Correva l’anno 1981

Il punto della situazione

Conosciuta soltanto dal 1981, la sindrome da immunodeficienza acquisita
nota con l’acronimo inglese «Aids» ha già fatto 22 milioni di morti,
per tre quarti africani. Nei paesi del Sud del mondo l’epidemia si espande
senza controllo. Le azioni di educazione e informazione producono risultati deludenti.
Nel frattempo, i paesi più poveri hanno intrapreso una dura lotta
contro le multinazionali farmaceutiche. Perché oggi i medicinali contro l’Aids
sono acquistabili da un’esigua minoranza.

IL PEGGIORE DISASTRO
DELL’ERA MODERNA

«Il peggiore disastro dell’era modea, che Stati Uniti, Europa e Giappone avrebbero potuto evitare con relativamente poco sforzo, ma che finora hanno totalmente ignorato. Non abbiamo fatto niente per evitare i 17 milioni di morti di AIDS in Africa, per impedire che quest’anno ne muoiano altri 3 milioni. In tutto, dal 1996 al ’98, abbiamo dato all’Africa solo 75 milioni di dollari. Niente, appunto».
A fare questa dichiarazione non è stato un qualche esperto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) o un esponente terzomondista di qualche Organizzazione non governativa. Il giudizio e l’accusa pesantissimi sono di Jeffrey D. Sachs, direttore del Center for Inteational Development di Harvard, consulente di governi ed organismi multinazionali, uno dei più noti economisti a livello mondiale.
Pochi mesi fa, la dottoressa peruviana Elisabeth Sanchez, professore dell’Università Cayetano Heredia di Lima, esperta in malattie infettive, in una lunga conversazione mi diceva con estrema crudezza: «È chiaro che l’AIDS sta aumentando in Perù. Cinque anni fa erano 2.000 i pazienti con AIDS conclamato e ora sono circa 20 mila. Direte che non sono poi tanti, ma questo numero va moltiplicato per il dato probabilistico di 100 infettati per ogni malato. Questa è una proporzione che è accettata in molti paesi come il nostro. In Perù con l’AIDS succederà quello che sta succedendo in Africa; se in questo momento in certe zone dell’Africa si arriva al 40% di sieropositivi nella popolazione, gran parte di questi nel giro di 5/10 anni saranno morti ed il continente si spopolerà. Nel Perù sarà uguale».
E l’economista Sachs, con altrettanta crudezza, continua: «Eppure, al di là degli effetti devastanti che l’epidemia di AIDS e le altre malattie stanno avendo sull’Africa, anche nel mondo occidentale vi saranno contraccolpi molto negativi che in parte già si avvertono. La malattia non conosce confini ed infatti nuovi ceppi dell’AIDS, che erano esclusivi dell’Africa, si stanno già diffondendo in Occidente. Il peggiorare della situazione nel continente nero porterà a maggiore instabilità politica, governi ancor meno capaci di controllare le situazioni locali, guerre, migrazioni di massa, crescita della povertà ovunque. Più aspettiamo a intervenire e più, quando saremo costretti a farlo, sarà costoso e complicato rimediare ai danni».
È interessante e, allo stesso tempo, preoccupante che un professore di economia affronti queste tematiche. Probabilmente l’AIDS ha già smesso di essere solo un problema sanitario per trasformarsi in un problema economico e politico.
UN PROBLEMA SANITARIO

L’AIDS (Acquired Immuno-Deficiency Syndrome = sindrome da immunodeficienza acquisita) è una malattia abbastanza recente e, tuttavia, essa si è diffusa rapidamente in pressoché tutte le nazioni, assumendo le caratteristiche di una vera e propria pandemia.
I primi casi sono stati descritti negli USA, alla fine del 1981, tra omosessuali maschi, colpiti da infezioni opportuniste o da tumori particolari quali, ad esempio, il sarcoma di Kaposi, e affetti da una forma di immunodeficienza da causa allora non conosciuta. Studi retrospettivi su sieri congelati hanno mostrato la presenza di anticorpi contro il virus HIV (Human Immunodeficiency Virus = virus dell’immunodeficienza umana), successivamente riconosciuto responsabile della malattia, in un soggetto morto in Africa nel 1959.
Da dove è venuta questa malattia? Sono state formulate numerose ipotesi; la più accreditata indicherebbe come progenitore dell’HIV un virus, l’STLVIII (Simian T Cell Leukemia Virus III), che nella scimmia provoca una sindrome riconducibile all’AIDS dell’uomo. L’infezione, dunque, avrebbe colpito le zone rurali dell’Africa dove sarebbe rimasta confinata per lunghi anni e, successivamente, si sarebbe diffusa alle aree urbane del Centro Africa. Di là, attraverso i rapporti commerciali con altri stati, l’infezione avrebbe raggiunto Haiti e l’America Centrale, si sarebbe diffusa negli USA, in Europa e in tutto il mondo.
Per ciò che concee le modalità di diffusione e presentazione dell’epidemia da HIV, sono descritti tre differenti quadri (pattes) epidemiologici.
Il I patte comprende gli USA, il Canada, l’Europa dell’Ovest, l’Australasia, il Nord Africa e parti del Sud America; qui l’epidemia si è diffusa soprattutto tra omosessuali, bisessuali e tossicodipendenti. Coloro che hanno contratto l’infezione per via eterosessuale, costituiscono una piccola percentuale.
Nel II patte, comprendente il resto dell’Africa e del Sud America, la maggioranza dei soggetti ha acquisito l’infezione per via eterosessuale, con un rapporto uomo-donna di circa uno ad uno.
Il III patte (Asia-Pacifico, Europa dell’Est e Medio Oriente), dove il virus HIV è stato introdotto probabilmente più tardi rispetto ai paesi appartenenti agli altri pattes, si caratterizza per un numero modesto di casi notificati di AIDS. In questi ultimi anni, tuttavia, si è riscontrato un forte incremento dei casi di infezione da HIV, al punto che l’epidemia dell’Asia può far scomparire tutte le altre sia come impatto che come portata.
UN PROBLEMA POLITICO ED ECONOMICO
La pandemia sta distruggendo intere popolazioni del Sud del mondo. Il perché lo capiamo dalle parole della dott.ssa Sanchez.
«In Perù, se vuoi entrare nel programma statale di lotta all’AIDS, devi prima dimostrare di essere sieropositivo e per questo devi fare la prova sierologica Elisa. A pagamento: ti costerà circa 20 soles (12 mila lire, ndr). Una volta dimostrata la sieropositività, entri nel programma. E cosa ti offre il programma? Ti dà consigli, ti obbliga ad eseguire la prova (sempre a pagamento) per tua moglie, per le persone con le quali hai avuto rapporti sessuali. Solo consigli e niente farmaci. I farmaci il sieropositivo o l’ammalato deve comprarli. Quanti sono gli infettati che potranno curarsi? Immàginati che devi investire in farmaci circa 500 dollari al mese (più di quello che guadagna un medico statale in Perù). Onestamente non credo che qualcuno possa farlo, se non fa parte della ristretta, minoritaria e potente borghesia. Il governo non può farsi carico di tale spesa, le Organizzazioni inteazionali di aiuto neanche e i pazienti… stanno morendo».
Semplicemente e con poche parole, la dott.ssa Sanchez ci ha spiegato il perché in Africa, Asia, America Latina l’AIDS è simile e forse peggiore all’epidemia di peste vissuta in Europa nel corso del 1300.
L’impossibilità di curare i pazienti e di trattare gli infettati fa sì che l’epidemia si diffonda senza nemmeno conoscee le reali dimensioni, se non nel momento in cui il paziente muore o si ammala (ad esempio di tubercolosi). Quindi l’epidemia si estende senza controllo e i programmi di educazione e prevenzione hanno scarso impatto su una popolazione molto giovane per l’alto indice di natalità.
Quanto detto sopra è chiarito dai dati della pandemia che, nei paesi ricchi, ha coinvolto fondamentalmente persone con «comportamenti a rischio», sui quali però con un’importante azione di educazione/informazione oggi si riesce ad influire. Nei paesi poveri la percentuale di donne infettate (che raggiunge il 55% di tutti i casi nell’Africa Sub-sahariana) e i quasi 1.500.000 bambini infettati dimostrano che la malattia interessa la vita quotidiana della gente, e non più i comportamenti a rischio.
Anche il semplice preservativo, unica ed efficace barriera all’infezione, può essere un lusso, senza parlare degli alti livelli di prostituzione, fenomeno tristemente «normale» in una popolazione povera e con indici di disoccupazione inimmaginabili da noi.

CHE FARE DAVANTI A UN’EMERGENZA MONDIALE?

Cosa ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite a New York il 20 febbraio del 2001?
«Nei suoi due decenni di esistenza – spiega il documento firmato da Kofi Annan -, l’epidemia dell’AIDS ha continuato a propagarsi senza fine in tutti i continenti e, anche se è più grave in alcuni paesi piuttosto che in altri, nessun paese è fuori rischio. In questi due decenni essa si è convertita in una vera emergenza mondiale».
«Nella dichiarazione del Millennio, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite (settembre 2000), si afferma chiaramente che il mondo ha finalmente riconosciuto la reale grandezza della crisi. Nel documento i leaders si impegnano a invertire la tendenza della propagazione del virus dell’immunodeficienza umana per l’anno 2015; a dare aiuti speciali ai bambini rimasti orfani a causa della malattia; ad aiutare l’Africa ad acquisire la capacità per affrontare il problema della propagazione della pandemia e di altre malattie infettive».
Più avanti Kofi Annan afferma: «Si sono ottenuti buoni risultati nel tentativo di far fronte all’epidemia in molte parti del mondo. La discesa dei tassi di infezione con HIV in molte comunità e, in alcuni casi, in molti paesi, specialmente fra i giovani, ha dimostrato che le strategie di prevenzione servono. La discesa dei tassi di mortalità per AIDS nei paesi industrializzati e in alcuni paesi in via di sviluppo ha dimostrato anche che la prevenzione e il trattamento dell’AIDS sono efficaci».
Quindi il segretario generale delle Nazione Unite può concludere: «L’HIV/AIDS costituisce l’ostacolo più formidabile per lo sviluppo nei nostri tempi».
Il lungo documento, dopo l’introduzione, inizia con un’analisi simile a quella dell’economista Sachs: «L’AIDS si è convertito in una grave crisi di sviluppo. Uccide milioni di adulti nel fiore della loro vita, distrugge ed impoverisce famiglie, debilita la forza lavoro, lascia orfani milioni di bambini e minaccia il tessuto economico e sociale delle comunità e la stabilità politica delle nazioni».
«Gli effetti negativi del virus dell’immunodeficienza e l’AIDS si fanno sentire in tutto il mondo, ma soprattutto in Africa, Caraibi, Asia meridionale e sudorientale. Il morbo si propaga con rapidità e si ripercuote sulla forza lavoro, la produttività, le esportazioni, gli investimenti; in una parola, su tutta l’economia nazionale. Se l’epidemia continuasse al ritmo attuale, le nazioni più colpite perderanno nei prossimi 20 anni fino il 25% della crescita economica prevista».

SFIDA ALLA SICUREZZA

La mia vicina di casa, a Villa el Salvador (Perù), mi raccontava di una ragazza del quartiere morta per AIDS e dei suoi figli orfani.
La dott.ssa Sanchez ribadiva che non voleva aiuti per fare le prove sierologiche in assenza dei farmaci e che in queste condizioni l’unico aiuto possibile doveva essere concentrato sull’informazione/educazione.
Nella mia città, Venezia, le vestigia storiche della peste sono innumerevoli, come pure le testimonianze dell’impari lotta per bloccarla. La società di allora si era munita di una legislazione, di strumenti e metodi per lottare e vincere la peste, e anche grazie a questa lungimiranza fu una società opulenta.
La nostra società invece, nonostante la mole di dati disponibile, non riesce a comprendere che i problemi dell’Africa Sub-sahariana o del Perù sono problemi pure nostri, e questo indipendentemente dal fenomeno migratorio.
In un passo del suo discorso, il segretario generale delle Nazioni Unite ha affermato: «Nelle regioni più colpite, l’AIDS sta invertendo la tendenza di decenni di sviluppo. Cambia la composizione delle famiglie e la forma di funzionamento delle comunità, colpisce la sicurezza alimentare e destabilizza i tradizionali sistemi di appoggio. Distrugge il capitale sociale, al punto da far sparire la base delle conoscenze della società e debilitare i settori di produzione. Inibendo lo sviluppo dei settori pubblici e privati e grazie alle ripercussioni sull’intera società, debilita le istituzioni nazionali. Ostacolando nel tempo la crescita dell’economia, colpisce gli investimenti, il commercio e la sicurezza nazionale, facendo sì che la povertà sia ancora più generalizzata ed estrema. In poche parole, l’AIDS si è convertito in una sfida alla sicurezza dell’umanità».
La sfida all’AIDS deve essere una lotta alla povertà, vera peste del secolo che si è appena aperto.
DISEGUAGLIANZA SOCIALE
Oggi è l’AIDS, domani sarà Ebola, dopo domani la «mucca pazza» e così via. Allora anch’io sono d’accordo con Kofi Annan, Sachs e la dott.ssa Sanchez: il problema non è solo sanitario, ma anche economico e politico.
Dobbiamo impegnarci a eliminare le fondamenta sulle quali le malattie si sviluppano: la diseguaglianza sociale.

Guido Sattin




Ma se l’è proprio cercata?

Aids tra scienza e coscienza

Nel tunnel chiamato hiv-aids si intravvedono confortanti spiragli di luce,
dopo il buio assoluto. Ma non per le popolazioni del Sud del mondo,
anche se dal Sudafrica giungono buone notizie circa il prezzo
(finora proibitivo) dei farmaci. In ogni caso la battaglia è durissima per tutti.
Specie quando si deve combattere contro ignoranze, pregiudizi, moralismi, cattiverie.

Alcuni anni fa, durante una festa per scambiarci gli auguri di natale tra amici, simpatizzanti e volontari dell’associazione Arcobaleno Aids (finalizzata al supporto psicosociale di sieropositivi), mentre si brindava, ballava e scherzava, fui assalito da uno sconforto tremendo. Una nube nera mi offuscò l’anima e quasi la vista. «È mai possibile – mi dicevo – che, tra un anno o due, molte di queste persone (tutte giovani) non ci saranno più?».
Quelli erano gli anni davvero duri dell’Aids, quando le speranze dei nuovi farmaci venivano quotidianamente infrante dalla scomparsa di coloro che non ce l’avevano fatta ad arrivare in tempo. Non parlo di secoli fa. Parlo di anni, di pochi anni.
Oggi quasi tutti i sieropositivi di allora stanno bene: molti vengono in ambulatorio e prendono i farmaci; mi parlano dei loro malesseri ma anche dei loro progetti; mi mostrano le foto dei loro bambini.
Ecco cosa può fare la medicina, la ricerca, in particolare nel campo delle malattie infettive. Il «nemico» è noto, è conosciuto nei minimi particolari, è attaccabile in maniera molto selettiva.
La svolta di Vancouver
Yokoama, agosto 1994. Sono in Giappone (a mie spese) per sapere, dalla viva voce dei più importanti scienziati del mondo, se vi sia qualche notizia importante per la cura dei miei pazienti sieropositivi. Però too con le ossa rotte: tante cose bollono in pentola, ma per ora non c’è niente e bisogna aspettare. Il vaccino, poi, è un’utopia. Tante persone non ce la faranno…
Vancouver (Canada), luglio 1996, prime ore del pomeriggio. L’aula è gremita all’inverosimile. Non è la sede delle sessioni plenarie (cioè il Palazzo dello sport, da 15 mila posti), ma una sala comunque grande, non però così ampia da contenere tutti i partecipanti a quel Congresso mondiale. Poiché la notizia si è diffusa, sono tutti lì.
David Ho parla dei nuovi potenti farmaci che, in due anni, con procedure assolutamente rapide, sono già in commercio. L’oratore spiega come si può finalmente curare e forse guarire l’Aids. Un fremito percorre l’uditorio: medici, pazienti, giornalisti e operatori vari sono tutti coinvolti. È la svolta.
Dal 1996 poco tempo è passato. E tutto è cambiato in meglio, anche se la parola «guarigione» è rientrata nel cassetto. Purtroppo, però, il Sud del mondo si è progressivamente staccato: qui i farmaci sono mai arrivati. Questo, attualmente, è il cruccio più grosso che accompagna (dovrebbe accompagnare) l’operato di chi si occupa di infezione da Hiv-Aids; questa è la grande sfida da vincere al più presto, con l’impegno di tutti, ad ogni livello.
Molte cose sono cambiate vertiginosamente nel giro di pochi anni e molte sono quelle ancora da fare: sul piano della prevenzione, della discriminazione, del supporto psicologico e delle cure. Il ritmo accelerato delle scoperte scientifiche obbliga al continuo aggioamento, alla verifica costante.
il medico «sa»
Oggi si ammalano di Aids solo coloro che pervengono alla fase finale della malattia, ignari di essee portatori, o coloro che non assumono (o non possono assumere) le terapie.
Però i sieropositivi continuano lentamente ad aumentare e appaiono anche persone non più giovani. Occuparsi dei pazienti implica sforzo e dedizione, sia perché frequentemente alle spalle vi sono situazioni psicosociali pesanti, sia perché, in assenza di figure istituzionali-psicologiche cui riferirsi, sul medico vengono «scaricate» angosce e timori.
Il medico è uno dei pochi che «sa» e pertanto con lui ci si deve sfogare. Per questo, a volte, si termina l’ambulatorio sfiniti e appesantiti da tanti problemi. La risposta del medico può essere o di coinvolgimento o di rigida osservanza tecnico-scientifica o di fuga.
Personalmente mi sono fatto molto prendere dalla malattia Aids sul piano del volontariato e dell’impegno sociale; ma cerco anche, ogni giorno, di non farmi assorbire troppo dai pazienti, per non finire «cotto» prima del tempo. Devo assolutamente conservare un minimo di distacco che mi permetta di non «identificarmi troppo», di non ammalarmi con essi.
D’altro canto l’Aids ha completamente stravolto, in Italia e nel mondo, il classico rapporto medico-paziente: un po’ per i motivi accennati e un po’ perché i malati stessi sono stati lo stimolo per la ricerca e l’assistenza. Di più, oggi, nella transizione da una malattia «a prognosi infausta» (diciamo noi medici, ossia mortale) ad una malattia cronica, il coinvolgimento del paziente è fondamentale: in primo luogo per le problematiche legate alle terapie.
In questi anni alcuni pazienti hanno compiuto molti passi in avanti nell’autodeterminazione e consapevolezza; ma altri devono fare ancora tanta strada. Quante meschinità e bassezze ancora si perpetuano con la scusa del virus! Invece proprio il virus dovrebbe essere la molla che spinge a cambiare alcuni aspetti della propria esistenza.
Ho visto cambiare tante persone rompere il proprio guscio di egoismo, aprirsi agli altri. Come sempre, «questo incredibile uomo» sa tirare fuori nei momenti drammatici risorse sepolte ma vive. In Sudafrica, addirittura, alcuni attivisti hanno intrapreso lo sciopero dei farmaci, in segno di solidarietà verso i loro concittadini che non hanno i soldi per pagarsi le cure (cfr. box, pagina 40).
Mentre sto scrivendo questo articolo, è giunta la notizia che proprio in Sudafrica una grande battaglia per la vita di tante persone sieropositive è stata vinta: le 39 case farmaceutiche hanno ritirato la causa contro la produzione locale dei farmaci anti-Aids (con prezzi inferiori), grazie anche all’impegno e alla forza di piccoli-grandi eroi.
Già, quanti «eroi» ho conosciuto! Giovani che hanno saputo affrontare con dignità straordinaria il dolore e la morte, arricchendo in qualche modo il mondo.
Nella introduzione agli Atti del Convegno Outadali (Venezia, 16-19 ottobre 1997) si legge: «Per la maggior parte degli altri noi siamo coloro che moriranno; ma intanto siamo coloro che rivelano e testimoniano la necessità di un cambiamento; siamo una parte dell’umanità che offre a tutti l’opportunità di un modo nuovo di vivere, di amare e di morire».
Spesso penso ai tanti pazienti perduti in questi anni e mi sento come un tenente che, durante la battaglia, ha perso i suoi uomini di compagnia: Francesca, Roberto, Gaetano, Filomena, Maria…
Giustamente si paragona l’Aids ad una guerra, che miete milioni di vittime lontano da noi. Prima eravamo tutti sulla «stessa barca»: questo secondo «Titanic» incappato nell’iceberg dell’Aids. Per un momento tutti uguali; poi sono arrivati i farmaci, le «scialuppe». Ma solo i più fortunati (i più ricchi) vi hanno trovato posto.
«Ipersesso» e stranieri
Accennavo alla prevenzione. Al riguardo gli sforzi ed investimenti sono risultati efficaci tra i tossicodipendenti e in una certa parte della popolazione.
Ma oggi sarebbe necessario andare più in profondità: nei luoghi del rischio, nelle strade, nei quartieri, e non basta. La società deve risolvere una situazione schizofrenica che è anche frutto di uno sfrenato consumismo: da una parte la «ipersessualizzazione» (ossia mettere il richiamo sessuale, ovunque e comunque, per vendere o attirare di più) e, dall’altra, la paura dell’Aids.
Ma a che gioco giochiamo?
Luc Montagnier, grande scienziato, nonché uno degli scopritori del virus dell’Aids, ha affermato: «La decadenza dei costumi e delle abitudini sessuali è certamente alla base della diffusione della malattia». Nei colloqui con i pazienti o con coloro che vengono a fare il test, io cerco sempre di insistere non solo sulla «protezione», ma anche sulla responsabilità e maturità dei propri comportamenti. Penso, spero di non essere l’unico.
Esiste poi il grande problema degli stranieri. Molti hanno paura del test: temono di essere individuati, schedati, espulsi.
Non hanno ancora capito che il medico gode (è uno dei veri e pochi privilegi che dobbiamo tenerci ben stretti!) di piena autonomia ed è legato al segreto professionale. Alcuni probabilmente hanno retaggi, che si trascinano dai loro paesi d’origine, dove il sieropositivo è un reietto; altri non si fidano; forse credono che non esista neanche l’Hiv.
La prevenzione con gli stranieri e per gli stranieri è un capitolo in larga parte ancora tutto da scrivere, ma bisogna fare presto. La malattia è curabile, sì, ma se colta in tempo.
Vi sono poi alcune situazioni particolari, come la gravidanza, in cui la diagnosi precoce è ancora più fondamentale. Infatti se la donna sieropositiva viene seguita dall’inizio della gravidanza, con la possibilità di prendere tutte le misure medico-sanitarie del caso (terapia della donna, taglio cesareo, cura del bambino nelle prime quattro settimane di vita), il rischio per il figlio diventa bassissimo.
Prudenza, non moralismo
«Dottore, che mi consiglia? Sul posto di lavoro devo dire che sono sieropositivo?». La domanda è frequente e la risposta è quasi sempre la stessa: grande prudenza.
Purtroppo la gente non è ancora matura per accettare la sieropositività; e pensare che spesso tra un datore di lavoro o un collega sieronegativi e il dipendente o compagno, anch’essi sieropositivi, l’unica differenza è stata solo un po’ più di fortuna o prudenza in qualche occasione…
L’ignoranza è ancora dilagante. Si pensa che sieropositività significhi tossicodipendenza o contagio anche solo parlando. Il popolino è assetato di notizie-bomba che diano senso a giornate «vuote» di lavoro. E allora si lancia la sassata: «Lo sai che Tizio ha l’Aids?».
Pure il moralismo da quattro soldi è sempre di moda. «Se l’è cercata!» si dice. A parte il fatto che nessuno cerca il proprio male, che ci conferisce il diritto o l’autorità di giudicare? Il giudizio può essere o su un piano legale-giuridico (e in tale caso bisogna avere le competenze specifiche e studiare ogni singolo caso) o su un piano morale (ipotesi questa che richiede una correttezza interiore che appartiene solo a Dio o ai suoi legittimi rappresentanti). Quanti giudizi sono proferiti da persone moralmente molto più a terra dei giudicati!
E poi, applicando questo criterio, che dovremmo dire di coloro che hanno un tumore al polmone avendo fumato per anni 40 sigarette al giorno? Che dire degli infartati, che non hanno voluto dimagrire né prendere la pillola per la pressione alta, o di coloro con la cirrosi frutto di anni e anni di abusi alcolici? Tutti colpevoli e da condannare?…
Un giorno entra in ambulatorio una signora: viene a ritirare i farmaci anti-Hiv per il genero, che ha telefonato preannunciando la visita. Poche battute, un po’ di imbarazzo e poi la donna prende coraggio:
– Ma a questo qui, quanto gli resta da vivere?
– Come ha detto? Guardi che «questo qui» è un essere umano, ha sposato sua figlia; ed è un mio paziente. Non si permetta di parlare così!
La signora abbozza una scusa e se ne va. Pensava di trovare un alleato alla sua cattiveria. Avrà capito?
In ogni caso ci vuole prudenza e grande sensibilità da parte di tutti gli operatori sanitari nella tutela della privacy. L’Hiv continua a non essere una malattia come le altre. Forse non lo sarà mai.
Insieme ai farmaci, l’altra grande medicina, che in questi anni ha curato e cura i malati, è l’amore: ha coinvolto di volta in volta infermieri, medici, psicologi, operatori a vario titolo, così come partner, familiari, amici, volontari. Tante donne, in particolare, hanno saputo e sanno stare accanto ai propri mariti e compagni superando i pregiudizi, le passioni, oltre che i propri limiti.
Come ha ragione quella paziente e amica che scrive: «Il cuore è una ricchezza inesauribile ed è ben più contagiosa dell’Hiv!».

Tra 100 anni l’Aids non ci sarà più. Di esso si parlerà come di una grande epidemia della storia, che rischiava di cancellare continenti e intere generazioni.
Esiste un gruppo di persone (tra le quali il sottoscritto), che lottano per ridurre quel tempo maledettamente lungo, perché ogni secondo è una vita. La lista per iscriversi è sempre aperta.

di Giancarlo Orofino (*)

Giancarlo Orofino




Salvare i brevetti (e i profitti) o salvare vite?

L’«etica» delle multinazionali farmaceutiche

In un mondo sempre più privatizzato anche il «diritto alla salute» sta diventando
un lusso. Lo è già da tempo nei paesi del Sud del mondo, dove si muore di malaria, diarrea, tubercolosi, polmonite. E ora di Aids. Le cure ci sarebbero, ma costano
troppo. Le multinazionali si giustificano con gli elevati costi della ricerca.
Peccato che i dati smentiscano i pianti: i loro profitti sono in crescita e di gran lunga superiori a quelli delle altre aziende. Così qualche paese (Thailandia, India, Brasile, Sudafrica) ha provato a ribellarsi al sistema vigente, sfidando le ire degli Stati Uniti
e dell’«Organizzazione mondiale del commercio».
Vinceranno le ragioni del profitto o quelle del traballante «diritto alla salute»?

UGUALI DAVANTI ALLA MALATTIA?

Qualcuno sostiene che la malattia accomuna tutti, ricchi e poveri. Ritengo che questo possa essere (parzialmente) vero per la morte, ma non lo è per la malattia. Gli esempi si sprecano: il reperimento di organi (dai reni alle coee), le liste di attesa per esami ed operazioni chirurgiche, l’accesso a farmaci e strutture ospedaliere troppo spesso tutto si riduce a una questione di soldi. Nei paesi del Sud in primo luogo, ma anche in molti paesi ricchi.
La sanità statunitense non è quella bella e buona favoleggiata nella popolarissima serie televisiva «E.R., medici in prima linea». Negli Stati Uniti il livello delle cure mediche è eccelso soltanto per chi può permettersi di pagare un’affidabile assicurazione sanitaria. La conferma viene dalle graduatorie inteazionali che mettono ai primi posti della sanità pubblica la Francia e, sorpresa, l’Italia, mentre gli Usa sono molto indietro.
Come si fa a conciliare il diritto universale alla salute con la privatizzazione della sanità? Eppure, sembra proprio questa la strada battuta, soprattutto nei paesi meno sviluppati dove la popolazione spesso non ha neppure il necessario per mangiare.
Il problema si ripete con l’Aids. La malattia, già soprannominata la «peste» del millennio, ha fatto strage nei suoi 20 anni di diffusione. Ebbene, guardando alle statistiche degli organismi inteazionali, si vede che l’80 per cento dei decessi legati alla malattia è stato registrato nell’Africa subsahariana, ovvero nei paesi più poveri del mondo.
Per essi il futuro è nero, se si considera l’enorme diffusione del virus Hiv tra donne e bambini. Ci sono paesi africani (Zimbabwe, Botswana, Zambia) dove più del 35% delle donne registrate nei reparti di mateità urbani (che rappresentano un’esigua minoranza del totale) sono contagiate.
Rispetto al totale mondiale, si calcola che circa 2/3 dei casi di trasmissione dell’Aids dalla madre al bambino (durante la gestazione e, in misura inferiore, durante l’allattamento) avvengono in Africa.
Gli scienziati sono convinti che un vaccino contro l’Aids sarà pronto entro il 2007. Nel frattempo, i malati di Aids hanno possibilità di sopravvivenza molto diverse, a seconda che abitino nel Nord o nel Sud del mondo.

TERAPIE DA 15 MILA DOLLARI

Le multiterapie anti-Aids (un cocktail di medicine come l’AZT e il 3TC) oggi consentono una consistente riduzione della mortalità. Però queste cure costano circa 15.000 dollari all’anno per paziente. Cifre impensabili per i paesi del Sud, dove l’epidemia ha assunto connotati drammatici.
Alcuni di essi (come Brasile, India e Thailandia) hanno trovato un modo per aggirare il problema fabbricando copie a buon mercato dei farmaci brevettati. In questo modo, il costo delle terapie è crollato a circa 350 dollari l’anno per paziente.
Nel 1997 il presidente sudafricano Nelson Mandela promulgò una legge, denominata Medicine Act, che recepiva questa situazione. Con essa venivano presi due provvedimenti per combattere il dilagare dell’Aids: da un lato si decideva di acquistare i farmaci non necessariamente dall’industria nazionale (costituita da filiali delle multinazionali), ma da qualsiasi paese estero dove i prezzi fossero più convenienti. In altre parole, veniva instaurato un mercato parallelo, che importava i farmaci (i cosiddetti «farmaci generici») dai paesi le cui leggi nazionali permettono di ignorare i brevetti sui farmaci in caso di urgente bisogno.
Il secondo aspetto della legge, ancora più radicale, consisteva nell’autorizzare la fabbricazione dei farmaci antiretrovirali da parte delle industrie locali, anche in assenza dell’autorizzazione delle industrie farmaceutiche che detengono i brevetti.
Contro la legge si mobilitò immediatamente la lobby farmaceutica mondiale, con immediate e pesanti pressioni sugli Stati Uniti e, di conseguenza, sull’Omc, Organizzazione mondiale del commercio. Così, lo scorso 5 marzo, a Pretoria, è iniziato il processo intentato da 42 case farmaceutiche contro il governo sudafricano, colpevole di aver emanato una legge che viola gli accordi sul commercio mondiale.
E qui il problema assume connotati interessanti, riassumibili in un semplice quesito. Come è possibile che multinazionali potentissime chiedano «protezione» dalle conseguenze del libero mercato, usualmente icona intangibile del sistema neoliberista?
FARMACI «PROTETTI» DAL «LIBERO» MERCATO
Dal 1994, ai paesi aderenti all’Omc è stato intimato di sottomettersi agli accordi denominati «Trips». Secondo questi, non è più possibile produrre un farmaco o acquistarlo all’estero senza l’autorizzazione (contro versamento di «royalties») del proprietario dell’invenzione, che conserva questa prerogativa per 20 anni.
Tuttavia, sotto la pressione di alcuni paesi, i Trips hanno previsto clausole di eccezione: in caso di emergenza sanitaria o di intralci alla concorrenza (rifiuto di vendita dell’inventore o prezzi troppo alti), ogni governo ha il diritto di ricorrere alle «licenze obbligatorie» (compulsory licences) e alle importazioni parallele. Le prime consentono di fabbricare un prodotto senza l’accordo dell’inventore (come hanno fatto il Brasile, la Thailandia, l’India); le seconde di acquistarlo là dove è venduto a minor prezzo (come vuole fare il Sudafrica).
Di queste scappatornie si lamentano le lobbies farmaceutiche, che vogliono imporre la soppressione di ogni eccezione ai diritti di brevetto. Lo fanno attraverso gli Stati Uniti, che a loro volta sono i veri decisori all’interno dell’Omc.
Poiché in campagna elettorale la nuova amministrazione Bush ha accettato cospicui finanziamenti dall’industria farmaceutica, aspettiamoci pressioni e ritorsioni commerciali (ad esempio: la tassazione dei prodotti d’esportazione) degli Stati Uniti sui paesi «disobbedienti».
È inutile negare l’evidenza: i Trips sono clausole protezionistiche introdotte dall’Organizzazione mondiale del commercio, grande sacerdotessa del libero mercato. Libero finché fa comodo agli interessi privati dei grandi gruppi industriali e finanziari.
Eppure, non occorre essere oppositori del sistema neoliberista per affermare che i pazienti non sono clienti e i farmaci non sono prodotti come gli altri. E che il diritto di brevetto non può essere posto al di sopra dei bisogni elementari dell’umanità. «Che i brevetti – ha scritto Le Monde Diplomatique – assicurino l’avvenire è forse vero per l’avvenire della ricerca privata e senza alcun dubbio per quello degli azionisti delle compagnie farmaceutiche, ma in nessun caso per quello dei malati».

I TAGLI ALLA SANITÀ PUBBLICA

Abbiamo parlato di 350 dollari annuali per pagare le cure a un malato di Aids utilizzando i «farmaci generici». La cifra, pur bassa rispetto ai prezzi ufficiali, rimane elevatissima per le finanze pubbliche dei paesi del Sud.
Negli anni passati, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale hanno imposto ai paesi del Sud l’adozione dei famigerati «aggiustamenti strutturali». I tagli delle spese pubbliche si sono tradotti in tagli ai già esigui budget sanitari. Ha senso ora lamentarsi dell’inadeguatezza dei sistemi sanitari nei paesi in via di sviluppo?
Nella maggioranza dei paesi poveri (in particolare, di quelli africani) la spesa sanitaria globale pro capite non supera i 10 dollari all’anno. Quindi, anche a prezzi ultrascontati, offrire cure pubbliche ai malati di Aids sarebbe impossibile. Soltanto un’esigua percentuale di fortunati vedrà difeso (più o meno efficientemente) il proprio «diritto alla salute». Dunque, si ritorna all’assioma di partenza di quest’articolo. Chi è povero, sia esso lo stato o l’individuo, ha molte meno possibilità di rimanere in salute e, ove malato, di curarsi.

UN VIRUS CHIAMATO «POVERTÀ»

L’anno scorso il presidente sudafricano Thabo Mbeki, successore di Mandela, venne sbeffeggiato e deriso perché aveva dato credito alle teorie dissidenti, secondo le quali il virus dell’immunodeficienza (Hiv) non sarebbe la causa dell’Aids.
Di fronte a questa forte polemica, passarono in secondo piano le altre osservazioni del leader sudafricano. Nella lettera indirizzata al presidente Clinton, Mbeki sottolineava lo stretto rapporto tra la morte massiccia, provocata dalla malattia in alcune regioni del mondo come l’Africa, e la povertà di massa che soffoca quelle stesse regioni. In pratica, il presidente sudafricano sottolineava che il solo approccio biomedico non permette di vincere la sfida dell’Aids. Era questa una constatazione non nuova, ma sempre sottovalutata.
Già nel 1985, l’annuale rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità scriveva: «La povertà esercita un’influenza su tutti gli stadi della vita umana, dal concepimento alla tomba. Cospira con le malattie più mortali e dolorose».
No, non si è tutti eguali davanti alla malattia. E l’Aids è solo l’ultimo degli esempi possibili.

GLI ARGOMENTI DELLE MULTINAZIONALI FARMACEUTICHE

* Ci vogliono almeno 20 anni di protezione brevettuale per recuperare le grandi somme necessarie alla ricerca e allo sviluppo di nuovi farmaci.

GLI ARGOMENTI
DEI PAESI DEL SUD

* Le aziende farmaceutiche (e con loro gli Stati Uniti e il Wto) mettono il profitto davanti agli individui.

* Da anni gli utili delle case farmaceutiche sono sempre superiori agli utili delle altre aziende.

* La spesa in ricerca e sviluppo è un’esigua frazione rispetto ai soldi spesi per il marketing dei farmaci.

* Solo il 10% dei fondi per la ricerca e lo sviluppo è destinato a cure contro il 90% delle malattie a diffusione mondiale, mentre il grosso è speso per malattie tipiche del Primo mondo come l’obesità, la calvizie e l’impotenza.

* Il Sud del mondo viene utilizzato per la sperimentazione di farmaci che poi non vengono resi disponibili per le popolazioni che hanno subito la sperimentazione.

Farmaci antiretrovirali

Primo gruppo:
inibitori nucleosidici della transcriptasi inversa virale

Retrovir (Glaxo-Wellcome) L. 571.200
Videx (Bristol-M. Squibb) L. 406.100
Epivir (Glaxo-Wellcome) L. 532.000 H
Zerit (Bristol-M. Squibb) L. 519.600 H
Hivid (Roche) L. 499.800
Ziagen (Glaxo-Wellcome) L. 685.300 H

Combinazione di 2 inibitori
Combivir (Glaxo-Wellcome) L. 930.600 H

Secondo gruppo:
inibitori delle proteasi

Norvir (Abbott) L. 849.300 H
Invirase (Roche) L. 1.276.000 H
Fortovase (Roche) L. 1.266.000 H
Crixivan (Merck S.D.) L. 1.258.400 H
Viracept (Roche) L. 919.600 H
Agenerase (Glaxo-Wellcome) L. 959.200 H

Terzo gruppo:
inibitori non nucleosidici della transcriptasi inversa virale

Viramune (Boehringer Ing.) L. 375.000 H
Sustiva (Du Pont Ph.) L. 761.400 H

H = solo dispensazione ospedaliera (il prezzo va dimezzato).
Il prezzo equivale al costo di una terapia per un mese.
In Italia le cure sono gratuite. Per ora.

Paolo Moiola




Perché non sono americano

Superiore generale dei missionari della Consolata per 12 anni
e oggi superiore di quelli in Tanzania,
padre Giuseppe Inverardi, bresciano,
ci permette di approfondire la situazione di questo paese,
in relazione anche ad altre nazioni dell’Africa…
Il socialismo di Nyerere: successi e fallimenti.
L’importanza del kiswahili. Il dramma dell’Aids e dei ragazzi di strada.
L’azione della chiesa.

Padre Giuseppe, hai potuto girare il mondo fin da giovane. Che cos’è stato più consono alle tue aspettative?

Ho studiato teologia per quattro anni a Washington D.C. e ho lavorato per altri nove negli Stati Uniti. So di aver ricevuto molto dall’America e le sono grato delle opportunità che mi ha dato. Ma non ho mai desiderato di diventare cittadino americano. Il mio ha voluto essere un atteggiamento di apertura al mondo, un desiderio vivo di «partire», perché il mio sogno era l’Africa, senza escludere altri continenti.
Ho sempre desiderato la dimensione pastorale della missione; ma solo per due anni e mezzo ho potuto viverla in Kenya e per cinque in Tanzania. Spesso ho avuto incarichi di altro genere, fino ad oggi che ho 62 anni. Però non mi sono mai sentito frustrato. Mi ha sorretto la convinzione che la missione non è né il posto né l’attività, ma il cuore, e che essa è al «plurale»: cioè, compiuta nella diversità e organicità dei servizi.
Nel tuo servizio di superiore generale che cosa hai imparato?

Ho incontrato molte persone significative e profetiche, ad esempio: gli arcivescovi Paulo As e Luciano Mendes in Brasile, madre Teresa di Calcutta, i cardinali Joseph Malula e Edoardo Pironio (rispettivamente in Congo e Argentina), teologi di fama internazionale. E la lista potrebbe allungarsi. Il contatto con queste e altre persone ti consente un’analisi nuova della realtà, ti apre orizzonti sconfinati e ti lascia un’impronta. Sono ricordi indimenticabili.
Ho partecipato a numerosi incontri importanti, inclusi quelli dei superiori generali degli istituti missionari. Uno tra i più emozionanti: l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo in Mozambico, presso la comunità di S. Egidio a Roma… Ho conosciuto la complessità delle situazioni dei paesi visitati e del mondo in generale. Ho avvicinato e apprezzato culture e popoli diversi, nonché una chiesa cattolica dalle espressioni più varie.
Ovviamente il mio ministero era rivolto soprattutto ai fratelli missionari, ai quali riservavo il mio tempo. Da loro ho imparato che cosa significa essere evangelizzatori nelle situazioni più disparate, remote e difficili: la guerra civile e i sequestri di padri e suore in Mozambico, lo snervante stato di apartheid in Sudafrica, lo Zaire defraudato da Mobutu, la lotta continua in Brasile per i diritti degli indios yanomami e macuxí, la guerriglia e il dramma della coca in Colombia, ecc.
Ho capito che l’atteggiamento più valido è la vicinanza, la frateità, la comprensione. Non ho mai preteso di essere maestro di missione: mi sono considerato un alunno, con il desiderio di comprendere la realtà e di amare i missionari. Ho colto il mistero della persona nei risvolti belli e meno belli. Ho appreso che il silenzio è spesso più valido della parola. Ho pure imparato a soffrire per decisioni difficili.

Pensando agli ultimi 30 anni, vedi prevalentemente dei progressi o dei regressi nell’Africa in generale?

Il progresso è visibile: africani intelligenti, capaci e sapienti in posizione di responsabilità a livello nazionale e mondiale; nazioni con più scuole e università, ospedali, città cresciute, strade asfaltate, mezzi di comunicazione più diffusi, gente che veste meglio, una dieta più ricca, più automobili, e così via.
Ma c’è anche un regresso. Il sogno che, con l’indipendenza, le nazioni dell’Africa avrebbero avuto un cammino di continua crescita e di auto nomia economica si è infranto, lasciando una sensazione di sfiducia. Oggi esiste la consapevolezza che è impossibile per il continente tenere il passo dei paesi sviluppati. Questa è, forse, la più grave povertà.
Il regresso lo si vede nelle nuove guerre etniche e nelle quasi-dittature, nel numero dei rifugiati, nella decadenza generalizzata delle strutture scolastiche e sanitarie. La capacità di acquisto della moneta locale è minore rispetto ad anni fa. La giustizia è difficile da ottenersi, la corruzione è un cancro dilagante, l’Aids è un flagello con risvolti sociali immensi. Manca la pratica di un’amministrazione seria e onesta. Soldi che vengono deviati e rubati…
Problemi immani nei confronti dei quali ti senti impotente. Se fai qualcosa, avverti che è solo una goccia.

Nei paesi africani anglofoni ho notato, da parte degli studenti, un calo nella comprensione della lingua matea. Che ne pensi?

In Kenya l’inglese è parlato molto, perché la percentuale di chi frequenta la scuola secondaria è alta. In Tanzania la percentuale è molto bassa; qui inoltre il kiswahili è stato privilegiato: un fattore che ha avuto e ha grande importanza nell’unire la nazione ancora oggi, perché gli studenti e gli ufficiali governativi vengono spostati da un angolo all’altro del paese.
Il kiswahili è un patrimonio irrinunciabile: con la conseguenza, tuttavia, di staccarsi da un mondo globalizzato, che fa sempre più uso dell’inglese. La questione è dibattuta sui giornali. Sarebbe da miopi non guardare al futuro. Non per nulla parecchi mandano i figli a studiare in paesi anglofoni e molte scuole private danno priorità all’inglese come strumento di istruzione e comunicazione.

Che cosa puoi dire della situazione generale del Tanzania?
Colpisce il dato che questo è forse l’unico paese dell’Africa che non ha avuto guerre: il Tanzania è sereno fin dall’indipendenza. Può essere il frutto sia della politica di Nyerere sia del fatto che non c’è una tribù decisamente superiore e più forte delle altre. Ci sono pace e unità.
I missionari spesso commentano: «È persino una pace troppo… pacifica, senza voci che protestano contro le ingiustizie». La giustificazione data è: nel paese i conflitti non vengono risolti con la denuncia e la violenza, ma con il dialogo, l’intesa e la cooperazione tra stato e chiesa.

Ma ci vorrebbero altri «Nyerere»! Come giudichi quest’uomo a poco più di un anno dalla sua morte?

Nyerere ha avuto un grande significato politico nell’unire la nazione, nell’avere una visione e un programma da proporre. Qualcuno ha detto che era troppo idealista ed evangelico. Infatti l’ujamaa, come sistema economico, non ha funzionato e, come ogni forma di socialismo, sembra avere generato una persistente apatia: ancora oggi non è facile parlare di cooperazione, di lavoro d’insieme. Prevalgono individualismi e interessi personali.

La visione di Nyerere era nitida, ma il Tanzania è povero: non ha ricchezze del sottosuolo, un problema grave per una nazione che nasce. Fin dall’indipendenza è stato aiutato dai paesi nordici dell’Europa e da altri. Allo stesso tempo, però, Nyerere sottolineava il kujitegemea o «autosufficienza» e rifuggiva dal gioco capitalistico. Chi è venuto dopo di lui ha cambiato rotta, con il risultato di creare classi sociali in conflitto, specie nelle città.

Indubbiamente la statura politica e morale di Nyerere è grande. Ha lasciato al paese un’eredità di unità e pace. La sua visione andrebbe rivisitata e applicata ai nuovi tempi.

Dopo il cattolico Nyerere, la presidenza è passata al musulmano Mwinyi. Cosa è successo?

C’è stato un netto favoreggiamento degli appartenenti all’islam, che – si afferma – venivano messi in posti di responsabilità, indipendentemente dalla loro preparazione. È seguita una politica di apertura verso i paesi arabi. Forse la gente se n’è accorta poco; ma, se la situazione fosse continuata, oggi avremmo un Tanzania dal volto musulmano, non consono alla realtà numerica dell’islam.

E l’attuale presidente?

Mkapa è cattolico, ed è dello stesso partito di Nyerere, il «Partito del la rivoluzione». Govea una nazione tra le più povere del mondo, priva di risorse e indebitata per circa 7 miliardi di dollari. È chiamato ad intervenire con urgenza su tre fronti: sanità, educazione e pagamento del debito estero; ma anche ad eliminare la corruzione. Lo promise qualche anno fa e stabilì una commissione ad hoc. Ma non si vedono i frutti, anzi!
In seguito al giubileo, il Tanzania ha ottenuto il condono di una parte del debito, purché la somma condonata sia devoluta ai servizi sociali. È un processo difficile, che avrà certamente i suoi vantaggi, ma non così immediati come si vorrebbe.

Perché non decolla l’industria?

Forse perché all’inizio Nyerere ebbe dei dubbi sugli investimenti esteri e la sua scelta prioritaria fu l’agricoltura, che oggi è di sussistenza; forse perché il governo pone condizioni troppo pesanti a chi vuol investire… temendo che i profitti volino all’estero. Anche così, circa 20 anni fa, nacquero delle aziende, ma ora la maggioranza di esse sono chiuse.
Il vuoto industriale genera mancanza di lavoro. È uno dei problemi più gravi del Tanzania. Non ci sono prospettive. Per chi studia e si prepara alla vita, anche all’università, questa è un’amara constatazione.

Da chi è maggiormente aiutato il Tanzania e con quale scopo?

Fin dai tempi di Nyerere – come hai ricordato -, i donatori più generosi di personale e mezzi sono stati i paesi del Nord Europa. Sono presenti in tanti campi: salute, agricoltura, ecologia, forestazione, preparazione e aggioamento del personale. Credo che siano due i motivi di tale disponibilità: l’affinità ideologica socialista e il desiderio di venire incontro alla povertà del paese. Poiché dubito che la seconda motivazione sia del tutto pura, sarebbe interessante sapere il prezzo che il Tanzania deve e dovrà pagare in futuro.

Rispetto ai tempi di Nyerere, oggi il paese è ancora più povero. Come vive la gente?
Di un’economia di pura sussistenza. In alcune regioni la siccità è endemica e la carestia è di casa; per cui l’agricoltura non soddisfa i bisogni della gente ed anche la sussistenza molte volte non c’è. Con questa economia è difficile educare i figli. Teoricamente la scuola è gratis, ma in realtà vengono continuamente sollecitati dei contributi: per i banchi, le costruzioni nuove, i quadei, gli esami, ecc. E la percentuale della popolazione scolastica è scesa.
Anche per quanto riguarda la sanità, il servizio dovrebbe essere gratuito. Però, se vai al dispensario governativo, le medicine non ci sono; e, per andare ai dispensari privati, spesso non hai i soldi. Così si vive alla giornata, senza possibilità di risparmio. I salari sono bassi e il governo ha già più volte dichiarato che non può aumentarli, perché lui stesso è il primo a non poterli pagare. Infatti, spesso, per gli impiegati governativi ci sono lunghi ritardi nel percepire il salario.

Nyerere aveva creato i villaggi «ujamaa». Di tali villaggi cosa rimane oggi?

Il mwalimu Nyerere aveva radunato la gente in villaggi per facilitare i servizi a tutti. Ci furono delle forzature ingiuste, che in alcune località resero odiosa l’operazione e crearono malcontento. Oggi rimane una struttura in virtù della quale ogni villaggio ha un’autorità governativa e di partito, la scuola elementare e il dispensario in molti casi. L’alfabetizzazione per tutti è uno dei grandi meriti di Nyerere.

Come funzionano i mass-media?

I giornali principali sono quattro: due in kiswahili e due in inglese. Vi sono altri organi di cronaca, ma senza indirizzo politico. Due giornali e la radio sono espressione del governo. La televisione è molto povera di programmi. Quasi inesistente internet. Il paese è, quindi, tagliato fuori dalla comunicazione globale.

Che percezione ha il tanzaniano del mondo? Come reagisce, ad esempio, vedendo i turisti?

I turisti non sono molti in Tanzania. Mancano infrastrutture, escluso un po’ il nord a motivo dei parchi nazionali. Non c’è una presenza di massa; per cui non si può parlare di impatto sulla gente. Invece a Zanzibar, negli ultimi cinque anni, sono stati costruiti 70 hotel. Il turismo si limita soprattutto a quest’isola e, meno, a Dar es Salaam. Ci sono voli diretti tra le città europee e Zanzibar. L’anno scorso i turisti furono circa 215 mila.
Quello del turismo è, in ogni caso, un mercato incerto. Prima delle elezioni del novembre scorso, i turisti avevano paura di venire; ora il timore continua, perché la situazione politica in generale è molto critica. Ci sono state bombe e almeno due hotel bruciati. Questo è controproducente, perché i turisti si guardano bene dal venire. Come si sa, poi, i profitti ritornano soprattutto alle compagnie di viaggio e ai paesi da dove provengono i turisti stessi.
Le Organizzazioni non governative aiutano il paese?

Ce ne sono molte e il governo cerca di controllarle e cornordinarle. Però si sente dire che tante nascono più per interessi privati che per aiutare la popolazione. Recentemente sono state soppresse una cinquantina di Ong.

Si può dire che la gente vive la povertà in modo dignitoso?

Oso dire che tutto è dignitoso nell’africano… Subisce dignitosamente anche la povertà, perché ha una capacità immensa di sopportazione del dolore e delle traversie varie. Ma ciò non toglie che sia un peso.
È un peso quando i genitori non possono educare i loro figli, quando mancano i denari per le medicine… quando vai all’ospedale e non ti curano, quando giunge il tempo della semina e non hai due soldi per il concime, quando vendi i prodotti a prezzi irrisori, quando i mezzi di trasporto sono scarsi, quando la malaria ti aggredisce più volte e ti debilita!
Per me è un mistero come l’africano possa vivere in certe situazioni e… sorriderti come se nulla fosse. Che le necessità siano innumerevoli, a livello personale e comunitario, lo testimonia il numero di richieste di aiuto.

Quali sono le priorità d’intervento dei missionari della Consolata per venire incontro alle necessità del paese?

Da tempo gestiamo un ospedale a Ikonda, nell’Ukinga, una zona remota. Legata alle esigenze dell’ospedale, è nata una scuola per infermiere, riconosciuta dallo stato. Da tanti anni a Mafinga è attiva un’importante scuola secondaria, che è anche una Boarding School, cioè un collegio.
Ancora: nella città di Iringa sono nati la Faraja House (casa della consolazione) e il Consolata Vocational Centre, che è una scuola professionale. La Faraja House accoglie i ragazzi di strada; la scuola professionale è per loro ed altri ragazzi. Queste opere sono a carattere regionale e assorbono molte risorse, anche finanziarie.
Poi ogni missione ha le sue strutture, che riguardano educazione, salute, acqua… Da sempre consideriamo lo sviluppo parte integrante dell’evangelizzazione. La vicinanza alla gente è una nostra caratteristica fin dagli inizi della nostra presenza in Africa (Kenya).

«Ragazzi di strada»? Pensavo che in Africa un ragazzo, orfano di entrambi i genitori, fosse facilmente assorbito dalla famiglia estesa…

Certamente era così nel passato e in alcuni luoghi continua ad esserlo. Ma, in seguito all’Aids, il numero degli orfani è cresciuto in modo tale da rendere impossibile a molte famiglie di assorbirli, avendo già grosse difficoltà a crescere i propri figli. Pertanto molti orfani fanno della strada la loro casa: vivono in bande, si danno al furto e alla droga leggera.

Quali sono gli aspetti positivi della chiesa in Tanzania?

Ricordo i più evidenti.
1) La struttura delle «piccole comunità cristiane». È una realtà capillare, un’autentica benedizione, feconda di frutti. A differenza delle comunità di base dell’America Latina, quelle tanzaniane non hanno un carattere sociale, ma solo di preghiera e riflessione sulla parola di Dio. Si desidererebbe che avessero anche un impatto sociale. Tuttavia sono una fonte di ministeri, una opportunità di aiuto vicendevole e una sorgente di istanze per l’intera parrocchia. Tutto passa attraverso le «piccole comunità».
2) L’impegno dei laici (incominciando dai catechisti) è ammirevole. I consigli parrocchiali sono presenti anche nei villaggi. E sono i laici che portano avanti tutte le varie attività e stimolano la crescita della comunità. C’è sete di formazione. Anche le associazioni sono vive e attive.
3) L’attività della chiesa nel campo sociale. Nessuna area di bisogno esula dal suo interesse. Si prodiga con generosità e successo.

Julius Nierere – Il “Gandhi” dell’Africa nera

IL «GANDHI» DELL’AFRICA NERA

L o chiamavano «mwalimu», maestro. Laureato in pedagogia in Inghilterra, si era dedicato all’insegnamento: maestro nella primaria e maestro di vita poi per tutta l’Africa, che voleva liberata senza spargimento di sangue.
Determinanti sono state le sue mediazioni per portare la pace in Sudafrica, Mozambico… Ha liberato il Tanzania con una precisa tattica: esercitando ogni sorta di pressione non violenta sugli inglesi e alle Nazioni Unite, per ottenere autogoverno e indipendenza. Lui, il «Gandhi» dell’Africa nera.
Ha fondato il partito Tanu (Tanganyika African National Union) con il programma Uhuru na umoja (libertà e unità). Ha creato vincoli di amicizia tra le 120 tribù del paese, facendo appello all’unità nazionale, più forte dei vincoli etnici; ha favorito la lingua kiswahili come fattore di coesione nazionale; ha saputo trarre vantaggio dalle tensioni delle «tribù» europee (inglesi, tedeschi e greci), per farsi ascoltare dagli inglesi che accettarono di ritirarsi dal Tanzania senza rappresaglie né sabotaggi. Diventato presidente, non cambiò stile di vita: viveva i principi che insegnava, basati su una particolare forma di socialismo, mirante a raggruppare la gente in villaggi per vivere una vita sociale in forma di cornoperativa, dove tutti potessero interessarsi e partecipare al bene comune, con l’aiuto dello stato nelle grandi opere: strade, acquedotti, ospedali.
Viveva modestamente. Lo posso testimoniare in seguito ad un significativo incontro avuto con lui. Avevo intervistato padre Walsh, dei Padri Bianchi, cappellano degli universitari e direttore spirituale di Nyerere. Grazie a questo missionario, potei incontrare il presidente nella sua casa, semplice e dignitosamente povera. Finito il colloquio, egli stesso ci accompagnò all’università di Dar es Salaam, guidando la sua modesta automobile. Edificante il colloquio sul rapporto tra fede e politica.
Fede in Gesù Cristo: appena poteva, partecipava all’eucaristia inginocchiato tra i ragazzi. Fu anche visto in fila, davanti al confessionale.
Fede nell’uomo, nella sua sostanziale bontà: da qui la scelta di spingere i tanzaniani a vivere con un ideale fin troppo elevato per le deboli forze di queste popolazioni, da sempre chiuse entro i limitati confini delle necessità quotidiane.
Q ualcuno lo chiamava «il maestro rosso», specie per i suoi precisi interventi contro la corruzione di coloro che il popolo aveva argutamente ascritto alla «tribù» dei «Wabenzi», cioè di quanti potevano permettersi il lusso di girare su costosissime Mercedes Benz! Aveva promulgato «il codice dei dirigenti», per impedire ai ricchi di percepire due stipendi.
La gente aveva un’estrema fiducia in lui; per cui lo seguì sulla strada di una riforma che intendeva dare al paese un indirizzo socialista, tipicamente africano, non marxista, alieno dalla lotta di classe, basato sul tradizionale collettivismo rurale e legato alla cultura del passato. «Giustizia, uguaglianza, dignità»: erano i cardini del socialismo e dell’autogestione, proclamati nella famosa dichiarazione di Arusha (1967).
Il suo socialismo si chiamava «ujamaa», termine kiswahili che significa «stato di famiglia». Nyerere sognava che l’intero Tanzania diventasse una famiglia. Cominciò la campagna di nazionalizzazione. Nello stesso tempo nacquero le cornoperative di produzione e consumo autogestite ed autornamministrate. Bellissimo l’ideale. Deboli gli uomini chiamati a metterlo in pratica.
S i parlò di disastro, di completo fallimento. I forti e contrastanti interessi economici, i boicottaggi, le invidie, l’estrema povertà del paese, la mancanza di preparazione e di incentivi personali; poi anche l’aumento del prezzo del petrolio, la guerra contro l’Uganda di Amin…
I malcontenti portarono ad un tentativo di colpo di stato. Quando Nyerere incontrò colui che progettava di destituirlo, gli mise un fucile in mano e lo invitò a sparargli: era disposto a morire se ciò fosse servito ad evitare un bagno di sangue per la sua gente.
Quando, nel 1984, si accorse che c’erano tensioni e rischi di aggravamento delle proteste separatiste, spontaneamente lasciò la presidenza al musulmano Mwinyi. Egli, convinto cattolico, parlò in favore del suo successore, per cementare tutto il paese e facilitare così la transizione del potere.
Si ritirò nel suo villaggio a coltivare la terra e a fare il catechista, lasciando tali occupazioni solo quando percepiva di poter essere ancora utile come mediatore di pace presso popolazioni travagliate dalla guerra.
Valentino Salvoldi

aa.vv




Io sono perchè, noi siamo

L’ Africa non cessa di sorprendere. Nonostante i crescenti problemi, fa di tutto per sopravvivere, anzi per danzare la vita.
Lo scorso anno, in Etiopia, per un corso di aggioamento ai religiosi e al clero, presi lo spunto da un disegno di un artista africano intitolato: «Il Cristo che ride».
Oggi in Tanzania, per sviluppare il tema della salvezza, mi avvalgo come ispirazione del presepio allestito dai missionari della Consolata nella loro casa-procura di Dar es Salaam. Si tratta di una scultura, che si dispiega in uno stupendo groviglio di corpi scolpiti nell’ebano («maconde»), plasticamente culminante in una culla: vi riposa il bambino Gesù, che si massaggia un piede con il particolare atteggiamento che prelude… al sonno. «Dormire è bello – commenta un giovane africano -, dormire e sognare».
Interessante anche l’osservazione di un missionario della Consolata su quel divino infante: «Si sta togliendo una pulce penetrante. Povero Cristo! Ha sperimentato di tutto sulla terra».
I vangeli canonici non ci parlano di pulci penetranti; forse gli apocrifi… San Paolo afferma che, attraverso la sofferenza, il figlio di Dio ha capito che cosa significa essere figlio dell’uomo. E a tutti ha offerto la salvezza.
Anche alla pulce penetrante? Se questa non viene tolta subito, porta a complicanze irreparabili. Presa in tempo, è facilmente eliminabile, come fosse uno scherzo, un gioco da bambini.

«I l sorriso» e «il massaggio del piede»: due immagini che ci parlano dell’arte di ridimensionare ogni cosa, mantenendo un sostanziale ottimismo. Questo atteggiamento, tipico di molti africani, è riscontrabile anche in Tanzania, paese dai mille problemi, sapientemente affrontati con calma uno dopo l’altro, oppure rimandati in attesa di tempi migliori… quando a Dio piacerà.
L’arte di ridimensionare tutto non va confusa con la superficialità né, tanto meno, con il cinismo. Quando il peso della sofferenza è eccessivo e il lavoro per salvare il salvabile cozza contro una serie di fallimenti, è facile scoraggiarsi e sembrare indifferenti al dolore.
Se nell’ospedale di Ikonda, nel sud del Tanzania, durante il fine-settimana muoiono otto pazienti, in prevalenza giovani e tutti a causa dell’Aids, diventa indispensabile radunare gli infermieri e cercare insieme le ragioni per motivare ancora l’impegno al servizio della vita: anziché contare i decessi, si ricordano perciò i successi ottenuti. In ospedale la gente (non abituata agli antibiotici), con poche pastiglie ritrova condizioni di vita accettabili, mentre se fosse rimasta al villaggio, priva di medicinali o con le sole cure del «dottore tradizionale» (stregone), sarebbe morta in tempi brevissimi.
Ridimensionare, in questo caso, significa trasferire tutto in una nuova dimensione: non lasciarsi sopraffare dall’angoscia e dal senso d’impotenza, ma sentirsi orgogliosi delle vite salvate o che si è tentato di salvare.
L’arte del ridimensionare è teorizzata dall’arcivescovo di Dar es Salaam, Polycarp Pengo, ed è vissuta da lui con la spontaneità di un bambino. Dice: «Bisogna ridimensionare ogni cosa, sforzandosi di vedere prevalentemente le cose belle».
Il bambino attualizza il ridimensionamento e lo mette in pratica attraverso un rito che non ho mai visto in altre parti dell’Africa. Dai tre ai sette anni, i piccoli salutano i grandi ponendo la manina sulla testa degli adulti e ripetendo più volte: «Sono ai tuoi piedi». Per lasciarsi toccare la testa, il grande deve abbassarsi al livello del piccolo e, così facendo, si ridimensiona. Forse chi è coinvolto in questo gesto non ne apprezza a sufficienza la portata. Ma, visto dall’esterno, è molto significativo.
I bambini della scuola matea l’hanno ripetuto più volte anche con me e mia nipote Maria Rosa Lorini, coautrice di questo dossier. C’è da augurarsi che non vada perduto con il passare del tempo e il sovrapporsi delle culture.

C’ è pure da sperare che i tanzaniani mantengano inalterati i valori, ribaditi con forza da Julius Nyerere, il «maestro» per antonomasia del Tanzania.
Visitiamo questo paese ad un anno circa dalla sua morte, anche con l’intento di capire quale ricordo abbia conservato la gente di quest’uomo amante della giustizia, cattolico, convinto del valore della fede, vista pure come mezzo per motivare ulteriormente l’impegno politico.
Anche Nyerere è stato un esperto nel coinvolgere i suoi concittadini nell’arte di ridimensionare tutto: per lui si basava sulla familiarità con il pensiero di Dio, la nascita e la morte. Dava per scontata la vita eterna; considerava quella terrena il bene più grande, affidatoci dal Creatore, e aiutava il suo popolo a vedere ogni realtà nella giusta prospettiva.
E, mentre non usava mezzi termini nel denunziare lo sfruttamento dell’occidente nei confronti dell’Africa, invitava i popoli del continente a convivere in pace, senza sognare l’impossibile, ma vivendo una povertà dignitosa, cercando di essere liberi, autosufficienti e capaci di governarsi gestendo con intelligenza le risorse a loro disposizione.

P iù che riportare le mie impressioni o analisi, nel presente dossier preferisco, con Maria Rosa, cedere la parola ai missionari che stanno spendendo la vita al servizio dello sviluppo integrale del Tanzania.
Abbiamo incontrato parecchi preti e suore anche avanzati in età. Ma nessuno di loro sembra preoccuparsene, e continuano a rimanere sulla breccia: annunciano il vangelo, insegnano, guidano la jeep, fanno operazioni chirurgiche, programmano costruzioni di case e ponti come se non dovessero mai morire.
Vivendo in missione, hanno imparato a ridimensionare anche la morte.
Valentino Salvoldi
Padre Giuseppe, hai potuto girare il mondo fin da giovane. Che cos’è stato più consono alle tue aspettative?

Ho studiato teologia per quattro anni a Washington D.C. e ho lavorato per altri nove negli Stati Uniti. So di aver ricevuto molto dall’America e le sono grato delle opportunità che mi ha dato. Ma non ho mai desiderato di diventare cittadino americano. Il mio ha voluto essere un atteggiamento di apertura al mondo, un desiderio vivo di «partire», perché il mio sogno era l’Africa, senza escludere altri continenti.
Ho sempre desiderato la dimensione pastorale della missione; ma solo per due anni e mezzo ho potuto viverla in Kenya e per cinque in Tanzania. Spesso ho avuto incarichi di altro genere, fino ad oggi che ho 62 anni. Però non mi sono mai sentito frustrato. Mi ha sorretto la convinzione che la missione non è né il posto né l’attività, ma il cuore, e che essa è al «plurale»: cioè, compiuta nella diversità e organicità dei servizi.
Nel tuo servizio di superiore generale che cosa hai imparato?

Ho incontrato molte persone significative e profetiche, ad esempio: gli arcivescovi Paulo As e Luciano Mendes in Brasile, madre Teresa di Calcutta, i cardinali Joseph Malula e Edoardo Pironio (rispettivamente in Congo e Argentina), teologi di fama internazionale. E la lista potrebbe allungarsi. Il contatto con queste e altre persone ti consente un’analisi nuova della realtà, ti apre orizzonti sconfinati e ti lascia un’impronta. Sono ricordi indimenticabili.
Ho partecipato a numerosi incontri importanti, inclusi quelli dei superiori generali degli istituti missionari. Uno tra i più emozionanti: l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo in Mozambico, presso la comunità di S. Egidio a Roma… Ho conosciuto la complessità delle situazioni dei paesi visitati e del mondo in generale. Ho avvicinato e apprezzato culture e popoli diversi, nonché una chiesa cattolica dalle espressioni più varie.
Ovviamente il mio ministero era rivolto soprattutto ai fratelli missionari, ai quali riservavo il mio tempo. Da loro ho imparato che cosa significa essere evangelizzatori nelle situazioni più disparate, remote e difficili: la guerra civile e i sequestri di padri e suore in Mozambico, lo snervante stato di apartheid in Sudafrica, lo Zaire defraudato da Mobutu, la lotta continua in Brasile per i diritti degli indios yanomami e macuxí, la guerriglia e il dramma della coca in Colombia, ecc.
Ho capito che l’atteggiamento più valido è la vicinanza, la frateità, la comprensione. Non ho mai preteso di essere maestro di missione: mi sono considerato un alunno, con il desiderio di comprendere la realtà e di amare i missionari. Ho colto il mistero della persona nei risvolti belli e meno belli. Ho appreso che il silenzio è spesso più valido della parola. Ho pure imparato a soffrire per decisioni difficili.

Pensando agli ultimi 30 anni, vedi prevalentemente dei progressi o dei regressi nell’Africa in generale?

Il progresso è visibile: africani intelligenti, capaci e sapienti in posizione di responsabilità a livello nazionale e mondiale; nazioni con più scuole e università, ospedali, città cresciute, strade asfaltate, mezzi di comunicazione più diffusi, gente che veste meglio, una dieta più ricca, più automobili, e così via.
Ma c’è anche un regresso. Il sogno che, con l’indipendenza, le nazioni dell’Africa avrebbero avuto un cammino di continua crescita e di autonomia economica si è infranto, lasciando una sensazione di sfiducia. Oggi esiste la consapevolezza che è impossibile per il continente tenere il passo dei paesi sviluppati. Questa è, forse, la più grave povertà.
Il regresso lo si vede nelle nuove guerre etniche e nelle quasi-dittature, nel numero dei rifugiati, nella decadenza generalizzata delle strutture scolastiche e sanitarie. La capacità di acquisto della moneta locale è minore rispetto ad anni fa. La giustizia è difficile da ottenersi, la corruzione è un cancro dilagante, l’Aids è un flagello con risvolti sociali immensi. Manca la pratica di un’amministrazione seria e onesta. Soldi che vengono deviati e rubati…
Problemi immani nei confronti dei quali ti senti impotente. Se fai qualcosa, avverti che è solo una goccia.

Nei paesi africani anglofoni ho notato, da parte degli studenti, un calo nella comprensione della lingua matea. Che ne pensi?

In Kenya l’inglese è parlato molto, perché la percentuale di chi frequenta la scuola secondaria è alta. In Tanzania la percentuale è molto bassa; qui inoltre il kiswahili è stato privilegiato: un fattore che ha avuto e ha grande importanza nell’unire la nazione ancora oggi, perché gli studenti e gli ufficiali governativi vengono spostati da un angolo all’altro del paese.
Il kiswahili è un patrimonio irrinunciabile: con la conseguenza, tuttavia, di staccarsi da un mondo globalizzato, che fa sempre più uso dell’inglese. La questione è dibattuta sui giornali. Sarebbe da miopi non guardare al futuro. Non per nulla parecchi mandano i figli a studiare in paesi anglofoni e molte scuole private danno priorità all’inglese come strumento di istruzione e comunicazione.

Che cosa puoi dire della situazione generale del Tanzania?
Colpisce il dato che questo è forse l’unico paese dell’Africa che non ha avuto guerre: il Tanzania è sereno fin dall’indipendenza. Può essere il frutto sia della politica di Nyerere sia del fatto che non c’è una tribù decisamente superiore e più forte delle altre. Ci sono pace e unità.
I missionari spesso commentano: «È persino una pace troppo… pacifica, senza voci che protestano contro le ingiustizie». La giustificazione data è: nel paese i conflitti non vengono risolti con la denuncia e la violenza, ma con il dialogo, l’intesa e la cooperazione tra stato e chiesa.

Ma ci vorrebbero altri «Nyerere»! Come giudichi quest’uomo a poco più di un anno dalla sua morte?

Nyerere ha avuto un grande significato politico nell’unire la nazione, nell’avere una visione e un programma da proporre. Qualcuno ha detto che era troppo idealista ed evangelico. Infatti l’ujamaa, come sistema economico, non ha funzionato e, come ogni forma di socialismo, sembra avere generato una persistente apatia: ancora oggi non è facile parlare di cooperazione, di lavoro d’insieme. Prevalgono individualismi e interessi personali.

La visione di Nyerere era nitida, ma il Tanzania è povero: non ha ricchezze del sottosuolo, un problema grave per una nazione che nasce. Fin dall’indipendenza è stato aiutato dai paesi nordici dell’Europa e da altri. Allo stesso tempo, però, Nyerere sottolineava il kujitegemea o «autosufficienza» e rifuggiva dal gioco capitalistico. Chi è venuto dopo di lui ha cambiato rotta, con il risultato di creare classi sociali in conflitto, specie nelle città.

Indubbiamente la statura politica e morale di Nyerere è grande. Ha lasciato al paese un’eredità di unità e pace. La sua visione andrebbe rivisitata e applicata ai nuovi tempi.

Dopo il cattolico Nyerere, la presidenza è passata al musulmano Mwinyi. Cosa è successo?

C’è stato un netto favoreggiamento degli appartenenti all’islam, che – si afferma – venivano messi in posti di responsabilità, indipendentemente dalla loro preparazione. È seguita una politica di apertura verso i paesi arabi. Forse la gente se n’è accorta poco; ma, se la situazione fosse continuata, oggi avremmo un Tanzania dal volto musulmano, non consono alla realtà numerica dell’islam.

E l’attuale presidente?

Mkapa è cattolico, ed è dello stesso partito di Nyerere, il «Partito della rivoluzione». Govea una nazione tra le più povere del mondo, priva di risorse e indebitata per circa 7 miliardi di dollari. È chiamato ad intervenire con urgenza su tre fronti: sanità, educazione e pagamento del debito estero; ma anche ad eliminare la corruzione. Lo promise qualche anno fa e stabilì una commissione ad hoc. Ma non si vedono i frutti, anzi!
In seguito al giubileo, il Tanzania ha ottenuto il condono di una parte del debito, purché la somma condonata sia devoluta ai servizi sociali. È un processo difficile, che avrà certamente i suoi vantaggi, ma non così immediati come si vorrebbe.

Perché non decolla l’industria?

Forse perché all’inizio Nyerere ebbe dei dubbi sugli investimenti esteri e la sua scelta prioritaria fu l’agricoltura, che oggi è di sussistenza; forse perché il governo pone condizioni troppo pesanti a chi vuol investire… temendo che i profitti volino all’estero. Anche così, circa 20 anni fa, nacquero delle aziende, ma ora la maggioranza di esse sono chiuse.
Il vuoto industriale genera mancanza di lavoro. È uno dei problemi più gravi del Tanzania. Non ci sono prospettive. Per chi studia e si prepara alla vita, anche all’università, questa è un’amara constatazione.

Da chi è maggiormente aiutato il Tanzania e con quale scopo?

Fin dai tempi di Nyerere – come hai ricordato -, i donatori più generosi di personale e mezzi sono stati i paesi del Nord Europa. Sono presenti in tanti campi: salute, agricoltura, ecologia, forestazione, preparazione e aggioamento del personale. Credo che siano due i motivi di tale disponibilità: l’affinità ideologica socialista e il desiderio di venire incontro alla povertà del paese. Poiché dubito che la seconda motivazione sia del tutto pura, sarebbe interessante sapere il prezzo che il Tanzania deve e dovrà pagare in futuro.

Rispetto ai tempi di Nyerere, oggi il paese è ancora più povero. Come vive la gente?
Di un’economia di pura sussistenza. In alcune regioni la siccità è endemica e la carestia è di casa; per cui l’agricoltura non soddisfa i bisogni della gente ed anche la sussistenza molte volte non c’è. Con questa economia è difficile educare i figli. Teoricamente la scuola è gratis, ma in realtà vengono continuamente sollecitati dei contributi: per i banchi, le costruzioni nuove, i quadei, gli esami, ecc. E la percentuale della popolazione scolastica è scesa.
Anche per quanto riguarda la sanità, il servizio dovrebbe essere gratuito. Però, se vai al dispensario governativo, le medicine non ci sono; e, per andare ai dispensari privati, spesso non hai i soldi. Così si vive alla giornata, senza possibilità di risparmio. I salari sono bassi e il governo ha già più volte dichiarato che non può aumentarli, perché lui stesso è il primo a non poterli pagare. Infatti, spesso, per gli impiegati governativi ci sono lunghi ritardi nel percepire il salario.

Nyerere aveva creato i villaggi «ujamaa». Di tali villaggi cosa rimane oggi?

Il mwalimu Nyerere aveva radunato la gente in villaggi per facilitare i servizi a tutti. Ci furono delle forzature ingiuste, che in alcune località resero odiosa l’operazione e crearono malcontento. Oggi rimane una struttura in virtù della quale ogni villaggio ha un’autorità governativa e di partito, la scuola elementare e il dispensario in molti casi. L’alfabetizzazione per tutti è uno dei grandi meriti di Nyerere.

Come funzionano i mass-media?

I giornali principali sono quattro: due in kiswahili e due in inglese. Vi sono altri organi di cronaca, ma senza indirizzo politico. Due giornali e la radio sono espressione del governo. La televisione è molto povera di programmi. Quasi inesistente internet. Il paese è, quindi, tagliato fuori dalla comunicazione globale.

Che percezione ha il tanzaniano del mondo? Come reagisce, ad esempio, vedendo i turisti?

I turisti non sono molti in Tanzania. Mancano infrastrutture, escluso un po’ il nord a motivo dei parchi nazionali. Non c’è una presenza di massa; per cui non si può parlare di impatto sulla gente. Invece a Zanzibar, negli ultimi cinque anni, sono stati costruiti 70 hotel. Il turismo si limita soprattutto a quest’isola e, meno, a Dar es Salaam. Ci sono voli diretti tra le città europee e Zanzibar. L’anno scorso i turisti furono circa 215 mila.
Quello del turismo è, in ogni caso, un mercato incerto. Prima delle elezioni del novembre scorso, i turisti avevano paura di venire; ora il timore continua, perché la situazione politica in generale è molto critica. Ci sono state bombe e almeno due hotel bruciati. Questo è controproducente, perché i turisti si guardano bene dal venire. Come si sa, poi, i profitti ritornano soprattutto alle compagnie di viaggio e ai paesi da dove provengono i turisti stessi.
Le Organizzazioni non governative aiutano il paese?

Ce ne sono molte e il governo cerca di controllarle e cornordinarle. Però si sente dire che tante nascono più per interessi privati che per aiutare la popolazione. Recentemente sono state soppresse una cinquantina di Ong.

Si può dire che la gente vive la povertà in modo dignitoso?

Oso dire che tutto è dignitoso nell’africano… Subisce dignitosamente anche la povertà, perché ha una capacità immensa di sopportazione del dolore e delle traversie varie. Ma ciò non toglie che sia un peso.
È un peso quando i genitori non possono educare i loro figli, quando mancano i denari per le medicine… quando vai all’ospedale e non ti curano, quando giunge il tempo della semina e non hai due soldi per il concime, quando vendi i prodotti a prezzi irrisori, quando i mezzi di trasporto sono scarsi, quando la malaria ti aggredisce più volte e ti debilita!
Per me è un mistero come l’africano possa vivere in certe situazioni e… sorriderti come se nulla fosse. Che le necessità siano innumerevoli, a livello personale e comunitario, lo testimonia il numero di richieste di aiuto.

Quali sono le priorità d’intervento dei missionari della Consolata per venire incontro alle necessità del paese?

Da tempo gestiamo un ospedale a Ikonda, nell’Ukinga, una zona remota. Legata alle esigenze dell’ospedale, è nata una scuola per infermiere, riconosciuta dallo stato. Da tanti anni a Mafinga è attiva un’importante scuola secondaria, che è anche una Boarding School, cioè un collegio.
Ancora: nella città di Iringa sono nati la Faraja House (casa della consolazione) e il Consolata Vocational Centre, che è una scuola professionale. La Faraja House accoglie i ragazzi di strada; la scuola professionale è per loro ed altri ragazzi. Queste opere sono a carattere regionale e assorbono molte risorse, anche finanziarie.
Poi ogni missione ha le sue strutture, che riguardano educazione, salute, acqua… Da sempre consideriamo lo sviluppo parte integrante dell’evangelizzazione. La vicinanza alla gente è una nostra caratteristica fin dagli inizi della nostra presenza in Africa (Kenya).

«Ragazzi di strada»? Pensavo che in Africa un ragazzo, orfano di entrambi i genitori, fosse facilmente assorbito dalla famiglia estesa…

Certamente era così nel passato e in alcuni luoghi continua ad esserlo. Ma, in seguito all’Aids, il numero degli orfani è cresciuto in modo tale da rendere impossibile a molte famiglie di assorbirli, avendo già grosse difficoltà a crescere i propri figli. Pertanto molti orfani fanno della strada la loro casa: vivono in bande, si danno al furto e alla droga leggera.

Quali sono gli aspetti positivi della chiesa in Tanzania?

Ricordo i più evidenti.
1) La struttura delle «piccole comunità cristiane». È una realtà capillare, un’autentica benedizione, feconda di frutti. A differenza delle comunità di base dell’America Latina, quelle tanzaniane non hanno un carattere sociale, ma solo di preghiera e riflessione sulla parola di Dio. Si desidererebbe che avessero anche un impatto sociale. Tuttavia sono una fonte di ministeri, una opportunità di aiuto vicendevole e una sorgente di istanze per l’intera parrocchia. Tutto passa attraverso le «piccole comunità».
2) L’impegno dei laici (incominciando dai catechisti) è ammirevole. I consigli parrocchiali sono presenti anche nei villaggi. E sono i laici che portano avanti tutte le varie attività e stimolano la crescita della comunità. C’è sete di formazione. Anche le associazioni sono vive e attive.
3) L’attività della chiesa nel campo sociale. Nessuna area di bisogno esula dal suo interesse. Si prodiga con generosità e successo.
«Batti il tamburo,
non i bambini!»

Q uesto è lo slogan che padre Franco Sordella e i bambini della Faraja House hanno scelto per l’inaugurazione della loro nuova scuola elementare nel settembre scorso. La Faraja House (casa della consolazione) è un centro nella città di Iringa per ragazzi difficili: in maggioranza provenienti dalla strada e parecchi orfani. Ognuno con il suo bagaglio di abbandono, violenza, miseria.
Il progetto (uno dei tanti realizzati dai missionari della Consolata) è iniziato dal nulla tre anni fa. Oggi consta di due settori: il primo, «ragazzi di strada» per la riabilitazione; il secondo, per l’avviamento professionale anche di minori che non vivono nella Faraja House. Il tutto è quasi un villaggio: comprende dormitori, refettori, cucine, laboratori, dispensario e la scuola tecnica, che annovera 60 ragazzi. Con gli altrettanti bambini della Faraja House, si raggiunge un totale di 120.
Ma ci sono anche i frequentatori della domenica: ragazzini che sopravvivono lavorando al mercato e vivendo in «tane» (ad esempio, presso i mucchi di crusca dietro i mulini). Ad essi, «il dì di festa», viene offerto un buon pasto e la possibilità di lavarsi e di non restare analfabeti.
Oggigiorno anche le scuole governative sono a pagamento: perciò pochi sono i bambini che hanno la possibilità di frequentarle. Nel paese scarseggiano strutture e maestri: così non bisogna stupirsi se, entrando in una classe, si trovano anche 100 allievi, che devono solo rimanere seduti e buoni, presente o meno l’insegnante, se non vogliono essere castigati.
Accanto al «problema scolastico», sta aumentando anche il numero di bambini che, come Issa, rimangono orfani a causa dell’Aids. Issa (Gesù) è stato accolto nella Faraja House a natale.
Visto che Gesù bambino fu rifiutato, perché – si sono detti i missionari – non cercare in città il ragazzo più abbandonato e solo? Uno di quelli che dormono nascosti per paura di essere picchiati o abusati dai più grandi… e dargli una famiglia? È saltato fuori Issa, che ha trovato finalmente casa, ma anche chiesa, scuola e lavoro.
Già, lavoro. Non bisogna stupirsi se, nella Faraja House, la prima cosa che si compra all’inizio della scuola non sono i libri, ma la zappa. L’importante è che il lavoro non diventi l’unico riferimento a scapito dell’istruzione e, soprattutto, che gli insegnanti non costringano i ragazzi a lavorare nei loro campi tutto il giorno sotto la minaccia del bastone.

M entre la Faraja House ospita bambini di strada, per i ragazzi che cercano un lavoro (in particolare le ragazze) è stato creato il Centro «Stella del mattino», anch’esso nel territorio di Iringa. Costruito e gestito dai missionari della Consolata, «Stella del mattino» ospita 60 adolescenti provenienti da villaggi dove non esistono le strutture necessarie per l’istruzione.
Il sistema educativo del Centro è «studio e lavoro»: lo stesso che vige nelle scuole statali fin dai tempi dell’ujamaa. La filosofia pedagogica di base enfatizza «l’importanza di trasmettere ai ragazzi le conoscenze che possano situarli in una buona posizione sociale e renderli cittadini capaci di autoguidarsi e portare il loro popolo fuori dalla povertà e dall’ignoranza» (J.T.K. Ulimwengu, capo editore Rai/Mtanzania).
Nel Centro si punta all’autosostentamento: sia per non dover dipendere da aiuti estei, sia per rendere più consapevoli i giovani. Qui essi possono mantenersi allevando animali, coltivando i campi e, nello stesso tempo, formandosi culturalmente per far fiorire domani tutte le potenzialità che la nazione possiede. In Tanzania nel 1996, durante il seminario organizzato dal «Centro per l’energia, lo sviluppo, la sicurezza e la tecnologia», si discusse sul deterioramento del livello qualitativo dell’educazione. Se nelle scuole primarie il problema maggiore è legato al sovrannumero, alle secondarie (dove il numero degli studenti è contenuto a causa della selezione per merito) la violenza sessuale costituisce il principale fattore di ingiustizia e continua ad essere al centro di dibattiti e della cronaca locale.
Il Ministro dell’educazione ha rivelato che, tra il 1995 e il 1998, 12.721 ragazze furono espulse dalla scuola poiché incinte. Anche da parte degli insegnanti.

HO VSTO LA BONTA’ LIBERATRICE

«Abbiamo visto i miracoli dell’amore» potremmo intitolare un libro, se volessimo narrare ciò che uomini e donne di Dio, preti e suore locali, missionari e laici, stanno realizzando a favore dei più poveri nei più remoti angoli della terra, là dove manca tutto: acqua, cibo, strade, ospedali, scuole.
La jeep s’inerpica sui monti a sud della Tanzania, oltre i 2 mila metri: antichi tratturi trasformati in «strade», che si possono affrontare durante la stagione secca, ma che si convertono in rovinosi torrenti durante i sei mesi delle piogge. Nonostante si creda che quattro ruote motrici possano fare miracoli, sovente ci s’impantana al punto da non potersi più muovere.
E quelle zone che sembravano deserte, d’un tratto si animano di persone che sbucano da ogni angolo, si organizzano in breve tempo e rimettono la macchina in condizione di riprendere il viaggio. È uno dei volti della solidarietà africana, una dimostrazione che l’antica massima vale ancora: «Io sono, perché noi siamo». Non si contano i saluti, i complimenti e i ringraziamenti, anche se qualcuno afferma che non è conveniente ringraziare perché, come dicono soprattutto i musulmani, «chi ha una ricompensa in terra non l’avrà in paradiso».
Da Njombe – dove finisce la strada asfaltata – a Ikonda, per percorrere 70 chilometri impieghiamo più di tre ore. Fortunatamente da alcuni giorni non piove. Intoo a noi spazi immensi e verde… verde dappertutto: siamo nella stagione delle piogge. Le poche abitazioni che si scorgono sono in terra rossa e hanno il tetto di paglia, dal quale fuoriesce fumo. Il cibo è cotto in pentole appoggiate su tre pietre, che costituiscono il focolare, per terra, in mezzo all’abitazione «multiuso». E il cibo è tutti i giorni uguale: polenta e fagioli.
Lo stesso cibo ci viene offerto dai parenti degli ammalati nell’ospedale di Ikonda. Quando la struttura venne ultimata, fu chiesto ai capi dei wakinga e wabena (etnie locali) come dovesse essere l’ambiente affinché i degenti si sentissero più a loro agio. Risposta: una grande stanza aerata, dove ognuno posa le sue tre pietre, simbolo dell’unità familiare, sulle quali cuoce la solita farina di mais. È meglio non cambiare troppo le abitudini delle persone. Poi toeranno al loro villaggio…
Ogni tanto suor Magda porta ai bambini un uovo oppure, alle mamme, un po’ d’olio per condire le patate bollite quando ci sono. La malnutrizione non aiuta certamente la guarigione.
L’ospedale è gestito dai missionari della Consolata. Può ospitare 200 ammalati e vi lavorano tre medici africani e tre spagnoli. Attualmente è il governo spagnolo a fornire i fondi per il funzionamento della scuola-infermiere e per la formazione degli assistenti medici; ma il personale competente è insufficiente. L’organizzazione Medicus Mundi cerca costantemente volontari, e si può contare sulla presenza di persone disposte a spendere qualche anno della loro vita per gli altri.

Fra le malattie (che richiedono il ricovero in ospedale) nel 1995 al primo posto c’era la malaria, passata poi al secondo. Oggi è l’Aids che detiene il triste primato: lo è anche nella classifica dei decessi. Nell’ospedale abbiamo sfogliato il voluminoso registro dei pazienti che fanno il test dell’Hiv.
Il fatto che tante persone vi si sottopongono significa che hanno comportamenti a rischio, o che vivono in ambienti dove il contagio può essere frequente, oppure che manifestano già alcuni sintomi. Orbene: ogni pagina del registro reca 18 nomi; quelli scritti in rosso sono «sieropositivi»; solo due (a volte tre) i nomi in nero, cioè i «negativi».
Nella regione di Iringa-Njombe la trasmissione dell’Aids è particolarmente accentuata anche a causa del lavoro «offerto» dalla Brooke Bond, multinazionale del tè. Il lavoro si protrae per 11-12 ore al giorno, anche sotto la pioggia, per una paga mensile che varia da 90.000 a 150.000 lire, a seconda della quantità di foglie raccolte.
I lavoratori, immigrati stagionali per la raccolta, vivono nelle casette degli accampamenti costruiti dalla compagnia, isolati. Ovunque ci sono contadini che non lavorano «in proprio», costretti anche a comprare il cibo (per lo più proveniente dal campo del manager). Non essendoci alcun diversivo, sono facile preda dell’alcornol e della promiscuità.
All’ospedale di Kibao (della Brooke Bond) risulta che 9 operai su 10 sono affetti da Hiv positivo. Quando la malattia comincia a manifestarsi, viene loro corrisposta una piccola liquidazione e sono licenziati. Con l’aggravante che, non essendo stati informati della natura e della pericolosità del male, tornando al villaggio, contagiano chi vi è rimasto. La compagnia del tè ha pensato di risolvere il problema così: un’ora settimanale di istruzione sull’uso di profilattici e sull’importanza di anticoncezionali e abortivi. Nessun accenno viene fatto agli effetti collaterali che, usando i farmaci Depoprovera e Norplan, comportano rischi elevati. Non a caso, nel Nord del mondo, tali farmaci sono stati banditi. E non solo perché, con il passare del tempo, causano sterilità nelle donne.
Se nei centri sanitari governativi non fossero praticate regolarmente «certe» iniezioni, il paese non riceverebbe più gli aiuti dall’estero. E questo sistema sta distruggendo l’«orgoglio delle tanzaniane». Una donna, infatti, diventa tale solo dopo aver partorito il primo figlio: da quel momento sarà «la mamma di…». Col tempo, il ricorso sommario a contraccettivi distruggerà la fertilità di un’intera popolazione.
Inoltre negli ospedali governativi, al momento del parto, soprattutto se c’è stato un cesareo o in seguito a complicazioni, spesso sono i medici a decidere indiscriminatamente, senza chiedere il consenso di alcuno, di chiudere le tube delle giovani madri. Queste vengono a scoprirlo soltanto in seguito quando, vedendo che non arrivano altri figli, effettuano visite di controllo, magari negli ospedali dei missionari.
Una tanzaniana, confidandosi con una missionaria della Consolata, ha commentato: «Noi abbiamo molta più fiducia nei vostri ospedali, perché qui c’è il timore di Dio, mentre in quelli del governo c’è solo il timore della nazione».
Maria Rosa Lorini

Maria Rosa Lorini




Urgenti e scottanti

Inculturazione

Prima di parlare di inculturazione (radicare il messaggio evangelico nella cultura locale), serve avere una buona comprensione del cristianesimo; poi si può scegliere ciò che nel costume non ne travisa le regole. L’inculturazione va fatta con coscienza. Poiché nella cultura africana la fede cristiana ha una storia breve, penso che la gente non sia pronta per tale discorso, che comunque va attuato passo dopo passo.
Oggi l’esistenza di molti cristiani in Tanzania è caratterizzata da una profonda dicotomia tra la professione della fede cristiana e il concreto vivere quotidiano. Mentre teoricamente la fede può essere espressa in modo ortodosso, la vita contraddice spesso la fede: si rimane meravigliati dalla coesistenza di atteggiamenti antitetici in un individuo. Una duplicità a livelli così fondamentali necessariamente causa sofferenze: a livello psicologico e socio-relazionale.
La situazione che ne consegue è paragonabile a quella dell’indemoniato di Gerasa, descritta dall’evangelista Marco al capitolo 5. Il pover’uomo, da una parte si sente attratto dalla persona di Cristo e, dall’altra, chiede che il Maestro lo lasci solo… La condizione in cui si trovano molti cristiani necessita del messaggio salvifico di Cristo. Bisogna attuare un’inculturazione autentica del messaggio evangelico nella vita del popolo. In questo processo, Cristo ed il suo vangelo devono avere precedenza assoluta.
Se non ci si basa solidamente su questo principio, si finirà solo con il «battezzare» istituzioni culturali che hanno causato sofferenza e paura, intromettendosi nella concezione tradizionale di vita della gente. In questo modo priveremmo il messaggio evangelico del suo potere salvifico e liberatorio.
Polycarp Pengo
arcivescovo di Dar es Salaam

Musulmani

Il rapporto tra cristiani e musulmani è la questione più rilevante in Africa. In generale abbiamo sempre mantenuto buone relazioni; ma negli ultimi 15 anni alcuni gruppi di fondamentalisti islamici hanno creato problemi. Il governo sostiene che i movimenti sono sotto controllo. Ma, durante le ultime elezioni, abbiamo sperimentato che il fondamentalismo islamico sta cercando di inserirsi nei partiti: in particolare nel Kaf (partito formato in prevalenza da musulmani), che ha avuto parecchi consensi soprattutto nelle isole, dove sta esasperando le differenze tra cristiani e musulmani. Ci sono motivi per credere che cercherà di fare altrettanto sulla terraferma.
Polycarp Pengo

Rivoluzione

I tanzaniani vedono le ingiustizie, ma non le affrontano direttamente: non sono aggressivi. Vogliono risolvere i problemi adeguando le mete da conseguire al loro temperamento e vogliono la giustizia «pacifica». Nel governo opera il Partito della rivoluzione, ma non si può dire che i tanzaniani siano rivoluzionari.
Noi, della commissione «Giustizia e pace», collaboriamo con il governo e le altre istituzioni per portare graduali miglioramenti. L’anno scorso ci siamo impegnati non solo perché la popolazione andasse a votare, ma anche perché si sentisse coinvolta nella gestione della cosa pubblica. Abbiamo cercato di sensibilizzare i politici per indurli a fare scelte prioritarie a favore dei più poveri.
In particolare abbiamo messo in risalto un errore: il paese, allontanandosi dal 1986 dal socialismo dell’ujamaa, con la scelta del capitalismo sta causando una crescente e macroscopica ingiustizia nei confronti della classe meno abbiente, che diventa sempre più povera.
Negli ultimi cinque anni il governo ha cercato di fare delle riforme per ridurre il grande squilibrio tra ricchi e poveri, ma i risultati tardano a farsi notare: le riforme macroeconomiche non raggiungono la stragrande maggioranza della popolazione. Il 60% è totalmente escluso da ogni beneficio.
Paul Ruzoka,
vescovo di Kigoma,
presidente di «Giustizia e pace»

Carceri

Molte persone sono in prigione per reati minori. Le carceri traboccano di persone ammassate in modo disumano. Ci sono 44 mila detenuti in strutture atte a contenee molto meno della metà. E si verificano moltissimi abusi.
Due anni fa i vescovi hanno scritto una lettera aperta per far capire che i prigionieri non devono essere considerati come i rifiuti della società e che c’è sempre uno spazio per aiutare chi sbaglia a correggersi e riprendere un posto nella società. Hanno lanciato un programma per migliorare il sistema giudiziario e per coscientizzare la gente sui diritti dei prigionieri, in particolare dei ragazzi, considerati alla stregua di criminali incalliti e messi in carcere con delinquenti che li seviziano. Molti prigionieri sono reclusi a causa del cattivo modo di procedere delle «corti primarie»: ce ne sono circa 900 nel paese, composte da persone non sempre competenti. I vescovi hanno lanciato un programma di formazione per chi deve giudicare la criminalità spicciola.
Si cerca di educare per andare oltre la legge, ponendo al primo posto la persona, per superare i limiti di chi, poco preparato culturalmente, tende a giudicare superficialmente e in modo rigido, senza considerare l’individuo. Si vuol far capire che la legge deve essere uno strumento per aiutare la società e non un mezzo per liquidare chi non si adegua a certi canoni, spesso discutibili.
Paul Ruzoka

Donne

Le donne che vivono in città hanno maggiori possibilità di ricevere un’educazione. Però chi intende continuare gli studi (una minoranza) si rende conto che non può sposarsi giovane, né avere tanti figli. Tale esigua minoranza, inoltre, avverte la necessità di una pianificazione familiare, per garantire ai figli una buona educazione scolastica. Il problema non si pone nei villaggi, dove nessuno vuole sentire parlare di limitazione delle nascite e di contraccezione, perché l’unica ricchezza delle famiglie sono ancora i figli.
Dovremmo sensibilizzare la gente sulla necessità di una pateità responsabile. Io sono molto preoccupata che, ai nostri giorni, sia terribilmente aumentato il numero degli orfani: sono troppi i genitori irresponsabili nei loro rapporti sessuali; l’Aids si diffonde in modo impressionante. Non si contano i morti.

Monika Mbega, parlamentare

aa.vv.




Chi paga i suonatori sceglie pure la musica

«Soldi-e-missione»: un intreccio complesso e… delicato.
Infatti sono pochi quanti accettano
che si guardi nel loro portafoglio! Per portare un esempio,
nel 1998 i vescovi italiani contavano 135 miliardi di lire
(frutto della generosità dei cattolici)
da offrire ai poveri nel Sud del mondo. Come l’hanno fatto?
E bastano i denari per vincere il sottosviluppo?

«Soldi» e «missione». Due temi contrastanti? Eppure la missione fa uso di risorse finanziarie e il loro impiego indica uno stile di evangelizzazione. L’argomento «soldi e missione» è spinoso:
– esiste un certo pudore quando si parla di «soldi e missione», come se vi fosse un livello spirituale prioritario… e il resto entrasse accidentalmente. Il denaro allora assume una valenza negativa (l’idolo «denaro»). Il trattae contaminerebbe la purezza missionaria;
– in missione si è pronti a condividere le esperienze, però non il portafoglio. Ci sono lodevoli sforzi di trasparenza; ma si è gelosi dei propri conti; non si gradisce che altri ci mettano il naso;
– infine, per le ragioni suddette, è difficile avere il quadro della situazione per poter esprimere una valutazione seria.
Nel dossier si osserva l’ambito ecclesiale:
1. presentando il quadro generale della situazione;
2. accennando a qualche problema;
3. indicando alcune ipotesi di lavoro.

1. Situazione

Sarebbe bello conoscere il giro di soldi che si muovono per la missione.
Nel 1990 si tentò di raccogliere più dati possibili, per delineare il quadro della situazione (vedi il box Offerte pro missioni); ma il principio della privacy prevalse.
Tuttavia da quell’analisi, anche se datata, è possibile avere un’idea del denaro, destinato al Sud del mondo, da enti istituzionali quali il Comitato aiuti della Conferenza episcopale italiana e le Opere pontificie (vedi i vari box).

La fantasia non ha confini

La prima impressione che si ricava dall’analisi del 1990 è la constatazione, nel tessuto italiano, di una realtà missionaria variegata. Sono coinvolte istituzioni nazionali, regionali e locali, soggetti religiosi e laici: insomma una galassia. È una presenza attiva, capace di fantasia e creatività, di proposte e realizzazioni.
Nel 1998 il Convegno missionario nazionale di Bellaria, con 1.600 presenze, ne ha preso atto coniando l’espressione «popolo della missione».
Le diverse realtà hanno a che fare con raccolte di fondi per sostenere attività e progetti. Tutte, sia pure in varie forme, attingono dalla gente le risorse necessarie. Più chiaramente, tutti attingiamo alla stessa fonte: i cittadini italiani. E bisogna dire che sono generosi, almeno con i missionari.
Le iniziative messe in campo hanno aspetti di grande creatività: «otto per mille», giornate missionarie, campagne nazionali, raccolte ordinarie, cene e digiuni di solidarietà, marce sponsorizzate, lotterie, campi di lavoro, autotassazioni, spettacoli. La fantasia non ha confini.
Per i prossimi anni bisognerà prevedere una flessione, perché le richieste si sono moltiplicate, ma il «pozzo» è sempre lo stesso. Inoltre, probabilmente, la gente si stancherà di essere sollecitata a contribuire per una pletora di attività.
Forse l’iniziativa più innovativa (e di maggior successo) negli ultimi anni è stata l’«adozione a distanza». È una proposta con elementi di presa immediata: il coinvolgimento emotivo, il rapporto individuale, l’investimento su persone, la continuità dell’impegno, l’efficacia dell’intervento, il controllo sul processo.
Se esiste una diffusa perplessità sull’incidenza degli aiuti nella realtà globale, bisogna pure affermare che questi hanno permesso la realizzazione di numerosi progetti, che hanno dato un contributo significativo al cammino dei popoli. Le nazioni sono disseminate di opere realizzate con il concorso di un’efficace generosità: scuole, ospedali, strade… Per molti paesi l’intervento ecclesiale-missionario resta l’unico catalizzatore di sviluppo.

Il giardino è mio

Bisogna ammettere che il difficile reperimento dei fondi determina, a volte, una esasperata concorrenza. Questo rischia di ridurre l’animazione missionaria a pura raccolta di soldi, con un antagonismo fra gli organismi interessati ed una accentuata diffidenza reciproca.
Si nota una «malcelata gelosia» dei propri spazi e benefattori, delle piccole «miniere d’oro» che ognuno ha scoperto… da difendere ad ogni costo.
Avviare una collaborazione con tale mentalità alle spalle è difficile, se non impossibile.
Cuore e portafoglio

Un’altra interessante osservazione viene fatta soprattutto da chi è parte in causa. Sovente l’urgenza di reperire fondi non permette un esame critico dei mezzi utilizzati per raggiungere lo scopo.
Abbiamo tutti assistito a testimonianze missionarie, racconti di campi estivi trascorsi in missione con filmati e diapositive. L’immagine e il commento sono scontati: povertà, abbandono, ecc. Si ricorre (anche se inconsciamente) ad elementi emotivi. E il passaggio dal cuore al portafoglio è breve. Si esige più attenzione al riguardo: ogni popolo ha la sua dignità che va rispettata; della povertà bisogna parlare con «pudore».
L’Africa, per esempio, è «molto di più» della somma dei suoi mali.

Domande spicciole

Esprimo ad alta voce qualche interrogativo, che mi porto dentro dagli anni della missione in Zaire (Congo).
Non ho mai capito perché è sempre facile trovare finanziamento per un… allevamento di maiali, mentre è estremamente complicato reperire fondi per erigere una cappella o sostenere un progetto pastorale. Forse si ritiene che i suini creino sviluppo e migliorino le condizioni di vita, mentre la cappella avrebbe meno incidenza. Per esperienza, garantisco che una comunità cristiana ben animata è capace di essere una grande forza di progresso per tutti.
Lo stesso si puo affermare degli investimenti in persone e strutture. È più facile reperire fondi per realizzare opere che per formare persone. Le strutture sono quantificabili e permettono un ritorno di immagine. Invece investire in persone è più rischioso, perché gli individui possono lasciare l’iter formativo e il risultato è meno visibile. Tuttavia il fattore umano è l’elemento cardine del cammino di un popolo: su questo bisogna investire molto di più.

Isole felici

Si tratta della sperequazione degli aiuti.
Il missionario lombardo o veneto ha a disposizione discreti capitali, che gli permettono di realizzare progetti di una certa portata; invece il calabrese, il latinoamericano o africano non hanno le stesse risorse. Il primo passa per bravo, capace e sarà rimpianto dalla comunità cristiana dove ha operato, a differenza del secondo.
Evitiamo di creare «isole felici» in un oceano di miseria.

. Problemi

Gli aiuti che la chiesa italiana invia non sono sufficienti per avviare un efficace programma di sostegno alle chiese più giovani. Inoltre sono frammentati, con un’estrema varietà dei soggetti che intervengono.

In ordine sparso

Valutando l’indagine del 1990, il professor A. Oberti affermava: «Tutti siamo consapevoli che c’è un flusso (probabilmente ingente) di aiuti, diversi per tipologia, genere, provenienza, destinazione… che dall’Italia parte per il terzo mondo; ma non riusciamo a conoscere le dimensioni, le modalità e, soprattutto, le motivazioni di fondo del flusso. La non conoscenza di questi e altri elementi è grave, non perché non soddisfa la curiosità o il gusto per le statistiche; è grave perché, nella guerra che si cerca di condurre al sottosviluppo, non siamo in grado di razionalizzare l’aiuto e di finalizzarlo il più oggettivamente possibile. Lasciamo che tutto sia guidato da sentimenti, ragioni individuali o di gruppo, motivazioni soggettive religiose, assistenziali, politiche, economiche».
«Si ha un’ulteriore riprova dell’esistenza, nella chiesa e società italiana, di uno spiccato vitalismo sociale; però non si riesce a trovare modi e forme che consentano, senza spegnere la vitalità, di accompagnare e orientare le individualità verso una società comunitaria».
Quattro sono, oggi, i soggetti operanti, ma scarsamente cooperanti fra loro: gli enti ecclesiali nazionali e diocesani, gli istituti missionari e religiosi, gli organismi di volontariato e i movimenti ecclesiali. A questi si affianca una miriade di gruppi attivi sul territorio e variamente collegati agli spazi ecclesiali.
Il fragile tessuto che connette la «galassia missionaria» impedisce la comunicazione di esperienze per una crescita globale e, soprattutto, rende ardua la verifica del loro impatto. La frammentarietà degli interventi impedisce migliori risultati e può rallentare il necessario impatto culturale per una crescita di conoscenza e di coscienza collettiva rispetto ai problemi da affrontare.

Fiducia sì, ma non troppa

Sovente si invocano lo scambio e la cooperazione come principi direttivi: dovrebbero esprimere uno sforzo congiunto dei soggetti interessati, dare e ricevere con spirito di reciprocità. Però, finché ciò avviene a senso unico, è difficile realizzare una comunione paritaria.
Resta l’impressione che nella chiesa si ripeta la situazione esistente nei rapporti di forza del mondo. C’è una chiesa del Nord, ricca, e una del Sud, povera. Una chiesa che dà e una che riceve, una chiesa «benefattrice» e una «assistita». È un rapporto disuguale, ma anche di «forza». Questo si esprime nella sfiducia sulle capacità delle comunità destinatarie a progettare, gestire e realizzare progetti propri.
Perciò… «è normale che le chiese che ricevono aiuti facciano un rapporto dettagliato sulla loro gestione; al contrario, non ci si immagina nemmeno che possano, allo stesso modo, chiedere alle chiese dei paesi ricchi di dare ragione dell’utilizzo delle risorse, perché le risorse appartengono all’unico popolo di Dio».
Ciò vale anche per i regolamenti della cooperazione, che gli organismi istituzionali hanno sviluppato. L’utilità e necessità di darsi delle regole è evidente. Ma la domanda è: chi le stabilisce e secondo quali criteri? L’impressione è che chi detiene le risorse detti anche i principi del loro utilizzo.
Pertanto, non stiamo ricopiando i rapporti di forza fra il Nord e Sud del mondo che, di solito, condanniamo nella Banca mondiale, nel Fondo monetario internazionale, nell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo? Anche la solidarietà richiede regole condivise o, almeno, che tengano conto delle esigenze dei partners.

Neocolonialismo religioso?

Conosciamo il tempo delle «colonie d’oltre mare», appendici economiche di vari paesi europei. Con l’indipendenza degli stati, è subentrato un altro regime che, pur lasciando l’apparato statale autonomo, economicamente lo ha reso dipendente dai governi di tuo del Nord.
È il rischio che corre anche la gestione degli aiuti alle missioni: creano dipendenza (economica e psicologica, dovendo dipendere dall’approvazione altrui).
Ricordiamo la «moratoria» della Conferenza delle chiese d’Africa, tenutasi a Lusaka (Zambia) nel 1974, che proponeva la sospensione di tutti gli aiuti, sia in personale sia in finanze, che provenivano dall’estero. Il fatto suscitò vive reazioni da parte di vescovi e missionari stranieri. Era però il tentativo di affermare un necessario protagonismo dei soggetti locali, cercando di toglierli dal «patronato» esterno.
Al presente serpeggia un «sentire»; a volte è assopito per paura che i canali di finanziamento siano chiusi per «rappresaglia». La domanda però resta: quanta coercizione esercita l’aiuto offerto? Il denaro è sempre potere. Questo mette in gioco la consistenza vera di una chiesa locale e il suo grado di autonomia e decisione. Sono da capire le domande che sovente le chiese del Sud si pongono. Quali sono il peso e l’autorità delle giovani chiese, se non dispongono di un’autonomia finanziaria? Chi fornisce loro i mezzi? Fin dove le lascerà autonome nella parola e nell’iniziativa?
Il problema «finanziamenti» chiama in causa anche l’ecclesiologia e pone la questione del giusto rapporto fra autonomia della chiesa locale e corresponsabilità nella chiesa universale. L’aiuto dovrebbe essere il segno che manifesta la comunione delle chiese nel rispetto di ciascuna.
Ricordiamo «lo stile delle offerte» nella chiesa primitiva. «La colletta – afferma san Paolo – non ha lo scopo di ridurre voi in miseria, affinché altri stiano bene: la si fa per realizzare una certa uguaglianza. In questo momento voi siete nell’abbondanza e, perciò, potete recare aiuto a quelli che sono nella necessità» (2 Cor 8, 13-14; cfr. 1 Cor 16, 1-6; 2 Cor 8-9; Rom 15, 25-31).
Non si tratta solo di dispute tecniche o teologiche, ma di vera dignità.
Mi hanno sempre impressionato i vescovi africani, obbligati a percorrere l’occidente come mendicanti, passando da una diocesi all’altra e da un organismo all’altro, ad intercedere per i bisogni delle loro diocesi… con l’obbligo poi di rendere conto ad una pletora di benefattori stranieri.
Non mi è successo di vedere un nostro vescovo (anche di una piccola e povera diocesi) fare altrettanto.

3. Che fare?

Recenti fatti (che hanno coinvolto alcuni settori della cooperazione italiana e – senza reale consistenza – alcune sezioni della Caritas) hanno generato nell’italiano sfiducia in organismi ritenuti credibili ed efficienti. Perché?

Esigenza di trasparenza

È la qualità necessaria ad ogni gestione finanziaria nella chiesa. Trasparenza comporta chiarezza e serietà nei bilanci, nella destinazione e nell’uso delle risorse (sia di chi dà sia di chi riceve). Nella maggioranza dei casi si usano offerte della gente comune, spesso frutto di sacrificio.
Ma non basta la trasparenza di bilancio. Si richiede chiarezza di programmazione, non disgiunta da una valutazione dell’efficacia degli interventi. Sovente non è sufficiente realizzare un progetto: bisogna valutae la sostenibilità nel tempo. Un briciolo di managerialità in questo settore non guasta.
Aggiungo due semplici proposte:
– organizzare un «data base» consultabile dei progetti in atto, almeno per quelli sostenuti da soggetti istituzionali;
– usare la Banca Etica per la gestione dei fondi. Si darebbe anche una mano a questa iniziativa, evitando di far transitare fondi attraverso istituzioni bancarie, i cui movimenti finanziari sovente non sono compatibili con lo scopo dei soldi raccolti.

Scambio alla pari

L’aiuto deve esprimere la comunione di tutte le chiese, che è alla base della cattolicità. La solidarietà non è mai imposta, ma fa proprie le attese di una comunità sociale o ecclesiale. Naturalmente non sempre sono evidenti, per chi vive nel Nord, le urgenze o priorità di chi sta nel Sud.
«Il vero aiuto è quello che viene dallo scambio alla pari: non solo dare, ma dare e ricevere, solidarietà e interdipendenza. Deve nascere a poco a poco una conoscenza reciproca, la capacità di comprensione dell’altro: ossia spirito di frateità e solidarietà». Questo va oltre l’aiuto finanziario, per includere elementi culturali, cammini di chiesa, persone.
Sembrerebbe scontato che l’azione delle nostre comunità non si limitasse solo all’invio di denaro, ma gettasse un ponte di comunicazione più efficace. Anche i missionari (che rientrano in diocesi per vacanze o altro) dovrebbero «divenire ponte» fra diverse esperienze di chiesa. Invece, sovente, utilizzano il tempo con lo spirito del «prendi e fuggi». Difficilmente il personale inviato in missione diventa stimolo di riflessione nella vita pastorale della propria diocesi.
Ci siamo aperti alla missione; abbiamo inviato soldi e persone; i vescovi visitano i preti in missione. Ma tutto continua come sempre. «Dall’aiuto allo scambio» si diceva tempo fa. È ancora un percorso valido.

Dal frammento alla sintesi

In un mondo che si globalizza unificandosi e fondendosi, è ridicolo difendere il proprio orticello. Il futuro dell’impegno missionario non appartiene solo ai singoli, ma al lavoro di équipe, al costituire reti di azione (la filosofia delle «reti lillipuziane»), mettere insieme una società civile che possa pesare nei contesti nazionali e inteazionali per capacità di analisi, proposta e operatività.
Al di là delle provocazioni, il movimento di Seattle è un esempio bello di cooperazione, che ha aggregato soggetti diversificati e tecnologie a portata di tutti (solidarietà telematica).
È necessario fare sintesi e superare i parallelismi ecclesiali. Penso alla Caritas, all’Ufficio per la Cooperazione missionaria tra le chiese (a livello nazionale e locale), alle riviste missionarie, ai movimenti, agli organismi laicali.
Bisogna anche vincere il provincialismo per immetterci in contesti globali. La domanda da porsi è: come situarci nel flusso di aiuti che le chiese inviano? E ancora: qual è il nostro apporto alle politiche di cooperazione che i governi nazionali e l’Unione Europea mettono in atto?
Si deve mirare a quattro effetti:
– la crescita complessiva della qualità degli interventi;
– la costituzione di un fronte civile, nazionale e internazionale, che incida sui grandi processi in corso;
– la perequazione degli aiuti;
– la capacità d’investire insieme con interventi di respiro nazionale e internazionale (pensiamo agli investimenti per creare informazione e opinione, i processi di pace).
Non basta il tappabuchi

L’inchiesta del 1990 evidenziava un problema di una certa portata: il rapporto fra la quantità e qualità degli aiuti. E, di fronte ai problemi nel Sud del mondo, gli interventi seguono due criteri.
Criterio congiunturale. Punta all’efficacia immediata dell’intervento, affievolendosi poi sulla media e lunga distanza. Gli esempi sono tanti: carestie, conflitti, esodi di massa, terremoti, alluvioni.
In questi casi prevale il fare, secondo il principio «so io quello di cui hai bisogno». E la preferenza delle iniziative cade su tutto ciò che si può subito mettere in atto e quantificare. Al di là delle vere emergenze, questo modello riproduce lo schema dell’eurocentrismo e dello sviluppo attraverso capitali e tecnologie. È l’aiuto «umanitario», dentro il quale molti ancora operano. Talora ha prodotto «cattedrali nel deserto», delle quali sono disseminati i continenti.
Criterio strutturale. È il risultato della riflessione maturata in questi anni. Tiene conto delle necessarie variabili umane: cultura, storia, politica, religione, geografia, sostenibilità degli interventi a medio e lungo termine, scenari globali. Coglie lo sviluppo come una realtà unica, che si manifesta in modi diversi da caso a caso, luogo a luogo, ma che resta fondamentalmente un fatto di «persone». Senza di queste, si possono avere progressi settoriali (economici, tecnologici, agricoli, sanitari…), ma non uno sviluppo reale e duraturo, strutturale anziché congiunturale: uno sviluppo che renda il povero agente della propria crescita, soggetto capace di autonomia, non succube di «scambi ineguali».

Tre snodi essenziali

Il passaggio dal congiunturale allo strutturale è il cambiamento qualitativo da realizzare nei nostri interventi. Il percorso avviene attraverso tre snodi.
1. I nuovi scenari mondiali: particolarmente il fenomeno e gli effetti della globalizzazione.
Neoliberismo, mercato, monopoli finanziari… sono le nuove frontiere dentro le quali sviluppare un’azione. Ci sono squilibri contro i quali bisogna lottare, una strumentalizzazione politica degli aiuti da correggere, perché sono le strutture globali all’origine delle inclusioni o esclusioni di interi continenti. Sono i sistemi «forti» che oggi governano il mondo. È nell’impegno per un nuovo ordine mondiale che ci si deve compromettere, se si vuole incidere sui processi di marginalizzazione.
Questo implica conoscenze dettagliate dei micro e macro sistemi, monitoraggi dei processi in corso (ad esempio: il meeting di Seattle, Davos), aggioamenti continui.
Il passaggio culturale dal «singolo» progetto alla solidarietà «globale» è consistente. Ci dobbiamo chiedere se, in qualche missione, sia più urgente costruire una struttura o aderire ad una campagna nazionale. Se vale di più raccogliere fondi per il «nostro missionario», o se non sia meglio sostenere, anche economicamente, la campagna per tassare le transazioni finanziarie (Tobin tax).
2. I nuovi modelli di intervento. In questo settore siamo debitori di una prassi che, nel passato, ci ha ancorati ad interventi consolidati (il progetto da realizzare). Ma, grazie alla creatività di alcuni, sono nate nuove forme di azione che pare diano discreti risultati a medio e lungo termine. Mi riferisco al «commercio equo e solidale» con la sua capacità di sostenere la crescita di una imprenditorialità locale, con riinvestimenti nel sociale.
C’è pure il «micro credito», che offre agli esclusi la possibilità di affrancarsi dalla povertà con i loro propri sforzi. È una bella novità, portata alla ribalta da Muhammad Yunus, economista del Bangladesh, fondatore della Grameen Bank.
Le «banche etiche». Nate di recente in Italia, indicano la via per un risparmio alternativo, non finalizzato al mero profitto. C’è tutta una serie di nuove iniziative che indicano la vitalità e il rinnovamento in questo settore. Vanno conosciute e sostenute anche con i nostri finanziamenti.
3. La valenza educativa dell’aiuto. «Ricordiamoci che lo scopo principale dell’aiuto non è quello di venire incontro alle altre nazioni, ma di aiutare noi stessi». Lo affermava il presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, per ribadire gli interessi americani.
In ogni caso la prima ricaduta degli aiuti è su di noi, quasi a boomerang. Oggi siamo tutti coscienti della interdipendenza nel mondo, del legame fra la ricchezza di pochi e la povertà di molti, fra l’emarginazione di interi continenti e le nostre responsabilità.
Siamo tutti invitati a mettere in discussione i nostri «stili di vita», secondo lo slogan di una famosa campagna «contro la fame cambia la vita». La cultura della solidarietà, della giustizia per tutti, del bene comune da ricercare insieme… chiama in causa i nostri modelli culturali, politici, economici, oltre ai nostri consumi.
Soldi e missionari

Impressiona favorevolmente l’ammontare degli aiuti economici che la chiesa italiana destina alle missioni. Ma questo basta per dirci missionari?
Se per lo sviluppo bisogna in primis investire nelle risorse umane, a maggior ragione lo si deve affermare per la missione: più che di mezzi, ha bisogno di persone. Di fronte ad un aumento di aiuti verso le missioni, si è registrata in questi anni una sensibile diminuzione di missionari che partono. Non c’è il rischio di delegare ai soldi il compito dell’annuncio?
Non nascondiamoci il pericolo di sostituire l’evangelizzazione con le opere di promozione umana. Si può, certo, parlare di «predica delle opere», ma non senza l’annuncio.
Occorre ribadire con forza che:
– la missione senza missionari non ha senso;
– la missione senza annuncio si svuota del suo contenuto originale;
– la missione senza gesti concreti non riproduce il modello del Gesù, «che ha fatto e insegnato» (At 1, 1).

L o scopo di questo dossier è di fornire degli argomenti che servano da piattaforma per avviare un dibattito su «soldi e missione». Sono convinto che il processo evolutivo, dentro il quale l’evangelizzazione si sta muovendo, richieda anche il rinnovamento dell’aspetto finanziario.
Il mondo dominato da criteri di mercato, monopolio e profitto ha bisogno di nuovi segni credibili di solidarietà.

Bibliografia

– Il fuoco della missione, Emi, Bologna 1999
– Come orizzonte il mondo, Emi, Bologna 1999
– A. Sella, Giubileo di giustizia, Editrice Monti, Milano 1999
– Dizionario dello sviluppo (a cura di Wolfgang Sachs), Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998
– Gli aiuti della chiesa italiana ai paesi in via di sviluppo. Vademecum, Emi, Bologna 1991
– M. Meloni, La battaglia di Seattle, Edizione Berti (supplemento di «Altreconomia», febbraio 2000)
– Finances: autonomie et solidarité, in «Spiritus», dicembre 1992
Mission dans la faiblesse, in «Spiritus», marzo 1996

Ricerca di archivio:
Indagine sugli aiuti della Chiesa italiana ai paesi in via di sviluppo, Ufficio nazionale per la Cooperazione missionaria tra le Chiese, Caritas Italiana, Pontificie Opere Missionarie

Siti Inteet consultati:
http://www.vatican.va
http://www.chiesacattolica.it
http://www.unimondo.org
http://www.un.org

OFFERTE «PRO MISSIONI»
Modalità di raccolta nelle parrocchie / Ricerca del 1990

FONTI
– private e volontarie 77,70%

DOVE
– funzioni religiose, quaresima 69,20%
– giornate particolari, giornata missionaria
mondiale, lotterie 12,70%
– raccolta a domicilio 15,30%

QUANDO
– ricorrenza annuale 58,60%
– ricorrenza occasionale 45,90%
– ricorrenza costante 2,30%

FORME di AIUTO
– in beni 30%
– in denaro 64,10%

PROVENIENZA delle RICHIESTE
– missioni 43,8%
– singoli volontari e missionari 25,8%
– diocesi, Caritas locali, istituti religiosi 42%
MOTIVI dell’AIUTO
– richieste specifiche 44,8%
– emergenze particolari 24,60%
– intuito personale 22,30%

DESTINAZIONE GEOGRAFICA
– Africa 31,50%
– Centro e Sud America 21,17%
– Asia 13,16%
– altro 4,55%

TIPO D’INTERVENTO
– settore ecclesiale 36,20%
– casi di emergenza 20,08%
– sviluppo sanitario 16,62%
– alfabetizzazione 13,75%
– sviluppo agricolo 10,19%

Fonte:
Gli aiuti della chiesa italiana ai paesi in via di sviluppo. Vademecum, Emi, Bologna 1991

Contributi della Conferenza episcopale italiana
Ai Paesi nel sud del mondo

Distribuzione dei fondi al 30 dicembre 1998
cifre arrotondate

Importo da distribuire 135 miliardi di lire

Conferenze Episcopali (49 progetti) 32 miliardi
Diocesi (198 progetti) 33 miliardi e mezzo
Organismi religiosi e missionari (197 progetti) 25 miliardi
Caritas (18 progetti) 2 miliardi
Organismi laici (108 progetti) 40 miliardi
Altro (3 progetti) 500 milioni

TOTALE 133 miliardi
Avanzo: 2 miliardi

Distribuzione per aree geografiche

Paesi africani del Sahel 18 miliardi
Asia (paesi prioritari) 6 miliardi e mezzo
America Latina (paesi prioritari) 26 miliardi
Aree diverse ed emergenze 82 miliardi e mezzo

TOTALE 133 miliardi

Fonte:
Notiziario dell’Ufficio nazionale della Cooperazione missionaria tra le chiese, Roma, novembre 1999

Eesto Viscardi




Non solo un campo da gioco

Trecento mini atleti

La «maratonina di minibasket» è un’iniziativa che ha coinvolto 22 squadre di bambini dai 10 agli 11 anni. Hanno dato vita a 11 incontri di pallacanestro durante l’intera giornata del 3 dicembre 2000, dalle ore 10 alle 21, senza sosta: una maratona dunque. I giovani atleti appartengono alle più importanti società cestistiche di Torino e provincia e sono stati i protagonisti assoluti della manifestazione.
Le partite si sono susseguite a ritmo serrato: ad ogni ora nuovi giocatori calcavano il «parquet» degli impianti del C.U.S. Torino, la società organizzatrice. Il risultato di ogni partita incrementava il «punteggio complessivo» di due schieramenti, nei quali rientravano le singole squadre, in maglia bianca o blu: infatti le varie società, messe da parte le proprie divise, indossavano solo le maglie della manifestazione. In campo regnava tanta amicizia, ma anche un pizzico di agonismo, per una giornata di un buon minibasket.
Nella parte centrale del pomeriggio l’«All Star Game», ossia la partita delle «stelle», con i migliori giocatori di ogni squadra, ha attirato un massiccio afflusso di pubblico. È stato un grande momento di aggregazione.
I mini atleti intervenuti sono stati circa 300 e gli spettatori molti di più, nonostante il blocco della circolazione automobilistica che ha minacciato la riuscita della manifestazione.
Con 8 mila lire
L’obiettivo della «maratonina» è stato: «regalare un campo» ai ragazzi di Suguta Marmar, in Kenya. «Missione compiuta», grazie alla generosità di tutti i partecipanti, grandi e piccoli: grandi come i genitori, che hanno riempito la cassetta delle offerte, e piccoli come i bambini, che hanno versato 8 mila lire a testa per partecipare. La quota di partecipazione ha avuto un aspetto educativo importante: infatti si è trattato di denaro «risparmiato e donato» dai ragazzi stessi, e non semplicemente attinto dal portafoglio di papà.
Ma, oltre ai soldi, ci sono state le magliette regalate ai bambini, gli impianti sportivi utilizzati gratuitamente e tanto, tantissimo tempo di sensibilizzazione. Per non parlare del lavoro.

Regalare un campo

L’idea di costruire un campo di pallacanestro non è degli organizzatori. Nasce direttamente da padre Isaia, il parroco kenyano di Suguta Marmar. L’esigenza è quella di fornire ai suoi ragazzi un passatempo, di strapparli dall’ozio e (probabilmente) dalla criminalità, di educarli all’impegno e al rispetto delle regole attraverso lo sport. Questo è stato l’«anello» che ha unito il prete africano agli istruttori e allenatori torinesi, che credono già nel valore della solidarietà e la vivono, anche se in altri contesti. In questo caso si sono affidati anche al valore educativo dello sport.
Ma «regalare un campo» a bambini africani è anche un modo concreto per ricordare a tantissimi coetanei italiani che «fare dello sport» non è di tutti, e che praticarlo in strutture adeguate (come quella che ha ospitato la manifestazione) lo è ancora di meno.
Allora tutto diventa uno stimolo in più per toccare sul vivo i ragazzi, che praticano il basket con passione e impegno. Un’occasione per regalare ciò che più ci sta a cuore.

Se il Kenya aiuta l’Italia

È stato un altro grande obiettivo della «maratonina». E cioè: non solo raccogliere soldi, ma anche e soprattutto raccontare (forse per la prima volta) una realtà diversa, un mondo lontano e povero, povero non per caso. Ancora: rendere familiare il nome «Suguta Marmar» attraverso i volti dei suoi bambini (anche se visti solo in foto), che vivono nel bisogno. In una parola: sensibilizzare.
Far sì, per esempio, che il bambino italiano noti con stupore che i suoi coetanei kenyani sono scalzi e si chieda: «E come fanno a giocare a basket?».
Sarebbe molto se i nostri bambini aiutassero quelli kenyani. Ma sarebbe ancora di più se il Kenya «aiutasse» l’Italia.

La mia esperienza
È stata quella di aver conosciuto, attraverso i missionari della Consolata, padre Isaia in Kenya, di aver riso con i bambini di Suguta Marmar, di averli anche fotografati, «portati» a Torino, fatti incontrare con tanti compagni piemontesi.
È stata un’avventura, una scoperta. La scoperta di quanto la nostra gente sia ancora disposta a dare e di quanto «lontano» si vada… se uno ci prova: «lontano» secondo il mio punto di vista, chiaramente.
Ho provato la gioia di vedere qualcuno lavorare duramente per sostenere la «mia causa», per aiutare qualcuno che non conosceva. Ho avuto la sorpresa di vedere cose, complicate burocraticamente, comporsi a poco a poco, con fatica ed entusiasmo. E sono diventato euforico allorché «Suguta Marmar» è apparso (certamente per la prima volta) anche su La Stampa. Così, d’ora in poi, quello sperduto villaggio di samburu sarà meno sconosciuto.
Ma se c’è la gioia di aver fatto qualcosa, coinvolgendo tante persone, c’è pure la consapevolezza che moltissimo è in «lista d’attesa».

Sandro Busso




Una missione leggera

Oggi è urgente schierarsi: o nella geografia dei forti o in quella dei deboli, degli inclusi o esclusi, degli utili o inutili. Non si può giocare, nello stesso tempo, con i poveri e con i sistemi che producono povertà.
Il vangelo non lascia scampi: occorre situarsi con «i dannati della terra». Questi, tuttavia, diventano il luogo ermeneutico per interpretare il mondo e la chiesa, per elaborare e vivere la fede, per interrogarsi sui mezzi e collocarsi davanti ai nuovi poteri. Fuori dei poveri non c’è salvezza!
Perché i poveri? Perché li ha scelti il Signore: è la ragione più valida; perché sono la maggioranza: e, stando con loro, si sta con tutti. Questo comporta: essenzialità e coerenza dell’annuncio; una grande libertà dal potere (collateralismi politici, teocrazie, potere dei soldi); la giusta misura dei mezzi (annuncio ai poveri e annuncio povero del vangelo).
L a chiesa dell’America Latina, nel 1979 a Puebla (Messico) ricordava: «I poveri meritano un’attenzione preferenziale, qualunque sia la condizione morale o personale, in cui si trovano. Fatti a immagine e somiglianza di Dio per essere suoi figli, tale immagine è offuscata e persino oltraggiata. Perciò Dio prende le loro difese e li ama. Ne consegue che i primi destinatari della missione sono i poveri, e la loro evangelizzazione è per eccellenza segno e prova della missione di Gesù».
Così, a dieci anni dalla Conferenza di Medellin (Colombia), la chiesa povera:
– denuncia l’ingiusta carenza dei beni di questo mondo e il peccato che ne è la causa;
– predica e vive la povertà come atteggiamento di semplicità spirituale e apertura al Signore;
– s’impegna essa stessa nella povertà materiale. La povertà della chiesa è una costante della storia della salvezza.
N el vangelo di Luca si legge: «Gesù disse ai discepoli: “Non prendete nulla per il viaggio: né bastone né sacca, né pane né denaro; non abbiate tunica di ricambio… Ed essi, partiti, andavano di villaggio in villaggio, evangelizzando e operando guarigioni dappertutto”» (Lc 9, 3).
Senza creare contrapposizioni inutili o essere paladini del pauperismo, oggi molti sentono la necessità di una missione più «leggera» ed essenziale, più sbilanciata su un patrimonio di grande humanitas, fondata in una soda spiritualità, ricca di Parola e animata dal grande desiderio di incarnazione, piuttosto che affogata da ingenti mezzi, strutture, burocrazie.
Per esperienza, so che non è facile mantenere un sano equilibrio. Allora ogni tanto bisogna avere il coraggio di fermarsi per una serena autocritica.
Eesto Viscardi

Eesto Viscardi




Quando tra i fedeli c’era un esponente del partito

Com? la situazione della chiesa (e della gente) nella nuova Russia di Putin?
Che cosa divide i cristiani ortodossi, guidati dal patriarca Alessio II,
dai cristiani cattolici fedeli a Roma? Ci sono speranze per un miglioramento
dei rapporti? A Mosca ne abbiamo parlato con Aleksej Uminskij, prete ortodosso,
sposato e padre di due figli. Aleksej ? parroco della chiesa della Trinit? a Khokhly
e direttore di una scuola privata ortodossa.

Mosca. Padre Aleksej abita con la giovane moglie medico e i due figli in un piccolo appartamento della periferia di Mosca. Per raggiungere la sua parrocchia, in centro citt?, gli ci vogliono circa tre quarti d?ra di strada. Tutte le volte che sono andata a trovarlo a casa, padre Aleksej ha sempre voluto venirmi a prendere alla stazione del metr?, per evitare il rischio che mi perdessi. Lo vedevo arrivare in borghese. Niente del suo abito tradiva lo status di sacerdote, se non forse l?bbondante barba e i capelli un po?lunghi.
Una volta che, come di consueto, ci siamo trovati fuori dal metr?, per dimostrare che avrei trovato la casa anche da sola, mi sono offerta di fare strada io. Inutile dire che, senza il suo aiuto, non saremmo arrivati da nessuna parte. Non certo perch? il percorso sia tortuoso, ma perch? tutte le case sono uguali e ogni casa ha tanti portoni tutti simili.
Se si infila quello giusto e si sale al primo piano, si giunge al piccolo appartamento di padre Aleksej. Pare proprio di essere arrivati in una famiglia come tante: la moglie Masha che traffica in cucina; i bambini che, abbandonati per un momento i loro rumorosi giochi, accorrono incuriositi a studiare l?spite; il padrone di casa che ti fa accomodare intorno al tavolo gi? apparecchiato. Il lindore, l?rdine e, naturalmente, l?ngolo delle icone (ben in vista nel salotto) sono i segni pi? macroscopici che ci troviamo, invece, in una casa un po?speciale.
Le serate sono sempre piene di mille discorsi. Si parla di tutto. Aleksej e Masha hanno tanti interessi e tante letture alle spalle. Si parla, tra l?ltro, dei paesi in cui abbiamo viaggiato, dell?talia, dove Aleksej e Masha sono stati pi? volte e, inevitabilmente, della Russia.
M?mmergo in quella calda atmosfera familiare e penso: chiss? quanti sacerdoti in Russia toeranno ad avere una vita normale? La condizione in cui vive padre Aleksej d? la misura del cataclisma che la chiesa ha attraversato. Ma, nello stesso tempo, per chi, come me, ha visto gli anni in cui i cristiani dovevano nascondersi, in cui dovevano temere tutto e tanto pi? i visitatori stranieri (marcati a vista), il fatto che ci possa liberamente incontrare, che un sacerdote possa vivere insieme agli altri apertamente, sembra gi? un miracolo.
RICOSTRUIRE LE MURA,
RICOSTRUIRE LE COSCIENZE
?ifficile capire quale sia la cosa giusta da fare quando si ha il compito di ricostruire una nazione ridotta in macerie. Questa ?, infatti, la condizione in cui si trova la societ? russa, dopo 70 anni di regime sovietico e 10 di post-comunismo.
Nonostante i capelli gi? grigi, padre Aleksej ha appena 40 anni. Quanto basta per? per aver vissuto gli anni bui dell?poca brezneviana, quando per un giovane frequentare la chiesa voleva dire compromettere ogni possibilit? di carriera; quando tutte le espressioni di autentica vita cristiana erano relegate a una dimensione di semiclandestinit?. Ora, certo, quei tempi sembrano lontani anni luce.
Padre Aleksej ? diventato parroco della chiesa della SS. Trinit? in Khokhly, che si trova nel centro storico di Mosca, in uno dei pi? bei quartieri della capitale. L?dificio (su tre piani) ? stato restituito al culto nel 1992 e affidato all?diacente parrocchia di S. Vladimir. ?occato a questa piccola comunit? l?neroso compito di riportare la chiesa (ridotta in condizioni deplorevoli) alle sue condizioni originarie. Un lavoro svolto interamente dai fedeli, grandi e piccoli, con il solo contributo di offerte private. Ora la chiesa ? completamente rinata. ?inda, accogliente; il bianco delle pareti e l?ro delle nuove icone rallegrano gli occhi del visitatore.
Tuttavia, padre Aleksej non si fa nessuna facile illusione su un rapido ritorno alla fede del suo popolo. Proprio per questo si ? messo alacremente a lavorare con quei pochi fedeli che si sono raccolti intorno a lui, una trentina circa. Egli sa bene che non basta avere quattro mura entro cui riunirsi per costituire una comunit? cristiana. Il compito pi? arduo ? ricostruire le coscienze, rifondare una cultura ecclesiale da tempo distrutta, dare senso concreto alle parole e ai gesti della liturgia. ?os? che ogni domenica, dopo la messa, tutti sono invitati a mangiare insieme nei locali della parrocchia: ? l?ccasione per parlare di quanto si ? appena udito durante la messa, chiedere spiegazioni sulle letture, fare domande sulla storia della chiesa, sulla dottrina. ?na scuola, una sorta di catechismo per adulti.
Dopo tanti anni di ateismo militante, c? bisogno di un luogo in cui imparare di nuovo parole e concetti che un tempo erano patrimonio comune. La cosa migliore ? farlo insieme, prendendo spunto dalle parole della liturgia domenicale.
Iniziative del genere sono fondamentali, perch? in Russia possa nascere una nuova generazione di uomini liberi, abituati a chiedere a se stessi e agli altri ragione di parole e atti, avendo solidi punti fermi cui ancorare il proprio giudizio. Sono ancora molto pochi in Russia i luoghi come questo. La gente non ha riferimenti, non sa dove andare.
QUANDO C?RA IL PARTITO
Padre Aleksej, il pranzo domenicale in comune ? una vostra ?nvenzione?o avete semplicemente rispolverato una vecchia tradizione ortodossa?
?i tratta di una tradizione dei primi secoli del cristianesimo. No, da noi non esisteva niente del genere. Prima della rivoluzione da noi, come da voi, la parrocchia era costituita dalle persone residenti nelle vicinanze della chiesa.
La situazione ? cambiata dopo la rivoluzione, con la persecuzione contro la chiesa e la chiusura degli edifici del culto. Poli di aggregazione di quei pochi fedeli rimasti sono diventati, non pi? le parrocchie, ma alcuni sacerdoti, che attiravano per l?utorevolezza della parola e la purezza della fede.
Nulla di autentico poteva nascere in un ambito ufficiale: nelle poche chiese aperte al culto c?ra sempre un esponente del partito, che poteva essere il sacerdote stesso, o una persona dell?mministrazione parrocchiale. Costui non permetteva che si costituisse una vera vita parrocchiale. Appena si avvertiva il nascere di una comunit? intorno a un sacerdote, si provvedeva a trasferirlo in altra sede.
I sacerdoti non avevano possibilit? di entrare in rapporto diretto coi fedeli. Anche la liturgia si svolgeva in modo essenziale. La predica, o veniva evitata, o si riduceva a poche frasi. Fu abolita la confessione individuale e introdotta quella collettiva, in cui il sacerdote pubblicamente leggeva una serie di peccati e i fedeli se ne riconoscevano colpevoli.
Quando, alcuni anni fa, la Russia ha finalmente riacquistato la libert? di culto, non esisteva pi? una normale vita ecclesiastica. Come nel cristianesimo primitivo, la comunit? si raccoglie intorno ai suoi ministri. I miei parrocchiani giungono dai pi? diversi quartieri di Mosca. A volte anche da fuori citt?. Il ritrovarsi insieme, dopo la messa, ha anche il senso di offrire loro un luogo dove riposarsi, prima di riprendere il cammino verso casa?
COMUNISMO-LIBERISMO:
DA UN ECCESSO ALL?LTRO
Sembra una banalit? affermare che l?ducazione dei giovani ? fondamentale per una societ?. Sembra un luogo comune, e lo ?, ma solo in teoria. In pratica, la Russia in questi ultimi anni pare essersene dimenticata.
La scuola ? uno dei settori che pi? ha sofferto, da una parte, delle difficolt? finanziarie in cui versa il paese, dall?ltra, del caos e del vuoto legislativo che si ? sostituito alla rigidezza di un sistema politico disintegratosi con velocit? pari alla sua artificiosit?. La scuola pubblica non riceve adeguati finanziamenti, gli insegnanti hanno stipendi da fame che, per di pi?, non vengono pagati regolarmente. In simili condizioni difficilmente si pu? garantire la qualit? dell?nsegnamento. In un momento cos? delicato nella storia del paese c? il rischio che intere generazioni di giovani perdano quell?ccasione unica, per la propria formazione, che sono gli anni passati sui banchi di scuola.
Padre Aleksej ha deciso di dedicare le proprie energie all?ducazione dei giovani (e non soltanto di questi). Da 8 anni ? il direttore di una scuola privata ortodossa.
Ho avuto occasione di visitarla durante un normale giorno di lezione. Le facce allegre e vispe dei ragazzi, il sorriso dei pedagoghi, la pulizia della mensa, le fotografie appese ai muri a testimonianza di svariate attivit? educative (teatro, canto, pittura, campi di lavoro estivi) mi hanno fatto capire che mi trovavo in un ambiente privilegiato, in cui gli allievi erano circondati di quelle cure di cui spesso i loro coetanei mancano.
Padre Aleksej, la vostra scuola sembra un?sola felice. Ma cosa accade fuori di queste mura, nella scuola di stato?
?a scuola statale sta vivendo un periodo di profondissima crisi. Ai tempi dell?nione Sovietica la scuola assicurava un buon livello d?struzione, soprattutto nelle materie scientifiche, e un sistema di valori che, per quanto discutibile, costituiva pur sempre un riferimento per insegnanti e allievi; c?rano dei criteri per stabilire ci? che era da considerarsi bene e ci? che era male: era bene perch? l?veva detto Lenin. Adesso questi riferimenti sono venuti a mancare, senza esser stati sostituiti da altri.
Subito dopo la fine del comunismo c?ra la smania di distruggere i principi cui ci si era attenuti per decenni, diventati ormai odiosi. Quest?perazione ? riuscita benissimo. Ma quando si ? trattato di sostituirli con altri principi, ci si ? trovati completamente sguaiti. Pare che l?nico criterio oggi sia quello cos? ben sintetizzato da una reclame della Coca Cola: ?rendi tutto dalla vita?
Per decenni in Russia gli insegnanti hanno tenuto lo sguardo fisso alle direttive del partito. Quest?bitudine ? rimasta anche oggi. Guardano a quello che fa chi governa. Quando a un certo punto la parola d?rdine ? diventata il liberalismo, anche gli insegnanti sono diventati liberali con gli allievi: tutto ? diventato lecito. Ovviamente, ci? ha fatto saltare i meccanismi che garantivano la disciplina nella scuola. Non potendo pi? farsi forte di un sistema di valori e regole comunemente accettate e riconosciute, ogni scuola si ? ritrovata in balia di se stessa. Si sono salvate solo alcune scuole pubbliche, tradizionalmente prestigiose ed elitarie, che hanno condizionato la selezione degli allievi alla loro eccellenza negli studi e al rispetto di regole di comportamento ben precise. Per il resto, nella scuola pubblica regna il caos.
Per fare un esempio, si calcola che l?0% degli alunni abbia fatto almeno una volta uso di stupefacenti?
Dunque, il governo si disinteressa della scuola?
?l governo non ha nessun preciso orientamento educativo, anche perch? non ha un?deologia. Recentemente il presidente Putin ha fatto delle dichiarazioni sull?struzione pubblica, ma talmente vaghe che le si pu? interpretare in modi diversi. All?nizio la Russia era orientata verso l?merica: si imitavano i modelli americani, ritenuti invariabilmente buoni. La scuola non faceva eccezione.
La situazione ? cambiata dopo la guerra in Kosovo, anche se non ? ancora chiaro in quale direzione. La cosa preoccupante ? che di questo vuoto di valori, di idee e di iniziative approfittano organizzazioni che perseguono scopi non edificanti. ?l caso, ad esempio, di un?ssociazione internazionale per la pianificazione familiare, che qualche tempo fa si ? introdotta nelle scuole proponendo corsi di educazione alla sessualit?.
Questi corsi, che si rivolgevano anche agli allievi delle prime classi, erano, in realt?, una guida alla contraccezione (si ? poi scoperto che l?ssociazione ? legata a case produttrici di contraccettivi). Veniva, tra l?ltro, distribuito agli studenti un opuscolo dal titolo: Il mio amico: il contraccettivo. Si spacciava questa iniziativa come un programma per la salute del corpo?
Cosa pu? fare la chiesa ortodossa per colmare questo vuoto? Non si ? pensato di promuovere interventi educativi nelle scuole statali, magari istituendo qualcosa di simile alla nostra ?ra di religione?
?fficialmente l?nsegnamento della religione nelle scuole non ? consentito, in quanto la nostra costituzione sancisce la separazione tra chiesa e stato.
Di conseguenza, lo stato mantiene una posizione di assoluta neutralit? nei confronti del credo religioso degli allievi. ?uesto il motivo per cui non esiste l?ra di religione, il cui insegnamento pu? essere introdotto solo su specifica richiesta dei genitori degli allievi e, in ogni caso, al di fuori dell?rario scolastico.
Tuttavia, ci sono scuole private dove vengono insegnate materie che hanno a che fare con la religione. ?onsiderato prestigioso. In alcune scuole pubbliche si ? deciso di introdurre l?nsegnamento di ?ultura cristiana? A chi protesta, denunciando l?niziativa come incostituzionale, si fa notare che ? impossibile capire la cultura russa, prima del 1917, senza conoscere la tradizione cristiana.
Ma il vero pericolo ? costituito da organizzazioni religiose non tradizionali. C? stato un periodo in cui le scuole sono state prese d?ssalto da s?tte religiose d?gni genere in cerca di nuovi adepti. Particolarmente attive sono state Scientology e Moon. Sono gruppi che dispongono di grosse risorse finanziarie, attirano nella propria orbita con proposte allettanti, come l?nvito a partecipare a seminari di lingue all?stero. Si presentano con programmi che hanno, apparentemente, obiettivi sociali, di formazione, e non religiosi.
Come avr? capito, nella scuola regna la pi? completa confusione. Ci? lascia anche ampio spazio alla sperimentazione. La nostra scuola, ad esempio, ? frutto di un?sperienza del tutto nuova?
Vuol dire che non sono mai esistite scuole private ortodosse? Neanche prima della rivoluzione?
?rima del 1917 il problema non si poneva, perch? tutti gli insegnanti dovevano essere di provata fede ortodossa. C?rano precisi controlli sul corpo docente. Ad esempio, si doveva dimostrare di essersi confessato e comunicato almeno una volta nel corso dell?nno. A questo scopo venivano rilasciati appositi certificati dalle autorit? ecclesiastiche?
Da quanti anni esiste la vostra scuola?
?el 2001 compiamo 10 anni?
Come si sostiene economicamente?
?iamo in parte finanziati dallo stato, in quanto legalmente riconosciuti. Il resto delle spese viene sostenuto dalle famiglie secondo il loro reddito. Il 25% degli studenti non paga, il 60% paga una retta ridotta. Quindi il maggior onere grava sulle famiglie benestanti, che pagano anche per gli altri. La parrocchia contribuisce alle vettovaglie per la mensa, mette a disposizione i locali, i materiali da costruzione e gli operai?
Sembra un impegno non da poco. Per tutti quanti!
?o ?. L?rganizzazione della scuola non ? facile, richiede tante energie da parte di tutti. Si tratta di un?niziativa spontanea. Questa, come le altre scuole ortodosse, ? nata nell?mbito delle parrocchie, in modo artigianale. Si ? imparato facendo, senza poter contare su un modello da seguire, o su un aiuto esterno, neanche da parte del patriarcato.
All?nizio ogni scuola viveva per s?, senza sapere cosa facessero le altre. Ora, con l?sperienza, la situazione ? migliorata. Ci sono maggiori contatti tra le diverse scuole. Esiste un consiglio dei direttori delle scuole religiose che si incontra regolarmente. Il patriarcato ha istituito una sezione per l?ducazione religiosa. Adesso ? il patriarca in persona a consegnare i diplomi di licenza superiore agli studenti dell?ltimo anno nella cattedrale di Cristo Salvatore?
LE ACCUSE
DI PROSELITISMO
Il patriarca Alessio II, capo della chiesa ortodossa russa, ? forse, dopo l?ntervista rilasciata in luglio al Corriere della Sera, meno sconosciuto al pubblico italiano. In quell?ccasione, egli ha toccato anche un tema delicato, suscitando parecchio scalpore: ha indicato nel conflitto tra ortodossi e uniati (cattolici) in Ucraina occidentale e nel proselitismo cattolico in territori storicamente ortodossi i due ostacoli che si frapporrebbero a una visita del papa in Russia.
Chiedo a padre Aleksej di commentare le parole del patriarca.
?ffettivamente – risponde padre Aleksej -, questi sono i due grossi nodi da sciogliere perch? possa realizzarsi la visita del pontefice nel nostro paese. Nell?craina occidentale, rimasta per lungo tempo sotto la Polonia, si ? sviluppata la chiesa uniate, che fa capo alla chiesa di Roma. Da quando si ? sciolta l?rss, in queste terre la chiesa ortodossa ? diventata il bersaglio del nazionalismo locale e ha fatto le spese del risentimento della popolazione contro i russi. Difatti, si associa l?rtodossia con i russi dominatori.
Molte chiese sono state sottratte con la forza alla comunit? ortodossa. Ci sono stati dei morti. I nostri sacerdoti sono costretti quasi a vivere in clandestinit?. Ora Mosca chiede la restituzione delle chiese che sono da sempre appartenute agli ortodossi. Si chiede la fine di questo conflitto. A parole si sono gi? presi innumerevoli accordi, ma ogni volta le violenze riprendono. Oltre a questo problema, c? la questione del proselitismo cattolico?
Che cosa intende per proselitismo cattolico?
?ntendo questo. Come mai il Vaticano nomina dei propri vescovi in territori in cui storicamente i cattolici non hanno mai vissuto? Nel passato vescovi cattolici erano presenti nelle province in cui c?ra una comunit? cattolica. Ad esempio, a Krasnojarsk, Novosibirsk, nella regione dei tedeschi del Volga. Pensate che effetto farebbe se il patriarca Alessio II nominasse un proprio vescovo nella citt? di Roma!?
?unque un problema di ?atto? Non ? educato comportarsi in un certo modo in casa d?ltri…
?o, non ? solo un problema di forma, ma anche di sostanza. Le missioni cattoliche arrivano col pretesto di aiutare la Russia, portando avanti ad esempio programmi umanitari. Tutto senza mettersi d?ccordo col vescovo ortodosso locale. Come se si fosse in terra pagana. Insomma, c? da parte dei cattolici uno spirito di conquista, come nel Medio Evo.
Durante gli anni del regime comunista l?iuto dei cattolici d?ccidente ? stato fondamentale. Quanti libri, quante bibbie ci hanno fatto arrivare, aiutandoci a tenere viva la fiamma della fede. Era per noi una boccata d?ria. E noi accettavamo questi aiuti con grande riconoscenza. A quel tempo la nostra chiesa versava in condizioni catastrofiche.
Poi la situazione ? cambiata. Ci sono stati restituiti i templi. Ora ci tocca un enorme lavoro di ricostruzione, ma i mezzi sono pochissimi. La nostra chiesa ? povera e non pu? certo competere con la chiesa cattolica: sono pochi gli edifici del culto, sono pochi i ministri. Nel 1985 a Mosca, citt? di 8 milioni d?bitanti, c?rano 50 chiese aperte. Oggi con 10 milioni di abitanti ci sono 350 chiese, con una media di tre sacerdoti per chiesa. Ma Mosca, in quanto capitale, ? in una situazione privilegiata rispetto al resto del paese. Le nostre cifre non sono certo comparabili con la realt? della chiesa in Italia.
Dobbiamo affrontare il problema di una tradizione che ? stata perduta. ?na tragedia per il popolo. La gente deve consolidarsi, deve essere aiutata a riavvicinarsi alla fede dei propri padri. Invece qual ? lo spettacolo che si presenta loro: chiese diverse in competizione tra loro. Il nostro popolo ? stato privato della propria cultura e questo non ? certo il modo per aiutarlo a ritrovare i riferimenti smarriti?
Tuttavia, lei stesso ha detto che il lavoro da fare ? enorme e che le vostre forze sono inadeguate. Possibile che il contributo di altri cristiani non possa servire? O ci sono altre forme d?iuto a voi pi? gradite?
? cattolici possono fare molto. Potrebbero, ad esempio, aiutarci nella formazione di persone che poi lavorino con la gente sul territorio, magari, invitandoci a vedere come fanno loro in Occidente. ?uesto tipo di aiuto che noi ci aspettiamo: che comunichino a noi, ortodossi, la loro esperienza, non che agiscano indipendentemente da noi?
CHIESA E STATO:
A CIASCUNO IL SUO?
Padre Aleksej, lei ci ha ricordato che per la costituzione russa la chiesa ? separata dallo stato. Essa dovrebbe essere, quindi, indipendente nel giudicarne l?perato. Nei confronti della guerra in Cecenia, qual ? la posizione della chiesa ortodossa?
?urtroppo, la chiesa non ha in proposito una sua posizione politica chiara e univoca. Essa, coscientemente, tace su questo tema. Eppure, sono molti che guardano alla chiesa, perch? si aspettano di sentire una parola di verit?. Invece essa tace. In questo ? determinante il retaggio del passato, quando la chiesa non interferiva nella politica dello stato per il timore di ritorsioni.
Nella realt?, ci troviamo di fronte a due atteggiamenti opposti. Da un lato, c? stata l?niziativa di alcune parrocchie di inviare aiuti a chi si trova nella zona del conflitto. Dall?ltro, la chiesa prega per i soldati russi; ci sono tra le truppe russe sacerdoti per la somministrazione dei sacramenti; nella cattedrale di Cristo Salvatore si celebrano le esequie solenni di soldati russi morti in Cecenia.
In questo modo acquistano il peso di funerali di stato. Si tratta, chiaramente, di un gesto dimostrativo, cui viene data ampia risonanza dalle reti televisive nazionali. Tanto pi? che non sappiamo se questi soldati fossero cristiani, se volessero essere sepolti secondo il rito ortodosso, se siano morti benedicendo o maledicendo.
Naturalmente, simili immagini televisive danno l?mpressione che la chiesa sia dalla parte dello stato. In linea di principio, la chiesa, giustamente, sostiene lo stato, perch? essa ? per la stabilit? del paese. Il problema, per?, ? a quale prezzo?
Come ha accolto la chiesa il passaggio di poteri da Eltsin a Putin?
ƒipeto, ufficialmente la chiesa non si esprime al riguardo. Possiamo, per?, ricordare alcuni fatti.
Ad esempio, la prima cosa che ha fatto Putin la notte stessa in cui ? diventato presidente ad interim, dopo le dimissioni di Eltsin, ? stata di andare a trovare il patriarca (si pu? dire che lo abbia tirato gi? dal letto) per chiedergli la benedizione.
Un altro fatto. Una settimana prima delle elezioni presidenziali, nell?mbito del programma televisivo Kanon, tenuto da sacerdoti, ? stato dato ampio rilievo a un episodio della biografia del futuro presidente. Si ? raccontato che Putin, dopo l?ncendio che alcuni anni fa distrusse completamente la sua casa di campagna, avrebbe ritrovato tra le rovine fumanti un unico oggetto: una croce metallica, ricevuta da bambino.
E ancora. Del tutto inaspettatamente, Putin ha inviato un telegramma d?uguri per il compleanno a un anziano starec, un monaco molto autorevole tra il popolo per la propria fede, che vive nel monastero delle grotte di Kiev. Evidentemente, qualcuno glielo ha suggerito e il presidente ne ha compreso la portata politica. Indubbiamente, Putin ? stato allora sostenuto da alcuni circoli ecclesiastici, che si sono espressi in suo favore.
Ma ci sono anche episodi che mostrerebbero l?ntenzione di mantenere certe distanze nei confronti del patriarca. Ad esempio, in occasione della pasqua, Putin non ha assistito alle celebrazioni religiose a Mosca, ma si ? recato a Pietroburgo.
A proposito, ecco un altro fatto a mio parere significativo. In Russia, quando ci si fa gli auguri di pasqua, si dice ?risto ? risorto? cui sempre si risponde: ?n verit? ? risorto? Sapete, invece, cosa ha risposto Putin? Ha risposto: ?razie!?.

TRA ZAR E PASTORI

La chiesa ortodossa russa ? la pi? grande tra le 15 chiese ortodosse autocefale. ?uidata attualmente da Alessio II, patriarca di Mosca e di tutte le Russie, che governa col santo Sinodo, di cui ? presidente. Il potere supremo nella dottrina e nel governo spetta al concilio locale, che viene convocato di solito ogni 5 anni. Diversamente dalla chiesa cattolica, la chiesa ortodossa non richiede il celibato dei preti, cui nega per? l?ccesso alle alte gerarchie ecclesiastiche: solo i monaci possono diventare vescovi.

DA KIEV A MOSCA
Il 1988 (*) ha visto in tutta l?RSS le solenni celebrazioni per i mille anni dal battesimo della Rus?(da non confondere con la Russia, ndr) che hanno avuto il loro culmine nella citt? di Kiev, ora capitale della Repubblica ucraina. La cristianizzazione nelle terre russe, infatti, si fa risalire all?nno 988, quando Vladimir, gran principe di Kiev, si battezz? e fece battezzare il proprio popolo. La Russia scelse di entrare a far parte della chiesa cristiana d?riente e non di quella di Roma.
Oltre che da ragioni geografiche e politiche, questa scelta si spiega con l?ntensa opera di evangelizzazione delle terre slave che Costantinopoli aveva promosso fin dal IX secolo, inviando i monaci tessalonicesi (greci) Cirillo e Metodio presso il principato di Moravia. La loro opera fu senz?ltro favorita dal fatto che i due monaci conoscevano la locale lingua slava e che se ne servirono, non solo per predicare, ma anche per la liturgia e per la traduzione dei libri sacri. A questo scopo adattarono l?lfabeto greco ai suoni dello slavo. Fu cos? che gli slavi ebbero la scrittura cirillaca.
Missionari e catechisti arrivarono nella Rus?dalle terre slave gi? cristianizzate, mentre l?lta gerarchia ecclesiastica, i vescovi e il metropolita, erano designati direttamente dal patriarca di Costantinopoli. Tutti i metropoliti del periodo premongolico, eccetto due, furono greci.
Nel X secolo iniziarono a diffondersi in Russia i monasteri. Nel 1051 fu fondato il famoso monastero delle Grotte di Kiev. Come in Occidente, i monasteri divennero importanti centri di arte e di cultura. I monaci redigevano le cronache, traducevano opere teologiche, storiche e letterarie, si dedicavano alla pittura delle icone.
Nel 1237, l?sercito di Kiev venne sconfitto dalle armate mongole di Batu, che avanzavano verso l?uropa centrale. Il ?iogo?dei mongoli, chiamati tatari dai russi, grav? sui territori centrali e meridionali della Rus?fino al 1480. Ci? ebbe incalcolabili conseguenze sulla storia e la cultura del paese. La civilt? fiorita a Kiev cadde in rovina. Nuovi centri politici e commerciali cominciarono lentamente a svilupparsi molto pi? a nord, nei principati di Vladimir, di Tver?e di Mosca, tutti tributari dei tatari.
Anche la sede del metropolita si spost? al nord, prima a Vladimir (1299) e poi a Mosca (1325). Ci? contribu? a dare lustro alla citt? e al suo principe, che stava cercando di affermare la propria egemonia nella regione. Nel 1336 San Sergio di Radonezh fond?, non lontano da Mosca, il monastero della Trinit?, che divenne un importante centro religioso e culturale. Qui visse e lavor? anche il famoso pittore d?cone Andrei Rublev.
Con il crescere della potenza politica di Mosca e il decadere dell?mpero cristiano d?riente, la chiesa russa si rese sempre pi? autonoma dal patriarca di Costantinopoli. Nel 1448 fu il consiglio dei vescovi russi, e non Costantinopoli, a nominare il nuovo metropolita Iona: la chiesa russa divenne autocefala. Infine, nel 1589 il patriarca di Costantinopoli Geremia, in visita a Mosca, consacr? il metropolita Iob primo patriarca di Mosca e di tutte le Russie. Nel 1590 anche gli altri patriarchi approvarono l?stituzione del patriarcato di Mosca, che divenne il quinto, dopo quelli di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme.
Aumentava, intanto, l?nfluenza sulla chiesa russa dei grandi principi di Mosca, che ambivano a raccogliere l?redit? politica di Bisanzio, caduta definitivamente in mano ai turchi nel 1453. L?deologia politica moscovita trov? espressione nella teoria di ?osca terza Roma? formulata agli inizi del Cinquecento dal monaco Filofej.

LA CHIESA E GLI ZAR
Il primo a mettere seriamente in questione il primato del potere temporale su quello spirituale fu il patriarca Nikon (1652-1667), che perseguiva l?dea di uno stato teocratico. Egli promosse, tra l?ltro, la riforma dei libri e dei costumi liturgici per eliminare le divergenze createsi nei confronti della chiesa greco-ortodossa. Questi cambiamenti non furono mai accettati da una parte dei fedeli, che li considerarono un tradimento della tradizione slavo-cristiana. Ebbe cos? origine lo scisma dei ?ecchi credenti? che dura fino ai nostri giorni.
Le aspirazioni teocratiche portarono Nikon a scontrarsi con lo zar Aleksej Mikhajlovic (1645-1676). Nikon ebbe la peggio: nel 1666 lo zar fece deporre il patriarca dal concilio.
L?nizio del XVIII secolo fu segnato dalle riforme occidentalizzanti di Pietro I, che toccarono anche la chiesa. Dopo la morte del patriarca Adrian nel 1700, Pietro imped? che venisse eletto un suo successore, finch? nel 1721 abol? il patriarcato e stabil? per la chiesa un organo di governo collegiale, il santo Sinodo, costituito sul modello delle chiese luterane di Svezia e Prussia. Il Sinodo era presieduto da un funzionario statale, detto anche ??cchio dello zar? che ne controllava l?perato. Questo controllo fu facilitato dall?cquiescenza di buona parte dell?lto clero. Con i successori di Pietro la linea di condotta verso la chiesa non cambi?, anzi; il potere laico acquist? un peso sempre maggiore negli affari ecclesiastici, finch?, col manifesto di Paolo I (1797), l?mperatore divenne anche il capo della chiesa ortodossa russa.
All?nizio del XX secolo si fece pressante l?sigenza di un rinnovamento della chiesa. Il concilio del 1917-18 vot? la restaurazione del patriarcato, eleggendo alla dignit? di patriarca il metropolita di Mosca Tichon, ed espresse l?ntenzione di riformare l?rdinamento ecclesiastico. Ci? non ebbe seguito, perch? nel settembre del 1918 il concilio fu disperso dai bolscevichi che combattevano la religione e la chiesa, considerata un?stituzione controrivoluzionaria.

LA CHIESA E IL REGIME COMUNISTA
La prima Costituzione del 1918 sanciva la separazione dello stato e della scuola dalla chiesa e privava i sacerdoti e i membri delle loro famiglie del diritto elettorale; nel 1918-20 ci fu la campagna contro le reliquie; nel 1922 vennero confiscati i beni ecclesiastici, fu arrestato il patriarca Tichon.
Durante la guerra civile che segu? al colpo di stato bolscevico furono uccisi 23 vescovi e circa 10.000 sacerdoti. Una parte della gerarchia ecclesiastica emigr? dopo la sconfitta dell?esercito bianco? dando vita alla chiesa ortodossa russa all?stero. Alla morte di Tichon (1925) le autorit? impedirono che venisse eletto un nuovo patriarca e il metropolita Sergij divenne vicario del locum tenens patriarcale. Egli tent? di normalizzare i rapporti con lo stato e nel 1927 eman? un documento in cui si affermava che l?ppartenenza alla chiesa non era incompatibile con la fedelt? all?nione Sovietica. Questo documento, conosciuto come la ?ichiarazione di Sergij? segn? la definitiva rottura con la chiesa russa all?stero. I tentativi di arrivare a un compromesso col regime non salvarono tuttavia la chiesa dalle grandi epurazioni degli anni Trenta. Furono chiusi gli ultimi monasteri rimasti e gran parte delle chiese parrocchiali. Gli anni pi? terribili furono tra il 1937 e il 1941, quando vennero fucilati 110.700 membri del clero.
Durante la seconda guerra mondiale Stalin comprese che il sentimento religioso poteva giocare un ruolo importante nel tenere alto lo spirito del popolo. Il 4 settembre 1943 ci fu lo storico incontro tra il dittatore e i metropoliti Sergij, Aleksij e Nikolaj, che segn? l?nizio di una nuova fase nelle relazioni tra stato e chiesa. Gi? l? settembre si apr? il concilio, che finalmente consacr? Sergij patriarca. Furono riaperti tre seminari (Leningrado, Zagorsk, Odessa), due accademie (Leningrado, Zagorsk), un certo numero di chiese parrocchiali, alcuni monasteri. Dopo la morte di Stalin ricominci? la campagna antireligiosa e con Kruscev gli attacchi alla chiesa ripresero. Solo alla fine degli anni Ottanta la chiesa si vide riconoscere pienamente il diritto di esistere.
Nell?prile del 1988, durante un incontro tra Michail Gorbachev e il patriarca Pimen, fu ufficialmente riconosciuto il ?iritto dei credenti di esprimere liberamente le proprie convinzioni?
Da allora per la chiesa russa ? cominciato un periodo di lenta e difficile rinascita.

LA NASCITA DELLA ?HIESA UNIATE?L?nione tra la chiesa greca e di quella latina fu formalmente approvata al Concilio di Firenze del 1439, ma non fu mai accettata dalla chiesa russa. Al concilio era presente il metropolita di Kiev, il greco Isidoro, il quale, al suo ritorno, cominci? a predicare la restaurata unit? tra le chiese. Arrivato a Mosca, per?, fu subito arrestato, ma riusc? a fuggire. L?nione rimase lettera morta anche nei territori bielorussi e ucraini, a quel tempo divisi tra Polonia e Lituania, dove si trovava anche Kiev.
All?nizio del Cinquecento la chiesa rutena (di Ucraina e Bielorussia) entr? in un periodo di grande crisi. L?buso del patrocinio laico aveva elevato al soglio vescovile candidati indegni, con una caduta del livello morale e culturale della gerarchia ecclesiastica. Iniziava a diffondersi lo spirito del protestantesimo, soprattutto tra i fedeli delle classi alte, attirati da calvinismo e antitrinitarismo. La chiesa rutena non aveva i mezzi culturali (mancava completamente di scuole teologiche) per far fronte a questa difficile situazione, n? poteva sperare nell?iuto di Costantinopoli.
Molti cominciarono a guardare alla chiesa di Roma, della cui efficiente organizzazione avevano un esempio nei vicini territori polacchi. Si fece strada l?dea che un?nione con Roma avrebbe potuto portare i benefici della rinascita cattolica. La cosa sembrava facilitata dal fatto che la diversit? dei riti era stata gi? approvata al Concilio di Firenze.
Il 12 giugno 1595 si riun? a Brest il sinodo della gerarchia rutena; si decise di inviare due vescovi a Roma per concludere l?nione con Roma, che fu ratificata in Vaticano il 23 dicembre 1595. Il documento fu successivamente approvato da un nuovo sinodo, riunitosi nell?ttobre 1596, sempre a Brest, ma fu respinto da una parte della gerarchia rutena, che aveva nel frattempo assunto una posizione anti-unionista. Non fu possibile sanare il dissidio tra le due parti, che si scomunicarono a vicenda.
Nel 1654 Kiev e l?craina occidentale passarono sotto il dominio di Mosca e ogni progetto d?nione con Roma dovette essere abbandonato. Invece tutte le diocesi della chiesa ortodossa rutena rimaste nei confini dello stato polacco-lituano accettarono l?nione entro la fine del XVII. Bi.Ba.

(*) Sui

mille anni del cristianesimo russo si veda ?rss: lo stato non ? Dio? numero monografico di Missioni Consolata dell?ttobre 1988. Pi? recente ƒussia. La fatica di rinascere?su Missioni Consolata del gennaio 1996.
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Biancamaria Balestra