegale, organizzavano le tratte marittime era giunta a livelli parossistici. Ogni aspirante passeggero doveva sborsare l’equivalente di 1.600-2.400 dollari per un viaggio via mare pericoloso e senza alcuna garanzia di successo. Cifra che aumentava fino a 7.000 dollari per un biglietto aereo verso le capitali dei paesi del Sudest asiatico33.

In nome del principio di non interferenza negli affari interni di ogni stato membro, l’Asean e la comunità internazionale hanno ignorato il problema fino al maggio 2015, quando cinquemila rifugiati e immigrati sono stati abbandonati dai trafficanti nel Mar delle Andamane e nel Golfo del Bengala. Prima che si potesse intervenire un migliaio di essi erano affogati o morti di stenti nelle acque dell’Oceano Indiano34.

Da quella tragedia il controllo delle coste birmane e bengalesi si è fatto più capillare e nel 2015 il numero di partenze da questi due paesi è diminuito a 31.000 persone35.

Thailandia, Malesia e Indonesia ospitano in totale circa 150.000 rifugiati rohingya; nella sola Malesia vi sarebbero 159.000 persone registrate provenienti dal Myanmar, di cui 45.000 Rohingya36. Mentre Bangkok cerca di tenere a bada i richiedenti asilo islamici affinché non alimentino le file del secessionismo nel Sud del paese, Kuala Lumpur utilizza i profughi provenienti dal Rakhine per propri fini propagandistici.

Lo scorso 4 dicembre 2016 il primo ministro malese Najib Razak ha denunciato, durante una manifestazione, il «genocidio Rohingya» e ha lanciato un messaggio alla collega birmana Aung San Suu Kyi: «Quando è troppo è troppo».

Secondo Jacques Leider neppure il termine genocidio sarebbe appropriato: «Ciò che sta accadendo nel Rakhine non è un genocidio semplicemente perché non possiamo parlare di una etnia rohingya. Possiamo parlare di xenofobia, ma non di genocidio o di razzismo nei confronti dei Rohingya».

La prudenza di Leider è confortata anche dal fatto che, sino ad oggi, nessun documento delle Nazioni Unite parla di genocidio anche se secondo l’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite è «molto probabile si stiano commettendo crimini contro l’umanità»37.

Genocidio o no, lo sfogo del primo ministro malese Najib Razak non è disinteressato: con le elezioni generali in vista (agosto 2018) e la sua popolarità in calo a picco a causa delle accuse di corruzione, il primo ministro malese ha bisogno di riacquistare voti e credibilità tra l’elettorato musulmano e sviare l’attenzione dai problemi interni che affliggono la Malesia.

Del resto la stessa Malesia non è immune da discriminazioni nei confronti dei Rohingya. Solo coloro che possiedono una carta Unhcr (che li identifica come rifugiati) hanno accesso ai servizi sanitari, alle scuole pubbliche, ai servizi sociali pagando comunque il 50% delle rette e, nonostante il governo di Kuala Lumpur abbia più volte assicurato di voler rilasciare permessi di lavoro temporanei, questi sono consegnati col contagocce. I pochi fortunati che hanno la possibilità di lavorare guadagnano la metà di un loro collega malese38.

Le leggi restrittive malesi verso le Ong internazionali permettono solo a tre di queste di lavorare con i rifugiati: la «Angkatan Belia Islam Malaysia», la «Taiwanese Buddhist Tzu Chi Foundation», che gestisce una clinica gratuita che assiste i Rohingya e la «Myanmar Refugees Activist», che offre corsi di specializzazione professionale ai profughi del Maynmar.

La corruzione dilagante nello stato colpisce anche i profughi: alcuni Rohingya hanno denunciato di essere costretti a pagare somme tra i 5 e i 12 dollari ai poliziotti per evitare il carcere nel caso vengano fermati e trovati senza carta Unhcr.

La stessa Unhcr non è stata esente, in passato, di accuse di corruzione secondo cui funzionari dell’agenzia delle Nazioni Unite avrebbero intascato fino a 400 dollari per rilasciare le carte Unhcr ai rifugiati. Dopo una replica in cui non si negava la possibilità che tali atti fossero accaduti39, l’organizzazione ha cambiato tutte le carte di registrazione e i metodi per ottenerle.

Aung San Suu Kyi: dopo le parole, è l’ora dei fatti

Quella dei Rohingya non è certamente la sola tragedia – culturale, religiosa, etnica, politica, economica – che affligge una minoranza. In Myanmar, specialmente, decine di etnie hanno subito e subiscono ancora oggi, a sette anni dalla fine della dittatura, soprusi da parte delle autorità di un governo colluso con i militari.

Forse è giunta l’ora, per Aung San Suu Kyi e la sua Lega nazionale per la democrazia, di dimostrare che i discorsi di democrazia, giustizia, autonomia lanciati durante gli anni della dittatura militare, non erano solo parole di propaganda.

Gli scontri con i Kachin, i Karen e le altre nazioni etniche, così come le proteste dei contadini di Monywa, sfrattati per far sposto agli investitori di miniere cinesi (per l’estrazione di rame, ndr), dimostrano che il nuovo governo – su cui così tanti avevano risposto le loro speranze – è ancora lungi dal dimostrare che il paese ha imboccato la strada che per tanti anni Aung San Suu Kyi e gli altri ministri avevano richiesto ai militari.

Piergiorgio?Pescali

 




Popolazioni perseguitate: Yazidi


Sommario

Introduzione. Guerre e colpi di spugna.

Yazidi, una minoranza in pericolo. Quando vincono la diffidenza e il pregiudizio.

Racconto di un massacro. Quando a Sinjar arrivarono i miliziani

Incontro con Nadia Murad. Storia di Nadia, da schiava ad ambasciatrice.

Scheda 1. Genocidio.

Scheda 2. Le guide e le caste.

Scheda 3. La diaspora.

Infodossier

 

Abstract

Questo è il primo di due dossier che dedicheremo alle minoranze dimenticate ed oppresse. In esso Simone Zoppellaro parla degli YAZIDI dell’Iraq. Il prossimo, a firma di Piergiorgio Pescali, sarà centrato sui ROHINGYA, la minoranza musulmana perseguitata nel Myanmar buddhista di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace. (pa.mo.)

Introduzione

Guerre e colpi di spugna

Secondo il dizionario Treccani, genocidio è un termine coniato, in forma inglese (genocide), dal giurista polacco Raphael Lemkin nel 1944 e pubblicamente usato nel processo di Norimberga (1946). «Grave crimine – continua il Treccani -, di cui possono rendersi colpevoli singoli individui oppure organismi statali, consistente nella metodica distruzione di un gruppo etnico, razziale o religioso, compiuta attraverso lo sterminio degli individui, la dissociazione e dispersione dei gruppi familiari, l’imposizione della sterilizzazione e della prevenzione delle nascite, lo scardinamento di tutte le istituzioni sociali, politiche, religiose, culturali, la distruzione di monumenti storici e di documenti d’archivio, ecc.».

Alla luce di questa definizione, è facile rendersi conto che la storia annovera molti genocidi (anche se alcuni non sono unanimemente riconosciuti come tali): lo sterminio dei popoli amerindi durante la conquista delle Americhe, il genocidio armeno ad opera della Turchia ottomana (1915-16), lo sterminio degli ebrei e dei rom durante l’epoca nazista, quello perpetrato dai Khmer rossi in Cambogia (1977-79), quello dei musulmani di Bosnia nella guerra della ex Jugoslavia (1995), quello dei Tutsi in Rwanda nel 1994.

Senza dimenticare, ai giorni nostri, i molti popoli indigeni – alcuni formati da poche decine di individui – che sono a rischio d’estinzione a causa dei «bianchi».

In Siria (nella parte settentrionale, denominata Rojava) e Iraq i Curdi sono in prima fila nella guerra contro il Daesh (Isis). Ma sono osteggiati – per questioni politiche – da tutti gli stati della regione, a iniziare dalla Turchia del dittatore Erdogan. Gli Yazidi sono una piccola popolazione kurdofona – le stime più alte parlano di 700 mila persone – a sua volta perseguitata e oggi vittima dei miliziani del Daesh. Nella regione natale, nel Nord Ovest dell’Iraq, attorno alla città di Sinjar, migliaia dei loro uomini sono stati uccisi, mentre un numero imprecisato delle loro donne sono state fatte schiave sessuali dagli uomini del Califfo nero. Nel 2016 due di esse, Nadia Murad Basee Taha e Lamiya Aji Bashar, fuggite in Germania, sono state insignite del «Premio Sacharov per la libertà di pensiero», assegnato dal Parlamento europeo (dal 1988). Lamiya (nella foto) porta sul viso e sul corpo i segni delle sofferenze patite. Sappiamo che il traffico di esseri umani e la riduzione in schiavitù è un affare mondiale. Il Daesh è un passo avanti: utilizza il Corano per giustificare questo trattamento. In Dabiq, la sua rivista (dalla grafica ricercata), sono stati pubblicati articoli per spiegare la correttezza del comportamento dei propri miliziani stupratori. Per credere leggere Dabiq n. 4 e n. 9.

Terrorismo, guerre non dichiarate, conflitti cosiddetti a bassa intensità: le definizioni non mancano. Probabilmente la sintesi più efficace è da attribuire a papa Francesco che, nell’agosto del 2014, disse: «Siamo entrati nella Terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli».

Ci sono popolazioni che si vorrebbe cancellare con un colpo di spugna. Ma che, in un modo o nell’altro, riescono a resistere e a sopravvivere. Anche, una volta tanto, grazie all’informazione. Quella poca che rimane nell’epoca del post-giornalismo e della post-verità.

Paolo Moiola


Yazidi, una minoranza in pericolo

Quando vincono la diffidenza e il pregiudizio

La storia di ieri e di oggi è piena di minoranze perseguitate. Con una religione e una cultura poco conosciute gli?Yazidi sono spesso fraintesi e diventano un facile bersaglio. Il rischio è che la loro diaspora porti all’assimilazione e quindi alla loro scomparsa. Rendendo il mondo più povero.

Contrariamente a quanto spesso si pensa, l’islam non ha mai cercato di estirpare con la spada le altre religioni. Pur marginalizzando, penalizzando e, in alcuni periodi, anche perseguitando i membri di altre fedi, la dominazione musulmana ha permesso di mantenere in vita per oltre un millennio, nei vasti territori conquistati, una sorprendente pluralità religiosa, impensabile nell’Europa pre-illuminista.

Cristiani, ebrei e zoroastriani – fra gli altri – hanno potuto così godere per secoli, sotto la mezzaluna, di una libertà che solo il colonialismo, l’emergere del nazionalismo e il conflitto arabo-israeliano hanno purtroppo spezzato. Questo discorso vale anche per gli Yazidi, piccola minoranza religiosa nella sua quasi totalità di lingua curda che, abbarbicata alle sue montagne nell’odierno Iraq Nord occidentale, ha potuto tramandare di generazione in generazione – pur fra mille difficoltà e privazioni – la sua cultura e la sua fede. Un contesto per nulla affatto casuale, quello montuoso, se si pensa ad esempio alla sopravvivenza millenaria di insediamenti a maggioranza cristiana come Ma‘lula in Siria, dove ancora oggi si parla una variante dell’aramaico, una moderna derivazione della lingua parlata da Gesù. O ancora al Caucaso, che gli arabi chiamavano jabal al-alsun, la «Montagna delle lingue», per la sua sorprendente varietà linguistica e culturale, ma anche religiosa. E proprio l’isolamento e la protezione fornita da questo contesto geografico arduo e impervio hanno permesso agli Yazidi di mantenere una fede che, seppur influenzata dall’islam per molti aspetti e ad esso in parte riconducibile fin dalle sue origini, si è sviluppata in seguito in modo irrimediabilmente «altro». Una religione – spesso definita in modo dispregiativo come setta – che, se fosse nata nell’Europa medievale anziché nel mondo musulmano, sarebbe stata indubbiamente bollata come «eresia».

Se non che, questa tradizione di tolleranza, sancita anche dal Corano nell’invito alla protezione e al rispetto per ebrei e cristiani, è entrata in crisi al tempo del colonialismo, per essere poi spazzata via, nel modo più violento, nei luoghi caratterizzati di recente in vario modo dall’insorgere del fondamentalismo islamico. Certo, non in tutti i paesi musulmani ciò è vero, come d’altronde non in tutti i governi islamici le cose funzionano allo stesso modo: la Repubblica islamica nata in Iran nel 1979 grazie alla guida carismatica dell’ayatollah Khomeini, per non fare che un esempio, ha mantenuto intatta – con la sola dolorosa eccezione dei bahai – la pluralità religiosa che ha caratterizzato da sempre questo grande paese. Altrove, invece, e soprattutto nei territori segnati dall’influenza del wahabismo propagandato a suon di petroldollari dalle monarchie del Golfo, la storia ha preso purtroppo un’altra piega. E le conseguenze sono ben note, almeno per chi presti attenzione in modo non estemporaneo a quanto succeda lontano da noi.

E così, a un secolo dal Medz Yeghern, il genocidio armeno del 1915, e a oltre settant’anni dalla Shoah, la pagina ignominiosa dei genocidi sembra non trovare fine. Gli Yazidi lottano oggi per la loro sopravvivenza, sterminati, cacciati dai loro villaggi e ridotti in schiavitù nei territori conquistati in Iraq dal Daesh. Ieri come oggi, l’indifferenza del mondo è grande, e sul destino di questo piccolo popolo – composto (forse) da 700 mila persone – si consumano i grandi giochi della geopolitica e dell’economia. Una lotta, quella degli Yazidi, che si svolge in una solitudine disperata e che ha luogo senza che nulla si voglia fare sia da parte di chi muove le leve del potere, che a livello locale e della società civile. Persino i Curdi, con i quali condividono una lingua comune (nella variante settentrionale detta «Kurmanji») e molti aspetti della loro cultura, il più delle volte di fronte alle loro sofferenze si sono limitati a guardare da un’altra parte, quando non a cercare il proprio vantaggio. Una denuncia, questa, sentita più volte ripetere dai rappresentanti yazidi, a partire dalla più famosa di tutte: la candidata al Nobel per la pace Nadia Murad.

Privi di una chiesa o uno stato che li protegga, anche la diaspora – a differenza di quanto avvenuto in passato in altri casi – è troppo frammentata e recente per essere in grado di incidere, o anche solo di fornire qualche conforto ai profughi che oggi si trovano, privi di una cornordinazione, dispersi per il mondo. E così, anche per la maggioranza di coloro che riescono (spesso in circostanze rocambolesche) a fuggire dalla schiavitù e dalla guerra, il destino che li attende sono i campi profughi della Turchia o di altri paesi, dove mancano spesso i beni più basilari. Nessuno stato al mondo (con la sola eccezione della Germania, che ha ospitato e fornito assistenza medica e psicologica a diverse migliaia di Yazidi e, più di recente, del Canada) ha infatti voluto finora assumersi l’onere di accogliere i sopravvissuti, facendosi carico dei loro traumi e delle storie di violenza e orrore che essi, inevitabilmente, portano con sé. Inutile ricordare come, per questi sopravvissuti a un genocidio – che poi in molti casi sono donne, vittime di abusi sessuali e ridotte in schiavitù dagli uomini dell’Isis – non bastino solo un pezzo di pane e un tetto per alleviarne il dolore e ridare loro dignità.

Questa assenza di sostegno da parte della comunità internazionale costituisce un paradosso. Infatti, sebbene sia unanime la condanna del terrorismo islamista e tutte le forze politiche di ogni paese siano oggi parimenti concordi nel riconoscimento della violenza perpetrata dai miliziani dell’Isis contro le minoranze religiose, la campagna portata avanti dagli attivisti per il riconoscimento del genocidio yazida non ha finora raccolto i risultati sperati. Eppure, un raffronto con il passato, con l’Olocausto degli armeni e degli ebrei, innanzitutto, dovrebbe gettare luce sul destino di questa gente. Si è di fronte ancora una volta al sistematico tentativo di annientamento non solo fisico, ma anche culturale e spirituale di un intero popolo, portato avanti da un manipolo di fanatici, ma con la complicità e la collaborazione di una parte delle popolazioni sottoposte al dominio del Califfo al-Baghdadi. La persecuzione e lo sterminio avvenuti dall’agosto 2014 a oggi non sono – come raccontano i rappresentanti stessi della comunità yazida – che l’ultimo e più sanguinoso epilogo di una persecuzione in atto sin dall’Ottocento, che periodicamente riaffiora. «Gli eventi del 2014 rappresentano per loro – ha scritto Vicken Cheterian su Le Monde Diplomatique (gennaio 2017) – il settantatreesimo massacro».

Il monoteismo degli Yazidi

I fondamentalisti di oggi trovano nella fede e cultura yazida la ragione principale per perseguitare e cercare di eliminare quella popolazione. Una diffidenza e un pregiudizio ormai radicati per una fede sentita come estranea, chiusa, sincretistica, e perciò difficilmente classificabile. Eppure, a ben guardare, lo Yazidismo è anch’esso, al pari delle tre religioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo e islam), una religione monoteistica, seppure con alcuni tratti originali.

I suoi seguaci fanno risalire le loro origini indietro di migliaia di anni, e lo sviluppo di riti e credenze fu senza dubbio il frutto di un lungo processo di commistioni religiose e di acculturazione. Ma fu solo in epoca islamica, ci dicono gli specialisti, che gli Yazidi acquisirono un’identità precisa e distinta sia in termini etnici che religiosi. In particolare, vi è un personaggio che ricorre come fondamentale nell’etnogenesi di questa minoranza. Ci riferiamo alla carismatica figura del mistico sufi Shaikh Adi ibn Mussafir (morto nel 1162) che predicò nella regione divenendo, dopo la sua dipartita, oggetto di grande venerazione. «È il loro profeta, il loro grande santo, adorato quasi come Dio», scriveva lo storico delle religioni Giuseppe Furlani, «la cui tomba, nel tempio che hanno a Nord Est di Mossul, essi riguardano come loro santuario nazionale».

Di questo loro pellegrinaggio al santuario di Lalish ci ha lasciato un racconto suggestivo, in un articolo pubblicato sul portale Treccani, Gianfilippo Terribili, docente all’Università La Sapienza di Roma. Terribili ha preso parte di persona nel 2015, ovvero a un anno esatto dalla data di inizio del genocidio yazida, alle festività stagionali estive che raccolgono ogni anno pellegrini provenienti dalla regione, ma anche ogni angolo del mondo. Il pellegrinaggio, infatti – come ricorda Terribili – «è tra i principali doveri del fedele yazida ed è un evento che struttura i legami sociali interni ad una comunità spesso emarginata e chiusa alle influenze esterne». Un evento ricco di tradizioni, rituali e suggestioni che rimandano, spesso, a pratiche analoghe tipiche dell’islam e del cristianesimo, altre volte a pratiche ancora più remote. «L’intera valle», prosegue lo studioso, «è un microcosmo sacro che include i santuari costruiti intorno alle tombe dei principali sette personaggi santi venerati dalla tradizione, con luoghi o edifici connessi che costituiscono il circuito attraverso il quale è scandito il pellegrinaggio e i suoi atti rituali».

L’accusa: «Adoratori del diavolo»

La paura e la diffidenza – ma in parte anche il grande fascino – che circondano gli Yazidi ruotano attorno alla leggenda, diffusa in terra di islam come anche fra viaggiatori e fonti orientalistiche occidentali, che li identifica come «adoratori del diavolo». Un pregiudizio del tutto infondato, come ricorda Furlani: «Tanto sono lontani anzi da tale adorazione che non hanno affatto nella loro religione il diavolo: essi negano addirittura l’esistenza del male». Un epiteto, e insieme uno stigma, che traggono origine da una delle caratteristiche fondamentali del monoteismo yazida, che affianca, a un unico Dio creatore, sette entità angeliche, chiamate i Sette Misteri (haft surr), che nel corso della storia si sono periodicamente reincarnate in forma umana. Dio ha affidato loro il governo del mondo, sotto la guida dell’Angelo Pavone (Malak Tawus), emanazione divina posta come intermediario fra il cielo e gli uomini. Suggestivo a questo proposito l’incipit di uno dei due testi sacri degli Yazidi, il Libro nero, redatto in lingua curda, che riportiamo nella traduzione di Giuseppe Furlani:

«In principio Dio creò la perla bianca dal suo prezioso seno e creò un uccello di nome Anfar. Egli pose la perla sopra la sua schiena e dimorò sopra di essa quarantamila anni. Il primo giorno in cui Dio creò fu una domenica. Egli creò in essa un angelo dal nome ‘Azra’il: esso è il Pavone Angelo, il capo di tutti».

Il racconto prosegue con la descrizione di come Dio creò i sette angeli che a loro volta partecipano alla creazione dell’uomo (ascritta all’ultimo di loro, Nura’il) e di tutte le altre creature. Dopo l’opera della creazione, il mondo, come detto, fu affidato da Dio proprio alle sette entità angeliche, che agiscono come protezione e guida.

L’Angelo Pavone – questa l’origine del «mito satanista» sugli Yazidi – corrisponde poi per alcuni aspetti a Iblis, il Satana della religione musulmana, con tratti che sembrano filtrati in particolare dalla rielaborazione della tradizione mistica sufi, di cui resta abbondante traccia anche nella letteratura persiana medievale. Un Satana, quindi, che dopo la sua ribellione si è pentito ed è stato accolto di nuovo da Dio. Ma gli Yazidi negano con forza questa identificazione fra le due figure, al punto – come scrive l’orientalista Christine Allison – di arrivare a proibire la pronuncia stessa della parola Satana (Shaitan), e persino di alcune parole che la richiamano da un punto di vista fonetico.

Il divieto dei matrimoni misti

A contribuire al pregiudizio e alla paura nei confronti degli Yazidi furono anche la naturale chiusura di questo gruppo religioso, che non accetta conversioni da altre fedi e vede in modo negativo – ma è così per molte minoranze in Medio Oriente, soprattutto se esigue da un punto di vista numerico – i matrimoni misti. Pratiche e tabù particolarmente severi riguardano molti aspetti della vita dei fedeli, dal cibo, fino alla proibizione di pronunciare un certo numero di parole. Un’altra peculiarità yazida è il fatto di credere di essere discendenti del seme di Adamo ma – a differenza del resto dell’umanità – non di Eva. Questo a ulteriore testimonianza di come gli Yazidi si autorappresentino come un popolo «altro» rispetto al resto del mondo. A contribuire al mistero che circonda questa religione sono anche i suoi testi esoterici, tramandati oralmente di generazione in generazione, e perciò assai poco noti ieri come oggi al di fuori dei circoli dei correligionari. Come già nell’islam, l’«ortoprassi» ha un ruolo preponderante rispetto all’«ortodossia», il che vuol dire che rituali e pratiche hanno più importanza nella vita del fedele rispetto alle disquisizioni teologiche, viste come secondarie e accessorie. Fondamentale nello yazidismo anche la suddivisione sociale in tre caste (si veda il riquadro alla pagina 46, ndr), nettamente divise, aspetto che si interseca a un’altra importante caratteristica della loro fede: la credenza nella metempsicosi, cioè nella reincarnazione. Le due caste superiori rappresenterebbero infatti niente di meno che la discendenza delle più recenti reincarnazioni delle entità angeliche, i Sette Misteri che, come detto, tornano periodicamente a rivestire forma umana. Come nelle religioni abramitiche, anche nello yazidismo esistono paradiso e inferno, ma altri aspetti della loro cosmogonia rimandano invece alle antiche religioni iraniche, come ad esempio allo zoroastrismo.

Il pericolo

Un patrimonio religioso e culturale, quello da noi qui tratteggiato con un breve schizzo, che rischia di venire annullato da qui a pochi anni, se non avverrà presto un’inversione di tendenza: una presa di coscienza del mondo nei confronti di questa tragedia. Dispersi per il pianeta, gli ultimi figli di questo antico popolo sopravvissuti alle persecuzioni di ieri e di oggi, rischiano l’assimilazione e la scomparsa definitiva dei loro usi, costumi e credenze. Questo il significato più profondo e drammatico della parola genocidio: il tentativo posto in atto sistematicamente di eliminare non solo un intero popolo, ma anche la sua cultura materiale e immateriale, insieme al suo lascito spirituale. L’orrore del sangue, e insieme la maledizione di aver reso il nostro mondo più povero, senza possibilità di appello, destinando a definitiva scomparsa persino la memoria di una minoranza, e non solo la sua esistenza fisica.

Simone Zoppellaro


Racconto di un massacro

Quando a Sinjar arrivarono i miliziani

I miliziani dello Stato islamico considerano gli Yazidi degli «infedeli». Nell’agosto del 2014 arrivati nella loro regione hanno compiuto una strage. E costretto alla schiavitù sessuale migliaia di donne e bambine.

Chi scrive ha incontrato sopravvissuti Yazidi ed è rimasto impressionato dai loro racconti, soprattutto se paragonati ai resoconti di ebrei e armeni. Un’analogia che lascia senza fiato. È come se il tempo, vinto da una maledizione, fosse condannato a ripetersi in tutto e per tutto, con schemi fissi e immutabili, e producendosi solo in minime varianti. Stessa la furia cieca dei carnefici, così come egualmente scientifica, gelida e ben ponderata è l’organizzazione che sta alla base di tutto. Stesso il dolore delle vittime, un dolore tanto forte a tratti da spogliare chi vi viene investito di ogni dignità umana e amore di sé e del prossimo. Stesso l’opportunismo, e in molti casi la complicità, delle popolazioni sottoposte al terrore, pronte a girarsi dall’altra parte, ma anche a cercare di massimizzare il profitto che deriva dalle altrui disgrazie e dalla morte. Stessa anche l’indifferenza del mondo, che finge di non vedere e di non sapere, un po’ per noia o apatia, o per pigrizia mentale, ma anche perché il dolore – quando è così grande e lontano – ci lascia impotenti e confusi. Stessa infine anche l’azione solitaria di alcuni giusti: pochi uomini, forse pochissimi che – andando in controtendenza rispetto a tutti e anche alla storia – rischiano la loro vita, i loro beni e il proprio status, per dimostrarci che neppure il male più feroce è capace di cancellare le ultime tracce di bene e di umanità che affiorano anche qui, dove la Terra sembra aver già toccato l’inferno.

Durante la dominazione ottomana

Come si è arrivati alla riduzione in schiavitù di donne e bambini, alla persecuzione sistematica e ai massacri del 2014 che gli Yazidi rivendicano ostinatamente come un genocidio? Si tratta di una storia che parte da lontano. Anzi, a sentire quanto raccontano i stessi membri di questa comunità, gli Yazidi avrebbero già subito addirittura 72 genocidi nel corso della loro storia. Si tratta forse di un’iperbole, diranno in molti, eppure è un’affermazione significativa almeno per capire due cose. In primis, che la questione yazida non è nata con i miliziani dell’Isis, ma ha radici assai più profonde e, per questa ragione, molto più difficili da estirpare. In secondo luogo che, esattamente come per gli armeni e gli ebrei, la memoria delle persecuzioni subite è ormai divenuta parte fondamentale della identità propria degli Yazidi, del loro modo di autorappresentarsi come gruppo. E in effetti si può ben dire che, fin dall’inizio, l’identità yazida sia stata forgiata anche dal sangue e dalla violenza subita nel corso di un millennio.

Già fra XII e XV secolo, infatti, questa popolazione si trovò a subire continui attacchi da parte di chi non tollerava la sua fede e la sua identità. Le cose andarono peggiorando ulteriormente in epoca ottomana. Nel 1892 – negli stessi anni in cui avvenivano i primi massacri degli armeni che sfociarono a inizio novecento in un vero e proprio progetto di genocidio – ebbe luogo una spedizione guidata dal governatore di Mossul che portò a numerose uccisioni e a conversioni forzate. All’inizio del nuovo secolo, poi, nel 1904, il sacro tempio di Lalish venne trasformato in moschea.

Da Saddam al Daesh

In epoca più recente, durante il regime di Saddam Hussein gli Yazidi si trovano di nuovo a essere, al pari dei curdi, bersaglio di persecuzioni e attacchi. Migliaia di loro in quegli anni lasciarono l’Iraq per cercare scampo e fortuna in Europa. Dopo la caduta di Saddam, nel vuoto di potere creatosi in seguito all’invasione americana e all’incauto smantellamento delle forze di sicurezza ereditate dal precedente regime, gli Yazidi si trovarono in una situazione, se possibile, ancora più difficile. Il 14 agosto del 2007, quattro attacchi suicidi cornordinati fra loro colpirono gli Yazidi a Kahtaniya e Jazeera, nei pressi di Mossul. Sconvolgente il bilancio delle vittime, come riportato dalla Mezzaluna Rossa irachena: almeno 500 morti e 1.500 feriti. Una macabra anticipazione di quanto sarebbe avvenuto, con numeri ancora maggiori, pochi anni dopo, quando, siamo nel 2014, un nuovo e temibile attore arriva a sconvolgere – a suon di vittorie repentine, massacri e propaganda – l’Iraq, la Siria e l’intero Medio Oriente. Ci riferiamo allo Stato islamico guidato da Abu Bakr al-Baghdadi. Il contesto da cui ha origine il genocidio degli Yazidi è delineato con precisione da Patrick Cockburn, giornalista del quotidiano   Independent e testimone diretto fra i più autorevoli di questa guerra:

«Nel corso dell’estate, lo Stato islamico aveva sconfitto con campagne fulminee prima l’esercito iracheno, poi quello siriano, i ribelli siriani e i peshmerga curdo-iracheni, creando un dominio che si estende da Baghdad ad Aleppo, e dal confine siriano con la Turchia al deserto dell’Iraq occidentale. Gruppi etnici e religiosi di cui il mondo non aveva mai sentito parlare prima o di cui si sapeva pochissimo, come gli Yazidi di Sinjar o i cristiani caldei di Mossul, sono caduti vittime della crudeltà e del fanatismo settario dell’Isis».

Ma, anche stando a quanto afferma un’investigazione condotta dalle Nazioni Unite e pubblicata nel giugno 2016, si tratterebbe di più di semplici atti di crudeltà e fanatismo. Nel rapporto pubblicato con il titolo di «Sono venuti per distruggere: i crimini dell’Isis contro gli Yazidi» (They Came to Destroy: Isis Crimes against the Yazidis), l’indagine condotta dall’Onu utilizza ben 97 volte in 40 pagine la parola genocidio. Un riconoscimento inequivocabile e significativo, dato anche che, per la prima volta, un riconoscimento viene fatto prima da un attore non-statale che da parte di un singolo paese. Ed ecco una breve descrizione di quanto avvenuto, per come la leggiamo nel rapporto dell’Onu:

«Nelle prime ore del 3 agosto 2014, i combattenti del gruppo terroristico chiamato Stato Islamico dell’Iraq e al-Sham (Isis), si riversano fuori dalle loro basi in Siria e in Iraq, e si dirigono rapidamente verso il Sinjar. La regione del Sinjar nel nord dell’Iraq è, nel suo punto più prossimo, a meno di 15 chilometri dal confine con la Siria. È la sede della maggioranza degli Yazidi nel mondo, una comunità religiosa distinta le cui credenze e pratiche risalgono a migliaia di anni, e i cui aderenti l’Isis taccia pubblicamente di essere infedeli. Pochi giorni dopo l’attacco, emergono i primi resoconti delle atrocità inimmaginabili commesse dall’Isis contro la comunità yazida: uomini uccisi o costretti a convertirsi; donne e ragazze, alcune giovani fino a nove anni, vendute al mercato e tenute in uno stato di schiavitù sessuale dai combattenti dell’Isis; ragazzi strappati dalle loro famiglie e costretti ad andare in campi di addestramento dell’Isis. È stato da subito evidente che gli orrori commessi sugli Yazidi catturati si verificavano sistematicamente anche in tutti territori controllati dall’Isis in Siria e Iraq».

Un altro testo, utile ad abbozzare il quadro dei crimini commessi, e soprattutto del piano genocidario messo in atto dai fondamentalisti, lo riprendiamo invece da un rapporto pubblicato dall’Ong Yazda e dalla Fondazione Free Yazidi, redatto in collaborazione con le autorità del governo regionale del Kurdistan iracheno:

«Rimuovendo l’intera popolazione yazida dalla loro patria, infliggendo il danno psicologico e fisico della violenza sessuale contro le donne e le ragazze, l’Isis si è assicurato che questi non sarebbero più stati in grado di tornare alle loro comunità. Forzando i giovani maschi a cambiare la loro religione e a diventare combattenti nelle loro stesse fila, l’Isis ha cercato di annientare l’identità religiosa, le tradizioni e l’esistenza stessa degli Yazidi. Durante l’attacco alla piana di Ninive, l’Isis ha anche distrutto 19 santuari religiosi».

Il 3 agosto 2014 i miliziani dell’Isis non incontrarono quasi nessuna resistenza. I peshmerga curdi, come riportano fonti yazide e lo stesso documento delle Nazioni Unite, decisero di ritirarsi lasciando la popolazione, non preventivamente avvertita, in balia della violenza. Nel giro di poche ore, vinta con facilità la resistenza improvvisata da alcuni uomini nei villaggi, gli uomini dello Stato islamico assunsero il pieno controllo della regione. Nella confusione di quelle ore, che videro migliaia di civili darsi alla fuga senza neppure il tempo di raccogliere il minimo indispensabile dalle loro case, un episodio particolarmente drammatico investì coloro che cercarono di trovare scampo sul monte Sinjar.

Leggiamo ancora dal rapporto delle Nazioni Unite:

«Coloro che sono fuggiti in tempo per raggiungere l’altopiano superiore del monte Sinjar vengono assediati dall’Isis. Una crisi umanitaria ha luogo non appena l’Isis intrappola decine di migliaia di uomini, donne e bambini Yazidi, in un luogo dove le temperature superano i 50 gradi e impedendo loro l’accesso all’acqua, al cibo o all’assistenza medica. Il 7 agosto 2014, su richiesta del governo iracheno, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama annuncia un’azione militare americana per aiutare gli Yazidi intrappolati sul monte Sinjar. Forze americane, irachene, inglesi, francesi, australiane vengono coinvolte in lanci di acqua e altre forniture agli Yazidi assediati. Il tutto mentre i combattenti dell’Isis sparano contro gli aerei impegnati nel lancio di aiuti, e contro gli elicotteri che tentano di evacuare gli Yazidi più vulnerabili. Centinaia di Yazidi – inclusi neonati e bambini – trovano la morte sul monte Sinjar prima che le forze curde siriane, il Ypg (nome dell’esercito kurdo della regione siriana di Rajava, ndr), siano in grado di aprire un corridoio dalla Siria al Monte Sinjar, consentendo agli assediati sul monte di essere spostati in sicurezza».

Uccisi, schiavizzati, dimenticati

Lontano dal monte Sinjar, il progetto di sterminio viene portato avanti con uno stesso schema, villaggio per villaggio, con rapidità sistematica. Una ripetizione di atti e violenze che non lascia nulla al caso e che rende evidente come quello commesso (e in parte ancora in atto) contro gli Yazidi sia un genocidio e non una serie di massacri verificatisi in modo spontaneo. In ogni luogo della regione, vengono divisi uomini, donne e bambini. I primi – che includono anche gli adolescenti dai dodici anni in su – vengono uccisi seduta stante o costretti a convertirsi all’islam, mentre le seconde, insieme ai loro bambini, vengono vendute come schiave. Non lascia adito ad ambiguità la conclusione del rapporto dell’Onu già citato: «L’Isis ha commesso e continua a macchiarsi del crimine di genocidio, ma anche di diversi crimini contro l’umanità e crimini di guerra, contro gli Yazidi».

Un riconoscimento importante, che però non è finora riuscito a scongiurare o a alleviare il dramma in corso. Private di un passato e di un futuro, molte migliaia di Yazidi sono tuttora ridotte in stato di schiavitù nei territori dello Stato islamico, o accampate nei campi profughi di Siria, Turchia e Grecia. Qui, troppo spesso, i rifugiati si trovano privi dei servizi essenziali, senza che venga fornita loro l’assistenza medica e psicologica che potrebbe contribuire a ridare loro un minimo di dignità e coraggio.

Simone Zoppellaro


Incontro con Nadia Murad

Storia di Nadia, da schiava ad ambasciatrice

Rapita, venduta, violentata dagli stupratori dell’Isis, Nadia Murad, oggi 23enne, è la donna simbolo della lotta degli Yazidi. Divenuta mondialmente conosciuta, riempita di riconoscimenti, lei chiede che questa attenzione si trasformi in aiuti concreti per il suo popolo ferito e disperso.

Stoccarda. È una ragazza semplice, la candidata al Nobel per la pace Nadia Murad, appena 23 anni, ma già donna simbolo della lotta degli Yazidi per la sopravvivenza. Nel condominio dove la incontro ad agosto, subito fuori Stoccarda, insiste per accompagnarmi giù dalle scale fino in strada per salutarmi, come si usa fare in Medio Oriente. Veste in modo semplice, di nero, come semplici sono le passioni di cui parla, dal calcio all’Italia, che ha visitato da poco. Ed umile è anche il palazzo popolare in cui ci incontriamo, un alloggio per rifugiati dove risuonano di continuo le grida festanti dei bimbi yazidi arrivati da poco dall’Iraq. Proprio non sembra di avere di fronte una delle 100 persone più influenti al mondo, secondo la classifica della rivista Time (aprile 2016). Eppure, fra i tanti incontri fatti in questi anni, quello con Nadia Murad è stato di gran lunga quello che più mi ha colpito. Dettagli: il tono della voce, calmo e ieratico, con cui mi racconta in lingua kurda l’epopea di orrore che ha investito la sua famiglia e la sua gente. E poi quegli occhi profondi di chi ha guardato in faccia il male e la morte, di chi all’inferno è già stata salvo riuscire a riemergervi e a tornare fra noi. Miracolosamente.

Quell’estate del 2014

Sulla sua pelle si scorgono piccole cicatrici, bruciature di sigaretta inflitte al tempo della schiavitù cui l’avevano ridotta gli uomini dell’Isis. Anche la postura chiusa del suo corpo racconta in modo inequivocabile delle violenze subite. Eppure, mentre si lascia fotografare, sorride serena, quasi pacificata. Ho davanti a me una ragazza con una calma e una forza fuori dal comune, dolce e insieme inflessibile, con qualcosa di oscuro, ma anche di caldo e materno. «Non ho mai pensato di uccidermi, ma ho sperato che fossero altri a farlo», racconta, rievocando l’orrore della sua lunga prigionia. Sì, perché Nadia Murad in quei giorni dell’agosto 2014 ha visto morire davanti a lei sei suoi fratelli, diciotto familiari, e larga parte degli abitanti del suo villaggio, Kocho, stretto d’assedio dai miliziani dell’Isis.

Nei due anni e mezzo trascorsi da quell’estate del 2014, l’attivista yazida è stata coperta di onori per il suo coraggio e la sua determinazione. Candidata al Nobel per la pace, ambasciatrice di buona volontà delle Nazioni Unite per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani e ancora vincitrice del Premio Václav Havel per i diritti umani, conferitole dal Consiglio d’Europa, e del Premio Sakharov per i diritti umani, assegnatole dall’Europarlamento, insieme a Lamiya Aji Bashar.

Donne e bambine in balia dei miliziani

Grandi onori e attenzioni da parte dei media di tutto il mondo. Eppure, con una lucidità e una fermezza sorprendente, mi racconta tutta la sua solitudine, l’impotenza e la disperazione di fronte al dramma della sua gente.

«Non ho alcuna speranza», confessa Nadia, a due anni esatti dal genocidio. «La mia comunità è in via di estinzione. Il 90% dei nostri sopravvissuti vivono dispersi in campi profughi. Abbiamo ancora migliaia di bambini tenuti come schiavi dall’Isis, e quanto ai pochi che sono riusciti a fuggire, nessuno se ne occupa. Oggi siamo dispersi in giro per il mondo, e i nostri villaggi – anche quelli liberati – sono distrutti e non possiamo farci ritorno. La nostra sola, piccola speranza è la comunità internazionale. Senza il loro aiuto, per noi non c’è futuro».

Secondo le cifre fornite da Yazda, l’ong yazida, sono 5.000 gli Yazidi che hanno perso la vita per mano dell’Isis, mentre altri 7.000 sono stati rapiti. Un computo ancora incerto, purtroppo, come grandi sono le incertezze circa il possibile ritorno in patria dei sopravvissuti, anche una volta che il Daesh sia stato debellato. Nadia Murad era una ragazza di 19 anni, una studentessa, il giorno in cui la storia ha fatto irruzione nella sua vita, stravolgendola per sempre.

«Dopo che hanno preso noi donne dal villaggio – racconta Nadia -, ci hanno raccolte e messe insieme a centinaia di altre ragazze provenienti da altri villaggi del Sinjar. Abbiamo chiesto loro cosa ci facessero lì e cosa fosse successo loro. Ci hanno risposto che venivano picchiate ogni giorno e che ogni giorno venivano a scegliere alcune di loro per abusarne in diversi modi, inclusi stupri di gruppo. Poi ci prendevano per portarci in stanze dove i militanti dell’Isis venivano, ci guardavano e sceglievano le ragazze che volevano portarsi via. Questo capitava a bambine e donne dai 9 ai 60 anni. E così è capitato a me. Ci prendevano e ci obbligavano a convertirci, portandoci alla Corte islamica di Mossul. Lì venivamo registrate come schiave, senza alcun diritto, a differenza delle loro madri, mogli e figlie. Ci spartivano fra loro e abusavano di noi. Inoltre, dovevamo servirli».

All’origine del suo salvataggio, avvenuto dopo un primo tentativo di fuga fallito – cui era seguita una punizione crudele – è l’opera di una famiglia di giusti che le offre aiuto e protezione, a rischio della loro stessa vita. Questi forniscono infatti alla Nadia documenti falsi, in cui risulterebbe essere una loro parente, moglie di loro figlio. Con un velo e una veste integrale islamica riesce così a fuggire e a rifugiarsi in Kurdistan, al sicuro.

Finiscono così i tre mesi di prigionia e tortura a cui, a differenza di tante altre donne yazide, è riuscita a sottrarsi. Da lì, poi, muoverà in Germania, a Stoccarda, dove riceverà aiuto e assistenza e dove avrà inizio il suo impegno politico per il riconoscimento del genocidio yazida. Certo, aveva altri sogni nella vita, Nadia, prima di quell’agosto: diventare un’insegnante di storia o una truccatrice, racconta.

Tanti premi, nessun impegno concreto

Ne siamo certi, non esiste premio al mondo, per quanto prestigioso, che possa consolarla della perdita della sua vita di un tempo, scomparsa nel giro di pochissimi giorni.

Quella vita semplice di cui racconta, pur segnata da povertà e stenti, resta impressa nella sua memoria come simbolo di una felicità perduta, quasi un idillio. Oggi l’indifferenza del mondo sembra non darle pace. Un muro di gomma, quello che si trova ad affrontare ogni giorno, fatto di grandi eventi e onori, di premi, immagini e marketing, ma di nessun impegno e sostanza politica. La verità – e Nadia lo sa benissimo – è che nessuno li vuole, i sopravvissuti yazidi. Nessuno vuole prendersi l’onere e l’onore di aiutare questa gente. In un’Europa che – pur di tenersi lontani i profughi – è persino disposta a finanziare lautamente regimi liberticidi, dalla Turchia alla Libia. Degli Yazidi non importa nulla a nessuno. O quasi a nessuno.

E non sarà un caso allora, come mi ha raccontato la stessa attivista yazida, che una felice eccezione sia costituita dal Land tedesco del Baden-Württemberg, guidato dal governatore verde Winfried Kretschmann.

Cattolico praticante, proveniente lui stesso da una famiglia di profughi rifugiatisi nel Sud della Germania al tempo della seconda guerra mondiale, Kretschmann ha voluto impegnarsi di persona non solo per accogliere, ma anche per fornire assistenza medica e psicologica alle vittime yazide. Certo si tratta solo di un timido barlume in un mare di tenebra. Eppure, per questo piccolo popolo, anche i 2.500 bambini e donne traumatizzati accolti e curati in questo Land rappresentano una grande conquista, e una speranza per il domani. O, forse, molto di più: il sogno di un domani ancora possibile che si concretizza per gli adoratori dell’Angelo Pavone e per i loro figli, là dove solo morte e orrore sembravano possibili. E qui, in questo piccolo segnale di un’umanità ritrovata, scopro forse il segreto di Nadia Murad, della sua ineluttabile forza.

Simone Zoppellaro


Scheda 1: Genocidio

Chissà che cosa avrebbe pensato Raphael Lemkin, il giurista polacco che inventò e definì la parola «genocidio», se avesse potuto guardare avanti fino al nostro presente. La sua grande intuizione, che legava in modo indissolubile in un solo lemma il dramma degli armeni nel 1915 e quello della Shoah – di cui lui aveva ben colto, prima di ogni altro, le profonde analogie – guardava certo al passato e al presente insieme ma, in modo profetico, anche al nostro oggi. Chissà cosa avrebbe pensato Lemkin, dunque, se avesse potuto vedere il genocidio compiuto dai Khmer rossi in Cambogia, il Rwanda, Srebrenica, e ora anche il dramma in corso di cui sono vittime gli Yazidi. Come dimostra il suo acume nello scoprire e denunciare – oltre ai casi già menzionati dell’Olocausto degli armeni e degli ebrei – anche l’Holodomor degli anni Trenta, «la distruzione della nazione ucraina», come lui l’aveva definita, non abbiamo dubbi che nei nostri anni avrebbe trovato un ennesimo, terribile riscontro alla sua intuizione, che ora è parte della coscienza e del vocabolario di tutti noi, e di ogni lingua del mondo. Il suo termine, inventato perché neppure la parola «atrocità» era più sufficiente per esprimere l’orrore di Auschwitz, e adottato dalla convenzione delle Nazioni Unite nel 1948, arriva così a investire nuovi contesti e aree geografiche assai vaste, e un’epoca diversa e lontana da quella in cui Lemkin stesso si trovò ad operare. «Genocidio – ha scritto lo storico Boris Barth – è quando un gran numero di persone vengono uccise per motivi razziali, etnici o religiosi. Come regola generale, l’esecutore è uno stato che ha l’intenzione dichiarata di annientare alcuni gruppi etnici o religiosi. Così viene anche definito nella Convenzione delle Nazioni Unite».

Si.Zo.

Scheda 2: Le guide e le caste

In cima alla scala sociale e alla divisione per caste che caratterizzano la vita della minoranza yazida troviamo due figure chiave, il Mir e il Baba Sheikh. Il primo, il cui titolo potremmo tradurre come «principe», assomma in sé il potere temporale e quello spirituale. L’attuale Mir degli Yazidi è Tahsin Said (nella foto), posto a guida del Consiglio spirituale degli Yazidi, il Majlesi Rohani. Una figura che, secondo gli Yazidi, discende dalle sette entità angeliche presiedute dall’Angelo Pavone. Con funzioni di guida spirituale, ma in realtà subordinato al Mir anche da questo punto di vista è la figura del Baba Sheikh. A rivestire questo ruolo attualmente è Khurto Hajji Ismail. Questi presiede a tutte le cerimonie più importanti della vita spirituale della comunità, e in particolar modo a quelle che avvengono presso il sacro tempio di Lalish. Entrambe le figure sono parte della più importante delle tre caste yazide, quella degli Sheikh. Sempre elevata, anche se per alcuni aspetti in subordine rispetto alla prima, è la casta dei Pir, gli «anziani». Anche questi, come gli Sheikh, ricevono un’elemosina in forma di una tassa dall’ultimo gruppo: i Morid, i «discepoli», che sono tenuti a scegliere come loro guida una figura per ciascuna delle due caste superiori. Questi rappresentano la larga maggioranza della popolazione e non rivestono alcuna particolare funzione rappresentativa. Le caste degli yazidi – che conoscono al loro interno ulteriori, complesse, sottoclassificazioni – sono perlopiù endogame, e vietano cioè il matrimonio fra gli appartenenti ai diversi gruppi sociali.

Si.Zo.

Scheda 3: La diaspora

Uno dei pericoli maggiori che si trova oggi ad affrontare la comunità yazida è quello della sua dispersione. Un fenomeno non nato in questi ultimi anni, ma che ha conosciuto di recente una spaventosa accelerazione. Questa, unita al numero esiguo dei suoi membri, e all’assenza pressoché totale di centri di potere economico, politico o religioso che possano supportarla, rischia di condannare la minoranza in questione a una rapida scomparsa. Difficile, anche a causa della situazione in divenire e della dispersione, avere un’idea chiara di quanti siano effettivamente gli Yazidi. Si stima che, prima dell’invasione dell’Isis, se ne trovassero in Iraq fino a un massimo di mezzo milione. Altri insediamenti storici di questa minoranza, con numeri assai più ridotti, si trovano in Siria, in Turchia, in Russia e nel Caucaso del Sud, ovvero in Georgia e Armenia. In quest’ultimo paese, dato il notevole numero di profughi e la buona integrazione nella società che li accoglie, è in via di costruzione – caso unico al mondo – un tempio yazida. Il paese europeo che più ha aperto le porte ai membri di questa minoranza perseguitata è stato senza dubbio la Germania, dove si trovano oggi oltre 100.000 Yazidi. Qui, prima e in maggior misura che altrove, è stato possibile avviare programmi di riabilitazione anche psicologica per i sopravvissuti allo sterminio e per le donne yazide che hanno subito violenze. Oltre alla Germania, altri paesi europei che li hanno accolti sono, per esempio, Francia, Gran Bretagna e Olanda. Al di fuori del nostro continente, il Canada sembra aver deciso di recente di seguire l’esempio della Germania nel fornire asilo e assistenza ai profughi yazidi.

Si.Zo.


Infodossier:

Fonti e bibliografia

  • Patrick Cockburn, L’ascesa dello stato islamico. ISIS, il ritorno del jihadismo, edizioni Stampa Alternativa, 2015.
  • Christine Allison, Yazidis, voce dell’Encyclopædia Iranica pubblicata dalla Columbia University e disponibile online, 2004.
  • Gianfilippo Terribili, Via della seta. In pellegrinaggio con gli Yazidi, 2 settembre 2015, Atlante, rivista del portale Treccani.
  • Giuseppe Furlani, Gli adoratori del pavone. I yezidi: i testi sacri di una religione perseguitata, ed. Jouvence, 2016.
  • Simone Zoppellaro, La guerra agli yazidi sul corpo delle donne, 9 agosto 2016, il Manifesto.
  • Claudia Ryan, Hana la Yazida. L’inferno è sulla Terra, Edizioni San Paolo, 2016.

Sitografia

  • www.yazda.org -Il sito dell’omonima organizzazione degli Yazidi.
  • www.nadiamurad.org -Il sito ufficiale di Nadia Murad.

Autori

  • Simone Zoppellaro – Nato a Ferrara, è giornalista freelance. Dopo gli studi ha trascorso otto anni lavorando fra l’Iran, l’Armenia e la Germania. Ha lavorato per oltre due anni come corrispondente per l’«Osservatorio Balcani e Caucaso». I suoi articoli appaiono regolarmente su vari quotidiani e riviste nazionali. Collabora con l’Istituto italiano di cultura a Stoccarda, dove vive. Per MC ha pubblicato i reportage su Nagorno Karabahk (agosto 2016) e Armenia (ottobre 2016).
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC.



Guanxi Italia


Questo dossier introduce una tematica – i Cinesi d’Italia – di cui Missioni Consolata non si è mai occupata, se non in maniera occasionale. Lo abbiamo affidato a un giovane sinologo, Gianni Scravaglieri, che insegna la lingua cinese nelle scuole superiori della Lombardia. Queste pagine sono soltanto un inizio. È nostra intenzione tornare sull’argomento in un vicino futuro. Chi – cinese o italiano – voglia raccontare la propria esperienza scriva alla redazione. Nel frattempo, buona lettura. (pa.mo.)

 


Testi di: Gianni Scravaglieri e Paolo Moiola

Foto di Roberto Brancolini – A cura di: Paolo Moiola


Introduzione

Siamo cinesi

I lettori mi perdoneranno se, per introdurre questo dossier, partirò da alcuni ricordi personali. Molti, troppi anni fa vissi per qualche mese a San Francisco, in Califoia. Abitavo in centro, vicino a Chinatown. Era quest’ultimo un luogo che mi attraeva perché mi offriva una sensazione di esotico fino allora estranea alla mia esperienza d’italiano. Per approfondire quella sensazione, un paio di anni dopo feci un lungo viaggio in Cina, via terra e via fiume. Era trascorso un anno e mezzo dalla protesta di piazza Tienanmen (aprile-giugno 1989) e la Cina era ancora quella delle biciclette e delle campagne. Poi, nel giro di circa un decennio, tutto è cambiato in forza della globalizzazione e delle nuove dinamiche geopolitiche. La Cina è diventata la potenza industriale e commerciale che tutti conosciamo. Grandi aziende occidentali sono state comprate dai cinesi. Addirittura importanti squadre di calcio italiane sono passate nelle loro mani. In quasi ogni città del pianeta si sono costituite forti comunità cinesi, coese e laboriosissime. Con esse sono cresciuti anche miti e stereotipi. Oggi in Italia ci sono – stando ai dati Istat del 1 gennaio 2016 – 271.330 cinesi, pari al 5,4% del totale degli stranieri regolarmente registrati (5.026.153). Gli studi dicono che la grande maggioranza dei cinesi arriva dalla provincia di Zhejiang e in particolare dalla città di Wenzhou. Nelle mia piccola città natale, Rovereto, i cinesi sono poco più di un centinaio (su 5.000 stranieri), ma hanno avviato decine di attività imprenditoriali. Sono ristoratori, parrucchieri, estetisti, gestori di supermercati. Non è una leggenda metropolitana che, in generale, essi siano dei gran lavoratori, anche se spesso a scapito della concorrenza. Un taglio di capelli da un cinese costa la metà o anche meno che da un italiano. Stessa cosa vale nei ristoranti. Eppure, anche qui le cose stanno cambiando. Le cosiddette seconde generazioni parlano italiano e, pur non rinnegando le «guanxi» (il complesso sistema di relazioni familiari e sociali proprie del mondo cinese), sono più inserite nella società italiana. Magari con dubbi, perplessità, domande senza risposta, ma ci sono e vogliono progredire nel paese d’adozione, pur senza mai dimenticare la patria dei loro genitori. Anche per questo è interessante andare a leggere le esperienze riportate – in perfetto italiano – nel sito di Associna. «Nell’Italia della grande migrazione – si legge nell’ormai datato I cinesi non muoiono mai -, alla voce segni particolari, gli stranieri devono esibire indicazioni precise: sul musulmano abbiamo pregiudizi nitidi come cristalli, all’albanese imputiamo la violenza, allo zingaro i furti, al cinese rimproveriamo innanzitutto il mistero». In questi anni il rapporto con la comunità cinese ha imboccato percorsi molto diversi e certamente meno banali.

Paolo Moiola

Brescello (Re). Lo storico Bar Peppone nel centro del paese rilevato da una coppia di cinesi


Dai primi immigrati alle seconde generazioni

Il cuore (e il peso dei valori)

Il pensiero confuciano e il sistema delle «guanxi» rimangono centrali nella comunità cinese d’Italia. I giovani sono sicuramente più integrati dei genitori nella società d’adozione, ma il ruolo delle tradizioni resiste. Nel frattempo, con l’esplosione economica della Cina e la crisi italiana, i flussi migratori sono diminuiti. E, a volte, si sono invertiti.

I secoli di vita contadina, caratterizzati dalla precarietà del raccolto, dalla fatica nei campi, dall’assenza di giorni di riposo, dalla gestione oculata delle risorse, dal dovere dell’accoglienza, dall’assoluta necessità di aiuto reciproco, tra gli abitanti di uno stesso villaggio, hanno forgiato il carattere dei cinesi.

Alessandro Cheung: «Ci aiutiamo moltissimo tra di noi, tra parenti, tra amici. E questo è un sistema che noi chiamiamo guanxi, basate sull’onore, il rispetto, l’amicizia. Ed è per questo che noi ragazzi anche piuttosto giovani riusciamo a far partire delle aziende di una certa importanza».

Le guanxi non sono soltanto un elenco dei nomi scritti sulla rubrica del telefono. Le guanxi sono tutte quelle persone a cui posso, nel bisogno, chiedere aiuto e a cui devo, nel bisogno, dare aiuto. Nelle guanxi, con un diverso grado di priorità, rientrano i familiari, i parenti, i vicini, i colleghi, gli amici. Questo meccanismo di reciproco aiuto ha reso possibile l’immigrazione cinese in Italia e il suo successo.

Malia Zheng: «Questo senso di appartenenza, di grande famiglia allargata, ha determinato il grande flusso migratorio in Italia: il primo arrivato ha aiutato il secondo, il secondo ha consigliato il terzo e così via».

L’influenza del pensiero confuciano

Le tradizioni e i rapporti all’interno della comunità, della famiglia, tra genitori e figli, in particolare, hanno a volte pesato molto sulla personalità dei giovani delle seconde generazioni, figli degli immigrati cinesi degli anni Ottanta. Il pensiero tradizionale confuciano prescrive che i genitori debbano occuparsi dei figli e i figli debbano rispettare i genitori. In concreto ciò significa continuare i loro affari, ascoltare i loro consigli, prendendosi cura di loro nella vecchiaia o nella malattia.

Valentina: «i miei genitori vorrebbero che io continuassi la loro attività lavorativa. Stiamo aprendo un altro negozio. Io non voglio deluderli. Penso che si sono sacrificati fino ad ora per darmi un’istruzione, quindi è giusto che li ripaghi, quindi alla fine ho deciso di continuare la loro attività».

Chi non rispetta però queste regole tradizionali, in qualche modo decide di rompere un patto culturale e familiare fortissimo, rischiando di ritrovarsi senza più appoggi da parte dei genitori.

Chen Lele:«ho avuto una bellissima bambina con un ragazzo italiano. Ho perso il vostro sostegno e non immaginate quanto abbia bisogno di avervi accanto, di avere la vostra approvazione e di sentirvi felici per la donna che sono diventata».

Da dove tutto partì

Nel 1984 Wenzhou, città nella provincia costiera del Zhejiang, da cui provengono quasi il 90% dei cinesi in Italia, insieme ad altre zone economiche speciali, venne aperta agli investimenti stranieri, grazie alle riforme promosse da Deng Xiaoping. Da quel momento l’arrivo di capitali, la possibilità di lavorare e di condurre buoni affari, ma anche la possibilità di ottenere finalmente un passaporto per emigrare, divenne il tema di discussione tra amici e parenti.

La stragrande maggioranza aveva già un mestiere e non emigrò per disperazione. Il progetto era quello di andare a lavorare presso i parenti o conoscenti già presenti da tempo in Italia o in altri paesi europei, seppur in numero esiguo, dai quali ricevere un supporto concreto all’inizio, per poi tentare di aprire una piccola impresa propria. Ovviamente non per tutti fu un successo.

Yang Shi: «I miei genitori in Cina avevano una discreta posizione sociale. Appena abbiamo avuto una possibilità di andare all’estero, subito ne abbiamo approfittato. Non pensavamo di impoverirci venendo in Italia e invece ci siamo impoveriti».

In quegli anni cominciarono a emigrare venditori ambulanti, falegnami, carpentieri, piastrellisti, muratori, cuochi, camerieri, insegnanti, contabili, ristoratori, baristi, gestori di locali. In un secondo momento sarebbero arrivate le mogli, grazie alla possibilità del ricongiungimento familiare o delle non rare sanatorie decretate dal governo. Infine i figli, arrivati dalla Cina o nati qui.

Le vie del successo

Questa prima generazione di cinesi, detta di nuova immigrazione, arrivò in Italia anche per vie traverse, grazie ai soldi raccolti tra i parenti e i conoscenti. Per ripagare il loro debito, gli immigrati di Wenzhou dovettero lavorare gratis per un certo periodo nei ristoranti o nei laboratori di pelletteria, di maglieria, di tappezzeria, nelle ditte per la lavorazione conto terzi di scarpe o di divani dei loro connazionali. Quando il debito veniva estinto, l’immigrato poteva cominciare a guadagnare. Inutile dire che durante questo esodo di persone si sono verificati anche casi di corruzione, di ricatto, di sfruttamento, di violenza e di truffa.

Tuttavia, l’immigrazione cinese portò sostanzialmente vantaggi all’Italia. A Prato, ad esempio,il tessile al momento dell’arrivo dei cinesi era già in crisi. Le imprese cinesi, anche grazie ai loro modi non sempre trasparenti di lavorare per conto terzi, hanno comunque ravvivato la produzione, permettendo anche oggi alle imprese e ai grandi marchi italiani del settore di avere prezzi concorrenziali su tutto il mercato europeo. Lo stesso fenomeno si è verificato a Milano, in zona Paolo Sarpi, che all’arrivo dei cinesi non era già più il vivace quartiere di negozianti e artigiani degli anni precedenti. La stessa amministrazione ha concesso ai cinesi le licenze per aprire negozi di vendita all’ingrosso sul finire degli anni Novanta, collegando il quartiere all’import-export con la Cina, che nel 2001 sarebbe entrata nel Wto. Non sono mancati momenti di conflitto tra comunità cinese e abitanti italiani del quartiere. Oggi la situazione appare sostanzialmente pacificata.

Roma. Ragazza cinese a passeggio nella zona di Piazza Vittorio

Le seconde generazioni

I giovani delle seconde generazioni in genere hanno vissuto con i genitori quando erano molto piccoli, poi rimandati in patria dai nonni per frequentare le scuole primare e imparare la lingua cinese, infine tornati in Italia, dopo qualche anno, a frequentare le scuole e ad aiutare i genitori magari nella piccola impresa familiare.

Lin Jie: «Tutto era nuovo per me: il cibo, la casa, la scuola, le facce, il colore dei capelli e degli occhi. Mi divertivo quando le maestre cercavano di insegnarmi la “R”, facendomi vedere la lingua tremante per minuti. Tuttavia avevo nostalgia della Cina, degli amici, dei compagni di scuola, della nonna, dell’alzabandiera che si faceva ogni mattina, dell’inno nazionale che alle prime note imprimeva energia, della campagna vicino a casa».

Famiglia e Cina, un legame che in questi ragazzini, seppur a volte attenuato non si è mai spezzato.

Qi Yan: «Abbiamo studiato nelle scuole italiane, abbiamo un sacco di amici italiani e ci sentiamo sempre in qualche modo legati alla Cina, un legame che difficilmente si interrompe, un legame soprattutto rafforzato dalla nostra curiosità e dall’orgoglio dei nostri genitori nell’essere cinesi».

Oggi, diventati grandi e assorbita anche la cultura italiana, in molti si ritrovano a dover rimettere insieme una identità multiforme, con l’intenzione e la difficoltà di tenere tutto insieme, quello che è Italia e quello che è Cina.

Yu Ruijue: «In Cina vengo considerata troppo italiana, in Italia mi sento troppo cinese. Delle due metà in cui il mio “io” si divide, nessuna riesce a prevalere sull’altra. Inoltre, so bene che, se mancasse anche una sola delle due, perderei inevitabilmente me stessa».

Quelli delle seconde generazioni sono in genere giovani con un diploma e sempre più spesso una laurea in tasca. Chi di loro non è riuscito o non ha voluto fare il libero professionista o il dipendente in una multinazionale, resta a lavorare nelle imprese di famiglia. Principalmente nel settore dei servizi: ristoranti, negozi di scarpe, di accessori, di vestiti, sartorie, lavanderie, tintorie, negozi alimentari, centri massaggi, bar, sala giochi, negozi di riparazione computer e cellulari.

La crisi e l’ipotesi del ritorno

Dopo la crisi del 2008 però fare affari nel nostro paese diventa sempre più difficile e anche per molti cinesi si affaccia alla mente l’ipotesi di tornare in Cina. Quelli della prima generazione, verso i sessant’anni d’età e con decenni di lavoro in Italia, potranno decidere di ritirarsi nel paese natale a passare la vecchiaia. Ma per le seconde generazioni di ventenni e trentenni, magari già con figli piccoli che frequentano le scuole italiane e con una mentalità e un modo di vivere, che negli anni si è per così dire «italianizzato», sarà molto più difficile farlo.

Mary Pan: «Se ci pensiamo bene, non possiamo fare a meno dell’Italia. Perché ci ha dato la possibilità di crescere e migliorare, sebbene con molti sacrifici».

Per le seconde generazioni anche per un altro motivo, pur volendolo, sarà complicato tornare o trasferirsi in Cina, cioè a causa del suo costo della vita e del suo dinamismo sociale.

Yan Tianyou: «In Cina la concorrenza è feroce e il nostro potere d’acquisto si è ridotto. Adesso è più intelligente investire in Italia. In Cina non posso permettermi neppure un appartamento. Inoltre i miei parenti sono tutti in Europa».

Anche per i cinesi in Cina però, con la crescita del loro tenore di vita e la crisi in Italia, che dal 2008 blocca la ripresa, emigrare come un tempo è un gioco che non vale quasi più la candela. Oggi dalla Cina e verso la Cina si spostano solo gli imprenditori in cerca di affari e investimenti, compreso l’acquisto di aziende. E anche i giovani per studiare nelle accademie o nelle università, con i programmi Marco Polo e Turandot.

Qi Yan: «Ormai i cinesi poveri non spendono più tanti soldi per venire in Occidente senza documenti, rischiando mille avversità per affrontare una vita misera e povera senza molte possibilità di fare fortuna per via della crisi economica fuori dalla Cina».

Integrazione nella globalizzazione

Per le seconde generazioni la via del successo personale passerà sempre più attraverso una maggiore integrazione nel tessuto sociale italiano, ma senza rinunciare alla loro parte di identità cinese che, in un contesto di globalizzazione delle professionalità, li può portare ad essere un ponte ideale fra i nostri due paesi amici.

Angelo Hu: «Il cambiamento è in corso grazie ai giovani delle nuove generazioni, molti dei quali vanno all’università, e che stanno uscendo dalle attività commerciali tipiche della prima immigrazione di cinesi».

In questo però il Parlamento dovrebbe dare una mano, sboccando la proposta di legge di riforma della cittadinanza, già approvata dalla Camera il 13 ottobre 2015, ma ferma in Commissione affari costituzionali del Senato. L’Italia non può permettersi di deludere o di lasciarsi sfuggire questi giovani, proprio nel momento in cui diventano maggiorenni, trattandoli come semplici immigrati. L’Italia ha un debito nei loro confronti, quanto meno per la fiducia ricevuta. Anche se non nelle carte bollate, i cinesi nati o cresciuti qui sono già italiani nel cuore.

Lin Jie: «Finalmente arrivò il decreto di conferimento della cittadinanza. Dal momento in cui ho presentato la domanda mi sono sempre chiesto se mai sarei riuscito a identificarmi come italiano senza alcun indugio. Ogni dubbio mi svanì nell’ufficio del sindaco quando ho pronunciato queste parole: «Giuro di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato». Avevo trovato la mia risposta: «Il mio cuore è italiano tanto quanto cinese».

Gianni Scravaglieri


L’associazione Associna

Per togliere le spine serve tempo e pazienza

Quando arrivarono i primi gruppi di immigrati cinesi erano gli anni Ottanta. Da allora molto cose sono cambiate: dalla lingua cinese sempre più richiesta e studiata al primo carabiniere cinese. L’immigrazione cinese in?Italia in un convegno di Associna, associazione nata nel 2005.

Il 26 marzo 2005, a poco più di vent’anni dall’inizio della cosiddetta nuova immigrazione cinese in Italia, vedeva la luce Associna, l’associazione delle nuove generazioni sino-italiane. Associazione di ragazze e ragazzi nati o cresciuti in Italia, che nel tempo è diventata uno dei punti di riferimento nazionali per tutti gli attori istituzionali e privati, impegnati nella costruzione di una nuova società, più forte, più ricca, più libera e più inclusiva. A partire dal diritto di cittadinanza per tutti coloro che qui in Italia sono nati o cresciuti. Con un impegno volontario e quotidiano questi giovani sino-italiani continuano a testimoniare con le loro attività in modo vivo e tenace un punto di svolta storico e sociale, che non può più essere da nessuno cancellato: l’Italia ha dei nuovi cittadini, di fatto se non ancora di diritto, nati da genitori stranieri, ma che stranieri non sono mai stati, che parlano italiano, amano, come i figli degli italiani, il nostro paese, la nostra cultura, le nostre città.

Certo, la vita non è tutta rose e fiori, dice un antico proverbio. E un concetto simile è riportato nel loro sito internet: «La convivenza è la rosa della società umana, bisogna sempre ricordarsi di tagliare le spine dell’egoismo e della paura del diverso». Possiamo solo aggiungere che prima di parlare di diritti e di doveri, è necessario accettare l’altro come una presenza possibile. Ancora oggi però una parte della società guarda alla diversità non come a una ricchezza, ma come a una minaccia.

La lingua cinese è sempre più studiata

Sabato 15 ottobre 2016, Associna ha organizzato a Milano il secondo Convegno Nazionale delle Seconde Generazioni sino-italiane, presso l’Istituto Confucio dell’Università Cattolica. La finalità dell’incontro è spiegata dal Presidente di Associna Prof. Gianni Lin: «Quest’anno abbiamo deciso di organizzare il nostro convegno annuale a Milano, in quanto vogliamo evidenziare il ruolo delle seconde generazioni italo-cinesi nelle relazioni economiche e finanziarie tra Italia e Cina. Lo scambio economico tra Lombardia e la Cina costituisce il 40% del totale italiano (45 miliardi di Euro), per cui non potevamo scegliere luogo più emblematico». I lavori della giornata sono stati aperti con i saluti iniziali di Francesco Wu, vicepresidente di Associna, e moderati da Dario Di Vico, giornalista del Corriere della Sera.

La parola è quindi stata presa dalla professoressa Elisa Maria Giunipero, direttrice dell’Istituto Confucio presso l’Università Cattolica di Milano, che ha ricordato che la lingua cinese è sempre più studiata dai giovani italiani e dagli stranieri residenti, ma anche da un crescente numero di adulti.

Iacopo Lin, il primo carabiniere cinese

L’integrazione ha bisogno del suo tempo. Dei simboli però possono favorirla in modo decisivo. Come quello di Iacopo Lin, premiato in questa occasione per essere stato il primo carabiniere della storia di origine cinese. Egli ha avuto il grande merito di eliminare la sensazione del noi e del voi riportando in primo piano il servizio allo Stato e l’amore per l’Italia.

Mentre Cristina Tajani, assessore al lavoro, attività produttive, commercio e risorse umane, ha sottolineato il messaggio positivo, che emerge dalle statistiche della Camera di Commercio di Milano, specialmente nei settori della moda e del design, che dimostrano come le aziende e gli investimenti dei cinesi abbiano dato respiro al tessuto economico milanese, anche sotto l’aspetto dei posti di lavoro, dopo la grave crisi che ci ha colpito dal 2008. Evidentemente la sinergia creatasi con la comunità cinese, sottolineata anche dal gemellaggio di Milano con la città di Shanghai, ha portato i suoi frutti.

Il console Meng, si è fatto portavoce di un messaggio inviato dal console generale di Milano sig.ra Wang. Il cuore del messaggio è stato rivolto al carattere tradizionalmente laborioso, intelligente, tenace del popolo cinese. Ribadendo il fatto che ogni volta che gliene viene data occasione esso applica alla vita associata, come puntualmente è anche successo in Italia con le cosiddette seconde generazioni cinesi, i suoi talenti nel campo della politica e dell’economia. Infatti i giovani cinesi delle seconde generazioni sono riusciti ad essere degli apripista per promuovere i legittimi interessi di tutti gli altri cinesi, che magari nati qui in Italia sono tuttavia ancora privi della cittadinanza italiana. Sono moltissime le aziende, legate alle seconde generazioni, che quotidianamente incrementano l’integrazione sociale, anche grazie alla loro naturale capacità di mediazione tra lingue e culture diverse. Il mutuo beneficio tra generazioni italiane e cinesi deve essere strategicamente l’orizzonte che ci guida.

Il professor Daniele Cologna, dell’Università dell’Insubria e fondatore di Codici s.c., ha aperto il suo intervento con una sorta di monito, in quanto per tutti noi le seconde generazioni cinesi sono «uno squillo di tromba», che non si può non cogliere. Abbiamo infatti bisogno di un’Italia diversa, più matura, meno infantilmente atteggiata verso la Cina. Ma ci vogliono anche delle istituzioni più sensibili alle esigenze delle seconde generazioni di immigrati, persino verso coloro, che pur essendo nati in Italia, a causa di una legge farraginosa, non possono ancora ottenere la cittadinanza. Oggi in Italia abbiamo oltre 270 mila residenti cinesi. Il tema dell’acquisizione della cittadinanza resta fondamentale, anche se non tutti coloro che ne hanno diritto iniziano le pratiche per ottenerla.

Bologna. Un parrucchiere cinese alla Bolognina, nei locali che ospitarono la sede del partito comunista dove l’allora segretario Achille Occhetto sciolse il partito comunista dopo il crollo del muro di Berlino

Tra la prima e la seconda generazione

Il fatto macroscopico a cui si assiste è il passaggio di testimone tra la prima e la seconda generazione nelle imprese. Mentre i cinesi arrivati nei decenni precedenti avevano un grado di istruzione basso ed erano impegnati in lavori con minimo contatto con la popolazione italiana, oggi tra i giovani delle seconde generazioni crescono i laureati che parlano sia il cinese che l’italiano. Se è pur vero che i rapporti gerarchici all’interno delle famiglie cinesi rimangono quelli tradizionali e i giovani vengano chiamati ai loro doveri familiari, è anche vero che una volta nel mondo del lavoro tendono a scegliere approcci operativi non sempre in linea ai modelli di business comunitario ed etnico dei loro genitori. Così ad esempio a Milano i giovani cinesi puntano alle imprese di servizi, rivolgendosi a una clientela trasversale, spesso proprio a quella fascia di italiani maggiormente impoveriti dalla crisi economica. A livello culturale è importante notare che le reti familiari, le cosiddette guanxi, sono al centro dei rapporti sociali sia tra cinesi che tra italiani. Soprattutto le reti informali costruite negli anni, durante il percorso scolastico, dai giovani delle seconde generazioni anche col tessuto sociale degli italiani, costituiscono una carta in più da impiegare nella costruzione di una più ampia rete di relazioni rispetto a quella a disposizione dei loro genitori. In prospettiva quindi, soprattutto per i giovani italiani che studiano la lingua cinese, si apre un mondo di collaborazione reciproca con le seconde generazioni cinesi, che li proietta a livello internazionale a relazionarsi, a livello commerciale e culturale, in modo più efficacie anche con la stessa Cina. L’ideale per i nostri giovani sarebbe proprio l’acquisizione di un trilinguismo pieno, giocato tra italiano, cinese e inglese. Pensiamo soltanto 17 miliardi di euro investiti dall’impresa cinese in Italia e dalla crescita del turismo cinese nel nostro paese.

I cinesi e il sistema bancario

Andrea Orlandini presidente e fondatore di Extrabanca, unica banca presente nel sistema economico italiano nata per dedicarsi unicamente agli stranieri. Con sedi a Milano, Prato, Brescia, Roma. Con il 70% di clienti cinesi business. Apre il suo intervento ribadendo il concetto già espresso dall’assessore Rozza sulla predisposizione dei milanesi a considerare la dedizione al lavoro il vero passaporto dell’accoglienza e dell’integrazione. In questo la comunità cinese ha sempre dimostrato di essere all’altezza della sfida con la sua proverbiale laboriosità, che si è sempre espressa nella puntualità del rimborso delle rate dei prestiti bancari. Tuttavia il rapporto che essi hanno attualmente con le banche in genere pecca ancora di una certa mancanza di trasparenza nella tracciabilità degli investimenti e nell’impiego dei prestiti. Questo comportamento non favorisce i legittimi controlli delle autorità di vigilanza ed è un fatto a cui porre al più presto rimedio, anche considerando che sempre di più l’immigrazione cinese in Italia non sarà legata alla ricerca di una occupazione, ma alla ricerca di buoni investimenti. I problemi aumentano riguardo ai correntisti cinesi e allora serve una campagna di informazione capillare su quelle che sono le regole contabili, le scadenze di legge e i corretti comportamenti da seguire nei rapporti con la banca e con il fisco. Si nota infatti che una volta ben informati i correntisti cinesi tendono a rispettare tutte le regole. Un altro aspetto è dato dalla insufficiente professionalità dei consulenti a cui si rivolgono. Infatti un buon professionista è quello che trova la forza di imporre al cliente il rispetto delle regole nell’interesse dello stesso cliente e della sua attività economica sul medio lungo periodo. Una caratteristica tipica dell’economia degli immigrati cinesi è che ad esempio in banca lavorano più donne che uomini, ciò è dato dal fatto che il cinese appena possibile vuole aprire la sua attività in proprio, da questa propensione diffusa emerge che l’imprenditore cinese è molto legato all’economia reale piuttosto che a quella finanziaria.

Riflessioni pratiche e impegni reciproci

Wang Hong – responsabile in Italia della Zheijang Rifa Precision Machinery Co Ldt -, parlando della politica di investimenti in Italia della sua multinazionale, ha sottolineato che le lor recenti operazioni di acquisizione di aziende italiane non sono rivolte alla semplice acquisizione delle tecnologie, ma in generale a un radicamento nel contesto produttivo della nostra penisola. La finalità è di sviluppare tutte le potenzialità dell’azienda acquisita, compresa la professionalità dei lavoratori italiani, che con la loro esperienza e le loro competenze si situano nella fascia alta delle professionalità. Un appunto ai lavoratori italiani viene però fatto sull’aspetto della conoscenza delle lingue, in particolare l’inglese e il cinese, la cui conoscenza darebbe a tutti i lavoratori quella marcia in più assolutamente necessaria per competere sui mercati inteazionali. L’invito esplicito è quindi rivolto alle nuove generazioni di italiani a compiere uno sforzo in più e a non limitarsi soltanto allo studio della lingua cinese, ma spingersi oltre nella comprensione della cultura cinese, la cui familiarità è fondamentale per convivere e crescere in azienda. Una riflessione è rivolta quindi agli studi universitari. Esistono delle lauree che garantiscono più di altre la possibilità di trovare un posto di lavoro, come ad esempio ingegneria, soprattutto nelle aziende con un respiro internazionale. Tuttavia resta anche chiaro che se il territorio continuerà a non offrire importanti opportunità ai giovani, essi si rivolgeranno all’estero e questo sarebbe una gravissima perdita per tutti. Italia e Cina possono quindi collaborare per mantenere aziende e lavoro sul territorio a vantaggio di entrambi i paesi. Per fare questo serve che il legame tra generazioni cinesi in Italia sia mantenuto e non disperso, poiché le tradizioni culturali, così importanti nelle nostre relazioni inteazionali, passano attraverso i legami di sangue tra genitori e figli.

Jin Yangkun, direttore generale della sede milanese della Industrial and Commercial Bank of China, la banca più capitalizzata al mondo, ha impostato il suo intervento con una panoramica complessiva. Ha sottolineato che i rapporti tra Italia e Cina sono antichi di secoli e si sono sviluppati lungo l’antica Via della Seta. Anche memore di questi legami, nel contesto odierno della globalizzazione la Cina è il terzo partner commerciale sia per l’import che per l’export dell’Italia. I settori maggiormente interessati sono quello meccanico, alimentare, della moda e del design. Per fare in modo che questi rapporti continuino sul lungo periodo bisogna creare rapporti più solidi basati sul reciproco vantaggio economico e sull’approfondimento dei rapporti umani tra le popolazioni. In Cina ad esempio c’è necessità urgente di lavorare alla costruzione di uno stato sociale, che metta in relativa sicurezza sia la sua popolazione anziana, che quella bisognosa di cure e assistenza sociale. Le eccellenze italiane nel campo sanitario e della cura alla persona, nonché la vivibilità delle medie città italiane possono diventare un modello da cui la società cinese può prendere spunto. In tutto questo i giovani di oggi in generale e in particolare le seconde generazioni si devono considerare il futuro per i rapporti tra Cina e Italia. Il loro contributo è fondamentale nella definizione di nuove idee, energie, competenze nel mondo del lavoro. A tutto ciò si aggiungono due premesse indispensabili. Da parte italiana è necessario garantire di più l’ottenimento della cittadinanza da parte dei cittadini cinesi nati o cresciuti in Italia. Da parte cinese è necessario assumere l’impegno di fare in modo che i media nazionali si occupino di più delle seconde generazioni all’estero, anche quando esse cambiano cittadinanza, valorizzandone la loro preziosissima funzione di ponte culturale ed economico tra la Cina e il mondo e l’Italia in particolare.

Gianni Scravaglieri


Testimonianza di Francesco Wu

Erano due etti di prosciutto spalla

Con il fratello gestisce un ristorante, ma Francesco Wu è anche presidente dell’«Unione imprenditori Italia-Cina» (Uniic). Si è fatto così conoscere che è finito sulla copertina di un noto settimanale italiano. Ecco cosa ci ha raccontato.

Francesco Wu

L’ingegner Francesco Wu, giovane presidente dell’Uniic, «Unione Imprenditori Italia Cina – Nuove Generazioni», è un personaggio in vista nell’ambiente delle relazioni imprenditoriali e culturali italo-cinesi. La fiducia che negli anni ha saputo raccogliere tra i suoi connazionali residenti nel Bel Paese e tra le stesse istituzioni italiane, lo porta oggi ad essere uno degli interlocutori più affidabili e dinamici nel processo di integrazione in corso, tra società italiana e giovani delle cosiddette «seconde generazioni» sino-italiane.

I fratelli Wu, Francesco e Silvio, gestiscono a Legnano, a pochi minuti a nord di Milano, il ristorante-pizzeria Al Borgo Antico. Dal menù alla carta tipicamente italiano, compresa la cantina dei vini, si sottolinea subito un fatto importante: uscire dagli stereotipi può essere il primo passo per abbattere gli steccati della diffidenza reciproca e arricchire così la nostra società di nuove energie e nuova umanità. Così appare ovvio che la ricchezza e la varietà di cibi della tradizione culinaria italiana e cinese sono dei tesori tutti da scoprire e da gustare. Tuttavia ognuno dovrebbe essere libero di esprimere i suoi talenti indipendentemente dalla sua origine etnica. Un napoletano potrebbe scegliere di cucinare riso alla cantonese e bere tè verde, così come un cinese ha deciso di cucinare pizza alle quattro stagioni e bere vino rosso.

Francesco Wu, oggi potremmo dire «come tutti noi», ha la sua pagina Facebook, sulla quale scrive e condivide con gli altri inteauti pensieri, ricordi, riflessioni, più o meno personali, ma anche occasioni pubbliche di incontro e momenti più istituzionali legati al suo ruolo di rappresentanza. L’8 ottobre del 2016 ha scritto un post, intitolato «meglio la spalla cotta che il prosciutto gran biscotto», che descrive un episodio della sua infanzia, ma che può essere preso ad esempio per cominciare a riflettere sul passato e il comune vissuto di moltissimi giovani sino-italiani delle «seconde generazioni».

Genitori e figli: fatica e impegno

Racconta Francesco Wu che quando era piccolo, durante i primi anni in Italia, i suoi lavoravano duramente ma i soldi che giravano in casa non erano molti. Per fortuna, diremmo oggi, si arrivava a fine mese, ma per farlo bisognava farsi quotidianamente i conti in tasca. Non di rado la madre lo mandava a fare la spesa, che comprendeva anche pane e prosciutto, per preparare la merenda per lui e il fratello. Siamo nella Milano del secolo scorso, zona Affori, dal macellaio che a quel tempo aveva l’attività in via Brusuglio. Qui il piccolo Francesco Wu acquistava 1-2 etti di spalla cotta, invece che del buon prosciutto di qualità, che faceva bella mostra di sé in vetrina. Troppo costoso a quel tempo per le sue tasche.

«Vedevamo tuttavia che il buon prosciutto cotto di qualità costava molto di più e non ci passava per la testa l’idea di comprae, anche perché non sarebbero bastati i soldi per comprare tutto il resto, e inoltre la mamma ci avrebbe rimproverato».

Subito seconda tappa al panificio di fronte per le tigelle modenesi. Un’ottima merenda davvero, i due fratelli ne mangiavano anche tre panini a testa. Ma come spesso accade ai bambini che nascono in famiglie popolari, non è tanto riempire la pancia il problema vero, ma soddisfare il desiderio di essere all’altezza degli altri bambini. Tutti noi sappiamo e ci ricordiamo di quanto possano essere duri i momenti di confronto, ma di quanto nello stesso tempo siano fondamentali per darci una spinta in più verso la crescita e il successo personali. Un po’ questo è accaduto a moltissimi della generazione di Francesco Wu; essere stranieri ed essere poveri, ma con la consapevolezza che la fatica e l’impegno quotidiani nel lavoro e nello studio avrebbero quasi certamente ribaltato la situazione di partenza: «…la fetta unica di prosciutto dentro i panini in gita scolastica quando i tuoi compagni avevano 2-3 fette di quello buono».

Tra le difficoltà della vita quotidiana e l’esempio dei loro genitori si è formato il carattere di molti imprenditori delle seconde generazioni sino-italiane. Negli anni è stato un imparare privo di parole, un sapere non trasmesso attraverso i discorsi, ma con l’amore dei gesti, delle abitudini, degli sguardi. I valori dei genitori sono passati ai figli in questo modo, sul senso della vita, sulla dignità del lavoro, sul valore del risparmio, sulla fatica del guadagnare.

«Senza che i genitori ci facessero tanti discorsi, anzi non li hanno mai fatti, noi imparavamo molto dalla vita e desideravamo un giorno poter comprare il prosciutto buono. Oggi sia il macellaio che il panificio hanno chiuso mentre noi abbiamo aperto nel tempo alcune attività».

Milano, via Paolo Sapri, Chinatown

Una cultura doppia è una spinta in più

Francesco Wu, come vede il rapporto tra università italiane e mondo del lavoro? Sono utili per i giovani o si potrebbe fare di più?

«Io ormai mi sono laureato da diversi anni, quindi non ho in questo momento il quadro completo della situazione. Per quello che posso vedere io, il collegamento tra università italiane e mondo del lavoro è ancora debole. Forse in miglioramento rispetto al passato; soprattutto facendo riferimento ad un’istituzione come il Politecnico di Milano, che sta facendo molto e che viene in questo seguito anche da altre realtà culturali. Ecco, da questo punto di vista c’è ancora da fare, ma siamo in costante miglioramento rispetto al passato».

Un cittadino della Repubblica popolare, che ottiene la cittadinanza italiana, perde automaticamente quella cinese. Quindi come sono visti i giovani di seconda generazione, che vivono in Italia, da parte dei cinesi in Cina?

«Allora, cominciamo col dire che sulla cittadinanza l’Italia ha ancora una legge molto arretrata. Ed è davvero un peccato che l’iter di approvazione della nuova legge si sia fermato al senato, a causa di quelle forze politiche che si contrappongono alla necessaria riforma sulla cittadinanza. Poi c’è un altro aspetto collegato alla riforma, cioè quello del diritto di voto alle amministrative. Ma tornando al punto, io penso che il governo cinese non veda di cattivo occhio chi decide di prendere la cittadinanza italiana. Anche perché è chiaro a tutti che la situazione concreta di vita delle famiglie porta ognuno a decidere il proprio futuro in base a esigenze personali e oggettive. Sicuramente il governo cinese vuole che sia chi ottiene la cittadinanza italiana sia chi non l’ha ancora ottenuta mantenga dei buoni rapporti con la Cina; senza sottostimare la propria cultura di origine, continuando a provare affetto sia per la Cina, ma anche per l’Italia. Questo è quello che desidera il governo cinese e infatti ufficialmente non mette nessun tipo di ostacolo al cambio di cittadinanza da parte dei cittadini cinesi».

Quelli della sua generazione hanno vissuto in modo diretto la vita in Cina e in Italia, di fatto avete direttamente assorbito in modo pieno entrambe le culture e siete l’ultima generazione storicamente con queste caratteristiche. Pensa che questo vi dia una marcia in più nell’essere idealmente un ponte che rafforza i legami tra i nostri due paesi?

«Io penso che chi ha ricevuto la doppia cultura, persone come me e come tanti altri ragazzi, che sono nati in Cina e cresciuti in Italia, in questo momento storico hanno una spinta in più. Perché semplicemente hanno molta più esperienza degli altri. Non è assolutamente una questione di maggiore intelligenza, ma è proprio una questione di esperienza. Magari anche esperienze difficili, sacrifici, che hanno dovuto affrontare fin da piccoli e che li hanno forgiati. Sono quindi d’accordo con lei che forse siamo l’ultima generazione ad aver vissuto questo. I giovanissimi di oggi, che sono cresciuti in Italia, in generale in un ambiente sociale più avanzato, di quello dove siamo cresciuti noi, hanno di fatto avuto meno difficoltà a viverci e da questo punto di vista, per assurdo, hanno avuto meno esperienze potenzialmente conflittuali, in grado di forgiarli; a differenza nostra, che ne abbiamo invece dovute affrontare di più. Per queste considerazioni io credo molto nell’importanza del ruolo che quelli della mia generazione ricoprono. Poi ovviamente quello che sto dicendo vale solo in generale. Ci sono infatti ragazzi giovanissimi, cresciuti in Italia, che sono molto molto in gamba, che nonostante tutte le difficoltà personali riescono a migliorarsi, e non rinunciano a fare dei viaggi in Cina e a fare esperienza diretta della cultura cinese, propria dei loro genitori».

In conclusione, dove vede i suoi figli da adulti: in Italia, in Cina o in America?

«Io sono sposato e ho due figli, che sono ancora piccoli. Il primo ha già iniziato ad andare a scuola, così cercherò di insegnargli l’importanza dello studio e l’importanza di seguire le proprie passioni e le proprie ambizioni. Dove lavoreranno da grandi non è assolutamente un problema per me. Potrebbero lavorare in Italia, in Cina, in Germania, negli Stati Uniti, in ogni caso dove vogliono e dove si sentono realizzati».

Gianni Scravaglieri

Prato. Celebrazioni in occasione del nuovo anno cinese. Nella foto i rappresentanti della comunità


Testimonianza di Zhang Li

Rispettare la società è rispettare i genitori

Insegna lingua cinese alla Cattolica di Milano. Lavora come interprete e consulente per vari tribunali. Zhang Li racconta la sua decennale esperienza italiana.

Zhang LI

La professoressa Zhang Li viene dalla città di Nanchino, vicino a Shanghai. È in Italia da circa dieci anni. Insegna lingua cinese all’università Cattolica di Milano. E lavora come interprete in generale e in particolare come consulente per i vari tribunali lombardi. «Ovviamente vengo chiamata quando ci sono cinesi coinvolti in problemi legali, a livelli più o meno gravi».

La mentalità confuciana

I cinesi quindi non sono tutti pacifici, onesti e dediti al lavoro. Possiamo dire così?

«Voglio prima dire una cosa. Secondo la cultura cinese non è bello parlare male dei propri compaesani, soprattutto con gli stranieri. Un fatto naturale, istintivo. Penso che anche per gli italiani è la stessa cosa. Comunque alla tua domanda devo rispondere di sì. Certo che non tutti i cinesi sono buoni, ci sono anche i cinesi cattivi. I cinesi non sono speciali, sono uguali a tutti gli altri popoli. Poi devo anche dire che l’educazione e le situazioni economiche condizionano il comportamento. I cinesi pensano che l’educazione rende le persone più buone e più forti per affrontare le difficoltà della vita, anche le difficoltà economiche».

Interessante. In che senso?

«Per la filosofia cinese, che viene principalmente da Confucio, ogni persona non è sola, come un individuo isolato, ma vive insieme alla società e ha i doveri che ci sono quando si vive in una comunità. Quello più importante è il rispetto per i genitori, perché sono loro che ci hanno dato la vita. Allora quando uno non rispetta le regole, le tradizioni, le usanze oppure ha problemi con la giustizia è come se avesse mancato di rispetto ai propri genitori, perché li ha fatti vergognare, ha dato la possibilità alla comunità di dire che loro non sono stati bravi genitori. Invece comportarsi bene significa dimostrare rispetto verso i genitori. Poi un’altra cosa che aiuta molto a non avere tanta delinquenza è il fatto che la società isola chi non rispetta le regole, quindi non è una scelta facile mettersi contro la società. Ovviamente anche in Cina non sempre questa mentalità confuciana funziona e così deve intervenire la polizia e il giudice. Ma in generale i cinesi pensano che quando interviene la polizia e i giudici significa che la società ha fallito, perché non è riuscita a fare una prevenzione morale sulle persone».

Casi di vita quotidiana

Garantendo la privacy e senza dare particolari riferimenti, potresti descriverci qualche caso di cui ti sei occupata?

«Sì, ma i casi che ho visto nel mio lavoro sono uguali ai casi che riguardano italiani o altri stranieri. Ad esempio un uomo cinese in Lombardia è stato condannato dal giudice per spaccio di droga e reati connessi a diversi anni di prigione. La storia in breve è così. Lui ha famiglia in Cina. A un certo punto decide di venire in Italia per cercare opportunità e aprire una attività commerciale. La moglie rimane in Cina e lavora in proprio come designer e arredamento di interni. Hanno dei figli e possiamo dire che sono brave persone. Però a un certo punto la moglie dice che vuole investire di più nel suo lavoro e fa pressione sul marito per guadagnare più soldi. Ma in Italia c’è la crisi e il lavoro è poco. Non è facile fare soldi. Allora a un certo punto lui arriva a pensare che vendere un po’ di droga è una buona idea. Ma le cose vanno male. Un giorno litiga per la droga con altre persone, arriva la polizia e lo arresta e poi il giudice fa il processo e lo condanna. Forse se l’uomo non viveva solo e aveva vicino dei parenti o degli amici potevano proteggerlo da queste idee sbagliate di fare soldi vendendo droga».

Hai un altro caso da raccontarci?

«Sempre in una città della Lombardia una madre cinese aveva un impegno e ha affidato il figlio piccolo di circa sette anni alla zia, mentre stava lavorando nel suo negozio di estetista. Il bambino era seduto sul divano a guardare i cartoni animati sul telefonino. A un certo punto la zia si allontana per discutere con un cliente e non guarda più il nipote. Dopo circa mezz’ora la zia torna e non vede più il nipote. Subito comincia a cercare il bambino e pensa che forse si è nascosto, ma dentro il negozio non c’è. Allora esce in strada e vede in mezzo alla strada nel traffico la macchina dei carabinieri con dentro il nipote. Va dai carabinieri e dice che il bambino è il nipote. I carabinieri cominciano a chiedere i documenti e a fare domande. Ma la zia non parla bene italiano e non capisce perché i carabinieri non le ridanno il nipote. In pratica i carabinieri giravano in macchina e a un certo punto hanno visto il bambino da solo. Allora si sono avvicinati, ma il bambino, che non parla italiano, si è spaventato ed è scappato, perché non era abituato a vedere i poliziotti. In Cina se vivi in campagna non ci sono i poliziotti per strada. Alla fine i carabinieri denunciano la zia al giudice dei minori, che dopo il processo la condanna per abbandono di minore».

Vedo dalla tua espressione che non sei molto d’accordo con la condanna. Ho visto giusto?

«Più o meno. Certamente è giusta la condanna perché il giudice ha visto cosa è successo, ha visto la legge e ha deciso. Ma se vogliamo capire di più la mentalità di quella donna cinese, dobbiamo dire che lei è abituata a vivere in campagna dove i bambini giocano fuori di casa e sono curati da tutti i vicini di casa. Anche in Italia nei paesi piccoli succede così. Abbiamo detto prima che le abitudini culturali sono importanti. Così la zia del bambino pensa di avere seguito una abitudine giusta e pensa che la condanna del giudice è sbagliata. Posso dire che la zia doveva capire che l’Italia non è la Cina e che la città non è la campagna. Quindi un lato positivo c’è se la zia del bambino ha imparato questa differenza».

Reggio Emilia. La zona intorno alla stazione ferroviaria, dove numerosa è la presenza della comunità cinese

Sulle tutele dei lavoratori

Ti è mai capitato un caso civile, magari una vertenza di lavoro?

«Mi ricordo un caso di lavoro, anche un po’ divertente. Un ragazzo sud americano lavorava in nero in un ristorante cinese. Un giorno litiga con il capo per lo stipendio basso. Voleva un aumento. Ma il capo dice di no. Allora il ragazzo va dai sindacati perché lavorava in nero e voleva i contributi. Il capo però ha detto di non conoscere il ragazzo e che non lavorava nel suo ristorante. Anche un testimone cinese ha detto che il ragazzo non lavorava nel ristorante. Però il ragazzo sud americano con il cellulare aveva fatto le foto e i video durante il lavoro. Adesso non so come è finita la causa, ma penso che il capo cinese è stato molto ingenuo. Forse perché in Cina ancora non c’è una grande tutela per i lavoratori. Ci sono anche in Cina delle buone leggi, ma poi spesso i capi fanno come vogliono. Però devo dire che anche il ragazzo ha sbagliato, perché non si può lavorare in nero. Lui doveva protestare subito non solo quando gli conviene, intendo moralmente non è giusto».

Per concludere, secondo la tua esperienza, cosa potrebbero fare le istituzioni per migliorare in generale i rapporti con i cinesi residenti in Italia?

«Allora, a parte qualche caso, non penso che le cose vanno male tra cinesi e italiani. Esiste nella lingua italiana una parola magica: comunicazione. Dobbiamo imparare prima a comunicare, perché senza comunicazione non nasce la fiducia e si rischia di andare su vie sbagliate. Così il governo, le regioni, i comuni devono informare i cinesi delle leggi e delle tradizioni italiane. Devono fare scuole di lingua italiana per i cinesi. Non è facile, ma è necessario. Adesso ci sono le seconde generazioni, i giovani cinesi che parlano bene l’italiano, hanno frequentato le scuole italiane e sono il nostro futuro. Però i cittadini italiani devono anche capire la cultura cinese. Questo è importante. Anche studiare la lingua cinese può essere utile. Come dicevamo prima, la persona cinese in generale ha paura di restare isolata dalla comunità. Così è importante che le istituzioni costruiscano una comunicazione con la comunità cinese, magari proprio con i giovani delle seconde generazioni».

Ma le sponde non si uniscono mai

L’ultima domanda. Come vedi la situazione dei bambini cinesi in Italia e come immagini il loro futuro?

«Di solito i bambini rimangono in Cina con i nonni, mentre i genitori sono in Italia per lavorare. Quando la situazione economica dei genitori migliora allora vengono portati in Italia anche i figli. Se i bambini sono ancora piccoli possono andare alle elementari con gli altri bambini italiani, perché imparano velocemente la lingua. Se invece arrivano qua già adolescenti allora è un problema grande perché devono ripartire da zero con la lingua, con le amicizie. Un’altra cosa. La maggior parte dei genitori cinesi in Italia non sono impiegati, ma fanno lavori manuali per molte ore al giorno, come dipendenti, ma anche come piccoli imprenditori. Con la crisi economica non hanno molti soldi e non possono mandare i figli alle attività di svago e culturali, molto utili per trovare amici e imparare la cultura italiana. Così dobbiamo creare delle opportunità culturali per questi bambini. Dobbiamo cominciare subito. Infatti per attraversare un fiume ci serve costruire una barca o un ponte non possiamo aspettare che le due sponde si uniscono da sole».

Gianni Scravaglieri

Curiosità / Gli ideogrammi

Vi rimandiamo al nostro «sfogliabile».


Infodossier:

Bibliografia italiana

  • Lidia Casti, Mario Portanova, Chi ha paura dei cinesi?, Bur 2008.
  • Raffaele Oriani, Riccardo Staglianò, I cinesi non muoiono mai, Chiarelettere 2008.
  • Donatella Ferrario, Fabrizio Pesoli, Milano multietnica, Meravigli edizioni, 2016. Il primo capitolo di questo bel lavoro è dedicato alla comunità cinese (27.363 persone).

Filmografia

  • Davide Demichelis, Cina: Malia Zheng, in «Radici», serie di documentari della Rai, giugno 2013 (www.radici.rai.it).
  • Francesca Bono, A Bitter Story, un documentario presentato al 34.mo «Torino Film Festival» (Tff), novembre 2016; storia di un gruppo di adolescenti cinesi che vivono nei piccoli comuni di Barge e Bagnolo, nelle valli occitane della provincia di Cuneo, dove la comunità cinese lavora quasi per intero nelle locali cave di pietra.

Sitografia

  • www.associna.com
    Il sito dell’omonima associazione, in italiano e in cinese.
  • www.cinaforum.net
    Il sito fondato da Alessandra Cappelletti, sinologa e collaboratrice di MC.

Assisi. Una ragazza di origine cinese ad un meeting delle scuole organizzato dalla Tavola della pace. (Roberto Brancolini)

Autori

Questo dossier è stato firmato da:

  • Giovanni Scravaglieri – È docente di lingua e civiltà cinese nelle scuole della Lombardia. Scrive per la rubrica «Visto da Pechino» sulla testata giornalistica on line «Cinaforum.net». È tra I fondatori dell’Associazione Shuren per la diffusione della lingua e della cultura cinese in Italia.
  • Roberto Brancolini – Fotografo indipendente, ha scoperto viaggiando la sua passione per la fotografia. Si occupa prevalentemente di reportage. Il suo lavoro può essere visionato sul sito: www.brancolini.com.
  • Paolo Moiola, giornalista redazione MC.

Foto delle copertine: Chen Chen, ragazza cinese a Modena per seguire un corso universitario; giovane di origine cinese ad Assisi per un meeting organizzato dalla Tavola della Pace. L’ideogramma riportato indica il termine «guanxi», scritto in grafia tradizionale (non semplificata).




Droghe e tossicodipendenza


Foto di: Chiara Grimoldi – Dossier a cura di: Paolo Moiola |


Sommario |

Un problema insolubile? |

Il crack, effimera euforia |

Donne e crack |

La drammatica caduta della speranza |

Pochi vincitori, milioni di vinti |

Glossario e bibliografia

In this picture taken on September 24, 2016, medics check the dead body of an alleged drug dealer gunned down by unidentified men in Manila. Philippine President Rodrigo Duterte defended his threat to kill criminals as "perfect" and vowed no let-up in his war on crime, as the death toll surged past 3,700. / AFP PHOTO / NOEL CELIS
Corpo di pusher ucciso nelle Filippine. / AFP PHOTO / NOEL CELIS


Un problema insolubile?

Droghe, fallimento globale

In Portogallo, dall’aprile del 2001, il consumo, il possesso e l’acquisizione di ogni tipo di droga per uso personale non rappresenta più un crimine (www.sicad.pt). La misura ha avuto successo. Lo dicono i numeri (riduzione dei morti per overdose, dei contagi da Hiv, ecc.) e i giudizi di organizzazioni inteazionali. Nelle Filippine, avviene esattamente il contrario: il presidente Rodrigo Duterte, eletto nel maggio 2016, ha dato l’ordine di uccidere spacciatori e consumatori di droga senza inutili arresti e processi. Una giustizia sommaria che, a metà settembre, aveva già fatto 3.426 vittime, 1.491 uccise dalla polizia e le restanti da civili. In Italia, nel 2015 si sono registrati 45.823 ingressi totali negli istituti carcerari, di questi 12.284, pari al 26,8 per cento (un detenuto su 4), in violazione dell’articolo 73 della legge antidroga (detenzione di sostanze illecite). «Come ogni anno e come ogni altro paese occidentale impegnato nella war on drugs – si legge nel 7° Libro bianco sulla legge sulle droghe del giugno 2016 -, la cannabis e i suoi derivati sono le sostanze più prese di mira dal sistema proibizionista. Quasi il 50% delle segnalazioni e delle operazioni antidroga hanno avuto come oggetto i cannabinoidi, nonostante questi siano le sostanze meno dannose per i consumatori, e il loro mercato sia quello in cui i consorzi criminali sono meno coinvolti».

Che la cosiddetta «guerra alla droga» sia fallita ormai lo dicono in molti e da tempo. La dichiarazione più clamorosa, risalente al giugno 2011, è stata quella della «Commissione globale per le politiche sulle droghe», organismo prestigioso anche se quasi sempre inascoltato. «Le immense risorse – si legge nel suo circostanziato rapporto – dirette alla criminalizzazione e alle misure repressive su produttori, trafficanti e consumatori di droghe illegali hanno chiaramente fallito nella riduzione dell’offerta e del consumo». Ancora più duro il comunicato della Commissione uscito ad aprile 2016, subito dopo la chiusura della sessione delle Nazioni Unite dedicata alle droghe (Ungass on drugs): «La Commissione è profondamente delusa […]. Il documento (della sessione speciale, ndr) sostiene un inaccettabile e datato status quo legale. […] Non chiede la fine della criminalizzazione e incarcerazione degli utilizzatori di droga».

Paolo Moiola

Questo dossier parte dal crack, un sottoprodotto della cocaina diffusosi a partire dal Brasile (su MC – l’elenco degli articoli è a pag. 49 – ne abbiamo già parlato). La dottoressa Luana Oddi, medico al Sert di Reggio Emilia, ci spiega perché questa droga ha preso piede anche da noi, perché è considerata molto pericolosa e come la sanità pubblica cerca di aiutare i suoi consumatori. Nel dossier, oltre alle foto, abbiamo usato alcuni grafici, tratti da rapporti inteazionali, con l’obiettivo di far meglio comprendere la problematica al pubblico più giovane, normalmente più esposto. A chiudere, un’intervista a un terapeuta, don Domenico Cravero, che a Torino segue varie comunità di recupero fondate soprattutto sul lavoro nell’agricoltura biologica, e un commento di Sandro Calvani, che ha seguito la problematica delle droghe nella veste di direttore di alcune agenzie delle Nazioni Unite. Pur nella diversità dell’analisi e delle possibili soluzioni, entrambi arrivano a un punto: al di là delle responsabilità e delle debolezze dei singoli consumatori, le droghe sono una manifestazione di società malate. (pa.mo.)

Drug bag


L’esperienza del Sert di Reggio Emilia

Il crack, effimera euforia

 

Spesso la diffusione di una droga è determinata dalla sua disponibilità in uno specifico territorio geografico, in relazione a fattori climatici, economici, politici e storici. L’uso di sostanze ha origini antiche: da sempre l’uomo ricorre a derivati di piante o animali con effetti psicotropi per fini trattamentali/sciamanici o spiritualistici/ritualistici. Oggi le vie di comunicazione, avvicinando i continenti e le culture, hanno reso le droghe sempre più disponibili e soprattutto le hanno «sradicate» ai loro abituali e tradizionali contesti di uso (Guede da Silva, 2012; Santorini, 2013). La scoperta, poi, delle sostanze psicotrope come mezzo di scambio commerciale e di proficuo guadagno, ne ha implementato la diffusione e il cosiddetto consumo edonistico (Guede da Silva, 2012).

Sud e Nord

Si possono così evidenziare differenti fenomeni e stili di consumo a seconda dell’area del mondo presa in considerazione. In particolare grandi sono le differenze tra i paesi del Sud del mondo (spesso produttori e detentori del consumo tradizionale e culturale di sostanze psicotrope) e i paesi occidentali, che si configurano, in genere, come i principali fruitori dei derivati delle droghe naturali (derivanti cioè da prodotti vegetali, minerali o animali) e che riconoscono nel loro consumo finalità spesso edonistiche o di automedicazione (lenire un’angoscia esistenziale, una depressione dell’umore, un dolore cronico non rispondente ai farmaci, ecc.).

Accade così che l’acquisizione di nuove modalità di consumo, separate da specifici contesti (setting) e finalità (ritualistiche, religiose, curative), favorisca il nascere e la propagazione dell’uso tossicomanico delle droghe.

Nel mondo le più diffuse sono l’eroina, la cocaina e la cannabis (grafici alla pagina 42, ndr). Tra queste, come evidenziato da uno studio di David J. Nutt del 2010 (in The Lancet), la cocaina, dopo l’eroina, è la sostanza più dannosa, in termini di danni sociali, sanitari e individuali. In particolare le conseguenze più spiccate sono associate al consumo della cocaina per via endovenosa e al crack. La comparsa del crack è fatta risalire già agli anni ‘70 in Brasile, paese simbolo di questa sostanza, sollievo e dannazione allo stesso tempo soprattutto per le esistenze disperate delle favelas. È da qui che il crack ha iniziato a diffondersi. Negli anni ‘80 ci fu la sua diffusione epidemica nelle strade degli Usa.

Dalla cocaina al crack

Che cosa sono la cocaina e il crack? Il crack è un derivato della prima, sostanza di antichissima storia e classificata, in relazione ai suoi effetti, tra gli psicostimolanti, definiti come la classe di sostanze che eccitano il sistema nervoso centrale, aumentano l’attenzione e riducono l’affaticamento. La cocaina è estratta dalle foglie della coca, pianta appartenente alla famiglia delle Erythroxylaceae ed originaria delle regioni tropicali centro e Nord occidentali dell’America del Sud (il 60% è prodotta in Perù, il 20% in Bolivia, il 15% in Colombia). Più notoriamente l’uso voluttuario della cocaina (idrocloridrato) consiste nell’assunzione in forma di polvere cristallina chiamata con una serie di espressioni gergali diverse: «coca», «neve», «Charlie».

La cocaina idrocloridrato viene consumata tramite aspirazione con le narici o, meno frequentemente, iniettata in vena dopo essere stata disciolta in acqua (Emcdda, 2001).

L’espressione gergale «crack» designa la cocaina trattata per essere fumata o, più precisamente, per inalae i vapori che danno effetti immediati e intensi. Per poter inalare la cocaina è necessario trasformare il prodotto in polvere nella forma di base, che ha infatti, un punto di fusione più basso di quello della prima, rendendola più idonea ad essere scaldata e trasformata in vapore. Il crack ha l’aspetto di cristalli, e ha ormai sostituito quasi completamente la cosiddetta freebase (vedi Glossario sul sito), rispetto alla quale si ottiene con un processo più semplice: il cloridrato di cocaina diluito in acqua, viene mescolato con bicarbonato di sodio e scaldato. Da tale reazione si ottengono piccoli agglomerati solidi detti «rocks» (rocce, sassi, pietre). Questi cristalli sono bruciati, per essere inalati, in una pipa d’acqua e quando esposti al calore provocano un singolare rumore (scricchiolante), da cui – probabilmente – il caratteristico nome di crack.

I vapori del crack

Una dose di crack contiene mediamente 100-200 mg di cocaina. Il crack è di aspetto simile a pietre, a pezzetti di stucco o scaglie di sapone (foto a pagina 37). Sul mercato si può trovare preconfezionato in piccoli sacchetti o contenitori di plastica, pronto per essere utilizzato.

Per fumare il crack, si ricorre generalmente a pipe speciali, il cui fornello è coperto da una maglia metallica (o stagnola traforata). Su tale fornello è posta la sostanza che, scaldata con la fiamma, produce il vapore da aspirare. Un altro strumento molto diffuso e di ampio utilizzo a causa della sua economicità è la bottiglia di plastica.

L’assunzione del crack avviene tramite l’aspirazione dei vapori (e non dei prodotti della combustione come avviene, ad esempio, con le sigarette). Ciò è importante, in quanto i vapori sono assorbiti molto più velocemente del fumo. Questo attribuisce al crack proprietà farmacocinetiche molto simili a quelle della cocaina assunta per via endovenosa: come questa, infatti, permette la rapida entrata in circolo e quindi nel sistema nervoso centrale della sostanza, foendo euforia in modo quasi istantaneo. Il fumatore di crack inala profondamente i vapori trattenendoli nei polmoni per il tempo più lungo possibile, in modo da aumentae al massimo l’assorbimento.

Gli effetti sull’esistenza: vivere per il crack

La via inalatoria, così come quella endovenosa, garantisce la maggiore rapidità d’effetto grazie alla vastità del letto venoso polmonare che permette un subitaneo assorbimento. Questa è sicuramente la caratteristica farmacocinetica più rilevante dal punto di vista clinico: le concentrazioni ematiche e cerebrali si elevano rapidamente, fornendo un intenso stato di benessere e una intensa euforia (rush). A tale rapida insorgenza degli effetti corrisponde una durata altrettanto breve degli stessi (dai due ai cinque minuti). Passato l’effetto, l’umore si abbassa e l’abusatore abituale di crack si ritrova in uno stato di profondo malessere (crash, crollo) la cui intensità è proporzionale all’intensità dell’euforia. Gli effetti del crack sono così intensi che il consumatore si concentra esclusivamente nella ricerca e al consumo della sostanza. Dopo essere stato invaso dagli effetti di potente euforia, il crackomane sviluppa un’incontrollabile compulsione e un irrefrenabile desiderio di ripetere il consumo della sostanza. È tale desiderio invasivo e urgente, in inglese craving, il sintomo nucleare della dipendenza patologica. Esso può portare il crackomane alla perdita di interesse per quelli che fino ad allora erano stati elementi prioritari della sua vita, financo quei bisogni primari connessi con la sopravvivenza, quali dormire, mangiare, ecc. (Galera, 2013): ecco allora che inizia il processo di declino e perdita di affetti, lavoro, relazioni, salute. La necessità di procurarsi la sostanza spinge la persona a furti, spaccio, prostituzione e ciò particolarmente vero per il crack, essendo il consumo di tale sostanza frequentemente associato ai contesti più marginali e poveri. La compulsività dell’uso associata alla caduta delle inibizioni e alla riduzione della percezione dei rischi, tipici effetti delle sostanze ad azione psicostimolante, espone, inoltre, a rischi sanitari rilevanti, ad iniziare da quello infettivologico, con scambio di materiale di consumo e con la pratica di relazioni sessuali promiscue e senza ricorso al condom, aumentando la probabilità di trasmissione di malattie sessuali (e nel caso delle donne, di rimanere incinte) (Gessa, 2008).

Il consumatore di crack – più frequentemente ed in quantità mediamente superiori di 10 volte rispetto a quello di cocaina per via intranasale – può assumere la sostanza in modalità binge (letteralmente abbuffata), cioè continuativamente, ininterrottamente per ore o giorni e fino ad esaurimento delle scorte (run, ad indicare per l’appunto, una maratona di assunzione) (Gessa, 2008).

Vivere gli effetti euforizzanti e psicotropi del crack può significare, quindi, l’inizio di una spirale in cui il consumatore quotidianamente vede come sua unica priorità il crack e i mezzi per procurarselo, a dispetto delle conseguenze dannose a esso associate (Guede da Silva, 2012).

Lo sviluppo della dipendenza

I consumatori di crack possono diventare rapidamente dipendenti. In particolare, rispetto ai cocainomani per via intranasale, gli assuntori di crack hanno un più alto rischio (circa il doppio) di sviluppare dipendenza perché usano la sostanza con più frequenza, in più larghe quantità e sono più sensibili agli effetti della sostanza (Rosselli, 2011). La modalità inalatoria causa un rush quasi istantaneo, la «botta« (high) del crack, ma anche un «calo» (crash) più intensi rispetto a quelli sperimentati con la cocaina per via nasale. Cosa succede dopo aver consumato crack? Tale fase – di durata variabile tra i 15 e i 30 minuti – è caratterizzata da euforia, accresciuta performance cognitiva e motoria, ipervigilanza, labilità affettiva. L’intensa euforia è descritta come un’irrefrenabile eccitazione sessuale (full body orgasm). Si percepisce un aumentato senso di onnipotenza e sicurezza e una ridotta percezione della fatica (oltre che dei propri limiti).

Con il mantenimento dell’uso gli effetti positivi e piacevoli diminuiscono per dare spazio a sintomi indesiderati, di tipo prevalentemente psichico: accentuazione dell’ansia, dell’irritabilità e della paranoia, fino a sviluppare un vero e proprio quadro psicotico caratterizzato da anedonia (incapacità di provare piacere), allucinazioni, idee di persecuzione, delirio.

La crisi d’astinenza e le sue fasi

L’interruzione del consumo di crack nei soggetti da esso dipendenti si accompagna all’insorgenza di un quadro di malessere dovuto proprio alla mancanza della sostanza: è la crisi di astinenza. Questa può comparire, in alcuni casi, anche dopo un breve periodo di consumo, specie quando esso sia stato caratterizzato da forte compulsività o qualora siano presenti fragilità psicologiche e sociali, fattori predisponenti allo sviluppo di un disturbo da uso. Quando il consumo diventa continuativo o la persona sviluppa una vera e propria astinenza, si va incontro a un quadro che possiamo suddividere in tre fasi.

  • Fase I – Crash: si verifica quando le scorte di dopamina si esauriscono e compare il senso di fatica. È questa la fase iniziale dell’astinenza da cocaina: drastico abbassamento del tono dell’umore (depressione) e della energia fisica, che compare già 15-30 minuti dopo la cessazione dell’uso e che persiste per almeno 8 ore e può durare fino a 4 giorni. In questa fase il consumatore sperimenta depressione, che diventa presto disforia (alterazione dell’umore in senso depressivo), ansia, paranoia, malinconia, apatia, difficoltà di attenzione e di concentrazione, anoressia, insonnia e craving. Quindi nelle 8-24 ore successive, il soggetto presenta ipersonnia e astenia fisica. Seguiranno alcune settimane di profonda anedonia e – da una a dieci – di craving feroce.
  • Fase II – Sindrome disforica tardiva: inizia 12-96 ore dopo l’uso della sostanza e può durare dalle 2 alle 12 settimane. I primi 4 giorni il consumatore presenta sonnolenza, craving, anedonia, irritabilità, problemi di memoria e idee di morte. In tale fase alto è il rischio di suicidio e di ricaduta, vista come un mezzo per interrompere il quadro di malessere psico-fisico.
  • Fase III – Estinzione: i sintomi disforici e di malessere della precedente fase iniziano a diminuire o si risolvono completamente e il craving diventa ridotto in intensità e frequenza di presentazione.

La velocità di progressione tra i diversi stadi, dipenderà dalla frequenza, intensità, tempo di assunzione, ma anche dallo stato psicologico, fisico e socio-sanitario della persona.

L’intervento medico

Dal punto di vista medico tra i principali sintomi da monitorare e trattare vi sono quelli psichici, che possono caratterizzare tanto la fase di intossicazione acuta che quella di astinenza e che spesso sono anche il motivo primario di ricorso alle cure mediche e farmacologiche. L’attenzione medica al riconoscimento e al trattamento di tali quadri deve essere prioritaria in quanto essi peggiorano la prognosi, pongono a rischio non solo di ricaduta, ma anche di autolesione (fino al suicidio), aumentano il rischio di abbandono delle cure (Roselli Marques, 2011).

L’alta percentuale di disturbi psichici a volte è l’esito finale della continuativa azione della cocaina sui circuiti neuronali (depressione, psicosi, discontrollo degli impulsi e della rabbia), altre volte è preesistente al consumo di crack, che appare pertanto sintomo di un disturbo di personalità o del tentativo di autocura della persona.

Sebbene una quota di nostri consumatori di crack siano accomunati da un passato di consumo iniettivo di altre droghe, frequentemente il crack si inserisce all’interno di una gamma di policonsumo (alcol, cannabis, benzodiazepine). Ad esempio, al fine di ridurre l’angoscioso stato emotivo tipico del crash o per attenuare l’ansia e la paranoia conseguente al ripetuto consumo, i consumatori cronici di crack sono soliti ricorrere all’uso di sostanze ad azione sedativa quali alcol, benzodiazepine (nel territorio reggiano è diffusissimo il Rivotril) o ancora l’eroina.

È bene specificare che l’uso di alcol combinato con la cocaina sniffata ha un significato farmacologico e clinico diverso dall’associazione con il crack. Nel primo caso, infatti, l’alcol serve principalmente a rinforzare gli effetti positivi della cocaina (prolungando ed attenuando l’intensità dell’azione euforizzante, impedendo che questa viri verso sentimenti di ansia ed eccessiva agitazione psico-fisica) ed è assunta prima o in contemporanea alla cocaina. Nel secondo caso, invece, ha soprattutto la finalità di auto-trattamento e prevenzione della disforia e dell’agitazione e degli altri effetti indesiderati del crack, oltre a ridurre la secchezza della bocca (Dias, 2011).

Da non dimenticare poi, l’impatto sulla salute fisica, con aumentato rischio di contrarre malattie infettive specie sessualmente trasmissibili o conseguente a scambio di paraphealia (oggetti connessi all’uso di droghe, ndr) (Cruz, 2013). La compulsività e la frequenza d’abuso sono fattori in grado di influire su tale rischio: i consumatori giornalieri hanno un rischio di contrarre l’Hiv superiore di 4 volte rispetto ai consumatori non abituali (De Beck, 2011).

Il condizionamento dell’ambiente

La velocità con cui si instaurano il declino socio-sanitario, oltre alle complicanze cliniche correlate, nel caso del crack è particolarmente spiccata. Ciò è in parte da relazionarsi alle caratteristiche farmacologiche della sostanza, ma in parte anche alla estrema fragilità sociale dei contesti in cui il crack è maggiormente diffuso. Il crack è stato largamente commercializzato in quartieri poveri di risorse e caratterizzati da disordine sociale e le cui popolazioni, spesso appartenenti a minoranze razziali ed etniche, godevano di scarse possibilità economiche o di miglioramento del loro stato. La popolazione consumatrice di crack in Brasile è concentrata principalmente nella popolazione urbana, giovane e marginalizzata: è la droga delle favelas.

Ma anche in altre aree geografiche i crackomani vivono condizioni di precarietà economica, socio-lavorativa e abitativa (sono spesso senza fissa dimora), sovente coinvolti in atti di criminalità. Hanno una esistenza molto disagiata, ma soprattutto di grave solitudine primariamente dal punto di vista relazionale, provenendo frequentemente i consumatori da famiglie assenti o pluri-problematiche, tra i principali fattori di rischio associati alle condotte di consumo.

Più di ogni altra malattia, la dipendenza è la prova che la nostra salute e quindi il nostro malessere sono fortemente influenzati dall’ambiente in cui si vive. L’individuo e l’entità psico-mente di cui è costituto sono influenzati continuamente dall’interazione con l’ambiente esterno, sia nella sua componente comportamentale, che psicologica e organica (ricordiamo l’epigenetica e la neuro-psico-endocrino immunologia).

Gli studi generalmente concludono che un contesto di vita svantaggioso, l’esclusione sociale, la carenza di risorse economiche e lavorative, aumentano il rischio di sviluppare i disturbi di uso. Basti pensare alla crisi economica, considerata da tutti i più importanti studi epidemiologici, un fattore di aggravamento dei consumi di sostanze.

Nella specificità di Reggio Emilia tale sostanza ha incontrato un altro tipo di fragilità: la popolazione migrante che vive in stato di irregolarità. La mancanza di una dimora, di un lavoro, di una rete sociale, la lontananza dai legami familiari, il fallimento di un progetto migratorio su cui era fondata la speranza di riscatto personale ma anche di tutta la famiglia, porta la persona a rifugiarsi in un oblio chimico che annulla temporaneamente le preoccupazioni, i pensieri, la sofferenza e che rende meno duro vivere in strada o all’interno di case abbandonate.

Cocainomani e crackomani

Da quanto detto si comprende che essenziale è la distinzione tra cocainomane e crackomane. Tra queste due tipologie di consumatori – colui che aspira per via nasale la cocaina a scopo per lo più ricreativo e colui che inala crack – esistono confini molto rigidi. Citando la relazione dell’Osservatorio europeo: «Chi consuma cocaina ad uso ricreativo è altra cosa rispetto ai gruppi emarginati come i giovani senza fissa dimora, chi è dedito alla prostituzione e i consumatori problematici di eroina che fumano cocaina “base/crack”, oppure si iniettano cocaina mescolata con eroina, in aree a macchia di leopardo all’interno di determinate città» (Emcdda, 2001).

Quello che si sta osservando, però, negli ultimi anni e anche nella nostra città è la crescente sfumatura del confine tra cocaina e crack sia per la diffusione di tale tipologia di sostanza tra i «consumatori della notte», sia per le «tendenze» del mercato delle droghe, che evidentemente offre di più questo tipo di sostanza. Sempre l’Osservatorio europeo inoltre, segnala in vari paesi dell’Unione, compresa l’Italia, la pratica di mescolare la cocaina «base/crack» con il tabacco in un mix da fumare. In più, la presenza sul mercato di crack già pronto rende questo prodotto più appetibile.

Strategie di riduzione del danno

Crescenti sono le evidenze orientate a supportare o incoraggiare l’introduzione di programmi di riduzione del danno che prevedano la distribuzione di materiali sterili e sicuri necessari per fumare (Ti, 2012) o almeno una serie di precauzioni da adottare in caso in cui lo scambio della pipa diventi inevitabile (ad esempio usare dei boccagli). Ciò al fine di ridurre il rischio di diffusione delle malattie infettive così come di lesioni locali della bocca legate allo scambio e al riuso della pipa (bruciature, tagli, ulcere) (Duff, 2013).

Molti paesi hanno avviato l’apertura di Supervised Smoking Facility (sulla falsariga delle cosiddette «stanze del buco»), luoghi in cui poter inalare il crack, permettendo un aumento dell’accesso a pipe pulite, una riduzione dello scambio e foendo un ambiente più sicuro dove consumare, alternativo alle cosiddette «crack houses» (locali improvvisati senza la minima tutela sanitaria). Inoltre, strutture di questo tipo portano beneficio anche alla comunità circostante in termini di riduzione delle scene aperte di consumo (Duff, 2013).

Oltre ad approfondire gli studi tesi a individuare interventi di riduzione del danno più orientati all’uso di crack, si stanno raccogliendo esperienze di autocontrollo del consumo, cioè modalità di uso del crack che si accompagnino a strategie o attività in grado di alleviare il craving a esso associato (Krawczyk, 2015; Zuffa, 2010).

I servizi che offrono la vasta gamma di interventi, in cui le strategie della riduzione del danno si integrino con quelle terapeutiche di tipo farmacologico e psicologico, ciascuna rispondente a fasi motivazionali diverse della persona, sono quelli con il migliore esito (outcome) (Krawczyk, 2015).

Consumatori e servizi di cura: le barriere

Per la cocaina non esiste un farmaco efficace  come, ad esempio, per l’eroina (buprenorfina e metadone) o l’alcol (baclofene, disulfiram-antabuse, alcover-Ghb e naltrexone). E forse anche per l’impossibilità a rispondere con una pillola su misura a tale disturbo, i dati relativi agli accessi ai servizi sanitari segnalano che solo una piccola parte dei consumatori necessitanti di cura o interventi sociosanitari arrivano a fae domanda (Ti, 2011).

Ciò è legato però anche all’esistenza di barriere e fattori che ostacolano l’arrivo ai servizi: tempi, liste di attesa, stigma, servizi strutturati sulle esigenze del personale e non su quelle del consumatore. Ad iniziare, ad esempio, dal limitato orario di apertura dei Sert: il crackomane consuma di notte per tutta la notte, «crolla» al mattino, quando gli ambulatori aprono e si risveglia solo in tarda mattinata, quando gli ambulatori chiudono. A ciò si aggiungono caratteristiche del consumatore che possono ritardare l’arrivo ai servizi di cura: scarsa motivazione al cambiamento, non consapevolezza della problematicità del disturbo di uso, autostigmatizzazione e motivi culturali che non «permettono» di considerare il carattere socio-sanitario delle dipendenze e degli abusi da sostanze. La difficoltà di accesso appare ancora più grande per alcune categorie, ad esempio le donne, tra le più interessate dal problema del crack: per loro è la paura dello stigma o delle ripercussioni sulla custodia dei propri figli a fare la differenza.

Per un nuovo approccio

Servizi a bassa soglia riducono le difficoltà di accesso favorendo l’emersione del sommerso, specie della frangia più marginalizzata dei consumatori. La caratteristica di questi servizi è un approccio non giudicante e attento alle ragioni e alle fragilità sociali. Ciò li rende più appetibili, in quanto in grado di rispondere ai bisogni primari e come tali più sentiti dall’utenza confermando la teoria della piramide di Maslow (pasti, servizi igienici e docce, bagagliaio, un letto dove riposare, lavatrice). Dall’accoglimento e soddisfazione di tali bisogni e dal legame cosiddetto «lento» instaurato con le persone può nascere una relazione terapeutica di fiducia attraverso cui la persona può essere orientata ai servizi di cura sanitari oltreché ad un processo motivazionale di cambiamento delle proprie condotte di consumo.

Luana Oddi

TO GO WITH AFP STORY BY ANELLA RETA A pregnant drug addicts walks along a street at "Crackolandia," a place where drug users addicted to crack cocaine have been gathering for the past seven years to smoke their freebase in downtown Sao Paulo, Brazil, on December 9, 2009. In rags and bare feet, they walk through Sao Paulo's dilapidated city center like ghosts. Some beg for change that goes straight to purchasing the drug that has wasted away their bodies as surely as it has their personalities, their futures and their sense of self-worth. AFP PHOTO/Mauricio LIMA / AFP PHOTO / MAURICIO LIMA
Donna incinta per la strade di “Crackolandia,” a Sao Paulo, Brasile. AFP PHOTO/Mauricio LIMA / AFP PHOTO / MAURICIO LIMA


Donne e crack

I problemi più seri sono per le donne incinte e i loro figli.

La dipendenza da cocaina denota una particolarità di genere, risultando il rapporto femmine/maschi, in termini di frequenza di consumo, più alto rispetto a quanto osservabile con altre tipologie di droghe (con prevalenza tendenzialmente maggiore nel genere maschile). Con il crack, ciò è ancor più vero, arrivando a riscontrare in specifici contesti caratterizzati da disagio sociale grave, addirittura una maggiore prevalenza del consumo di crack tra le donne che non tra gli uomini (Pope, 2011). E questo, nonostante la maggior parte delle donne dichiari di aver iniziato a usare crack insieme o indotta dal proprio partner, anch’egli consumatore.

Le donne consumatrici di cocaina e crack tendono, a parità di entità di consumo, a sviluppare più rapidamente dell’uomo dipendenza patologica e conseguenze sanitarie correlate (Pope, 2011). Le donne tendono a soffrire maggiormente di disturbi psichici e in particolare di depressione che è uno dei fattori associati all’induzione e alle recidive dei disturbi di uso, e che – nello specifico del crack -, trova una forma di autocura nelle proprietà psicostimolanti di questo. Gli stati umorali negativi aumentano il craving e il rinforzo positivo dell’azione euforizzante della cocaina e una più grave sindrome d’astinenza. Tutto ciò comporta che a dispetto di una più alta motivazione ad aderire ai trattamenti, le donne consumatrici di crack abbiano esiti dei trattamenti peggiori (Johnson, 2011).

Le donne adottano più frequentemente modalità tipo binge di consumo e ricorrono più frequentemente a comportamenti sessuali a rischio (sesso non protetto con aumentata trasmissione di malattie veneree e infettive, promiscuità sessuale) o alla prostituzione in cambio di soldi o droga (gli uomini sono invece più di frequente coinvolti in attività criminali o di spaccio) (Sherman, 2011; Bertoni, 2014).

Le donne sono più spesso vittime di violenza agita nei contesti più marginali di consumo di crack e più frequentemente subiscono violenza sessuale e fisica da parte dei loro partner. In tale situazione il crack è visto come mezzo per dimenticare, non sentire, lenire il dolore dei traumi fisici ed emotivi subiti. Insomma, un mezzo per sopravvivere (Krawczyk, 2015).

Di particolare importanza tra le conseguenze dell’uso di crack sono gli effetti nella donna in gravidanza, fase in cui il metabolismo della cocaina è ridotto, il che implica una maggiore tossicità sia sulla madre che sul concepito. Oltre all’aumentato rischio di aborto e nascita prematura, il crack può essere responsabile di una serie di alterazioni fisiche e comportamentali che hanno permesso di riconoscere questi bambini esposti al crack come «crack babies».

I neonati nati da donne che abbiano consumato ripetutamente la sostanza possono manifestare una sindrome di astinenza la cui frequenza e il cui grado di intensità sono influenzati dal riscontro o meno di positività urinaria del neonato (il che dipende dall’interruzione o meno dell’uso di sostanza, in prossimità del parto, da parte della madre). Essa è caratterizzata da irritabilità, sudorazione profusa, ipertonia e disturbi del sonno, tremori, pianto continuo e inconsolabile, suzione eccessivamente energica, ma non più efficace, instabilità del sistema nervoso autonomo (tachicardia, sudorazione, ipertermia), peso e altezza più bassi alla nascita, ridotta circonferenza cranica. Con la crescita si possono strutturare difficoltà comportamentali e neurologiche (anomalo tono muscolare, disturbi della postura), disturbi dell’apprendimento e deterioramento cognitivo (QI più basso, disturbi del linguaggio, disturbi dell’attenzione), che tendono a comparire con frequenza più alta rispetto ai loro coetanei non esposti a cocaina.

Nei bambini delle madri consumatrici di crack, a causa del più alto rischio di contrarre infezioni, si è riscontrata una associazione più alta con infezioni da Hiv ed epatite C che possono trasmettersi per via transplacentare più frequentemente e più facilmente anche perché il crack inficia il regolare sviluppo ed attività del sistema immunitario del neonato.

Gli effetti dannosi del crack, così come accade per ogni altra sostanza che sia assunta in gravidanza, sono amplificati, indotti e/o associati alle conseguenze sul benessere psico-fisico dell’unità madre-bambino, dei fattori socio-economici e psicologici vissuti dalla madre, che agiscono la loro azione aldilà o insieme al consumo della cocaina.

Luana Oddi

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Torino / La?testimonianza

La?drammatica?caduta della?speranza

Domenico Cravero è un parroco della provincia torinese (prima a Settimo, poi a Poirino). È soprattutto un sacerdote che, oramai da una vita, lavora come psicoterapeuta a fianco delle persone con problemi di droga. «Ho iniziato – racconta – a interessarmi concretamente dei ragazzi consumatori di sostanze stupefacenti nel novembre del 1975. Abitavo a Venaria e nell’oratorio della parrocchia m’imbattei con quella realtà. In città c’era già una piccola comunità di accoglienza. La mia prima messa – era il 1977 – la celebrai tra loro. Da allora non ho mai smesso di occuparmi di questa emergenza. Che continua oggi in forme molto diverse e più nascoste».

Nel 1984 padre Cravero fonda una comunità e un’associazione di volontariato (Associazione solidarietà giovanile, Asg) e poi a una cooperativa sociale (Terra Mia). Attualmente coordina il progetto terapeutico ed educativo in otto comunità, curando in particolare la formazione degli operatori. Ogni comunità si specializza su un particolare servizio terapeutico o educativo nell’area minori, adulti e mamma bambino. Viene trattata non solo la condizione della tossicomania, ma anche il disagio mentale nella molteplicità delle sue forme. Una casa è adibita per l’accoglienza e l’accompagnamento al lavoro di profughi. È attivo anche un dormitorio per persone senza fissa dimora alla stazione ferroviaria di Torino Porta Nuova. Oltre alle comunità ci sono anche due case-famiglia per l’accoglienza di minori (a Scalenghe e a Carmagnola).

Le comunità – distribuite nel territorio torinese (Torino, Moncalieri, Marentino, Grugliasco, Carmagnola) e a S. Benedetto Belbo (Cuneo) – si sostengono attraverso l’agricoltura biologica. I prodotti agricoli sono venduti in un negozio della cooperativa, La bottega dei Mestieri, a Torino  (via Foà 59) e nei mercati rionali. Sono attivi anche laboratori di trasformazione di alimenti e un servizio di vendita e distribuzione di panieri alimentari.

Padre Cravero, come descriverebbe l’universo delle droghe nel 2016?

«Oggi le droghe non fanno più paura, a livello sociale, e non sono considerate un’emergenza. Effettivamente è cambiato molto: ci sono farmaci sostitutivi e molta più tolleranza.

Il problema però rimane. Sono numerosi gli assuntori, anche se ormai non si considerano più droghe quelle chiamate leggere. Questo è un inganno. Il pericolo delle droghe, infatti, non sono tanto i danni arrecati alla salute. Non si tratta quindi di un’emergenza sanitaria. Anche per la cura dell’Hiv ci sono per fortuna farmaci efficaci. Il problema delle droghe è etico. Le droghe leggere o pesanti limitano fino ad azzerare la creatività e il protagonismo delle nuove generazioni. Sono una risposta passiva (in gergo il consumo si dice “farsi”) e alienante in un arco dell’età evolutiva dove massimo può essere l’apporto dell’innovazione e della creatività in tutti gli ambiti. Il danno più grave delle droghe consiste quindi nel bloccare il rinnovamento della società che avviene, da sempre, attraverso il contributo delle giovani generazioni che sono il presente e il futuro della collettività».

Come lei ha ricordato, pare che un tempo si parlasse molto di più di tossicodipendenza. Sono diminuiti coloro che fanno uso di droghe o è cambiata la società?

«Non sono diminuiti gli assuntori. Sono se mai cresciute le condizioni di sicurezza verso i danni immediati alla salute e questo è un gran bene. Quella che è cambiata di più è la società che sta vivendo da un po’ di anni una drammatica caduta della speranza. Si crede sempre meno nel progetto di cambiarla. Anziché modificare le ingiustizie e le condizioni che ci rendono inumani si preferisce modificare il modo con cui ci percepiamo. Siamo al più grave stadio del narcisismo: la modificazione artificiale dello stato mentale al posto del sano piacere di trasformare il mondo».

In base alla sua esperienza, quali sono le droghe più pericolose? In questi anni c’è stata una loro moltiplicazione?

«Le droghe sono tanto più nocive quanto più bloccano la creatività e rendono passivi e abulici i giovani. Il danno quindi è soggettivo e non misurabile chimicamente, essendo il vero problema un impoverimento umano (quindi etico) e non solo un rischio sanitario. C’è stata, a mio modo di vedere, una moltiplicazione e, insieme, una buona capacità di “gestirne” il rischio per la salute. Apparentemente quindi va tutto bene: si muore molto meno per overdose».

La domanda di droga è trasversale alle classi sociali. C’è un substrato psicologico comune, secondo lei?

«Nelle tossicomanie c’è sempre un problema di salute mentale o di pesanti condizionamenti psicologici. I tossicomani dovrebbero quindi sempre essere curati e mai abbandonati. Con i tagli sanitari e la perdita della speranza oggi invece è forte la tentazione dell’abbandono. Le tossicomanie riguardano però, fortunatamente, solo una parte assolutamente minoritaria della popolazione. Il grosso del consumo riguarda l’abuso e la tossicodipendenza. Qui i numeri sono alti, anche tra gli adolescenti. Qui si colloca il vero danno umano e sociale».

I piccoli spacciatori sono reclutati soprattutto tra gli immigrati. Come si può affrontare questo problema?

«Certamente non solo tra gli immigrati. Secondo la mia osservazione molti dei consumatori (italiani) sono a loro volta piccoli spacciatori… Nella mia cooperativa stiamo facendo un’esperienza davvero entusiasmante nell’accoglienza degli immigrati e dei profughi giovani (e anche minori). Questi ragazzi hanno tantissimo da insegnarci e da darci. Siamo riusciti a recuperare molte terre abbandonate (in pianura e in collina) e a costruire un’unità produttiva agricola che con i soli italiani mai avremmo potuto fare. È un esempio molto concreto che l’abuso si batte con la creatività e il lavoro. Non basta certo l’informazione e neppure la terapia. Ci vuole il protagonismo attraverso il lavoro».

Ci parli del percorso di recupero dei tossicodipendenti ospitati nella sua Comunità.

«Da due anni sto sviluppando un sistema di cura attraverso l’agricoltura sociale. Ho chiamato questo percorso terapeutico “agricura”».

I «costi» della tossicodipendenza vengono pagati non soltanto dai consumatori, ma anche dalle loro famiglie e dallo Stato (in termini di spesa sanitaria, di sicurezza, eccetera). Che fare?

«Tocca alle istituzioni e alle famiglie organizzate (per esempio attraverso le “scuole dei genitori” un’attività di educazione degli adulti nelle scuole pubbliche) invertire esattamente il processo. I giovani devono accorgersi che gli adulti li stanno aspettando e credono nelle loro possibilità. Il problema drammatico di oggi è l’inazione dei giovani, la perdita del loro contributo. Le droghe sono solo una falsa soluzione, umiliante perché illusoria. I giovani hanno diritto di trovare ben altro nelle piazze, nelle strade, nelle discoteche… delle loro città».

Il mercato della droga costituisce un business globale ad altissima redditività anche a causa del proibizionismo. Da tempo,  in Italia, si litiga  attorno alla legalizzazione della cannabis. Che pensa al riguardo?

«Non voglio negare valore a questo dibattito che ha le sue ragioni. Io stesso ho partecipato in più occasioni a questa ricerca. Personalmente però percorro un’altra strada: incidere non sull’offerta ma sulla domanda di sostituti artificiali del desiderio e del piacere di vivere. Nessun piacere artificiale potrà mai competere con la soddisfazione di avere un posto e una missione nella società, con la felicità di avere degli amici e delle persone affidabili attorno a sé».

Paolo Moiola

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Bangkok / L’analisi

Pochi vincitori, milioni di vinti

Secondo statistiche ufficiali, nel mondo almeno 246 milioni di persone consumano droghe illecite. Le (costosissime) misure repressive non funzionano. Occorrerebbe investire su informazione ed educazione, ma la questione, pur globale, da sempre divide stati, governi e istituzioni.

Nelle questioni che appassionano gli esperti di affari internazionali è difficile trovare un dibattito più annoso e profondamente divisivo che la questione delle droghe. Da quando i Sumeri cominciarono a usare oppio 5.000 anni fa, le coltivazioni, i traffici e il consumo di sostanze narcotiche e psicotropiche sono stati sempre in testa alla classifica delle preoccupazioni e dei guai nelle relazioni internazionali. E visto dalla parte della gente, ben oltre dunque gli aspetti istituzionali, scientifici, legali ed economici, non c’è questione globale che ha fatto soffrire popoli e famiglie più delle droghe.

Non per caso la Convenzione mondiale sull’oppio nel 1912 fu il primo trattato internazionale di carattere multilaterale e globale, cioè il primo documento del diritto internazionale ratificato da molti paesi, dopo il trattato della Croce Rossa sottoscritto nel secolo precedente. Tutti gli altri temi sottoposti a consultazioni, ad accordi e a leggi inteazionali sono venuti dopo, a partire dalla Società delle Nazioni nel 1919 e poi con le Nazioni Unite a partire dal 1945. Nei secoli precedenti al 1912 la produzione e il traffico di droghe ha prodotto guerre in diverse parti del mondo, gli effetti di alcune delle quali non si possono dire spenti nemmeno oggi, come testimonia per esempio la questione di Hong Kong, che fu generata dalla prima guerra dell’oppio conclusasi nel 1842. E da allora non c’è mai stata nel mondo una coltivazione di droghe che sia stata pacifica, cioè che non abbia generato o acuito conflitti gravi e sanguinosi che sono durati per decenni. Negli anni più recenti, nel Triangolo d’Oro e in Colombia a partire dagli anni ’60, in Afghanistan a partire dagli anni ’80, droghe considerate illecite dai trattati inteazionali, accompagnate sempre da colossali traffici di armi, violenza illimitata, corruzione ed enormi flussi di denaro sono state ovunque gli ingredienti essenziali di conflitti disumani e duraturi.

Si può dire dunque che per oltre un secolo la questione delle droghe, perfino quando ha ottenuto qualche forma di consenso teorico, come espresso per esempio nella Convenzione unica globale sugli stupefacenti nel 1961, non ha mai davvero consolidato un vero consenso pratico, né sulle questioni generali, né sulle questioni particolari. Nessun accordo di politiche sulle droghe, raggiunto e firmato da quasi tutti i governi del mondo, sembra avere la forza di ridurre significativamente le percentuali importanti di contrari, come invece è successo per quasi tutte le altre grandi questioni globali, come ad esempio la questione di parità di diritti della donna, la questione della discriminazione razziale, la cooperazione per lo sviluppo sostenibile, la questione del cambio climatico, etc. Sono abbondanti le prove della mancanza di consenso sulle buone pratiche di risposta alle tre aree principali del problema droga: la produzione, il commercio e il consumo. La Global Commission on Drug Policy, in prima linea nel criticare le attuali politiche proibizioniste, repressive e spesso violente di lotta alla produzione, commercio e uso di droghe, è formata da diversi ex capi di stato e di governo, soprattutto dei paesi che più hanno sofferto gli effetti della secolare guerra alla droga, e ne è membro anche Kofi Annan ex segretario generale delle Nazioni Unite. A livello nazionale, in grandi paesi federali come gli Stati Uniti, Germania, Brasile, sono numerosi i governi locali che hanno scelto e applicano politiche di tolleranza per l’uso di droghe considerate illecite in opposizione evidente alle leggi federali. In altre aree, come nell’Unione europea, si applicano politiche molto diverse, che potremmo definire una casistica a 360 gradi, cioè lo stesso commercio e consumo di una droga specifica viene considerato un crimine perseguibile in alcuni paesi e del tutto normale e legale in altri, con decine di sfumature diverse in ogni paese. Non c’è metodo più efficace per creare confusione e demolire la credibilità dell’informazione ufficiale su un rischio di salute che quello di divulgare e legiferare di tutto ed il contrario di tutto tra paesi vicini.

Conseguenza di società malate

Tra le cause di tanta confusione c’è certo la mancanza comune di coerenza tra la realtà e ciò che i governi promettono di fare nei trattati internazionali, ma gli elefanti nella stanza (che nessuno vuol vedere) sono altre due questioni. La prima è il fatto che le misure – violente o minacciose – di repressione che dovrebbero scoraggiare la produzione, fermare i traffici e punire il consumo, oltre che non rispettare i diritti umani, semplicemente non funzionano. La seconda è il fatto che sia l’opinione pubblica che i governi e perfino la maggioranza dei consumatori non vogliono ammettere che, dietro alle tossicodipendenze, ci sono sempre società civili malate, famiglie disfunzionali e soprattutto persone con malattie mentali non riconosciute e non curate. E anche la produzione e il commercio di droghe illecite in qualche modo sono sintomi di un sistema socio-economico fallito, insano per tutta la nazione in cui si verifica.

Finché ci sarà domanda

In tutte le mie esperienze sul campo, nel Triangolo d’oro, come in Bolivia e in Colombia, la politica più efficace di cooperazione con le comunità impoverite e marginalizzate dove venivano prodotte cocaina o eroina è sempre stata il trasferimento di potere sulle scelte di sviluppo sostenibile alla gente vittima della situazione. Quando la gente ha accesso alle decisioni che cambiano la realtà socio-economica sceglie sempre attitudini e attività legali con accesso e successo sul mercato. A livello locale nei paesi produttori di droghe, lo sviluppo alternativo – che sostituisce le coltivazioni illecite con altre produzioni lecite – è economicamente fattibile e sostenibile, ma richiede anche uno stato di diritto capace di difendere i diritti di tutti. A lunga scadenza e su scala mondiale però i soldi spesi in modo più efficace sono quelli che riducono la domanda di droghe illecite, che – legalizzate, decriminalizzate o no – saranno comunque sempre prodotte da qualche parte e trafficate fino a che ci sarà domanda. L’esperienza di forti riduzioni di consumi di tabacco e di alcool, due droghe lecite in quasi tutto il mondo, ha dimostrato che campagne di informazione ed educazione ben fatte possono ridurre i consumi fino al 90%.

In un mondo dove, ormai da decenni, almeno 246 milioni di persone usano droghe illecite e ci sono 207.000 morti l’anno relazionati con il consumo di droghe (United Nations World Drug Report 2016), una nota di speranza andrebbe cercata nel costruire pace nella mente di tutti coloro che hanno a che fare con questa realtà.

Sandro Calvani




Colombia: un paese alla ricerca della pace


Sommario

  • Meglio una pace imperfetta di una guerra
  • Gli indigeni Nasa e il «sexto frente»
  • L’attesa si prolunga
  • Non chiudiamo le finestre alla pace
  • Sitografia
  • Video e archivio MC

Meglio una pace imperfetta di una guerra

si_colombia_2016La maggioranza dei colombiani (votanti) ha deciso di dire «no» agli accordi di pace siglati il 24 agosto tra il governo Santos e la guerriglia delle Farc-Ep. La guerra civile, iniziata nel 1964, ha causato almeno 220mila morti e prodotto danni immensi. Ora inizia una nuova e terribile sfida: tornare al conflitto o continuare sulla strada della pace. In un paese ingiusto e ancora più diviso.

Nel referendum del 2 ottobre il quesito era semplice e chiaro: «Lei approva l’accordo finale per la fine del conflitto e la costruzione di una pace stabile e duratura?». A questa domanda, la maggioranza dei votanti – pochi, appena il 37,4% degli aventi diritto – ha risposto con un «no»: 6.431.376 contro 6.377.482, una differenza di soli 53 mila voti. L’accordo del 24 agosto tra il governo Santos e la guerriglia delle Farc-Ep («Forze armate rivoluzionarie della Colombia – Esercito del popolo») adesso è in bilico, anche se i protagonisti si sono affrettati a ribadire che il dialogo e la pace sono le sole opzioni.

Il risultato ha premiato lo schieramento del «no», capeggiato dall’ex presidente Álvaro Uribe Vélez, politico tuttora con molto seguito nel paese, anche all’interno della Chiesa. Va ricordato che, durante il suo mandato, Uribe aveva firmato un accordo con i paramilitari delle Auc, ma si era ben guardato dall’indire una consultazione popolare che lo confermasse.

Un conflitto di 52 anni, con 220 mila morti, 6,7 milioni di desplazados, immensi danni morali e materiali, non si cancella con alcune firme su un accordo. Tuttavia, una vittoria del «sì» sarebbe stato un viatico per la speranza.

no_plebiscito_logo2016Se non ci fosse la guerra

La guerra è la peggiore delle situazioni create dall’uomo. È altresì vero che l’assenza di guerra non significa automaticamente – lo vediamo tutti i giorni – un’esistenza pacifica e men che meno felice. Lo scrive chiaramente l’organizzazione colombiana Somos defensores, che pure si è battuta senza tentennamenti per il «sì» al referendum del 2 ottobre.

Nell’introduzione al suo rapporto Este es el fin?, uscito a giugno, la Ong scriveva: le autorità colombiane sostengono che senza guerra «termineranno molti problemi che affliggono il paese poiché esse attribuiscono al conflitto armato gran parte di queste problematiche. Niente di più lontano dalla verità, dato che fenomeni come la corruzione, il clientelismo, la diseguaglianza, il saccheggio delle risorse naturali, la morte quotidiana per mancanza di attenzione medica, l’esclusione, la povertà, tanto per citare alcuni dei molti problemi, non sono effetti del conflitto armato, ma al contrario ne sono la causa, allora perché tutto questo dovrebbe sparire?».

Per dipingere meglio la situazione generale vale la pena ricordare qualche dato, desunto non da organi di sinistra o antigovernativi ma da strutture istituzionali. Secondo cifre della Banca mondiale (anno 2015), la Colombia è il settimo paese più diseguale del mondo e il secondo dell’America Latina: viene dopo l’Honduras, ma prima del Brasile e del Guatemala. Secondo il terzo Censimento agrario (Dipartimento nazionale di statistica, Dane, 2015), lo 0,4% dei proprietari terrieri detengono quasi la metà della terra coltivabile in Colombia e il 44,7% dei contadini vive nella miseria. Sempre secondo statistiche ufficiali riferite al 2015, la povertà riguarda il 27,8% dei colombiani, ma nel Caquetá e del Cauca, dipartimenti caratterizzati da guerra e narcotraffico, arriva al 41,3% e al 51,6%.

Questi pochi dati bastano per due deduzioni, banali ma difficilmente smentibili: la guerra civile non è nata per caso e le coltivazioni di coca non si sono diffuse tra i campesinos per sete di denaro ma per pura sopravvivenza.

L’accordo per «una pace stabile e duratura»

È vero che le quasi 300 pagine dell’accordo de L’Avana sembrano un libro dei sogni, un’utopia di difficile realizzazione, soprattutto dopo il risultato del referendum. Tuttavia, il fatto che le parti, alla fine di 4 anni di dibattito, abbiano raggiunto un’intesa su tante questioni delicate è già di per sé un grande successo.

Il paese aveva già avuto esperienze simili con il disarmo delle Autodefensas unidas de Colombia (Auc), avvenuto a partire dal 2005. Nel caso dei paramilitari furono approvate due leggi: la Ley de justicia y paz (legge 975 del 2005) e la Ley de victimas y restitución de tierras (legge 1448 del 2011). Lo smantellamento dei gruppi paramilitari è stato però relativamente più semplice, in quanto essi erano nati con il supporto delle stesse forze al potere e dello stato colombiano. Tra l’altro, una parte importante di essi sono rapidamente confluiti in svariate bande criminali (Bacrim, acronimo di bandas criminales).

L’accordo del 24 agosto comprende vari punti e relative intese, tutto al fine di «porre le basi di una pace stabile e duratura». Pur nell’incertezza causata dal «no» del 2 ottobre, vediamo rapidamente i suoi punti salienti.

Come abbiamo già sottolineato, la terra e il suo possesso costituiscono una delle cause fondanti del conflitto. Non per nulla il primo punto dell’accordo riguarda la «riforma rurale integrale» che si prefigge la distribuzione di terra ai contadini senza terra o con terra insufficiente, investimenti pubblici per infrastrutture e sviluppo sociale e, come obiettivo finale, lo sradicamento della povertà tra la popolazione delle campagne.

Il secondo punto riguarda la «partecipazione politica», che significa aprire lo scenario colombiano all’entrata di nuove rappresentanze, portatrici di differenti visioni e interessi. Alla ex guerriglia dovrebbero essere garantiti 10 seggi al Congresso.

Il terzo punto riguarda «il cessate il fuoco bilaterale e definitivo e l’abbandono delle armi». I membri delle Farc sarebbero anche distribuiti in 23 zone e 8 accampamenti. Questo dovrebbe essere anche il punto di partenza per la reincorporazione dei combattenti nei diversi ambiti – economico, sociale e politico – della vita civile del paese.

Il quarto punto è dedicato alla «soluzione del problema delle droghe illecite». Esso prevede un programma di abbandono delle colture illegali e una sostituzione volontaria con colture alternative che garantiscano sostenibilità economica, sociale e ambientale e un’esistenza degna alle famiglie.

Il punto 5 è dedicato alle vittime del conflitto e crea il cosiddetto «Sistema integrale per la verità, la giustizia, la riparazione e non ripetizione». Esso prevede organismi e misure per scoprire la verità e soddisfare il diritto delle vittime alla giustizia. Vengono esclusi amnistia e indulto per i delitti di lesa umanità. Sono inoltre comprese misure per la ricerca delle persone e per la riparazione dei danni.

Il sesto e ultimo punto contiene le intese sui «meccanismi di applicazione e verifica» dell’accordo, inclusa una commissione formata da rappresentanti del governo nazionale e delle Farc.

Artigiani della pace e artigiani della guerra

Da tempo monsignor Luis Augusto Castro, missionario della Consolata, arcivescovo di Tunja e attuale presidente della Conferenza episcopale colombiana (Cec), lavora per porre fine alla guerra civile, tanto da essersi meritato l’appellativo di «artesano de la paz» (artigiano della pace).

Per anni missionario prima e vescovo poi nei dipartimenti del Caquetá e Putumayo ad alta presenza guerrigliera, mons. Castro è noto per la sua azione di mediatore con le Farc, anche in favore delle persone da esse sequestrate. Il fatto più noto è la liberazione, nel giugno del 1997, dei soldati catturati dalla guerriglia nella base militare di Las Delicias (Puerto Leguízamo, Putumayo).

Fondamentale ancorché lontano dai riflettori è stato il suo apporto ai colloqui di pace tra il governo Santos e le Farc, con grande disappunto dell’ex presidente Álvaro Uribe, con il quale il prelato ha sempre avuto rapporti piuttosto freddi. A giugno, dopo la firma del cessate il fuoco, Uribe ha rilasciato un duro comunicato in cui parlava di «pace ferita». Ad esso ha risposto, per via indiretta, mons. Castro parlando di «pace rafforzata».

Peccato che anche in seno alla Conferenza episcopale non tutti siano dalla parte dell’arcivescovo di Tunja. Fuor di metafora, la decisione della Cec di non suggerire il «sì» per il quesito referendario del 2 ottobre è stata una evidente presa di distanza dall’azione del suo presidente. D’altra parte, è risaputo, anche se spesso detto sottovoce, che molti vescovi sono schierati con Álvaro Uribe. Sul dibattito intorno alla tematica dell’accordo è molto istruttiva la lettura di un sito – www.votocatolico.co -, che ha fatto una campagna durissima per il «no».

Tra gli interventi pubblicati, c’è quello di padre Mario García Isaza, formatore del seminario arcidiocesano di Ibagué. Padre Isaza parte dalla bocciatura linguistica del testo per passare a quella della riforma agraria che, a suo dire, metterebbe a rischio la proprietà privata, per finire con la condanna dell’aberrazione (testuale) di includere nell’accordo anche le persone omosessuali. Sullo stesso sito, mons. Libardo Ramírez vede negli accordi un futuro con ancora più guerre. Opinione però non condivisa dalla diocesi di Quibdó (Chocó), pubblicamente espressasi per il «sì».

Dietro la guerra c’è…

Il referendum del 2 ottobre ha abbattuto il muro dell’ipocrisia. Come ci ha confessato più di un colombiano, la realtà può essere letta anche in questo modo: «La guerra significa soldi, la pace significa incertezza e può significare anche miseria». L’affermazione contiene elementi di verità, ma è altrettanto vero che chi ci guadagna dal mantenimento dello status quo sono principalmente i ricchi o comunque i potenti.

Vale la pena di concludere con le parole di mons. Castro, parole di speranza ma anche di sano realismo, pronunciate prima del referendum del 2 ottobre: «Quello che è decisivo è ciò che verrà dopo, nel post conflitto. Questo significa costruire una Colombia nuova che corregga gli errori che diedero inizio al conflitto».

Errori che adesso, dopo la vittoria del «no», sarà ancora più difficile correggere.

Paolo Moiola

Colombia's President Juan Manuel Santos (L) and Timoleon Jimenez, aka "Timochenko" (R), head of the FARC leftist guerrilla, shake hands accompanied by Cuban President Raul Castro (C) during the signing of the peace agreement in Havana on June 23, 2016. Colombia's govement and the FARC guerrilla force signed a definitive ceasefire Thursday, taking one of the last crucial steps toward ending Latin America's longest civil war. / AFP PHOTO / ADALBERTO ROQUE
Il presidente della Colombia, Juan Manuel Santos (L), e Timoleon Jimenez, aka “Timochenko” (R), capo delle FARC, si stringono la mano alla presenza del presidente cubano Raul Castro (C) durante la firma dell’accordo di pace all’Avana il 23 giugno 2016.
  AFP PHOTO / ADALBERTO ROQUE


L’esperienza /1

Gli indigeni Nasa e il «sexto frente»

Il Cauca è stato un teatro di guerra importante. Qui si sono fronteggiati gruppi guerriglieri (non soltanto delle Farc-Ep), esercito nazionale e indigeni. Per vent’anni padre Antonio Bonanomi ha convissuto (e dialogato) con tutti gli attori. Ecco il suo racconto, le sue critiche, le sue speranze.

Padre Antonio Bonanomi è stato per 19 anni, dal gennaio 1988 a giugno 2007, a Toribío, nel Nord del Cauca, Colombia Sud occidentale, sulla cordigliera centrale delle Ande. Il Nord del Cauca è un luogo strategico per la comunicazione fra il Sud e il Nord del paese e per la sua vicinanza alla città di Cali. Fin dall’inizio del conflitto armato, nel 1964, le Farc-Ep si sono stabilite in questo territorio, formando il «sexto Frente» (sesto Fronte). Sono poi arrivati altri gruppi armati, come l’M-19 (Movimiento 19 de abril, sciolto nel 1990), il Quintin Lame (discioltosi nel 1991), il Prt (Partido revolucionario de trabajadores, sciolto nel 1991). In risposta, oltre alla polizia nazionale, è arrivato l’esercito. E così il territorio si è progressivamente convertito in uno dei principali teatri di guerra con gravissime conseguenze per la popolazione civile, formata al 95% da persone appartenenti al popolo Nasa. A Toribío padre Antonio Bonanomi ha lavorato come cornordinatore della équipe missionaria, formata da sacerdote, suore e laici. Legatissimo a quella terra, con lui abbiamo parlato del passato e del possibile futuro dopo le firme dell’Accordo del 24 agosto e l’inatteso «no» del 2 ottobre.

padreantonio_img_7612La nuova Colombia deve attendere

Padre Bonanomi, con il voto al plebiscito un’esigua maggioranza dei colombiani (poco più di 6 milioni sui 13 che hanno partecipato) hanno detto «no» agli accordi tra governo Santos e Farc-Ep. Perché questo risultato e cosa succederà ora?

«Il voto mostra un paese fortemente diviso, con una maggioranza (il 66%) che non ha votato. Ha vinto l’ex presidente Álvaro Uribe Vélez contro l’attuale presidente Juan Manuel Santos. Dopo l’esito del referendum tutti, vincitori e vinti, dicono di volere la pace. Con una sostanziale differenza: i vincitori affermano di volerla senza l’intesa che era stata firmata.

Per quello che si può capire diversi sono i motivi del “no” all’accordo: alcuni hanno detto “no” per ragioni economiche, perché si sentono toccati nei loro interessi; altri per ragioni politiche, perché temono di perdere un po’ di potere; altri ancora hanno detto “no” per ragioni “religiose”, perché pensano che l’accordo apra le porte a un gruppo comunista, ateo e favorevole ai diritti civili dei “diversi”.

La vittoria del “no” è la vittoria di un progetto di paese, culturalmente neo-conservatore, economicamente e politicamente neo-liberale.

Non è facile dire cosa può succedere ora. Con il voto del 2 ottobre un momento “storico”, che poteva significare la nascita di una nuova Colombia, si è convertito in un momento “drammatico” con uno scontro fra due progetti di paese differenti.

Ad ogni modo è importante accettare la sfida e continuare a lavorare senza stancarsi e senza perdersi d’animo per una nuova idea di paese: un paese più umano, più giusto, più aperto alle minoranze e quindi più inclusivo».

Le Farc e il narcotraffico

Se si leggono i rapporti inteazionali e i reportage dei grandi media, già dagli anni Novanta le Farc si sarebbero trasformate da organizzazione guerrigliera (o terroristica, a seconda delle diverse interpretazioni) in un cartello di narcotrafficanti che incassa milioni di dollari. Questa rappresentazione è vicina alla realtà o è esagerata per motivi politici?

«Più volte ho avuto occasione di parlare di questo  tema con alcuni responsabili del “sexto Frente” e mi hanno spiegato che a metà degli anni Ottanta del secolo scorso i principali gruppi guerriglieri (Farc-Ep e Eln) pensavano che fosse giunto il momento della lotta finale per la  vittoria della rivoluzione… e per questo avevano bisogno di altri uomini armati. Si prese pertanto la decisione di aprire le porte a tutti coloro che si presentavano e di arruolare il maggior numero possibile di combattenti. Questa decisione ebbe come conseguenza l’aumento delle spese economiche per armare e finanziare i nuovi arruolati. Per questo ricorsero al sequestro e al narcotraffico».

Pertanto, padre, la guerriglia è diventata anch’essa un attore del narcotraffico?

remolino_c2_556_38«Mi spiego meglio. Normalmente le Farc-Ep si limitavano a mettere una tassa sulla produzione e la commercializzazione delle droghe, approfittando del fatto che esse erano coltivate principalmente nelle zone dominate da loro. Quindi normalmente le Farc-Ep non  erano produttori e commercializzatori di droghe (coca, marihuana, amapola). Anzi, dove avevano potere, obbligavano i contadini a destinare parte del loro terreno alla produzione di alimenti. Sembra che, in qualche caso, ci siano anche stati gruppi delle Farc-Ep che si siano dedicati al commercio delle droghe creando così di fatto un “cartel” del narcotraffico.

Per quello che mi hanno spiegato persone del  “sexto Frente” la decisione di arruolare tutti coloro che si presentavano e la conseguente decisione di entrare nel mondo del narcotraffico è stata motivo di contrasti all’interno del movimento, perché queste due decisioni avevano creato un clima di sfiducia reciproca e la tentazione della corruzione.

Va infine notato che, nella Colombia degli ultimi 30/40 anni, tutti gli uomini del potere (politico, economico, militare, giudiziario, e in  alcuni casi anche religioso) hanno goduto dei benefici del narcotraffico. Pochi insomma possono lanciare la prima pietra».

Mons. Castro e la Chiesa colombiana

Da molti anni mons. Castro lavora per il dialogo tra le parti in conflitto. Tuttavia, il suo operato non trova consenso unanime all’interno della Chiesa colombiana. Questo è un fatto evidenziato anche dal mancato appoggio al «sì» nel referendum del 2 ottobre. Come stanno le cose?

«Non è facile parlare della Chiesa cattolica colombiana perché è una realtà molto amplia e complessa. Non sono mai mancate voci e gesti profetici, però nella sua maggioranza la gerarchia e il popolo cattolico hanno assunto posizioni conservatrici e si sono opposti al cambiamento. Molto significative sono state, in questo senso, le figure dei cardinali Alfonso López Trujillo, Dario Castrillón e dell’attuale arcivescovo di Bogotá, card. Rubén Salazar Gómez. In generale si tratta di andare d’accordo con chi detiene il potere e di respingere ogni progetto di modificazione. Al punto che molti pongono anche la Chiesa fra i responsabili della violenza in Colombia.

Questo ha spinto molti cattolici ad appoggiare il “no”, non perché siano contrari all’intesa, ma perché sono contrari alle proposte di cambiamento, soprattutto  quello culturale, conseguenti all’accordo.

Credo che questo abbia portato mons. Luis Augusto Castro, come presidente della Conferenza episcopale, a non pronunciarsi apertamente a favore del “sì”, ma piuttosto a promuovere un processo educativo, o meglio una pedagogia che porti la gente alla conversione del cuore, al perdono e alla riconciliazione».

L’attualità delle cause del conflitto

Dopo 52 anni di conflitto interno, si cerca finalmente di parlare di pace. Tuttavia, le cause economiche e sociali che hanno portato alla guerra sono ancora tutte in piedi: concentrazione della terra, diseguaglianze, carenza di sanità e istruzione, tanto per citare le principali. Non pensa che, senza una soluzione concreta di queste problematiche, la pace, qualsiasi pace, non potrà diventare effettiva?

«È verissimo che le cause del conflitto armato che ha accompagnato tutta la storia della Colombia, non solamente gli ultimi 52 anni, sono tutte ancora in piedi, però è anche vero che i rappresentanti del governo nazionale e delle Farc-Ep, che hanno lavorato a Cuba per la definizione dell’accordo, hanno preso in seria considerazione le cause del conflitto e hanno cercato di proporre delle soluzioni. Si sarebbe dovuto aprire un lungo e difficile periodo di lavoro per mettere in pratica le riforme contenute nell’accordo. Oggi, in una Colombia resa più polarizzata dal voto, il cammino verso una pace giusta si è trasformato in una sfida se possibile ancora più grande».

I guerriglieri e le vittime

Come si fa a reinserire nella società, nella vita civile e nella politica migliaia di persone che, per anni, hanno vissuto da guerriglieri? La storia colombiana parla già di due fallimenti, quello dell’Unione patriottica (i cui esponenti furono tutti eliminati in pochi anni) e quello delle milizie Auc (i cui membri sono andati a ingrossare le fila della criminalità organizzata).

«Il problema è reale: negli anni vissuti a Toribío ho visto la difficoltà di coloro che decidevano di lasciare la guerriglia a reinserirsi nel cammino della loro famiglia e della loro comunità, e allo stesso tempo la difficoltà delle famiglie e delle comunità a riceverli di nuovo. Era evidente un clima di estraneità da entrambi le parti. Già con la vittoria del “sì” non sarebbe stato facile il reinserimento (anche perché il conflitto ha lasciato strascichi di odio, di risentimento e di voglia di vendetta), con la vittoria del “no” sarà ancora più difficile. È necessario percorrere un duplice cammino: un paziente lavoro psicologico e spirituale per la conversione della mente e del cuore; un processo di formazione e di preparazione a un lavoro concreto».

I numeri delle vittime sono impressionanti. Che cosa si può dire a una persona che ha perduto un familiare o a uno sfollato?

«Se consideriamo chiuso il conflitto armato, rimangono però le sue conseguenze: migliaia di morti e feriti, di scomparsi e di sfollati. È una piaga aperta nella memoria nazionale e un mare di dolore nel cuore di molti. Nel quinto punto dell’accordo si prevedevano misure per dare una risposta a questa situazione. Sarà necessaria una azione psicologica e spirituale per la cura delle ferite. Oltre che di parole di consolazione, c’è bisogno di gesti concreti che aiutino le persone a guardare e a costruire il futuro con speranza».

Lei parla di un lavoro a livello psicologico e spirituale. Ha qualche esempio concreto in mente?

«L’esempio più famoso è quello delle “Scuole di perdono e riconciliazione” (Escuelas de perdón y reconciliación, Es.Pe.Re.), fondate da padre Leonel Narváez Gómez, un missionario della Consolata colombiano specializzatosi in Inghilterra e Stati Uniti. A livello locale ricordo anche il consultorio psicologico che un altro missionario della Consolata, padre Renzo Marcolongo, aprì a San Vicente del Caguán».

Toiamo alla dura realtà. La narcoeconomia ha radici profonde nella società colombiana. Come fare per ridurre i danni che provoca?

«La narcoeconomia è una realtà globale, non solo colombiana. È parte della cultura mafiosa che ha invaso tutto il mondo. Per questo sono necessarie risposte globali, specialmente da parte dei paesi più ricchi, dove più alta è la commercializzazione e il consumo di droghe. Una delle proposte è la liberizzazione del  commercio e del consumo di queste sostanze. Per tornare alla Colombia, l’accordo fra il governo nazionale e le Farc-Ep, al quarto punto, prendeva in considerazione il tema del narcotraffico e proponeva la creazione di alternative concrete, come progetti produttivi, piani alimentari, possibilità di accedere a servizi speciali di educazione e di salute, affinché i coltivatori possano abbandonare le coltivazioni illecite, senza ricadere nella povertà».

I popoli indigeni e le Farc-Ep

Lei ha vissuto per quasi 20 anni tra i Nasa. Questi 52 anni di conflitto cosa hanno significato per i popoli indigeni della Colombia?

«Fin  dall’inizio le Farc-Ep si sono ubicate  nei territori dei popoli indigeni, sulla cordigliera o nella selva. Normalmente le relazioni fra le due realtà sono state ambigue. Da una parte vi era una certa sintonia perché i popoli indigeni, come le Farc-Ep, lottavano per la terra e contro lo stato e il governo nazionale. Dall’altra parte vi era un certo antagonismo perché  i popoli indigeni si consideravano gli unici legittimi proprietari del loro territorio ed esigevano il rispetto della loro cultura.

I popoli indigeni in generale hanno accettato la guerriglia come alleata però non come padrona. Proprio per questo negli anni Ottanta, nel Nord del Cauca, il popolo Nasa aprì le porte al M19 e creò un gruppo guerrigliero proprio, il Quintín Lame, contro le Farc-Ep, perché queste volevano essere padrone del territorio e non rispettavano la cultura indigena».

Ecco il punto, padre Bonanomi: cultura indigena e cultura della guerriglia sembrano molto distanti.

«È vero. C’è sempre stata una forte opposizione fra la cultura marxista e materialista delle Farc-Ep e la cultura spiritualista dei popoli indigeni, fra la lotta per il potere delle Farc-Ep e la lotta per l’autonomia dei popoli indigeni.

Quando nel 2012 iniziarono le trattative in Cuba, molti leaders indigeni espressero dubbi e perplessità sull’accordo e chiesero di essere ascoltati. Fortunatamente il testo definitivo dell’accordo riconosce i diritti e le esigenze delle minoranze etniche, e quindi anche dei popoli indigeni, e questo ha spinto le loro organizzazioni e autorità a promuovere il voto per il “sì” al referendum del 2 ottobre.

Io credo che l’accordo, ove attuato, sarebbe un’opportunità per i popoli indigeni della Colombia nella loro lunga lotta per l’autonomia territoriale, socioeconomica, politica e culturale».

Paolo Moiola

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L’esperienza / 2

L’attesa si prolunga

Nella valle del fiume Caguán, in Caquetá, la guerra e la coca sono di casa. Giacinto Franzoiricorda i suoi anni trascorsi in quei luoghi sperduti e pericolosi. E non tace la sua delusione per un «no» che, come minimo, prolungherà un insostenibile «status quo». Trent’anni di vita missionaria lungo il fiume Caguán, prima a Cartagena del Chairá e poi a Remolino, a contatto diretto con il conflitto colombiano, mi inducono a fare alcune considerazioni, in una lettura retrospettiva di cause ed effetti. Quella guerra ha prodotto milioni di desplazados in terra propria. E altrettanti sono quelli scappati in tutto il mondo, per fuggire dalla paura e dalle minacce, alla ricerca di un lavoro per sostenere la propria famiglia, per sentirsi liberi in casa altrui.

franzoi-negozio2-002Le Farc (la guerriglia più antica del mondo), le Auc, i narcotrafficanti: sono stati cinquanta anni di parole e di massacri. Nella mia casa di missione, a Remolino, ho avuto l’opportunità di ospitare sia alti miliari che i comandanti delle Farc, oggi tutti seduti attorno al tavolo de L’Avana. Quando li ascoltavo, notavo la mutua incapacità di fermarsi, come per dire che non c’era uscita dal conflitto se non per via armata.

Tagliati fuori dalle sedie del potere, ogni forza sociale veniva zittita e dissuasa dalla partecipazione politica (come successe per l’Unión patriótica, Up, a metà degli anni Ottanta, ndr) e dal proporre uscite dignitose da una guerra senza fine. Eppure, chi aveva più diritto di parlare era la popolazione, quella che riempiva le fosse comuni, che soffriva le angherie dei protagonisti del conflitto, il condizionamento di ogni scelta. La guerra è proseguita tra contraddizioni infinite, doppia morale, tentativi di qualche presidente della repubblica  (Andrés Pastrana, ndr) di sperimentare forme di dialogo.

Con il Plan Colombia (iniziato nel 1999, ndr) e l’alleanza con gli Stati Uniti sono arrivati migliaia e migliaia di soldati, che hanno iniziato una nuova modalità di fare la guerra. Armi sofisticate e aeronautica militare hanno avuto un ruolo determinante nel dare un colpo mortale agli alti comandi delle Farc. La loro influenza sui territori è diminuita sempre di più. Centinaia di guerriglieri sono stati abbandonati al loro destino. Prima che fosse troppo tardi le Farc hanno deciso di mandare un messaggio alla società colombiana: era arrivato il momento di sedersi attorno ad un tavolo. La chiesa colombiana ha accompagnato la linea del dialogo soprattutto con mons. Castro, missionario della Consolata.

A l’Avana c’era bisogno di conquistare la fiducia dell’altro e la maniera più efficace era quella di non lasciare il tavolo, anche se le incomprensioni sono state molteplici e sempre più intricate. I temi erano di somma importanza e nessuno voleva perdere terreno. Il governo non poteva dimostrarsi troppo debole e la guerriglia doveva assicurarsi le garanzie dopo una eventuale firma di accordo di pace.

Dopo 52 anni di guerra costerà molto a questi combattenti tentare la convivenza, ma bisogna crederci. La strada da percorrere è molto lunga per dare alle milizie guerrigliere quanto concordato.

Complimenti a quanti hanno creduto in questa uscita dal problema e ai portatori della cultura della convivenza, attraverso il dialogo, il confronto e il riconoscimento reciproco. Complimenti anche a quei campesinos di Remolino che hanno seminato un albero diverso dalla «mala yerba» (la coca). Un’impresa (Chocaguan) ideata dalla parrocchia e amministrata dal comitato dei coltivatori di cacao. Una piccola pietra nel difficile mosaico della pace.

Quando tutta l’opinione pubblica nazionale e internazionale dava per scontata la vittoria del «sì», allo spoglio delle schede la sorpresa è stata enorme. Per 60 mila voti in più ha prevalso il «no». Se la democrazia sembra aver vinto, gli sforzi fatti negli oltre 4 anni di dialoghi sembrano ora scritti sulla sabbia. Ha prevalso il vento della vendetta, l’azione di forze occulte (politiche ed economiche), l’incapacità di perdonare e riconciliarsi per un progetto comune, la emotività di un popolo che si entusiasma per nulla e celebra il lutto al suono dei mariachi.

Rimane lo status quo e l’incertezza sul futuro. Vince un vecchio presidente della repubblica, il signor Uribe, con nell’armadio un passato sospetto di delitti, di connivenze con i gruppi paramilitari, di difesa del latifondismo e di altri interessi di potere.

Anch’io ci sono rimasto male. Come tutte quelle mamme che dovranno attendere ancora per poter riconoscere e piangere i propri figli.

Giacinto Franzoi

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L’esperienza / 3

Non chiudiamo le finestre alla pace

Per valutare la portata e la complessità dell’Accordo di pace occorre leggee le 297 pagine. Anche i numeri sono importanti. Come quelli delle zone (23) e accampamenti (8) dove i membri delle Farc hanno accettato di deporre le armi. O quelli dei seggi parlamentari (10) che saranno garantiti ai rappresentanti della guerriglia. Se il «no» del 2 ottobre non bloccherà tutto.

L’accordo di pace aveva un obiettivo chiaro: la fine del conflitto armato con le Farc e la costruzione di una pace stabile e duratura. In questo senso, occorre riconoscere che dal giorno della firma sul cessate il fuoco e sulla fine bilaterale delle ostilità, il 23 di giugno, il patto è stato rispettato dalle parti e i fatti lo dimostrano in maniera evidente: zero attentati, zero scontri e zero vittime. Vale la pena di ricordare che durante tutto il processo di negoziazione (iniziato nel 2012, ndr) uno dei maggiori timori di fallimento era quello di proseguire il dialogo nel mezzo della guerra. Fortunatamente e nonostante gli eventi dolorosi che si sono verificati, le parti hanno mantenuto la volontà politica di arrivare fino alla fine (ribadendo le loro intenzioni anche dopo l’inatteso «no» del 2 ottobre).

Del conflitto armato colombiano si parla come di uno dei più complessi del mondo, sia per la sua durata, 52 anni, che per la trama di attori legali e illegali e per le sue relazioni e dinamiche legate alle regioni in cui esso si è sviluppato.

Se guardiamo alle cause che hanno generato il conflitto, esse continuano a sussistere: la concentrazione delle terre produttive in poche mani, la scandalosa diseguaglianza sociale, l’accumulazione di ricchezza a fronte di una pungente povertà, la sistematica esclusione di vasti settori della società come i contadini, gli indigeni e gli afroamericani, la profonda corruzione della classe politica e dirigente che accumula fortune rubando all’erario statale attraverso i contratti pubblici, la precarietà e assenza dello?stato nella Colombia rurale.

Come se tutto questo fosse poco, si è sommato il mostro del narcotraffico che, a partire dagli anni Ottanta, è servito da combustibile per la guerra e che ha corrotto tutti i settori dello stato, provocando inoltre perverse alleanze tra narcotrafficanti, paramilitari e politici, nonché legami della guerriglia con il businness della droga.

Anche se l’accordo bocciato il 2 ottobre non garantiva che le grandi e storiche diseguaglianze ed esclusioni si sarebbero risolte, esso avrebbe permesso di aprire finestre di speranza attorno a tematiche cruciali come: la fine del conflitto armato e delle Farc come organizzazione armata illegale, la riforma rurale integrale, l’ampliamento della partecipazione politica, la sostituzione delle coltivazioni illecite con altre lecite, un sistema di verità, giustizia, riparazione e non ripetizione per le vittime.

cop_dossier_colombiaLa base di partenza: conoscere l’Accordo

A favore del «sì» si erano schierati: il governo e la coalizione Unidad nacional (di cui fanno parte partiti tradizionali e nuovi che godono di un’ampia maggioranza nel Congresso), i partiti di sinistra e altri partiti alternativi, nonché alcune organizzazioni sociali di base di varia natura. Dalla parte del «no» si erano invece schierati i settori che rappresentano la frangia più conservatrice del paese e la destra. Nel dibattito politico, i rappresentanti che capeggiavano i due schieramenti hanno assunto posizioni drasticamente polarizzate, generando confusione e disinformazione nella popolazione.

Nel mezzo di uno scenario di attacchi e contrattacchi era difficile mantenere la calma senza lasciarsi prendere dalla febbre del momento. Esistono uomini e gruppi moderati e conciliatori – tra essi la Chiesa cattolica – che hanno promosso il dibattito e la discussione civile a partire dalla conoscenza delle 297 pagine dell’Accordo. Un compito questo né piacevole né facile: occorreva (e occorre) avere pazienza e umilità per indagare, domandare e partecipare. Gli aiuti pedagogici elaborati da soggetti distinti – organizzazioni popolari, della Chiesa, delle istituzioni nazionali e inteazionali, dello stesso governo – hanno permesso a una parte della popolazione con un basso livello di scolarità di fare propria una certa prospettiva storica alla luce del passato, del presente e del futuro.

Lo smisurato sforzo dei negoziatori

Partendo dalla mia esperienza missionaria tra le comunità che più hanno sofferto il conflitto armato e le sue conseguenze, con i lettori della rivista vorrei condividere alcune riflessioni personali.

Al di là del risultato referendario, è evidente che il processo di negoziazione e il fatto di aver raggiunto un accordo che ha sancito la fine del conflitto e ha fissato i paletti per una pace stabile e duratura hanno rappresento una crescita umana, sociale e culturale. Voler terminare un conflitto armato della vastità – 8 milioni di vittime, tra cui 224 mila morti e 7 milioni di sfollati – di quello colombiano attraverso il dialogo ha richiesto un alto grado di volontà e di razionalità politica in favore del valore più prezioso che è il rispetto della vita e il diritto fondamentale a vivere in pace. Va pertanto elogiato l’immane sforzo dei negoziatori del governo e della guerriglia durante questi quattro anni.

La guerriglia delle Farc si è impegnata a lasciare le armi per la politica. Mai prima, in più di 52 anni di lotta armata, dopo vari tentativi di negoziazione (soprattutto sotto la presidenza Pastrana, ndr)  e nonostante avesse subito dure sconfitte, la guerriglia aveva accettato di sottomettersi alla Costituzione e alla legge. Questo è stato un risultato fondamentale ottenuto dal negoziato e, ancora prima di questo, dai successi delle forze armate colombiane, capaci di infliggere perdite considerevoli alla guerriglia (culminate nel novembre 2011 con l’uccisione di Alfonso Cano, comandante in capo delle Farc, ndr). Detto questo, le Farc, in quanto organizzazione politico-militare, mai hanno perso la loro capacità di destabilizzare lo stato, così come di controllare e influenzare una parte consistente del territorio nazionale. Per questi motivi e alla luce di non essere state sconfitte, al fine di contribuire alla pace esse hanno convenuto «l’abbandono volontario delle armi».

Dalle armi alla partecipazione politica?

Tralasciando gli imprevedibili effetti del «no» del 2 ottobre, secondo l’Accordo tutti i membri delle Farc dovrebbero essere raggruppati in 23 cosiddette «zone transitorie di normalizzazione», disseminate in vari municipi del paese, e in 8 accampamenti per i comandanti. In questi luoghi si dovrebbe realizzare il processo di abbandono delle armi, che rimarranno nelle mani dell’Onu. Dopo 6 mesi, una volta formalizzata la situazione dei guerriglieri, si dovrebbe dare inizio al processo giudiziario dei suoi membri attraverso la «Giurisdizione speciale per la pace».

In materia di partecipazione politica, le Farc dovrebbero avere fino al 2018 tre rappresentanti alla Camera e tre al Senato con diritto di parola ma non di voto. Successivamente, esse potrebbero partecipare alle elezioni per il Congresso, avendo assicurati in ogni caso 10 seggi parlamentari.

Anche se questa eleggibilità politica è stato uno dei cavalli di battaglia del «no» all’Accordo, va ricordato che anche i governi anteriori lo avevano promesso al fine di arrivare alla pace.

Finalmente un’opportunità per contadini, afroamericani e indigeni

Per decenni, governi distinti hanno giustificato in parte i loro insufficienti interventi e investimenti sociali con la presenza delle Farc nelle zone di più difficile accesso. Se gli accordi venissero comunque applicati, si aprirebbero finestre di opportunità affinché le comunità di campesinos, afro e indigene rafforzino i propri piani di sviluppo integrale, di distribuzione delle terre e loro formalizzazione legale, di miglioramento delle vie di comunicazione per la commercializzazione dei prodotti. Oltre a ciò, il progetto di restituzione delle terre già attivo (Ley 1448 o Ley de Víctimas y Restitución de Tierras, 2011, ndr) potrebbe trovare un ambiente più adatto per il proprio sviluppo a tutto beneficio delle vittime (si calcola che gli sfollati abbiano abbandonato 4-6 milioni di ettari, ndr).

Per il caso colombiano ritengo che sia stato di vitale importanza l’appoggio della comunità internazionale, rappresentata sia dai paesi garanti e facilitarori (Cuba, Norvegia, Venezuela e Cile) che dall’Onu e dalla Corte penale internazionale. Se nonostante tutto ancora ci sarà un processo di applicazione degli accordi – il cosiddetto postconflitto -, la comunità internazionale dovrebbe offrire una blindatura di sicurezza giuridica e di chiusura dei processi che si dovrebbero tenere tanto per i guerriglieri quanto per tutti coloro che, durante il conflitto, hanno commesso delitti, inclusi i membri delle Forze armate. La Corte penale internazionale dovrebbe evitare che ci sia impunità, in linea con gli standard inteazionali soprattutto con riferimento ai crimini di lesa umanità commessi nel corso del conflitto (il Trattato di Roma del 1998 elenca 11 tipi di delitti classificabili come crimini contro l’umanità, ndr). Dovrebbe garantire inoltre che vengano rispettati i tempi e i processi di quanto pattuito in materia di verità e di giustizia.

Continuerà la terribile notte?

La guerra è la sconfitta dell’umanità. La Colombia che oggi abbiamo è stata in parte partorita dalla guerra e dalla violenza. È per questo che sognare di poter chiudere queste dolorosissime pagine della nostra storia significa aprirsi a nuove opportunità di cui soltanto le nostre future generazioni potranno godere appieno. Senza le assurde dispute e meschinità della politica attuale, lontani da insane gelosie e falsità che vogliono soltanto condannarci a ripetere la storia di «100 anni di solitudine» (riferimento al famoso romanzo di Gabriel García Márquez, ndr).

Poco a poco supereremo la orribile notte. Sarebbe bello se i colombiani del futuro potessero dire che sebbene «qui è sempre successo il peggio, sempre qui è successo il meglio». A significare che siamo stati capaci di aprire le finestre alla speranza, alla giustizia, alla riconciliazione e alla pace.

Benjamín Martínez Solano

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Sitografia

In rete si possono trovare buoni siti d’informazione sull’Accordo del 24 agosto 2016:

 Video e archivio MC

Questo dossier è stato firmato da:

  • Antonio Bonanomi Missionario della Consolata brianzolo, è arrivato in Colombia nel gennaio del 1979. Dopo 5 anni a Tocaima, dal 1983 al 1987 ha insegnato a Bogotá. Da gennaio 1988 e per quasi 20 anni ha lavorato a Toribío, nel Cauca, tra le popolazioni?Nasa, contribuendo alla loro causa e promuovendo la realizzazione del centro di formazione Cecidic (1994). Dal 2014 è tornato in Italia.
  • Giacinto Franzoi Missionario della Consolata trentino, padre Giacinto Franzoi ha operato in Colombia dal 1979 al 2008 nel Caguán, nella regione amazzonica del Caquetá. Ha raccontato quel periodo in alcuni libri di memorie: Rio Caguán. Memorias y leyendas de una colonización, Bogotà; Dio e coca, Fatti e misfatti di una missione, Ancora Editrice, 2003; I prigionieri del Caguán, Ancora Editrice, 2010. Oggi presta servizio a Rovereto. Per richiesta libri o conferenze: jacintofranzoi@libero.it.
  • Benjamín Martínez Solano – Nato a Bucaramanga, in Colombia, dopo l’ordinazione sacerdotale come missionario della Consolata è stato per 8 anni in Corea del Sud. Dal 2002 è tornato nel suo paese natale. Ha lavorato con le comunità afro a Marialabaja (Bolivar), con i contadini a San Vicente del Caguán (Caquetá), con le comunità indigene a Toribio (Cauca). Oggi lavora a Cartagena del Chiara (Caquetá). Teologo, è laureato in scienze politiche.
  • Ringraziamo per la collaborazione padre Angelo Casadei, superiore dei missionari della Consolata in Colombia. Attualmente a Bogotá, ha lavorato a Remolino (Caquetá).
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista, redazione MC.

 




Mussulmani seconda generazione Italia


Introduzione

Seconda generazione

Terrorismo e fondamentalismo islamico rischiano di riaccendere uno «scontro di civiltà» nei paesi europei. In questa situazione, che ruolo possono giocare le seconde generazioni?

Negli ultimi mesi terrorismo e fondamentalismo islamico sono tornati prepotentemente sulle prime pagine dei giornali, portando con sé un’isteria collettiva che richiama le paure dello «scontro di civiltà». Il terrorismo e i suoi effetti collaterali hanno, infatti, ricadute importanti sulle stesse comunità islamiche in Europa e sul faticoso processo di integrazione nelle comunità in cui si trovano. Ai musulmani che vivono nei paesi europei viene chiesto con forza di prendere posizione: condannando, dissociandosi dagli estremisti, cercando spiegazioni ai gesti folli, per «tranquillizzare» le società in cui vivono. Gioalisti e accademici si sforzano allora di inquadrare nuove figure con cui poter dialogare, da poter «integrare» o già «integrate»: il «musulmano moderato», il «musulmano europeo». Cercando di dare etichette, però, talvolta, si viene a generare ancora più confusione, rendendo sempre più difficile trovare interlocutori adeguati perché, al di là delle prese di posizione pubbliche e ufficiali, molti sono i punti critici che rimangono aperti: l’esistenza o meno di un Islam europeo o italiano, l’influenza dell’Islam politico, il rapporto tra sfera politica e sfera religiosa, il ruolo della secolarizzazione.

A questi elementi va aggiunta la crescita di una nuova generazione di musulmani di origine straniera in Italia che, nell’ultimo decennio, ha raggiunto l’età adulta, e il confronto (talvolta lo scontro) tra padri e figli sulla diversa visione della religione e del ruolo di questa nella società d’adozione, sulle nuove forme di riappropriazione di rituali, tradizioni e usanze, sulla rivisitazione e rinegoziazione di pratiche e credenze, che riflette una crescente autonomia soggettiva dei più giovani dalla cultura ereditata. La partecipazione a un contesto democratico, l’uso di una lingua differente da quella della propria comunità d’origine, l’immersione totale in luoghi di socializzazione italiana condizionano, infatti, le scelte dei giovani musulmani, contribuendo significativamente a una messa in discussione e, spesso, a una reinterpretazione critica dell’appartenenza religiosa. Come ha scritto la ricercatrice Anna Granata, i giovani spesso scelgono «una loro via, cercando compromessi e nuove sintesi, ponendosi domande sulle tradizioni che hanno ereditato, vivendo la fede in un modo personale e autentico e non sull’onda di un’adesione acritica».

Si riscontra, insomma, un progressivo distacco da un Islam «etnico» e l’affermazione di una relazione personale con la dimensione religiosa. I giovani musulmani non vedono più l’Islam come una mera riproduzione di pratiche religiose del paese di origine dei genitori in un nuovo contesto. L’appartenenza religiosa delle seconde generazioni si configura piuttosto come uno stile di vita legato a una scelta: scelta che aiuta a comprendere sé stessi e sentirsi parte attiva della società.

Viviana Premazzi

SAYMA ILYAS, 29 ANNI, PAKISTAN
SAYMA ILYAS, 29 ANNI, PAKISTAN

Musulmani d’Italia

In Italia, l’appartenenza religiosa, in quanto dato sensibile, non viene rilevata dalle analisi Istat. Per questo le stime, foite dai diversi enti e istituti di ricerca, possono variare significativamente: il Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni) nel 2012 parlava di 115mila musulmani italiani, tra immigrati e convertiti, Camillo Regalia di Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) alla conferenza Metropolis del 2014 li stimava in 258mila. Più alti sono invece i numeri foiti dal Pew Forum on Religion and Public Life: nel 2010, secondo l’istituto, i musulmani in Italia erano già 1.583.000, dato che si avvicina a quello dichiarato dal presidente dell’Ucoii (Unione delle comunità islamiche italiane) 1 milione e 700mila, e stimato nel Dossier Immigrazione 2015 curato da Idos (Centro studi e ricerche): più di 1 milione e 600mila. Tra i musulmani, oltre agli immigrati di prima generazione, troviamo ora anche una consistente presenza di «musulmani di seconda generazione», ossia giovani di fede musulmana e di origine immigrata, ma nati in Italia. (Vi.P.)

 

REGGIO EMILIA. MANIFESTAZIONE DI SOLIDARIETA' CON LA FRANCIA E CONTRO IL TERRORISMO, JE SUIS CHARLIE. NELLA FOTO I RAPPRESENTANTI DELLA COMUNITA' MUSULMANA DI REGGIO
REGGIO EMILIA. MANIFESTAZIONE DI SOLIDARIETA’ CON LA FRANCIA E CONTRO IL TERRORISMO, JE SUIS CHARLIE. NELLA FOTO I RAPPRESENTANTI DELLA COMUNITA’ MUSULMANA DI REGGIO


L’analisi

Stessa fede, modalità diverse

La prima generazione di immigrati musulmani ha visto l’Islam come un elemento di
riconoscimento e rafforzamento identitario e come un antidoto alla solitudine e all’isolamento. La seconda generazione (ovvero i figli) non rifiuta la religione, ma ha avviato un (lento) processo di revisione critica e di adattamento al contesto di vita del paese d’adozione. Nel contempo, l’affermazione delle nuove tecnologie ha anche facilitato la diffusione di visioni radicali.

Ragionare di religione in emigrazione spesso significa tracciare una linea di confine netta fra la religiosità della prima generazione e quella della seconda, ritenuta spesso più secolarizzata. Tuttavia, risultati di indagini empiriche recenti come quella realizzata da Abis Analisi e Strategia nel 2011, G2: una generazione orgogliosa1, hanno mostrato, invece, che la religione può giocare un ruolo significativo anche nelle vite dei giovani di seconda generazione, contrariamente a quanto l’esperienza degli immigrati europei dei secoli scorsi aveva evidenziato2.

L’esperienza migratoria, infatti, è certamente esposta a pressioni assimilazioniste, ma, per contro, è anche un’esperienza in cui, in presenza di un grado sufficiente di tolleranza e di possibilità d’espressione, i migranti tendono a riscoprire e riproporre le loro tradizioni e identità religiose3. Questo è particolarmente vero quando entrano in campo i figli e quindi la trasmissione dell’identità culturale.

Spesso per la prima generazione il fatto di trovarsi in una realtà nuova, senza riferimenti linguistico-culturali familiari, ha favorito il ricorso alla religione come elemento di riconoscimento e rafforzamento identitario, ma anche come antidoto alla solitudine e all’isolamento. Questo soprattutto perché la frequentazione delle moschee e dei luoghi di culto permetteva l’incontro con connazionali con cui condividere esperienze e bisogni. È però con il passaggio da una migrazione temporanea (o percepita come tale) a una di radicamento e stabilizzazione che si sono concretizzate nuove forme associative per la trasmissione della propria religione ai figli e nuove richieste nei confronti della società italiana, ad esempio riferite alla libertà di culto.

La pratica religiosa in un nuovo contesto

La socializzazione dei giovani in Italia dà vita a percorsi autonomi di relazione con il sacro: nascono nuove riflessioni sulla propria identità personale e sull’appartenenza religiosa personale e collettiva. La fede non viene abbandonata, ma rivista e adattata al contesto di vita quotidiano, traducendosi in un pluralismo valoriale che rivendica un proprio riconoscimento4. I giovani infatti spesso scelgono «una loro via, cercando compromessi e nuove sintesi, ponendosi domande sulle tradizioni che hanno ereditato, vivendo la fede in un modo personale e autentico e non sull’onda di un’adesione acritica»5. Studiando l’idea che i figli hanno del contesto religioso familiare, si riscontra l’avvio di un processo di revisione e reinvenzione delle pratiche religiose. Se per le prime generazioni vivere la propria fede in emigrazione significa spesso mantenere anche le tradizioni religiose-culturali del paese di origine, per i figli non è più così. Le strategie di adattamento sono molteplici e in alcuni casi si riscontra un certo interesse per l’approfondimento dei contenuti fondamentali della propria fede, per reagire a un contesto di vita in cui coesistono secolarizzazione e pluralismo religioso, fenomeni che mettono in discussione valori e principi tradizionali6.

Come evidenzia la professoressa Jocelyne Cesari (University of Birmingham) a proposito dei musulmani in Francia, anche la secolarizzazione in atto nel paese ha influenzato i giovani musulmani spingendoli, in molti casi, a individualizzare e privatizzare la loro religione. Questi processi, secondo Oliver Roy (Istituto universitario europeo), mettono anche in discussione l’idea stessa di una comunità musulmana «unica» in Europa: «Non esiste un Islam occidentale, esistono musulmani occidentali». L’individualizzazione può significare maggiore libertà di adattare alcune regole a determinati contesti o di sviluppare forme inedite di mescolanze e sincretismo, ma può anche portare a orientamenti fondamentalisti e radicali, tendenza ulteriormente complicate dalla diffusione delle nuove tecnologie che ha aggiunto nuove opportunità ma, parallelamente, nuovi rischi. L’uso di internet e dei canali satellitari può infatti portare allo sviluppo di interpretazioni «bottom up» dell’Islam (interpretazioni fai da te della religione), un Islam «cut and paste» (un Islam taglia e incolla che ognuno si costruisce prendendo quello che più gli piace o gli fa comodo), eclettico, dal quale le persone possono prendere ispirazione a seconda delle proprie preferenze. L’incontro online con particolari messaggi o predicatori può anche legare i giovani nati in Italia a pratiche religiose lontane dalle loro esperienze familiari e favorire la diffusione di visioni radicali e inconciliabili con il contesto di vita, producendo situazioni d’isolamento e straniamento che portano a rifugiarsi sempre più in ambienti «protetti», nella rete o nella vita reale.

Mirandola (Mo). Ziamri Imane una ragazza di famiglia di origine magrebina ha aderito al bando del Servizio Civile Straordinario nel periodo successivo al terremoto che ha colpito l'Emilia prestando la sua opera presso un Centro Diuo per anziani
Mirandola (Mo). Ziamri Imane una ragazza di famiglia di origine magrebina ha aderito al bando del Servizio Civile Straordinario nel periodo successivo al terremoto che ha colpito l’Emilia prestando la sua opera presso un Centro Diuo per anziani

Oltre le moschee e i centri islamici

Il crescente individualismo dei giovani musulmani con riferimento alla fede islamica può essere collegato alla perdita d’autorità delle organizzazioni religiose, che non sono più in grado di trasmettere i loro valori e di rispondere alle domande e ai bisogni delle nuove generazioni. Per gli adulti immigrati e quindi per le istituzioni da loro create (moschee e centri islamici) è infatti difficile comprendere fino in fondo il contesto in cui i giovani crescono e socializzano. Alle difficoltà e alle paure dei genitori che i figli seguano l’esempio dei coetanei italiani e quindi perdano i propri valori tradizionali, fa da contraltare, però, la cosiddetta «forza della numerosità», che sta diventando un aspetto importante nel rapporto fra giovani e religioni. Per i figli dell’immigrazione, infatti, la sensazione di essere «come un pesce fuor d’acqua» si manifesta quando essi assumono comportamenti che li distinguono dalla maggioranza dei coetanei. Tuttavia, l’aumento della visibilità delle famiglie musulmane, del numero degli studenti che a scuola si dichiarano musulmani, delle ragazze che indossano il velo e di un protagonismo associativo legato alla religione può diventare un terreno favorevole all’emersione di identità religiose latenti, inibite dal timore della discriminazione. La religione e le associazioni religiose create dalle seconde generazioni, in questi casi, sembrano soddisfare il desiderio di trovare un punto di riferimento morale e il proprio posto nel mondo, evidenziando la propria originalità, all’interno di una precisa appartenenza. L’Islam praticato insieme ai propri coetanei offre stabilità, un quadro in cui si può vivere da musulmani nella società italiana, continuando però a interrogarsi sia rispetto all’identità religiosa dei propri genitori in Italia, sia rispetto all’identità religiosa percepita nei paesi d’origine, in cui essere musulmano va per così dire da sé e determinati comportamenti non richiedono continue giustificazioni, come invece avviene in Italia.

Le associazioni musulmane dal «chi siamo» al «cosa possiamo fare»

La nascita di associazioni musulmane di seconda generazione, come ad esempio quella dei «Giovani Musulmani d’Italia», ha attirato l’attenzione degli studiosi sociali per la sintesi che tali realtà sembrerebbero esprimere tra religiosità dei padri e religiosità dei figli e per la capacità di porsi come musulmani in Italia, protagonisti nella costruzione della società italiana. Le associazioni sembrano infatti esprimere la richiesta di uguaglianza di questi nuovi italiani che non si limitano a chiedere di essere riconosciuti come cittadini liberi di professare le proprie convinzioni religiose, ma domandano anche di partecipare attivamente alla società, al pari dei loro coetanei non musulmani. Oltre quindi a offrire formazione e aggregazione per i propri membri, le associazioni superano l’atteggiamento rivendicativo di diritti tipico delle prime generazioni e, forse considerando ormai acquisito il loro riconoscimento in quanto associazioni di italiani musulmani, guardano al di là dei confini della propria religione e della propria cultura di origine per proporre e realizzare insieme ad altre associazioni e singoli italiani progetti e attività in ambiti diversi. Ci troviamo quindi in presenza di una nuova generazione che non si accontenta più solo di esserci, ma che vuole partecipare attivamente alla costruzione di significati, che cerca quotidianamente di conquistare i propri spazi di azione e rivendicazione, sia rispetto alle prime generazioni sia rispetto all’intera società italiana. Superato il passo del «chi siamo», ora le associazioni sembrano cercare di rispondere alla domanda del «che cosa possiamo fare» in relazione al contesto sociale in cui sono inserite. Per le seconde generazioni, il riferimento all’immigrazione e alla diversità deve essere abbandonato: la relazione è sullo stesso piano, tra (quasi) cittadini7, ovvero tra residenti che si impegnano per il bene comune della comunità e della città in cui vivono.

Il cambiamento è significativo: da immigrati considerati destinatari di interventi, i giovani musulmani vogliono diventare coprotagonisti nei processi di costruzione delle politiche pubbliche. La seconda generazione perciò non confina più l’Islam a una questione personale, «da immigrati», ma cerca di far entrare il discorso religioso nel più ampio dibattito pubblico sul pluralismo, liberandolo dai suoi legami con l’immigrazione, di cui spesso i nuovi attori non hanno alcuna esperienza.

L’obiettivo di partecipazione si è tradotto, nei fatti, in un’idea di cittadinanza «praticata». La seconda generazione aspira a essere riconosciuta come partner, ad avere un ruolo attivo negli eventi culturali delle città, a intervenire laddove possibile nei processi decisionali sostenendo l’idea che l’Islam è compatibile con forme di cittadinanza attiva.

Reggiolo (Re). Aulakh Sahar Shahzadi, di famiglia di origine pakistana ha aderito al bando del Servizio Civile Straordinario nel periodo successivo al terremoto che ha colpito l'Emilia prestando la sua opera presso un Centro Diuo per anziani
Reggiolo (Re). Aulakh Sahar Shahzadi, di famiglia di origine pakistana ha aderito al bando del Servizio Civile Straordinario nel periodo successivo al terremoto che ha colpito l’Emilia prestando la sua opera presso un Centro Diuo per anziani

Le associazioni: i punti critici

Le aspirazioni però spesso si scontrano con la realtà, che vede le associazioni di seconda generazione, pur apprezzate da gran parte dei gruppi politici locali, non ancora completamente in grado di rappresentare l’Islam davanti alle istituzioni, anche per tensioni intee alla comunità islamica soprattutto riguardo ai processi di selezione delle leadership.

Un altro aspetto importante da mettere in luce è la relazione di queste associazioni con i propri membri. Essa infatti pone anche dei rischi, come ad esempio, quello di porsi come l’«unica vera via», quasi che l’appartenenza associativa risulti più importante dell’appartenenza religiosa, al punto che solo l’associazione possa pretendere di porsi come rappresentante dell’Islam. Il rischio è anche che, per i membri, le associazioni possano trasformarsi in un ghetto che chiede alla società italiana spazi di partecipazione e di riconoscimento, ma esclude anime e visioni diverse al proprio interno. Se le associazioni possono infatti configurarsi come un ponte tra la cultura islamica e occidentale, come pure tra i padri e i figli della nuova presenza musulmana in Italia, il rischio è che si trasformino in realtà che aderiscono incondizionatamente al pensiero dei padri o che cercano di riproporre modi di vita e pratiche proprie dei contesti di origine. Si tratta di un rischio concreto soprattutto in relazione alle modalità con cui si strutturerà nei prossimi anni l’egemonia religiosa e culturale nel confronto tra le generazioni. La sfida è rappresentata dalle relazioni che si sviluppano con la generazione dei genitori e dal modo in cui interagiscono con le esigenze della fedeltà e il conformismo. Questioni come l’autorità e la rappresentanza hanno, infatti, strettamente a che vedere con le dinamiche intergenerazionali, anche in relazione al modo in cui le prime generazioni considereranno l’Islam dei figli: se confinato in associazioni giovanili di «eternamente giovani», se cornoptato per influenzae gli orientamenti o se riconosciuto come una «terza via» in grado di esprimere autorità e rappresentanza (viste le competenze relative al contesto italiano e a quello di origine). La sfida ancora tutta da giocare riguarderà proprio la capacità dell’associazionismo islamico di sviluppare processi trasparenti di formazione delle leadership, in grado di garantire indipendenza e pluralismo. Al momento la creazione di una propria leadership è una delle questioni più importanti con cui si sta confrontando l’Islam in Italia. Il processo di selezione, in particolare rispetto ad alcune realtà associative giovanili, rischia di essere connotato da derive nepotiste, soprattutto per quanto riguarda la formazione teologica e culturale dei quadri, restando ancora troppo orientata verso (e influenzata da) i paesi di origine.

Viviana Premazzi

Note

(1) Abis Analisi e Strategia, G2: una generazione orgogliosa, Rapporto di ricerca, Milano 2011.
(2) Joceyline Cesari, Sean McLoughlin, European Muslims and the Secular State, Ashgate, London 2005.
(3) Viviana Premazzi, Religioni in migrazione. Intervista a Maurizio Ambrosini (Milano, 27 novembre 2014), in Giovanni?Salmeri (a cura di), Troppa religione o troppo poca. Cristiani e musulmani alla prova della secolarizzazione, Marsilio, Padova 2016, pp. 75-77.
(4) Joceyline Cesari, Andrea Pacini, Giovani Musulmani in Europa. Tipologie di appartenenza religiosa e dinamiche socio-culturali, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2005.
(5) Anna Granata, Di padre in figlio, di figlio in padre. Il ruolo innovativo delle seconde generazioni nelle comunità religiose di minoranza, «Mondi migranti» 3 (2010), pp. 86-100.
(6) Cfr. Luisa Deponti, Migrazione e religione: la prospettiva dei giovani della seconda generazione, «Corriere degli Italiani», 3 ottobre 2012.
(7) Diciamo «quasi» perché molti musulmani, pur nati in Italia, non hanno ancora la cittadinanza, dato che la legge attuale non è basata sullo «ius soli».

Gavello (Mo). Un bambino di origine magrebina giocano a pallone presso la Casa Famiglia gestita dall' associazione Papa Giovanni XXIII
Gavello (Mo). Un bambino di origine magrebina giocano a pallone presso la Casa Famiglia gestita dall’ associazione Papa Giovanni XXIII


L’esperienza

Oratori, un passo avanti

Nato come luogo di rafforzamento della religione cattolica tra i più giovani, da qualche anno l’oratorio ha attenuato questa caratteristica originaria. Oggi, soprattutto nelle regioni del Centro Nord, l’istituzione accoglie molti ragazzi stranieri – i numeri parlano del 20-25% -, indipendentemente dal loro credo religioso. Per gli stranieri la motivazione è quasi sempre strumentale e la grande maggioranza dei genitori dei ragazzi non partecipano alle attività. Tuttavia, il ruolo che giocano gli oratori nel superamento delle differenze è rilevante.

Nel contesto italiano, in particolare nel Centro Nord, l’oratorio è rimasto nel tempo un luogo importante di socializzazione e punto di riferimento sotto diversi aspetti per molti bambini e adolescenti, oltre che per le loro famiglie.

Anche se la dimensione religiosa è la base e il cardine di tutte le attività che l’oratorio propone, non sembra rappresentare un elemento discriminante per chi non professa la religione cristiano cattolica. Oggi si assiste infatti a una diminuzione della partecipazione da parte dei giovani di origine italiana e un aumento nell’uso di strutture e servizi offerti dall’oratorio da parte dei giovani di origine straniera e delle loro famiglie, anche se, come vedremo più avanti, questo uso è nella maggior parte dei casi strumentale.

L’oratorio nasce come una struttura aperta a tutti e pronta ad accogliere anche coloro che esprimono bisogni peculiari: esso è, per sua natura, in dialogo con il contesto locale nel quale è inserito ed è attivo protagonista nei cambiamenti che coinvolgono la comunità alla quale appartiene e coinvolto nelle problematiche che emergono1.

Cosa dicono le ricerche

Nel 2015, secondo la ricerca Ipsos L’oratorio oggi, commissionata dalla Fom (Federazione oratori milanesi) e da Odielle (Oratori diocesi lombarde), gli oratori in Lombardia erano 2.307. Nel 15% di questi si svolgono attività specifiche per gli stranieri. In media, infatti, almeno un bambino su dieci che frequenta l’oratorio è straniero e di questi un terzo è musulmano. Anche in Piemonte, negli oratori salesiani, già nel 2008, il 21% dei ragazzi che li frequentavano erano stranieri2 e provenivano soprattutto da Maghreb, Perù, Ecuador e Brasile. In alcuni oratori delle diocesi lombarde – come, ad esempio, Cremona, Lodi e Milano – la presenza di minori stranieri raggiunge percentuali vicine al 40- 50% di tutti i frequentanti3. Nei diversi oratori si trovano racconti e pratiche diverse dovute anche alle diverse caratteristiche delle zone e della tipologia di immigrazione.

Secondo la ricerca Educare generando futuro. I minori di origine straniera in oratorio: dall’integrazione alla condivisione a cura di Ismu, Fom, Caritas Ambrosiana e Ufficio Pastorale Migranti Diocesi di Milano, l’oratorio viene scoperto per la prima volta dai ragazzi stranieri soprattutto grazie al doposcuola4 o ai corsi di lingua italiana, organizzati in genere per gli adulti, i genitori, che spesso devono portare con sé i figli piccoli, o grazie ad amici e compagni di scuola che invitano a giocare negli spazi all’aperto o nelle squadre sportive. Nel primo caso sono per lo più gli insegnanti della scuola a parlare ai ragazzi della possibilità di frequentare un doposcuola e dell’aiuto che potrebbe dare loro sia per l’apprendimento della lingua sia per un sostegno scolastico più generale.

Più rare sono le situazioni per cui la prima conoscenza avviene grazie all’iscrizione, da parte della famiglia, all’oratorio estivo, oppure attraverso la partecipazione alla messa e al catechismo5.

Secondo la ricerca condotta dalla Caritas Ambrosiana6 sui doposcuola nella diocesi di Milano, più del 40% dei ragazzi e delle ragazze che li frequentano è di origine immigrata con punte del 90% nei quartieri popolari di Milano. Questo dato supera il 50% nella città di Milano e nella zona di Lecco mentre nelle altre aree della diocesi tale valore si attesta intorno al 30- 35%. Nella sola diocesi ambrosiana sono presenti quasi 200 doposcuola, nella maggior parte di essi sono coinvolti prevalentemente volontari: universitari, insegnanti e pensionati.

In fila per l’oratorio estivo

L’oratorio estivo è uno dei momenti più importanti nella vita della struttura ed è, sempre più, un’occasione fondamentale di condivisione di esperienza tra italiani e stranieri e di educazione ai valori che sono comuni a tutte le nazionalità e le religioni: l’amicizia, il rispetto dell’altro, l’onestà7.

L’indagine Educare generando futuro mette in luce come l’oratorio estivo risulti essere tra le attività maggiormente frequentate dai ragazzi di origine straniera: la percentuale di minori stranieri si attesta, infatti, al 27% circa, sia per i maschi sia per le femmine. Sempre secondo i dati della ricerca, sul totale dei ragazzi stranieri presenti negli oratori estivi, la percentuale di cattolici si attesta al 60,2%; i musulmani tra i minori immigrati sono invece il 26,9% e coloro che appartengono ad altre confessioni cristiane rappresentano circa il 10%.

È possibile anche che alcuni ragazzi di origine straniera, i più grandi, dopo i primi anni da «utenti/usufruitori di servizi», prendano degli impegni e delle responsabilità in oratorio, come il compito di allenare una squadra sportiva, di fare l’animatore all’oratorio estivo o, più raramente, di partecipare agli incontri di catechismo o di confronto e riflessione settimanale del gruppo adolescenti. In quest’ultimo caso, può avvenire che i momenti di preghiera non siano vincolanti per loro (possano cioè non pregare) qualora siano di religione non cattolica. Come spiega il sociologo Maurizio Ambrosini (Università di Milano), infatti, «l’oratorio non viene percepito come un luogo di indottrinamento cattolico. Alcuni lo frequentano solo per le attività sportive, per altri invece è anche un’occasione di impegno»8. È quella che la professoressa Paola Bonizzoni (Università Milano Bicocca) chiama «inclusione non partecipante»: «I ragazzi hanno la possibilità di fare comunque un’esperienza di spiritualità e di riflessione che trascende (in quanto universale e connaturata alla natura umana) la specificità (e la padronanza) del linguaggio cattolico»9.

Don Andrea Plumari, della parrocchia di Precotto, indica (un suo commento anche a pagina 44, ndr) diversi atteggiamenti adottati da chi non è di religione cattolica rispetto alla preghiera: dalla partecipando alla preghiera, senza però pregare, per sentirsi comunque parte del gruppo a chi preferisce invece stae totalmente al di fuori per evitare problemi, probabilmente anche con la famiglia.

In poco più della metà degli oratori che compongono il campione della ricerca Educare generando futuro ci sono animatori di origine immigrata (52%) e il 44,4% delle parrocchie ha responsabili stranieri negli ambiti relativi alla pulizia e manutenzione, anche se in questo caso si tratta di adulti. Più scarsa è invece la partecipazione nei consigli pastorali di persone immigrate o tra i catechisti: 23,5% e 19%. Anche la quota di educatori (13,4%) e di allenatori sportivi (12,9%) risulta essere relativamente modesta.

L’oratorio e le famiglie: in cerca di cura ed educazione

Le famiglie intervistate, italiane e straniere, anche di religione non cattolica, considerano l’oratorio un luogo di educazione ed accudimento, un posto sicuro, controllato dagli adulti che lo gestiscono con un’attenzione educativa ai ragazzi, in cui viene chiesto il rispetto delle regole e vengono foiti stimoli positivi e non credono che la connotazione religiosa sia un problema per il proprio figlio. Esistono comunque casi, anche se più rari, di genitori che temono un luogo connotato dal punto di vista religioso. A Torino, ad esempio, un genitore, marocchino musulmano, voleva vietare al figlio di giocare nella squadra di calcio dell’oratorio perché temeva lo volessero convertire10.

L’approccio dominante nei confronti delle attività e dei gruppi presenti in parrocchia e in oratorio è, però, di carattere strumentale: per tutti – italiani e non, cattolici e musulmani e di altri credi – l’oratorio sopperisce al bisogno di cura e di educazione.

Sarebbe interessante capire se, nel caso ci fossero strutture simili, organizzate dalle proprie comunità religiose, la partecipazione si orienterebbe verso queste piuttosto che verso gli oratori che hanno il valore aggiunto di offrire ai ragazzi la possibilità di stare anche con ragazzi italiani. Il caso della comunità filippina, da questo punto di vista, è emblematico: i filippini, infatti, tendono a fare gruppo a sé e si concentrano soprattutto nelle cappellanie dove celebrano la messa nella propria lingua.

CAMPOSANTO (MO). ALCUNE ADOLESCENTI DI FAMIGLIE DI ORIGINE TURCA E MAGREBINA FREQUENTANO IL DOPOSCUOLA ORGANIZZATO DALL' ARCI IN COLLABORAZIONE CON IL COMUNE
CAMPOSANTO (MO). ALCUNE ADOLESCENTI DI FAMIGLIE DI ORIGINE TURCA E MAGREBINA FREQUENTANO IL DOPOSCUOLA ORGANIZZATO DALL’ ARCI IN COLLABORAZIONE CON IL COMUNE

Genitori stranieri: un coinvolgimento ancora limitato

Nonostante all’oratorio ci siano possibilità di incontro non solo tra i ragazzi, ma anche tra le famiglie, i genitori dei ragazzi stranieri sembrano relazionarsi maggiormente con i connazionali o con altri stranieri e meno con i genitori italiani, partecipando poco alle occasioni di festa e agli incontri dedicati ai genitori, mentre sembra cerchino occasioni di incontro e di confronto con chi si occupa del doposcuola e chi ha ruoli di responsabilità all’interno dell’oratorio11.

Le famiglie hanno un ruolo attivo nella fase del «contatto» poiché sono loro che devono iscrivere il figlio al doposcuola o all’oratorio estivo, ma sono meno coinvolti nelle fasi successive: i livelli di partecipazione, infatti, sono molto bassi. Sempre secondo la ricerca Educare generando futuro, nessuna attività/iniziativa vede il coinvolgimento di più del 7% di famiglie immigrate. Mentre, laddove presenti, sono impegnate in attività caritative/missionarie (6,3%), nel gruppo famiglie (6,2%) e nelle attività ricreative/culturali (5,2%). Ugualmente basso è il coinvolgimento in ruoli di responsabilità, come già segnalato in precedenza nella partecipazione ai consigli pastorali o tra i catechisti.

L’oratorio è un luogo dove si costruiscono e si sviluppano importanti relazioni tra pari e con adulti significativi: sacerdoti, suore, educatori ed educatrici e in cui la provenienza e l’origine dei genitori spesso passano in secondo piano rispetto alle dinamiche e ai processi classici di socializzazione dei ragazzi e degli adolescenti. I ragazzi vivono, infatti, nelle relazioni tra pari una dimensione di normalità e le differenze – che si vedono di più nella generazione dei genitori – sono spesso superate da un radicato senso di appartenenza al territorio in cui si abita e si vive e ai luoghi che si frequentano, come l’oratorio, appunto, più che alle proprie origini.

Per il dialogo serve la conoscenza

Dal punto di vista dell’offerta e della proposta valoriale ed educativa dell’oratorio gli intervistati per la ricerca Educare generando futuro concordano su due questioni: la presenza di ragazzi stranieri negli oratori e nelle parrocchie stimola l’innovazione nell’organizzazione delle attività e richiede, in particolare con riferimento alla presenza di minori stranieri di fede non cattolica, che vengano organizzate occasioni di mutua conoscenza e, allo stesso tempo, fa sorgere un bisogno di formazione specifica per gli educatori, i catechisti e gli animatori.

Quello della formazione e delle occasioni di incontro, non solo per catechisti ed educatori, ma anche per i ragazzi e le loro famiglie, è un tema ricorrente rispetto alle questioni poste dall’incontro e dal dialogo interculturale ed interreligioso: prima di dialogare è necessario conoscersi.

Sempre più urgente appare il bisogno di formazione e accompagnamento attraverso l’organizzazione di incontri, anche su temi molto specifici come quello della legislazione e regolazione dell’immigrazione e, soprattutto, dal punto di vista religioso, sull’Islam e le sue diverse correnti.

Già il cardinal Martini nel documento Noi e l’Islam del 1990 metteva in guardia contro il conflitto e il relativismo disinformato. Il fenomeno, infatti, va conosciuto, precisava, per evitare «uno zelo disinformato che può esprimersi sia attraverso atteggiamenti di chiusura pregiudiziale sia – più sovente – attraverso atteggiamenti superficiali che, in nome di un generico ottimismo, non colgono la complessità delle questioni e i problemi. La posizione corretta è un serio sforzo di conoscenza, un supplemento di cultura»12.

Come sottolinea don Andrea Pacini, rispetto all’Islam, l’obiettivo di questi percorsi di formazione dovrebbe essere quello di «fornire una conoscenza in grado di impedire il cristallizzarsi di pregiudizi e atteggiamenti conflittuali o irenici (in entrambi i casi espressione di zelo disinformato) sia per dare quel minimo di conoscenza che permetta di entrare in rapporto con l’altro in modo efficace (conoscendo l’essenziale che riguarda la religione e la cultura altrui e le questioni problematiche in rapporto alla propria cultura e fede religiosa)»13.

Anche il documento Musulmani all’oratorio dell’Ufficio Cei per l’Ecumenismo e il dialogo interreligioso considera l’opportunità di invitare imam locali per fornire agli educatori strumenti utili a una migliore conoscenza e comprensione dei ragazzi: «Il dialogo interreligioso e interculturale, infatti, esigono la conoscenza della propria e dell’altrui religione»14.

Aumentare la formazione e la sensibilità

È importante, però, proporre anche momenti di formazione al cristianesimo per le famiglie straniere non con l’obiettivo di convertirle, ovviamente, ma per far loro conoscere i valori che stanno alla base del «servizio di cui usufruiscono». In alcune realtà questo avviene già, come ha raccontato all’Inteational Joualism Festival di Perugia 2015 mons. Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo: «Molte famiglie di immigrati, ad esempio, si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica per una finalità di tipo culturale, per conoscere la cultura del paese in cui si trovano»15.

Nonostante venga posto il problema della formazione e della conoscenza reciproca, quello che si riscontra nei fatti è, però, una bassa partecipazione ai momenti di formazione organizzati. Dall’indagine Educare generando futuro emerge, infatti, che la maggior parte dei catechisti, degli animatori e degli educatori non partecipano ad attività di formazione sul tema dell’immigrazione e della multiculturalità. Questo sembra causato, per lo meno nelle risposte raccolte dall’indagine, principalmente dalla scarsa sensibilità sul tema che prevale negli oratori e nelle parrocchie  e dalla mancanza di competenze necessarie per l’organizzazione di queste attività.

Viviana Premazzi

Note

(1)  Ismu, Fom, Caritas ambrosiana e Ufficio pastorale migranti Diocesi di Milano, Educare generando futuro. I minori di origine straniera in oratorio: dall’integrazione alla condivisione, Milano 2014.
2)  Rosita Deluigi, La progettualità ricercata. Minori immigrati e intrecci educativi nel territorio, Edizioni Università di Macerata 2008.
(3)  Ismu, Progetto Oratorinsieme, Milano 2014.
(4)  Il doposcuola è un servizio di accompagnamento educativo, con particolare attenzione al sostegno allo studio. In alcune realtà i ragazzi stranieri costituiscono la maggior parte degli iscritti.
(5)  Anche perché per lo più i ragazzi stranieri non sono di religione cattolica, bensì musulmana, oppure cristiano ortodossa o cristiano copta.
(6)  Caritas Ambrosiana, I doposcuola parrocchiali nella diocesi di Milano, Milano 2010.
(7)  Laura Badaracchi e Claudio Urbano, Se in oratorio arriva lo straniero, «Popoli» aprile 2011.
(8)  Ibidem.
(9)  Paola Bonizzoni, Incroci. Traiettorie di socialità di adolescenti italiani e stranieri in un oratorio milanese in Ambrosini M., Bonizzoni P., Caneva E., Incontrarsi e riconoscersi. Socialità, identificazione, integrazione sociale tra i giovani di origine immigrata, Fondazione Ismu, Milano, p. 120.
(10)  Nell’ottobre 2015, sempre a Torino, un’altra polemica ha riguardato il ritiro da parte di alcune famiglie musulmane dei propri figli da un corso di musica organizzato dalla scuola. Di fronte a questo genere di incomprensioni che possono anche generare scontri è importante offrire occasioni di confronto aperto, coinvolgendo anche i responsabili religiosi di entrambe le comunità e cercando di trovare un accordo nel rispetto delle diverse sensibilità, quella del bambino, quella del genitore e quella dello spazio-oratorio o della scuola.
(11)  Cfr. Educare generando futuro, opera citata.
(12)  Andrea Pacini, Il dialogo interreligioso e le relazioni islamo-cristiane in Italia, p. 11.
(13)  Ibi, 12.
(14)  Cei – Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, scheda 3a e 3a bis, I musulmani in oratorio, p. 2.
(15)  Laura Lana, Come costruire il dialogo interreligioso. Cristiani, ebrei e musulmani a confronto, in www.perugiaonline.it, 15/04/2015.

REGGIO EMILIA. MANIFESTASZIONE DELLA COMUNITA' MUSULMANA
REGGIO EMILIA. MANIFESTASZIONE DELLA COMUNITA’ MUSULMANA

Il commento

Identità cercasi

Credo sia ormai chiaro a tutti che ci troviamo in un’epoca in cui la Chiesa in Europa si pone come una realtà tra le tante, non più come la realtà predominante tra tante piccole realtà religiose (e non): basta osservare l’attuale composizione delle assemblee nelle nostre parrocchie. È vero che vi è ancora un significativo senso di appartenenza alla Chiesa, almeno in Italia, ma è altrettanto vero che è debole la coscienza di cosa sia realmente la Chiesa; per esempio molti chiedono ancora i sacramenti per i propri figli – e qui si esprime un certo senso di appartenenza – ma questi stessi non hanno più chiaro cosa sia la Chiesa. Ci si potrebbe chiedere: ma è necessario essere coscientemente cristiani per essere in grado di incontrare il diverso? A questa domanda rispondo con un’altra domanda: ma quale altra personalità è riuscita a produrre la cultura non cristiana? Mi pare che l’uomo europeo da una parte rifiuti di riconoscersi cristiano o ne ha una coscienza debole, dall’altra non ha più un volto: non sa più chi è. Questa non coscienza di ciò che si è genera confusione nel rapporto con l’altro: più non sai chi sei, più l’altro ti fa paura.

Solo dove ci sono luoghi, anche con numeri esigui, dove si ha chiara quale sia la ragion d’essere della Chiesa e quindi della propria personale vocazione – quindi i ragazzi scoprono che la vita ha uno scopo – , si sta ricominciando a costruire. Gli oratori nelle nostre città spesso sono dei luoghi dove ciò accade, nel silenzio più totale dei mass media ma tra la gratitudine delle famiglie.

Solo un’identità chiara consente di guardare all’altro non come un problema ma come un’occasione anche per approfondire la propria identità. Da quando nasciamo, anzi già dal grembo materno, noi scopriamo chi siamo in rapporto con qualcuno che è altro da noi: fin dall’inizio della vita l’altro non è un problema ma un’occasione.

Con queste premesse non può fare paura avere tra i ragazzi dell’oratorio alcuni mussulmani: loro sanno di essere accolti dalla Chiesa e nessuno, né noi né loro, deve rinunciare alla propria identità o annacquarla. È un’arricchimento reciproco che costringe ad approfondire la propria identità e fa scoprire che l’altro è una risorsa per ciascuno.

don Andrea Plumari
parrocchia San Michele Arcangelo in Precotto, oratorio San Filippo Neri, Milano

 

REGGIO EMILIA. MANIFESTAZIONE DI SOLIDARIETA' CON LA FRANCIA E CONTRO IL TERRORISMO, JE SUIS CHARLIE. NELLA FOTO ALCUNE DONNE MUSULMANE ALLA MANIFESTAZIONE
REGGIO EMILIA. MANIFESTAZIONE DI SOLIDARIETA’ CON LA FRANCIA E CONTRO IL TERRORISMO, JE SUIS CHARLIE. NELLA FOTO ALCUNE DONNE MUSULMANE ALLA MANIFESTAZIONE


Le criticità

Stato italiano e islam, dialogo complicato

In Italia non esiste un solo Islam, ma una pluralità di soggetti islamici. Anche per questo per lo stato non è facile trovare un’«intesa» come per le altre confessioni religiose. A ciò vanno aggiunte le pesanti intromissioni di alcuni paesi stranieri (Arabia Saudita e Qatar, in primis) e le ambiguità insite nelle figure degli imam. E il piano «Moschee trasparenti» trova molte resistenze.

A titolo di premessa è opportuno ricordare che, al di là di un nucleo condiviso di elementi/principi/pilastri, l’Islam, e in particolare l’Islam sunnita, non può essere considerato un insieme monolitico; profonde sono le differenze che si possono registrare all’interno di un mondo che si estende dal Marocco all’Indonesia sia sul piano interpretativo che dottrinale. Su questo, inoltre, si innestano, si mischiano, talvolta si confondono, tradizioni e pratiche culturali proprie dei diversi paesi o di alcune aree all’interno di questi stessi paesi. A questa condizione intrinseca non sfuggono le diverse comunità islamiche presenti in Europa e in Italia. Questa pluralità si esprime, dunque, in una varietà di sale di preghiera e di centri culturali islamici. Inoltre, negli ultimi anni si sono costituite diverse associazioni di seconda generazione, che cercano di ritagliarsi un ruolo attivo nella società italiana e stanno cercando di proporsi come interlocutori per le istituzioni.

Il punto di partenza dovrebbe dunque essere il seguente: non si può far riferimento a un solo Islam né ancora, almeno per il momento, a un «Islam italiano» (e neanche europeo), esiste invece una comunità islamica composta da musulmani «provenienti da altrove» (dal Marocco al Pakistan, dall’Albania all’Iran), da musulmani nati e cresciuti in Italia e da convertiti. A livello locale, in molti contesti, si sperimentano forme positive di convivenza e integrazione che sembrano, per ora, reggere alla prova dei fondamentalismi, ma molte questioni devono trovare una risposta politica forte a livello nazionale, che poi si possa concretizzare e rendere operativa a ogni livello.

Le ingerenze di Arabia Saudita e Qatar

Tra le questioni che ancora non hanno trovato una soluzione c’è, sicuramente, la mancanza di un’intesa con lo stato italiano e la questione della costruzione dei luoghi di culto.

L’Islam ad oggi, non può contare, infatti, su alcun tipo di intesa con lo stato italiano1, al contrario di altre religioni minoritarie come ebraismo o buddismo. La causa principale di tale situazione risiede nella mancanza di una leadership unitaria, riconosciuta e realmente rappresentativa delle diverse organizzazioni e orientamenti. Questa difficoltà è inoltre aggravata dalla presenza di molteplici gruppi nazionali di immigrati musulmani sul territorio italiano e dagli interessi (ingerenze) e dai conseguenti finanziamenti dei paesi di origine o dei paesi del Golfo (Arabia Saudita e Qatar in primis) a determinate organizzazioni. L’intervento dei paesi del Golfo, in particolare, ha spesso sostenuto un Islam meno spirituale e più politico, promotore di battaglie politico-religiose talvolta molto distanti dal vissuto e dalle esperienze dei musulmani in Italia. La questione dei rapporti con i paesi di origine e con i paesi del Golfo deve trovare una risposta urgente, anche rispetto a punti come la costruzione di nuove moschee e il riconoscimento o la formazione degli imam in Italia.

La questione degli imam e il piano «Moschee trasparenti»

Per quanto riguarda gli imam e la loro formazione, se è vero che molti processi di radicalizzazione sono avvenuti online o in carcere e non in moschea, e a causa dell’incontro con determinati imam e predicatori, le moschee possono comunque giocare un ruolo fondamentale nella formazione e nel contrasto alla radicalizzazione. La mancanza di un’intesa con lo stato pone, però, il rischio che, in assenza di controlli, autoproclamati imam possano improvvisare moschee/centri islamici e fare propaganda per un Islam radicale. Nell’ambito del progetto denominato «Moschee trasparenti», lo scorso 11 luglio il ministro dell’Inteo Alfano ha chiamato a raccolta gli esponenti di varie anime della comunità musulmana italiana. L’obiettivo era di discutere il rapporto «Ruolo pubblico, riconoscimento e formazione degli imam»2. Il rapporto, datato 1 aprile 2016 e redatto da 12 esperti guidati dal professor Paolo Naso (Università La Sapienza), insiste sulla necessità di avere imam formati e certificati per guidare i fedeli verso l’integrazione. La formazione non entrerà nel merito delle questioni religiose, ma sarà un percorso civico di riconoscimento delle regole dell’ordinamento italiano3. Nel documento si legge che l’obiettivo è quello di «costituire un nucleo primario di interlocutori delle istituzioni che, per competenza e autorevolezza riconosciute da parte delle loro comunità, conoscenza della realtà italiana ed esperienza nella partecipazione alla vita pubblica del territorio in cui operano, possano svolgere costruttivamente il ruolo di «mediatori» nelle relazioni tra lo stato e le varie associazioni». Gli imam che sottoscriveranno lo statuto potranno ottenere maggiore libertà di accesso a «luoghi protetti quali ospedali, cimiteri, centri di identificazione e accoglienza dei migranti, «case del silenzio» e, naturalmente, le carceri, luoghi, come già detto, dove più forte è il pericolo della radicalizzazione violenta. Un altro punto della discussione, condiviso tra i partecipanti all’incontro, ma criticato aspramente sui social network, è stato l’uso della lingua italiana nei sermoni. Le accuse, rivolte, contro il ministro e la Consulta ponevano l’attenzione sull’idea che i musulmani siano «sorvegliati sociali» e non considerati al pari dei fedeli di altre religioni. Da ultimo, contro la radicalizzazione, è fondamentale che moschee e imam siano in contatto e collaborino a livello locale sia con la polizia e i servizi di sicurezza per condividere informazioni e contrastare esiti violenti di processi di radicalizzazione, sia con le famiglie, le scuole e le altre agenzie formative presenti sul territorio per prevenirla.

modena. preghiera del venerdi nella moschea cittadina
Modena. preghiera del venerdi nella moschea cittadina

L’elenco delle «giustificazioni» e i rischi

Il rischio di giustificare l’Isis (o altri movimenti violenti) con «le guerre fatte in Medio Oriente dagli occidentali» o di identificarlo come creazione del «complotto americano-sionista» e di giustificare i foreign fighters con la discriminazione e il disagio economico e sociale di cui alcuni immigrati sono vittime può generare gravissime conseguenze. Per quanto riguarda i foreign (o domestic) fighters, infatti, non sempre i soggetti radicalizzati sono scarsamente integrati (ancora meno il discorso vale per i convertiti). Se è vero che le scelte legislative e politiche dell’Italia possono determinare dinamiche di rifiuto, di isolamento sociale, di sentimenti contrari al senso di appartenenza civile e comunitaria, soprattutto di quei (molti) musulmani di origine straniera. La radicalizzazione (e tutti gli attentatori degli ultimi mesi lo confermano) ha molteplici cause e può innestarsi su debolezze, talvolta anche personali, di individui che finiscono per abbracciare la violenza, o persino il jihadismo internazionale, perché in cerca di «significato» per la propria vita e di appartenenza a un gruppo. Rispetto a critiche e autocritiche verso «l’Occidente», poste alcune responsabilità innegabili, sarebbe però importante rendere conto della complessità e delle responsabilità dei diversi attori coinvolti in specifiche situazioni. L’autocritica generalizzata non giova e anzi non fa altro che aumentare la credibilità di chi pone come unica soluzione lo scontro «Noi-Loro» e la giustificazione di atti di violenza come vendetta o ritorsione rispetto a ingiustizie e soprusi subiti, facendoci precipitare in una spirale di violenza senza fine.

Il ruolo dei media: tra buonismo cieco e condanna aprioristica

Un ultimo punto critico riguarda il ruolo dei mass media: da un lato i mezzi più tradizionali (televisioni, giornali) spesso presentano l’Islam attraverso generalizzazioni e semplificazioni, dall’altro internet e i social network veicolano varie immagini di questa religione, ma in uno spazio assolutamente non controllato né controllabile. Ne deriva che il discorso pubblico, specie quello diffuso e alimentato dai canali mediatici, oscilla spesso tra un buonismo, cieco di fronte alle problematiche oggettive di certi fenomeni, e una condanna aprioristica e corredata di stereotipi, che può creare il terreno per le derive più intransigenti o sentimenti di rivalsa. C’è il rischio, in fondo, che vengano mostrati solo gli aspetti politicizzati o mitizzati dell’Islam, lontani dalla realtà vissuta quotidianamente dai musulmani italiani. In questo terreno possono proliferare non solo i pregiudizi, ma anche le strumentalizzazioni politiche e conseguenti scelte basate sull’emozione di tutti quei soggetti che colgono solo in modo parziale la realtà islamica. La sfida deve essere, allora, quella di decostruire i pregiudizi e di dare conto della complessità dell’Islam.

Viviana Premazzi

Note

(1)  Sulle intese tra stato italiano e diverse religioni si vedano le puntate della rubrica «Libertà religiosa» in MC n. 1,3,4,5 del 2015 e n. 6 del 2016. Le puntate sono reperibili e/o scaricabili (in formato Pdf) dal sito della rivista.
(2)  Il documento è scaricabile dal web. Un secondo rapporto su moschee e luoghi di culto è di recente uscita.
(3)  Un’iniziativa simile sul tema è stato il corso per leader religiosi organizzato dal 2010 al 2012 dal Fidr («Forum internazionale democrazia e religioni», www.fidr.it) al quale hanno partecipato diversi rappresentanti di moschee e associazioni musulmane da tutta Italia. L’iniziativa era volta a offrire ai leader religiosi informazioni e approfondimenti necessari allo svolgimento di attività culturali e cultuali sul territorio italiano. Benché patrocinata dal ministero dell’Inteo e da quello per la Cooperazione internazionale e l’Integrazione, l’esperienza non ha avuto seguito, specie nell’elaborazione di politiche ufficiali sul tema della formazione degli imam.

Formigine (Mo). Doposcuola all' oratorio della parrocchia S.Giovanni Bosco
Formigine (Mo). Doposcuola all’ oratorio della parrocchia S.Giovanni Bosco

Bibliografia

  • Joceyline Cesari, Andrea Pacini, Giovani Musulmani in Europa. Tipologie di appartenenza religiosa e dinamiche socio-culturali, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2005.
  • Pietro Cingolani, Roberta Ricucci (a cura di), Transmediterranei. Generazioni a confronto fra Italia e Nord Africa, Accademia University Press, Torino 2014.
  • Annalisa Frisina, Giovani Musulmani d’Italia, Carocci, Roma 2007.
  • Anna Granata, Di padre in figlio, di figlio in padre. Il ruolo innovativo delle seconde generazioni nelle comunità religiose di minoranza, «Mondi migranti» 3 (2010).
  • Giovanni Salmeri (a cura di), Troppa religione o troppo poca. Cristiani e musulmani alla prova della secolarizzazione, Marsilio, Padova 2016.
  • Stella Coglievina e Viviana Premazzi, L’Islam in Italia di fronte al fondamentalismo violento, in Martino Diez e Andrea Plebani (a cura di), La galassia fondamentalista tra jihad armato e partecipazione politica, Marsilio, Padova 2015, pp. 126-138.
  • Viviana Premazzi, Secolarizzazione e nuove forme di protagonismo nella seconda generazione musulmana in Italia, in Giovanni Salmeri (a cura di), Troppa religione o troppo poca. Cristiani e musulmani alla prova della secolarizzazione, Marsilio, Padova 2016, pp. 106-116.

Bibliografia sugli oratori

  • Caritas Ambrosiana, I doposcuola parrocchiali nella diocesi di Milano, Milano 2010.
  • Paola Bonizzoni, Incroci. Traiettorie di socialità di adolescenti italiani e stranieri in un oratorio milanese, in Ambrosini M., Bonizzoni P., Caneva E. (a cura di), Incontrarsi e riconoscersi. Socialità, identificazione, integrazione sociale tra i giovani di origine immigrata, Fondazione Ismu, Milano 2011.
  • Ismu, Fom, Caritas Ambrosiana e Ufficio pastorale migranti diocesi di Milano, Educare generando futuro. I minori di origine straniera in oratorio: dall’integrazione alla condivisione, Milano 2014.

Sitografia

  • Chiesa cattolica italiana, Ufficio Nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei: www.chiesacattolica.it/ecumenismo.
  • Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose: www.olir.it.
  • Fondazione Ismu, Iniziative e studi sulla multietnicità: www.ismu.org.

HALIME YANMAZ, 26 ANNI, TURCHIA
HALIME YANMAZ, 26 ANNI, TURCHIA

Questo dossier è stato firmato da:

  •  Viviana Premazzi Esperta di immigrazione e, in particolare, di seconde generazioni di religione musulmana. Collabora con il Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione (Fieri) di Torino e la Fondazione Oasis di Milano. È stata consulente per la Banca mondiale e per l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). Le riflessioni contenute in questo dossier sono state elaborate nell’ambito del progetto «Conoscere il meticciato. Goveare il cambiamento» cornordinato da Fondazione Oasis e finanziato da Fondazione Cariplo.
  • Roberto Brancolini Fotografo indipendente, ha scoperto viaggiando la sua passione per la fotografia. Si occupa prevalentemente di reportage. Il suo lavoro può essere visionato sul sito: www.brancolini.com.
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista, redazione MC.



Aromi e sapori di casa lontana


Per gentile concessione del «Concorso Letterario Nazionale Lingua Madre»


Non solo cibo

Il cibo riveste un ruolo cruciale nelle storie raccontate da molte donne: lo dimostrano i tanti testi che ogni anno giungono al «Concorso letterario nazionale Lingua Madre», assunto come progetto permanente della Regione Piemonte e del Salone Internazionale del Libro di Torino. Il concorso è diretto alle donne straniere (anche di seconda e terza generazione) residenti in Italia e prevede anche una sezione per le donne italiane che vogliano raccontare storie di donne straniere.

Molto più di un semplice premio letterario, il Concorso Lingua Madre negli anni si è trasformato in qualcosa di più grande, grazie anche all’ampia rete di contatti e legami intessuti con associazioni, enti, scuole, carceri, realtà al femminile presenti su tutto il territorio nazionale, ma anche internazionale. Dal 2005 a oggi sono state oltre 4.000 le partecipanti e, tra queste, moltissime hanno dedicato le proprie narrazioni al cibo, sottolineandone il valore identitario, culturale, sociale e simbolico. Da questa constatazione è nata nel 2009 la collaborazione del Concorso con Slow Food che, insieme a Terra Madre, offrono un premio speciale al racconto maggiormente ispirato a piatti e tradizioni culinarie.

E, ancora, proprio grazie a questa forte attinenza tematica, l’anno scorso e in concomitanza con Expo Milano 2015, il Concorso è entrato – con una serie di iniziative e progetti – nel grande network al femminile We Women for Expo, nato per agire sui temi dell’alimentazione, per migliorare il diritto universale al cibo.

Il Concorso è inoltre tra i principali partner di Transnational Appetites: Migrant Women’s Art and Writing on Food and the Environment, un progetto di ricerca – di cui è titolare la prof. Daniela Fargione -, promosso dal Dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Torino e finanziato dalla Compagnia di San Paolo, che ha come obiettivo quello di esplorare la relazione tra arte, letteratura, cibo, cambiamenti climatici, ecologia, dalla prospettiva delle donne migranti. A esso è collegato il Festival «Alla tavola delle migranti» (che avrà luogo il 17 settembre 2016 presso l’Aula Magna della Cavallerizza Reale di Torino): una manifestazione pensata per coinvolgere l’intera cittadinanza sui temi delle culture migranti, della biodiversità culturale, del rispetto dell’ambiente e delle sue risorse in un’ottica di condivisione e cambiamento tra dibattiti, concerti musicali, mostre fotografiche, laboratori di disegno, reading, proiezioni di film e documentari, con la partecipazione di ospiti inteazionali.

Ecco a voi dunque i racconti vincitori del Premio Speciale Slow Food/Terra Madre: una raccolta ricca di tutti i sapori, i colori, i profumi del mondo.

Daniela Finocchi
ideatrice e direttrice del concorso


borscht_in_white_wine_recipe_-_russian_cuisine_170574324-cut1. Il profumo della domenica

di Michaela Sebokova (Slovacchia)

Mi attendeva una lunga giornata all’ospedale, tra una visita diagnostica e l’altra. Non era un periodo buono. Superati i quarant’anni, il mio corpo ha iniziato a protestare. Era giunto il momento di scoprie il motivo. Dopo lunghe discussioni ho convinto mio marito che mi lasciasse affrontare gli esami da sola. Avrebbe pensato lui ai ragazzi, alla scuola e al pranzo.

La mattina degli esami mi sono munita di pazienza, ho infilato una bottiglietta d’acqua nella borsa e sono partita per l’ospedale. Le solite stradine tortuose di montagna, l’abituale traffico di fuoristrada rombanti, api singhiozzanti e motorini folli, semafori rotti, gente a piedi, il piccolo parcheggio sempre pieno. Per incoraggiarmi, prendo un buon caffè al bar accanto all’ospedale e mastico un pezzo di crostata. Mmmh, buona. Sembra fatta in casa. Forse la prepara la mamma del barista. Per un attimo non penso ad altro. La magia del cibo funziona sempre.

Salendo al primo piano passo davanti all’edicola. Mentalmente scarto tutte le riviste che costano più di due euro. La scelta si restringe alle riviste tascabili di cucina. Ne prendo una qualsiasi, pago, e mi siedo davanti all’ambulatorio. Chissà come mai, non ho tempo per cominciare ad annoiarmi che già mi chiamano.

Dopo un’ora esco, sfinita. Bevo un sorso d’acqua, la mano trema, anche la bocca trema. «Su, da brava, che non è niente, hai quasi finito!» cerco di convincermi. Mi ritiro in un angolino, accanto alla finestra. Per il secondo esame devo aspettare il primo pomeriggio, non mi conviene tornare a casa.

Così me ne sto seduta lì, su una brutta sedia di plastica, a osservare la pioggia che batte violentemente sul vetro. Il cielo è cupo e le grosse nuvole corrono a Est, inseguite dal vento. Sento che la mia maschera di coraggio si sta di nuovo sgretolando, il brutto tempo mi si rispecchia nell’anima. Come se cercassi l’ancora di salvataggio, apro la borsa e tiro fuori il libricino di cucina. Vediamo. Polpette di agnello. Torta di radicchio. Pubblicità. Zuppa di lenticchie, bene. Crostata di zucca (ecco, siamo sotto Halloween). Pubblicità. Mi tolgo gli occhiali, mi riposo un po’. Per la prima volta guardo in faccia le persone che dividono la sala d’attesa. Non la condividono, ma la dividono, perché ognuna ha creato intorno a sé un piccolo spazio personale impenetrabile per gli altri. E forse nessuno vuole violentare lo spazio di qualcun altro, ognuno chiuso nei propri problemi e pensieri, dolori e preoccupazioni. Non ci sono bambini, gli unici ammessi a penetrare le difese degli adulti.

C’è una signora anziana, elegante nel suo cappotto un po’ fuori moda. Ogni tanto mi rivolge un’occhiata curiosa. Non m’infastidisce, non è per niente invadente. Ricomincio a leggere. Anatra con le mele. Ravioli di pesce. Pubblicità. L’infermiera chiama l’anziana signora. Torta di patate. Cavolfiore gratinato. Pubblicità. La signora esce, si rimette in una paziente attesa. La osservo sopra gli occhiali, mi sembra che stia recitando una preghiera. Distolgo educatamente lo sguardo. «Io sono una donna forte, forte!» mi ripeto come un mantra e continuo a leggere. Pasta all’uovo. E poi, una breve scritta, un’introduzione: «Il profumo di lasagne, di cannelloni, di pasta al foo che si diffonde in casa… A chi questi piatti non farebbero tornare in mente la domenica, la mamma, l’infanzia?».

Rimango pietrificata. Del tutto irragionevolmente ho voglia di gridare a squarciagola «A me! A me non fanno ricordare proprio niente della mia infanzia, le lasagne e la pasta al foo!». All’improvviso mi sento fuori luogo, fuori paese, fuori pianeta. Mi sembra di essere in un posto del tutto sbagliato, perché i miei ricordi sono sbagliati. La domenica di casa mia sapeva di brodo di carne, pollo fritto, purea di patate e pesche sciroppate. Come faccio a vivere qui, se la parola «lasagne» non sveglia in me nessuna emozione?

Pensavo di essere ormai immunizzata. Integrata. Una brava moglie e mamma di figli italiani. Mimetizzata, una straniera che non nasconde di esserlo ma che non le dispiace se la scambiano per un’italiana; in realtà l’immagine di mimetizzarsi è del tutto ridicola, in un paesino di montagna che conta sì e no cinquecento abitanti e dove tutti sanno perfino che numero di scarpe porti. Certo, ho insegnato ai miei bambini la mia lingua madre, ma la nostra lingua di casa è l’italiano. Preparo le calze per la Befana e le bandiere per la Festa della Repubblica. Cucino le lasagne emiliane, il risotto alla milanese, lo stracotto e la cassata. E qualche volta delizio la famiglia con un piatto tipico delle mie zone, un gulasch di cinghiale o un’oca al foo. Pensavo di avere dietro le spalle la nostalgia di sapori, di profumi. Un errore.

Una risatina isterica mi sale sulle labbra. La mia maschera immaginaria si rompe, sento il rumore assordante quando cade per terra, e comincio a piangere in silenzio. Piango tutte le mie preoccupazioni, paure. E anche la mia folle e improvvisa voglia di tornare bambina e trovare a casa la mamma che prepara il pranzo domenicale.

Dopo qualche istante l’anziana signora si alza, si avvicina.

«Cara, si sente bene?», mi dice con quella sua voce tremula, dolce. Scuoto la testa. Potrebbe essere un sì, o un no.

«Suvvia, cara, non deve piangere così. Si risolve tutto, vedrà. Ce l’ha un fazzoletto?».

Certo che ce l’ho un fazzoletto, ne ho un pacchetto intero, ne sono sicura, ma non riesco a trovarlo. La signora mi dà il suo, di tessuto fine. Profuma di lavanda. Dopo un secondo di imbarazzo ci soffio il naso. Non ho mai usato un fazzoletto di stoffa.

Passano cinque minuti, dieci. Ho smesso di piangere. Nel frattempo, senza rendermene conto, la signora mi si è seduta accanto. Non parliamo, ma tra noi si è già creato un legame particolare.

La signora mi chiede quando ho il prossimo esame. Le rispondo tra due ore. «Allora venga, abbiamo tutto il tempo per prendere un buon tè», dice con la voce che non accetta rifiuti.

Scendiamo le scale, la signora apre il suo ombrello e ci para entrambe. Entriamo nel bar, ordiniamo il tè nero, il più forte che ci sia: niente aromi e sapori aggiunti.

Mi faccio avvolgere da quel profumo familiare, lascio che il tempo scorra e che le cose succedano. Poi, la sua domanda-non domanda rivoltami con tatto: «Le auguro che la cosa che l’ha fatta piangere vada per il meglio».

Guardo il suo viso animato, i gentili occhi grigi. La pelle sembra di alabastro, è quasi trasparente. Per la risposta tiro fuori il libricino e mostro alla signora la pagina con l’introduzione «Il profumo di lasagne…».

Lei inforca gli occhiali e si mette a leggere. Dopo inclina la testa e dice: «Ed è questo che l’ha fatta piangere?».

Arrossisco per la vergogna, la mia disperazione di poco fa ora mi appare ben esagerata.

«Forse non le piacciono le lasagne?» mi sorride dolcemente.

Incoraggiata, le rispondo sinceramente: «È solo che all’improvviso mi sono di nuovo sentita talmente straniera! A me il profumo di lasagne non rievoca nessun ricordo d’infanzia, mia mamma la domenica preparava il brodo e il pollo fritto».

La signora annuisce e dice pensierosa: «Io sono nata qui», fa un gesto vago con la mano, «ma ora che ci penso, sa di cosa profumava la mia infanzia? Di borsch!». E si mette a ridere con una risata argentea, contagiosa. «In sessant’anni vissuti in Italia, mia mamma, ex ballerina del teatro Marijinskij, non ha mai imparato a fare le lasagne. Però faceva un borsch eccezionale!».

L’anziana signora beve un sorso del suo tè nero. Poi mi dà una pacca delicata sulla mano e aggiunge: «Non sia triste perché non ha dei ricordi “giusti”, cara. Consideri invece, quanti italiani possono dire, come noi due, di avere dei ricordi del tutto diversi. Siamo speciali, noi straniere e figlie di donne straniere. Abbiamo in memoria i sapori e i profumi di terre lontane che gli italiani non se li sognano neanche!», conclude con gli occhi luccicanti da monella.

Guardo l’anziana signora di cui non so ancora il nome e le dico riconoscente: «Io sono Michaela. E la ringrazio di cuore».

Lei mi fa un occhiolino e risponde: «E io mi chiamo Anoushka. E la ringrazio tanto per avermi fatto venire in mente il mio piatto d’infanzia. Quando si è anziani, a volte ci si scorda le cose più buone».

Ci scambiamo i numeri di telefono e ci promettiamo di non perderci di vista. Magari potremmo prendere un altro tè insieme, un giorno.

Toiamo all’ospedale. Nel frattempo ha smesso di piovere, il vento forte porta l’odore di bosco autunnale. Sa di castagne e di funghi porcini. Sorrido. Affronterò con pacatezza anche il secondo esame. E la prossima domenica cucinerò una bella pentola di borsch.

Michaela Sebokova

Michaela Sebokova teaserbox_40189041Michaela Sebokova nasce in Slovacchia, a Nove Zamky, il 19 agosto 1975. Nel 2001 si trasferisce in Italia e lavora a Padova come impiegata. Nel tempo libero scrive, legge, traduce letteratura per bambini e si cimenta con la cucina ma, come lei stessa sottolinea, al primo posto rimane sempre la sua famiglia. Ha scritto un libro di narrativa e una fiaba. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati in antologie e riviste. Il suo racconto Il profumo della domenica ha vinto il Premio Speciale Slow Food-Terra Madre del VII Concorso letterario nazionale Lingua Madre.

 


Ciambelline intrecciate-cut2. Magie del passato

di Ramona Hanachiuc (Romania)

Avete mai passato una notte in bianco per aspettare il risveglio della nonna? Io sì. Da piccola.
Passavamo le vacanze insieme, io e mia cugina, dai nonni matei. Privilegio raro direi, mio padre imponeva sempre le vacanze dai nonni patei, quindi, i rari giorni passati dalla Nonna per eccellenza erano giorni dorati… Poi… Poi c’era lei: la mia cuginetta, l’unica cugina femmina, ma nata quattro anni dopo di me, considerata troppo piccola per frequentarci. A detta di mio padre che ovviamente sapeva quel che era meglio per me. Non ha mai voluto capire quanto mi facesse male la lontananza che imponeva dai parenti matei. Ma ora lo capisce… Oh se glielo faccio capire! Non perdo nessuna occasione: ogni volta che posso tolgo una spina dal mio cuore per infilarla nel suo…! Vendetta? Non direi, semplicemente vive ciò che mi ha imposto lui di vivere quando ancora non potevo scegliere per me.

Dicevo che passavo qualche giorno di vacanza dai nonni matei in inverno… Certe volte, prima che calasse la sera, nonna usciva di casa con un catino di legno tra le mani. Io intuivo già dove stava andando. Avvolgevo di corsa un vecchio scialle di lana sulle spalle di mia cugina, le facevo infilare gli stivali nei piedi e la trascinavo, a volte nella neve, dietro di me nel cortile.

«Vieni, vieni, ti faccio vedere una magia…», lei mi seguiva con gli occhi blu spalancati quasi strisciando per terra. Ci avvicinavamo in silenzio al granaio e con l’indice davanti alla bocca chiedevo l’assoluto silenzio: nonna non doveva sapere che eravamo lì. Con un cenno le facevo capire di seguire i miei movimenti: appoggiavamo la fronte alle astine fredde di legno che componevano le pareti del vecchio granaio e guardavamo dentro.

La nonna, leggermente chinata sul catino, setacciava la farina con movimenti regolari e ondeggianti.

Gli ultimi spruzzi di luce che il sole infilava timidamente tra le saette e la polvere di farina mossa dai suoi movimenti, la avvolgevano in una nuvola dorata e cangiante. Troppo piccola mia cugina per capire che non era magia. E con le labbra appuntite sussurrava incantata: «Nonna è diventata una fata…».

Guardavo i suoi occhi grandi e azzurri: erano pieni di incanto e curiosità. Sorridevo e la riportavo di corsa in casa per non farci sorprendere. Aspettavamo la nonna sedute tranquille sul divano, solo le gambe dondolavano impazienti e i cuori battevano forte per l’eccitazione. Erano le nostre impronte nella neve, gli sguardi incuriositi e le guance arrossate dal freddo a tradirci.

Nonna sorrideva nascondendo la bocca dietro al suo scialle, appoggiava il catino con la farina su una sedia vicino alla stufa e lo avvolgeva con una tovaglia pulita. Era per scaldarla: la farina prima di diventare pane doveva essere coccolata, areata e riscaldata vicino alla stufa per tutta la notte.

Poi andavamo a dormire: nonna e nonno nella piccola stanza che di giorno serviva da salotto e cucina, noi bambine nella cameretta adiacente, separati solo da una porta con piccole finestre intagliate, che restava quasi sempre aperta.

All’alba, nonna si alzava, e in silenzio accendeva una piccola lampada a petrolio. Rinfrescava il fuoco buttando qualche pezzo di legno sui carboni ancora accesi e toglieva la tovaglia che aveva ricoperto il catino. La luce gialla e la polvere di farina ricreavano un’altra nuvola che avvolgeva la donna minuta e lievemente curva sulla sua magia… Altri colori, altri profumi… Stesso sguardo dolce e sorridente della nonna.

La luce tremolante e i rumori sordi mi svegliavano e cambiavo posizione nel letto strisciando come un gatto in agguato sotto le coperte, in modo da trovare l’angolazione giusta per non perdermi nessun suo movimento. Cercavo invano di svegliare la piccola addormentata di fianco a me. All’inizio mi seguiva ma non appena riuscivamo a trovare la posizione con la visione migliore e la sua testa ritoccava il letto, ritornava nel mondo dei sogni. Io continuavo a seguire i movimenti lenti che la nonna con il suo corpo snello ma stanco compiva come dei piccoli rituali: legava intorno alla vita il grembiule bianco a fiori rosa, si lavava le mani, controllava con le dita che l’acqua riscaldata sul fuoco non fosse troppo calda e iniziava ad impastare. Con le mani creava un «vulcano» di farina, sotto nascondeva il sale e in mezzo iniziava a versare il lievito sciolto nell’acqua calda insieme a qualche cucchiaino di miele. Lentamente l’impasto iniziava a prendere consistenza.

All’inizio rimaneva incollato alle sue mani, e lei, con sapienti movimenti e l’aiuto di altra farina, lo faceva ritornare nel catino, continuando a mescolare, stringere e lavorare con forza tutta quella massa bianca e morbida. Il profumo iniziava a riempire la casa, profumo acido di pasta lievitata, legna che brucia e calore. Mi riaddormentavo poi sfinita appena nonna rimetteva il vecchio catino vicino alla stufa e sedeva su una sedia per lavorare a maglia per qualche ora.

Al nostro risveglio era tutto pronto: un grande asse di legno ricoperto di farina, piccoli pezzi di impasto che ci aspettavano per prendere le più bizzarre e svariate forme e le teglie unte e infarinate per infoare. Facevamo colazione in un soffio, latte, pane e marmellate, con gli occhi luccicanti fissi sui pezzi di pasta che ci aspettava, poi una volta finito di masticare e deglutire quasi intero l’ultimo boccone, ci mettevamo all’opera.

Sollevavo mia cugina e la sedevo inginocchiata su una sedia morbida; io di fianco a lei in piedi: ero più grande. Iniziavamo a modellare con cura i nostri impasti. Guardavo le piccole manine con le dita grassocce affondare nella pasta morbida, stendere, tirare, annodare, e i suoi occhi grandi e blu che si aprivano e chiudevano ripetutamente.

«Vedi…, – le dicevo. – Vedi che nonna è magica? Hai visto cosa ha fatto diventare la farina che ha portato in casa ieri sera?». Sgranava ancora di più gli occhi e, mordendosi le labbra tra i denti, continuava a lavorare l’impasto morbido.

Lei formava sempre delle colombe, io delle ciambelle intrecciate che spennellavamo poi con l’uovo e infoavamo insieme al pane della nonna e aspettavamo con le guance arrossate dal calore davanti al foo accesso. Ognuna mangiava poi la sua creazione, egoisticamente, orgogliosamente, lodandone la bontà. Stessa farina, stesso foo, forme diverse, gusti diversi per ognuna di noi. Diversi come diversi erano i nostri occhi che guardavano le stesse magie.

Ci pensavo giusto l’altra sera, mentre mia cugina impastava nella sua cucina.
– Facciamo le colombe? –, mi ha chiesto.

– Tu ti ricordi come si fanno? Io non ne sono sicura, eri tu l’esperta!

Solleva gli occhiali e sposta una ciocca di capelli, poi si mette al lavoro.

– La mia è più graziosa –, ho detto qualche minuto dopo. Lei ride divertita: – Certo! La mia è incinta… Come me…  –. Aspetta il secondo figlio la mia cuginetta.

E mentre la guardo toccarsi amorevolmente la pancia con la mano aperta, cerco di ricordarmela da piccola, e mi vengono in mente i suoi grandissimi occhi azzurri. Azzurri e curiosi come il mare.

Ramona Hanachiuc

Ramona Hanachiuc cRamona Hanachiuc nasce il 7 luglio del 1976 a Vaslui in Romania, dove riceve un’istruzione scolastica durante gli ultimi anni del periodo Ceausescu. Mette al mondo, all’età di vent’anni, sua figlia Ioana e nel 1999 decide di trasferirsi con lei in Italia, ad Alba, dove ancora oggi vive e lavora. È volontaria del 118 cittadino e nel tempo libero – come lei stessa racconta – ama dedicarsi alla lettura di quei classici che durante la dittatura le erano proibiti. Il suo racconto Magie del passato ha vinto il Premio Speciale Slow Food-Terra Madre del IX Concorso letterario nazionale Lingua Madre.


taboule? libanese unico - cut3. Tabboulé, una nuova ricetta per l’integrazione

di Lydia Keklikian (Libano)

Da Beirut una ricetta che stuzzica non solo l’appetito, ma anche la vita complessa del nostro paese.
Tabboulé e integrazione sono cose diverse, ma simili al tempo stesso.

Diverse perché il primo è un piatto mediterraneo composto di diversi ingredienti che si prepara per un pranzo festoso, favorendo l’incontro tra persone o famiglie, viene presentato nei momenti di festa in occasione di un matrimonio o di semplice convivialità.

Il tabboulé è il primo piatto che si porta a tavola e si offre ai commensali per cominciare il pranzo.

L’integrazione a sua volta è una realtà composita per i vari elementi che la costituiscono. Richiama l’idea di una pluralità di culture diverse, la presenza di persone differenti per etnia, religione e cultura in un determinato contesto sociale. È colorata come il tabboulé, in quanto coinvolge nel processo persone diverse disponibili a percorrere una strada nuova che conduce a vivere insieme.

Nell’integrazione, pertanto le persone non devono sciogliersi le une nelle altre, non devono perdere la propria entità culturale, folkloristica, ma devono fare in modo da comporre una realtà colorata, vivace e appetitosa che stuzzica il desiderio di ognuno a conoscersi a vicenda.

Nel tabboulé gli ingredienti non si fondono tra di loro, ma si amalgamano bene al punto da offrire sia alla vista che al gusto un’armonia tale da rendere piacevole il mangiare suscitando una sensazione di freschezza e un piacere che invade tutti i sensi.

Nell’integrazione, il punto di partenza è l’incontro tra persone diverse. Immaginiamo una persona italiana e una straniera di origine africana. Magari l’italiano di pelle bianca e l’africana di pelle nera. Il colore della pelle può essere, in un primo momento, un motivo per attirare l’attenzione e suscitare curiosità.

Se l’incontro avviene in un bar, possiamo vedere come agiscono queste due persone. Bevono il caffè, chiacchierano e si scambiano sorrisi ed espressioni varie che denotano un’armonia e una complicità. Se poi arrivano a baciarsi, questo gesto può suscitare curiosità, a volte perplessità o disapprovazione e può diventare occasione di giudizio che va dal rispetto fino alla critica totale verso ciò che si è visto. Non possiamo certo ancora parlare di integrazione. Questa non può risultare da un incontro al bar o da un bacio.

Come non si può dire che il tabboulé è buono solo perché siamo abbagliati dai colori che si distinguono in un piatto ben presentato.

È importante avere la ricetta giusta e preparare il piatto seguendo le indicazioni precise. È altrettanto importante che tutti gli ingredienti siano ben visibili quando il piatto è sotto i nostri occhi. Ogni ingrediente deve restare ben distinto, mantenere il suo colore e la sua forma, pur essendo amalgamato agli altri ingredienti. Il sapore poi deve poterli distinguere e offrire al palato un gusto piacevole e di completezza in modo da suscitare in chi lo mangia un benessere e un piacere che lo lascino soddisfatto e appagato.

Anche l’integrazione parte dalla vista e dal palato, ma anche dalla piena consapevolezza dei valori comuni delle persone con culture diverse con le quali ci si impegna ad interagire.

Non può essere raggiunta una volta per tutte! Non è un percorso che si intraprende e si conclude in tempo breve, non può essere neppure definito a priori.

È come se la vita di una coppia di giovani raggiungesse il suo traguardo nel momento della celebrazione delle nozze. Se fosse così non avrebbe più senso continuare a vivere insieme e ad impegnarsi tutti i giorni per un traguardo già raggiunto. Lo sappiamo che non è così; il giorno del matrimonio rappresenta il punto di arrivo, ma anche un punto di partenza; percorso che porta due persone a costruire giorno per giorno il loro progetto di vita insieme con sincerità e responsabilità per il resto dei loro giorni.

Lo stesso vale per l’integrazione, per costituire un cammino positivo per entrambe le parti, deve essere un impegno preso da tutte e due le parti e portato avanti con lucidità e responsabilità, ben coscienti della sacrosanta realtà che le due parti hanno ciascuna il diritto di esistere, di progredire e di essere se stesse.

L’integrazione è il cammino di una vita delle persone e delle comunità. Una delle sue fasi è il momento dell’impegno solenne, come il giorno delle nozze, in cui le due parti si rendono conto che non possono più vivere l’una senza l’altra e dove si è convinti che il bene di entrambi è condizionato dalla volontà di impegnarsi reciprocamente nel rispetto di ciascuno e nella complementarietà.

Nel tabboulé chi decide le dosi è la persona che lo prepara. Chi decide come preparare il piatto è colei/colui che lava e taglia gli ingredienti, li mescola e li predispone nel piatto.

Nell’integrazione una parte non può decidere per l’altra. È vero che politiche diverse e persone con concezioni diverse possono incidere e condizionare la preparazione e l’attuazione di questo percorso, ma alla fine tocca alle persone direttamente coinvolte renderlo effettivo nella vita quotidiana con gradualità e modalità proprie e diverse da un quartiere all’altro. Se sono convinta che nel mio quartiere si trovano persone provenienti da luoghi diversi e incontro alcune di queste che condividono lo stesso interesse per il quartiere, sarà nostra responsabilità renderlo più vivibile. In tal senso, non posso più scaricare su altri il fatto che queste persone si chiudano nelle proprie case o nel proprio gruppo senza avere il coraggio di guardare in faccia i problemi esistenti e di impegnarsi per affrontarli.

Per riuscire a preparare il tabboulé non basta conoscere la ricetta, essere capaci di lavare o tagliare il prezzemolo, spezzettare la cipolla e spremere il limone.

Ci vuole attenzione quando si pulisce il prezzemolo, si lava e si taglia. Il prezzemolo deve essere tritato a mano, né troppo grande altrimenti le persone rischiano di strozzarsi, né troppo piccolo perché si rischia di ridurlo in brodaglia. Dopo, lo si deve lasciare a parte mentre si prepara il resto. La menta fresca deve essere lavata e asciugata, tritata al momento opportuno, altrimenti diventa nera e da buttare via. Il pomodoro deve essere tritato nella dimensione giusta per poter essere mangiato con facilità, facendo attenzione a non schiacciarlo durante la tritatura perché si rischia di ridurlo in succo di pomodoro. Una parte del limone deve essere spremuta e il restante lasciato intero del quale si ricava la scorza grattugiata.

La cipolla tritata deve essere condita, prima di mescolarla con gli altri ingredienti, con sale e pepe per far esaltare il sapore e renderlo meno sgradevole al tempo stesso.

L’integrazione deve seguire la stessa procedura, ma con ingredienti diversi. Ci deve essere la stessa cura e amore. Deve anche risultare come il lavoro congiunto di diverse persone desiderose di presentare a chi la mangia una pietanza appetitosa che soddisfa le aspettative di tutti; deve esaltare il valore di ogni persona umana e saziare coloro che cercano pace, armonia e dialogo. In tal modo si valorizzerebbe il principio della dignità umana e renderebbe tutti capaci di farcela.

L’integrazione non prevede la scomparsa di un gruppo nell’altro, non tollera la disparità, non appoggia le ingiustizie e non si alimenta di pregiudizi e di disprezzo.

L’integrazione giornisce quando ci si completa nell’incontro, quando ognuno mantiene la sua specificità e la sua ricchezza culturale, e gode quando vede tutte queste diversità camminare insieme nelle stesse strade della città.

Per il tabboulé il percorso è analogo. Nella terrina predisposta per mescolare gli ingredienti, si prepara il grano, si aggiunge il prezzemolo tritato, il pomodoro e la cipolla, distribuendo a forma di cerchio ogni ingrediente uno sopra l’altro. Si versa il succo di limone seguendo sempre la forma circolare, l’olio d’oliva e la scorza di limone grattugiata. Si mescola con un cucchiaio grande, con delicatezza e cura come se si stesse accarezzando il viso di un neonato, facendo attenzione a non schiacciare gli ingredienti, rispettando la singolarità di ogni ingrediente.

Nell’integrazione bisogna stare attenti a non sopraffare l’altra persona, a non prevaricare l’anima dell’altro e a non svalutae la ricchezza nel nome di un bene comune.

Ciò vale sia per la parte italiana sia per quella straniera. Nell’integrazione non c’è una parte debole e una forte. Non ci sono persone capaci e persone disabili. Tutte le componenti del progetto sono diversamente abili e diversamente capaci. Bisogna cercare di far emergere le capacità di ognuno e di lavorare sugli aspetti che presentano punti deboli.

Le parole scritte da Gibran nel suo famoso libro «Il Profeta» ci aiutano a comprendere meglio la relazione fra integrazione e matrimonio:

«Voi siete nati insieme
e insieme starete per sempre.
Sarete insieme quando le bianche ali della morte disperderanno i vostri giorni.
E insieme nella silenziosa memoria di dio.
Ma vi sia spazio nella vostra unione,
E tra voi danzino i venti dei cieli.

Amatevi l’un l’altro,
ma non fatene una prigione d’amore:
Piuttosto vi sia un moto di mare
tra le sponde delle vostre anime.
Riempitevi l’un l’altro le coppe,
ma non bevete da un’unica coppa.
Datevi sostentamento reciproco,
ma non mangiate dello stesso pane.

Cantate e danzate insieme e state allegri,
ma ognuno di voi sia solo,
Come sole sono le corde del liuto,
benché vibrino di musica uguale.
Donatevi il cuore,
ma l’uno non sia di rifugio all’altro,
Poiché solo la mano della vita
può contenere i vostri cuori.

E siate uniti, ma non troppo vicini;
Le colonne del tempio si ergono distanti,
E la quercia e il cipresso non crescono l’una
all’ombra dell’altro».

È chiaro che l’integrazione è un cammino di amore che non soffoca, di condivisione che non mescola, di rispetto che non schiaccia, di accettazione che non pretende che una parte si annulli per essere accolta dall’altra. È lo stesso per il tabboulé!

A questo punto non ponetevi altre domande.
Lasciatevi portare dall’armonia dei gusti e dei colori di questo piatto e abbandonatevi nell’oceano dell’umanità racchiusa in ognuno dei suoi ingredienti. Umanità che svela l’origine di ogni ingrediente, di ogni terra lavorata dalle persone, di ogni fatica sudata per preparare il necessario e renderlo disponibile per il piacere dei vostri sensi e palati.

È la stessa umanità che ci circonda ogni giorno, di pelle bianca o nera, di una religione o di un’altra. Questa umanità che si esprime attraverso linguaggi che a noi possono essere sconosciuti e che emette suoni che non riusciamo a decifrare…

E ciò che meraviglia è la verità che dentro e dietro ogni ingrediente che compone il tabboulé si nasconde un territorio che magari conosciamo perché gli ingredienti sono stati coltivati a casa nostra, lavorati e preparati da mani straniere per offrirci un piatto che riteniamo esotico!

Buon appetito e buona integrazione.

Lydia Keklikian

Lydia KeklikianLydia Keklikian: Cittadina italiana, nata in Libano da famiglia armena è laureata in Scienze Sociali a Beirut, diplomata in Scienze Religiose a Brescia, laureata in Lingue Orientali a Venezia. Da anni si occupa di immigrazione, intercultura e mediazione culturale con particolare attenzione ai temi legati alle religioni, alla donna orientale, alla cultura araba armena e turca per quanto riguarda le leggi di famiglia, le tradizioni sociali e culturali attraverso la fiaba la musica e la cucina. Il suo racconto Tabboulé, una nuova ricetta per l’integrazionha vinto il Premio speciale Slow Food-Terra Madre della IV edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.

 


Kibbeh-c4. A Téta, ricordi congelati

Traslata dall’arabo all’italiano, catapultata telefonicamente da un continente all’altro, che sapore ha la morte?
Toavo da una serata fra amici in zona Ostiense la notte che, a Zouk Mkayel, morì Téta. La notizia arrivò l’indomani via cellulare, Libano-Italia in un secondo: ricordo la spossatezza di quelle ore, il silenzio sospeso, l’estraneità surreale, ma non ricordo dolore. Non subito. Ricordo quelle quattro lettere impresse in pancia come se si trattasse di un nome proprio, senza necessità di tradurle: Téta.

Téta, sei andata via e il freezer conserva ancora memoria dei cibi che hai cucinato e impacchettato per me. Sapevo che sarebbe accaduto, forse ero io a volerlo, ci ho sempre trovato un che di poetico: adesso ho tanti piccoli kebbeh stipati nel ghiaccio, li trovo esageratamente evocativi e so bene che li mangerò con un groppo alla gola e che, celebrando la mia commemorazione laica, penserò fate questo in memoria di me. Ripercorrerò le volte che non mi mandavi via senza una borsa piena di khiara, khobez, kebbeh e, se riuscivi, addirittura qualche mehshi cousa. Ora il freezer è una teca sacra, ostensorio profano di ricordi congelati.

Ricordo congelato è la foto scattata col cellulare di te che prepari il tabboulé sfidando gli anni e le intemperie, coi capelli di fronte agli occhi e lo sguardo basso e concentrato mentre smisti le foglie di prezzemolo e poi tagli fette finissime di cipolla e pomodori e intanto canticchi le tue filastrocche.

Ricordo congelato è il primo cenno di anzianità. Ero piccola quando Téta è caduta nel corridoio e ha perso i sensi. Guardavo la tivù e non me ne sono accorta fino a che la gola non mi ha portato verso la cucina per chiedere un arous jibneh. Il corpo fermo a terra che ho trovato a metà strada, con un rivolo di sangue che sgorgava dal labbro, non mi sembrava reale: forte dei miei undici anni, avevo la certezza che Téta non potesse cadere così. Invece, da quel momento, cominciò a farlo: cadere o scomparire per qualche ora o giorno, per tornare poi un bel mattino a casa, a sorpresa. Ho memorie sfocate della volta in cui papà la salvò dall’arresto cardiaco notturno davanti alla tivù: guardavano i giochi a premi insieme e per un lasso di tempo indefinito nessuno si accorse che Téta non rideva più e che il suo non era il solito afflosciarsi in uno stanco riposo serale. Papà, quando capì che il cuore di Téta aveva smesso di funzionare, corse a farle il massaggio cardiaco, poi arrivò l’ambulanza, la portò via e, non appena papà appurò che Téta si fosse davvero ripresa, le lanciò sette otto accidenti in dialetto libanese. Io quella notte dormivo da ore nella mia stanzetta; credo di aver dormito per giorni o di aver vissuto in una sorta di infantile torpore: al mio risveglio, Téta era sempre lì, punto fisso della mia quotidianità a Zouk.

Ricordo congelato è la frase rituale, ripetuta ogni sera: Qu’est-ce que Vous voulez manger demain? Me l’ha sempre chiesto così, Téta. A me sembrava di stare in un hotel di lusso e lo zio di Boston la prendeva in giro per quella sua ostinazione a dare del voi anche ai familiari. Téta sorrideva con aria furbetta e raccontava per l’ennesima volta di quel francese scolastico imparato fra lezioni di economia domestica e di pittura, in ambienti gerarchici in cui non esisteva che si potesse dare del tu a qualcuno. Per Téta la confidenza in francese non aveva un corrispondente linguistico e per me sentirla darmi del voi è sempre stato come prendere parte ad un banchetto fra ambasciatori. Io, ambasciatrice d’Italia, in visita a lei, rappresentante del Libano. L’autorevolezza e l’eleganza dell’alto ceto sicuramente l’ha sempre avuta Téta, più di me. Bastava un gesto e Hala capiva cosa avrebbe dovuto cucinare l’indomani, sapeva senza bisogno di dirlo che non bisognava comprare i lahmi b’ajin senza fornire al fornaio l’impasto di carne che lei stessa preparava, perché era l’unico di cui si fidasse.

Andare in Libano era quindi per dei versi come gettarsi a capofitto nel set di uno di quei film talmente ben riusciti che sembrano realtà, tanta è la naturalezza: io non mi accorgevo di niente, ventenne distratta, ma lei cornordinava ogni minuscolo evento che prendeva vita fra le mura domestiche. Sapevo che al mio arrivo avrei puntualmente trovato lo shmandour e che a nulla sarebbe servito offendere l’orgoglio di Téta dicendo che con gli anni qualcosa nel mio gusto era cambiato e che lo shmandour non mi piaceva più: sapevo che la cucchiaiata di shmandour, almeno per fare il gesto, dovevo ingoiarla con estremo riconoscimento. Perché il primo latte della vacca incinta, ingrediente principale, è merce rara e Téta diffondeva ai paesi vicini la notizia del mio arrivo già settimane prima, affinché il primissimo latte della vacca partoriente finisse fra le sue mani e potesse avviare i processi di preparazione di quella primizia dolce. Tanto più lo shmandour smetteva di piacermi, quanto più aumentava la gratitudine per il gesto fedele di Téta nei confronti di me, figliola prodiga.

A volte mi è bastato fissare un piatto con gola per trovare Hala affianco a porgermelo: subito era chiaro che il mio sguardo fosse stato intercettato da Téta; un po’ mi sentivo oppressa o presa in giro, poi mi dicevo che in una famiglia di maghi le cose non potevano che andare così. Una famiglia di maghi: così amava descriverla nonno, prima di morire. Il prozio mago era il capostipite, poi, con l’avanzare delle generazioni, quella magia si è ridimensionata e si è fatta semplice filosofia. Ma chissà che poi non sia un po’ la stessa cosa.

Ricordo congelato è lo sguardo triste di Téta mentre guarda la tivù e le si spezza il cuore di fronte alla morte di palestinesi e israeliani – ya kharam, diceva di entrambi. Io penso a quanto quello stesso conflitto è stato strumentalizzato nell’altra parte del mondo, la mia, riducendosi a rigido gioco di fazioni a distanza di sicurezza.

Ricordo congelato è Téta che, mentre vado in piscina, mi ferma per darmi un bacio sulla guancia e dirmi serissima «Attention de tomber dans l’eau». Ogni volta, fino all’ultimo, ho sospettato che l’età le giocasse un brutto scherzo o la facesse allarmare per pericoli inesistenti, ma ogni volta era invece lei a prendersi gioco di me con ironia sottile. Questa frase, questo francese sbagliato e maccheronico, era la frase di complicità ridanciana con cui due generazioni si danno la staffetta – quasi un gioco di ruoli – e a quella più antica non resta altro che dare raccomandazioni assurde alla più giovane, pur con piena coscienza della loro assurdità.

Ora le foto di Téta invadono il web: i suoi figli e nipoti sparsi per il mondo si fanno compagnia come possono, si consolano vicendevolmente, cercano di mantenere vivo il suo ricordo, anche se buona parte ha dimenticato la lingua madre o la utilizza soltanto sporadicamente. Siamo schegge scagliate nei cinque continenti e Facebook è la nostra disillusa preghierina serale, adesso che nessuno più accosta la porta della camera come faceva Téta mentre, con aria bambina, si inginocchiava sul suo letto per fare il segno della croce. Il social network è una chiesa virtuale con le sedie vuote ed è lecito domandarsi in fondo cosa arriva, cosa passa da un cuore all’altro, da una pancia all’altra e da un computer all’altro, salendo oltre i pensieri tradotti in tutte le lingue del mondo, cosa è sempre arrivato negli scambi comunicativi fra tutti noi, la Big Khalil Family, noi che traduciamo goffamente dall’inglese al francese all’italiano all’arabo i nostri pensieri e le nostre emozioni, noi che cerchiamo significanti molteplici per indicare un unico significato e non sappiamo mai quali sfumature si perdono in questo travaso continuo di informazioni.

Ricordi congelati.

Tutto questo e solo questo rimane di te – la mia Téta in un’altra lingua – ed io non so bene con quanta efficacia l’italiano sappia essere fedele a questi ricordi: mi appare come lingua impacciata, incapace, inesperta nell’espressione di queste memorie che hanno sede altrove; lingua dei tentativi e degli errori. Eppure è per errori e traduzioni concatenate che abbiamo mandato avanti la nostra comunicazione intergenerazionale ed intercontinentale: sentimenti perennemente filtrati da successive conversioni mentali. Chissà quante cose abbiamo frainteso, quante ne abbiamo gonfiate, quante rimpicciolite, chissà quali immagini mentali c’erano in te, dietro le tue frasi in un francese imbalsamato, e che modifiche hanno subito nella loro caduta a effetto domino verso il mio orecchio che le percepiva e dava loro un altro senso, il mio.

Apro il freezer, prendo un kebbeh, ne tasto la sfericità. Non ho il coraggio di mangiarlo, basta l’odore a tuffarmi di nuovo in antiche corse sotto il sole ad acchiappare le code dei gatti a Zouk e poi correre in spiaggia. Provo a ricreare l’eco della tua voce – Attention de tomber dans l’eau! – ma non ne sono più davvero capace.

Chissà dove sei, Téta.
Attenzione a non cadere in acqua, Téta, ovunque tu sia.

Sento che l’italiano è giunto al limite: non è più sufficiente a narrare la nostra storia in questa maniera. In italiano il ricordo libanese di te non fa che sbiadirsi più velocemente, gli spaghetti nella scansia non sanno chi tu sia stata, ma questi kebbeh sì, ne hanno chiara memoria, sono figli delle tue mani pazienti ed è mio compito tradurre fino in fondo questi ricordi. Guardo la sfera di grano e carne e all’improvviso so che, finché non racconterò la tua scomparsa in un’unica lingua, la tua figura rimarrà in bilico fra due mondi. Presenza e assenza, occidente e oriente, vita e morte.

Respiro profondamente. Traduco.
Téta in arabo vuol dire nonna.
Lo dico sottovoce, finalmente, e sento il sottilissimo germe della mancanza farsi spazio ed espandersi fino a occupare anche l’altra parte di me, quella che parla italiano. Due metà si ricongiungono, i ricordi riprendono vita, il ghiaccio attorno al kebbeh si è sciolto, ora la tua scomparsa ha una dolorosissima forma.
Mi manchi, nonna.

Leyla Khalil

Leyla Khalil,Leyla Khalil, italo-libanese, nasce a Roma il 30 agosto 1991. È mediatrice culturale e ha pubblicato racconti e poesie in antologie per Edizioni Ensemble, Giulio Perrone, L’Erudita, Ediesse, Guasco, Seb27. Appassionata di narrativa e cucina, tiene due rubriche settimanali su facciunsalto.it: “Cosa borbottano le pentole” e “La Grasse Matinée”. Ideatrice del progetto di scrittura “Fast Writing, scritti di rapida consumazione”, ha curato per Edizioni Ensemble la prima raccolta di racconti incentrati sui fast-food come non luoghi e sta lavorando a nuovi sviluppi sul tema. Il suo racconto, Ricordi congelati, ha vinto il Premio Speciale Slow Food-Terra Madre del X Concorso letterario nazionale Lingua Madre

 



  • Questo dossier narrativo centrato sul cibo, è frutto della collaborazione con «Lingua Madre», il concorso letterario nazionale la cui premiazione avviene ogni anno nel contesto del «Salone Internazionale del Libro di Torino».
    È la terza volta che MC pubblica testi scritti per questo concorso in lingua italiana da donne provenienti da ogni parte del mondo. La prima volta fu il racconto, Cubetti di zucchero, apparso in MC 4/2015, seguito poi dal dossier Sono anch’io Italia, sogni non impossibili, in MC 8-9/2015.
  • A «Lingua Madre», che ha scelto di presentare quattro testi premiati nel contesto del «Premio Slow Food – Terra Madre», va tutta la nostra riconoscenza.
  • I testi sono stati selezionati da Daniela FinocchIi, ideatrice e cornordinatrice del concorso. Il dossier è stato cornordinato da Gigi Anataloni.
  • Il libro: Daniela Finocchi (a cura di), Lingua Madre Duemilasedici, Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni SEB27, via Accademia Albertina, 21 – 10123 – Torino; sito: seb27.it, sarà nelle librerie in autunno.

 




Fuga dalle campagne città al colasso


Migrazioni e megalopoli

«Casa-macchina», un sogno che si paga

Con una valigia di sogni (e di illusioni), milioni di persone si spostano verso le città, che crescono a dismisura. Così come aumentano i problemi, in primis quello dell’inquinamento.

Nella Hong Kong degli anni immediatamente precedenti all’handover (restituzione) del 1997, i prezzi degli immobili schizzarono in alto. Favorite dall’ultimo governo coloniale britannico, le immobiliari avevano costituito un vero e proprio cartello del mattone e del cemento che diminuì il parco case disponibile e intascò un boom dei prezzi del 400 per cento tra il 1992 e il 1996.

In quegli anni, alcune comunità urbane autonome riuscivano ancora a ritagliarsi uno spazio tra i grattacieli. Il caso forse più leggendario fu la «Walled City», la Città Murata di Kowloon, il posto più densamente popolato al mondo. Nel 1987 ci vivevano 33mila persone compresse in 2,6 ettari, con appartamenti grandi una sola stanza. La sua unicità nasceva dal fatto che era la sola parte di Hong Kong che non fosse stata ceduta dalla dinastia mancese Qing alla Corona britannica, dopo le sconfitte militari dell’Ottocento. Era però irraggiungibile dall’amministrazione di Pechino e, al contempo, era un’enclave sottratta alla legge coloniale britannica. Nel Novecento, si riempì di cinesi che a ondate fuggivano dal loro paese.

Nel 1994, la Città Murata fu demolita. I britannici, che stavano per restituire Hong Kong alla Cina, non volevano lasciarsi alle spalle luoghi «indecenti» che avrebbero potuto essere utilizzati strumentalmente contro l’immagine della Corona.

Nel nome del decoro, sopravvisse dunque un solo «modello Hong Kong», quello ripulito dalle forme di vita alternative.

Il modello Hong Kong si estese alla Cina e a tutta l’Asia. Si basa su diversi fattori, il primo è la crescita di un nuovo ceto medio che sul binomio «casa-macchina» fonda la propria identità e la propria idea di benessere. Sono i nuovi piccoli borghesi che, in tutto il continente sempre più urbanizzato, comprano immobili per abitarli, ma anche per specularci a loro volta, perché in società dove non esiste ancora un welfare compiuto (sanità, pensioni), il mattone è il modo migliore per garantirsi un tesoretto per i tempi grami, per mandare i figli a studiare all’estero o per comprare nuove case e nuove macchine. In Cina, la leadership ha letteralmente creato il ceto medio sulla proprietà immobiliare, incentivando funzionari e dipendenti pubblici ad acquistare le case che già abitavano. Ma anche i «donju» (signori dei soldi) nord coreani indicano che la rendita immobiliare è ormai il principale mezzo di accumulazione globale a prescindere dai modelli politico-economici.

Il secondo fattore della diffusione del modello Hong Kong è la disponibilità di forza lavoro a basso costo. Si tratta quasi sempre di ex contadini fuggiti o espulsi dalle terre, che si riversano nella metropoli a cercare lavoro. Le campagne così si svuotano creando vari problemi economici, come la necessità di riorganizzare l’agricoltura affinché produca abbastanza cibo per le megalopoli in espansione, a fronte di una riduzione progressiva dei terreni disponibili. Tra i problemi sociali, il più noto è invece quello dei minori e degli anziani abbandonati. In Cina sono circa 61 milioni i «liushou ertong», cioè i «bambini lasciati indietro», che accumulano ritardo sociale e sono a rischio devianza o violenze. Se chi resta in campagna si condanna a vivere una condizione di serie B, anche il lavoro vivo di chi si inurba arricchisce soprattutto gli altri. Qualora però gli inurbati di seconda o terza generazione riescano ad accumulare il necessario, eccoli divenire nuovo ceto medio che ingrossa le megalopoli e il caos che le attraversa.

Si arriva quindi al problema dell’inquinamento, dovuto non solo alle automobili e all’alta concentrazione di attività industriali – è questo per esempio il caso della Cina «fabbrica del mondo» -, ma alla stessa densità demografica. Succede così a Delhi, in India, dove la quantità di umani che usano rifiuti come combustibile domestico rende inutile l’adozione di targhe altee. O a Ulan Bator, capitale di quella Mongolia che è sinonimo di cieli azzurri, che diventa d’inverno una delle città più inquinate del pianeta, perché con temperature sui 30 sotto zero, gli abitanti di Cingeltej, l’enorme slum di ger (yurte) sul lato Nord della città, si scaldano e cucinano usando come combustibile tutto ciò che capita loro a tiro.

È una brutta gatta da pelare: l’urbanizzazione dovrebbe creare il nuovo ceto medio competitivo su scala globale e creare consenso per i governi. Ma espone anche a nuovi, grandi problemi.

Gabriele Battaglia
direttore di China Files


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