Cipro – La Breccia

L’1 maggio 2004, entreranno in Europa 620 mila greco-ciprioti; 180 mila abitanti di origine turca dovranno attendere ancora.
Ma nel muro, che da 30 anni li divide, si è aperto uno spiraglio di speranza.

Sta crollando l’ultima vergogna dell’Europa? Nel muro, che dal 1974 divide l’isola di Cipro e le etnie greca e turca, è stata aperta una prima breccia, permettendo alle due comunità di visitare le zone prima a loro proibite. La storica decisione presa da Rauf Denktash, presidente dell’autonominata Repubblica Turca di Cipro Nord (riconosciuta solo dalla Turchia) «potrebbe essere un passo decisivo verso la soluzione del problema dell’isola» ha dichiarato Walter Schwimmer, segretario generale del Consiglio d’Europa.
Ma Kypros Chrisostomides, portavoce del governo della Repubblica di Cipro, ha subito raggelato gli entusiasmi, affermando che «la decisione (di Denktash) è illegale; è un tentativo di sviare l’attenzione della comunità internazionale sulla illegittimità dell’occupazione turca nella parte settentrionale dell’isola. Il muro non sta cadendo e questo non è il modo per risolvere i problemi di Cipro».
Tali problemi sono la presenza di 40 mila soldati turchi e 100 mila coloni immigrati dalla Turchia, stanziatisi nel nord dell’isola dopo il 1974, occupando case e terreni appartenenti ai greco-ciprioti fuggiti al sud. Le forze di destra greco-cipriote si sono scagliate contro l’apertura e hanno sconsigliato i greco-ciprioti di entrare al nord, mentre il quotidiano in lingua greca Phileleftheros ha chiesto al governo di adottare misure di sicurezza, per prevenire infiltrazioni di agenti turchi al sud, definendo criminale il regime turco-cipriota.
Al di là della retorica del dialogo, la mossa di Denktash è stata dettata dalla necessità di recuperare la fiducia di migliaia di turco-ciprioti, scesi in piazza chiedendo le sue dimissioni, dopo il suo rifiuto al piano di Kofi Annan. Proposto nel marzo 2003, tale piano prevede un modello di confederazione simile a quello svizzero.
Inoltre, la decisione di tale apertura è giunta una settimana dopo la visita del primo ministro greco Costas Simitis, che sanciva la firma dell’ammissione della Repubblica di Cipro alla comunità nel 2004.

A tal proposito, Simitis ha parlato di «enosis di Cipro all’Ue», suscitando vivaci proteste da parte turca: nell’isola la parola enosis (unione) è storicamente intesa come annessione alla Grecia. La gaffe di Simitis ha riproposto il problema dell’indipendenza nazionale, anche se George Vassiliou, capo delegazione cipriota per i colloqui d’integrazione, in un’intervista rilasciataci in esclusiva (vedi pag. 38), ha affermato che «a Cipro non esiste alcuna idea di enosis, come non c’è nessuna possibilità che la parte turco-cipriota raggiunga l’integrazione con la Turchia».
La preoccupazione del presidente greco-cipriota, Tassos Papadopouls, è soprattutto diplomatica: le migliaia di greco-ciprioti che, incuranti delle raccomandazioni del governo, si sono riversati al nord devono mostrare alle autorità della parte settentrionale il proprio passaporto, come se stessero entrando in un paese straniero; mentre la polizia greco-cipriota richiede ai turco-ciprioti diretti al sud l’esibizione della sola carta d’identità.
Ma la libera circolazione della popolazione ha avuto anche un effetto boomerang imprevisto per le autorità turche: approfittando della possibilità di varcare il muro, molti abitanti della parte settentrionale hanno richiesto il passaporto della Repubblica di Cipro, che permetterebbe loro di circolare liberamente in Europa e nel mondo intero.
La cicatrice che sfregia l’isola di Cipro sembra abbia finalmente iniziato a rimarginarsi. L’Onu, che da anni preme affinché le due parti riescano a trovare un accordo che ponga fine alla costosa presenza del contingente di 1.400 persone dell’Unificyp (45,6 milioni di dollari Usa annui), non deve lasciarsi sfuggire questa occasione, per riabilitarsi di fronte alla comunità internazionale dopo il disastro iracheno.

Piergiorgio Pescali




Cipro – Andando per conventi

Natura e mito, storia e religioni fanno dell’isola più bella del Mediterraneo un crogiolo di culture e di contrasti. Nel profondo dell’anima rimane indelebile l’impronta impressa da secoli di monachesimo.

L a spuma prodotta dalle onde, che da millenni si infrangono contro lo scoglio di Petra tou Romiou, ripropone all’infinito l’atto di nascita di Afrodite, la dea della bellezza, della sensualità e dell’amore, che a Cipro trovò il suo regno. E l’amore, Afrodite, lo ha sempre elargito generosamente. Fu la dea a dar vita al freddo marmo con cui Pigmalione scolpì Galatea, la statua di cui si innamorò; ma fu ancora lei che sedusse e fu sedotta da Ares, il dio della guerra, tradendo il marito Efesto, per segnare così l’indissolubile legame degli opposti: mare e terra, bellezza e devastazione, bene e male, amore e guerra.
Ecco, il contrasto è forse il sostantivo che più si addice a Cipro, ai suoi abitanti e a chi intende carpie l’anima. Dal mito alla storia, dalla natura umana a quella morfologica, per terminare con la religione, Cipro sembra creata apposta per ricordare all’uomo che è il dualismo a regolare il mondo terreno e, spesso, in modo drammatico.
INTRECCIO DI STORIA E RELIGIONE
La posizione geografica dell’isola, situata sulle rotte commerciali tra Europa e Vicino Oriente e tra cristianesimo e islamismo, ha fatto sì che fin dagli albori della sua storia, gli eserciti conquistatori ritenessero di vitale importanza il suo controllo. Portaerei naturale dell’antichità, a Cipro regnarono greci, fenici, assiri, egiziani, arabi, francesi, veneziani, turco-ottomani, britannici, e ciascuna di queste civiltà ha lasciato qualche testimonianza che ancora oggi è facile riscontrare nell’isola.
Storia e religione qui si attorcigliano, compenetrando l’una nell’altra, proprio come Afrodite e Ares. Già nel 45 d.C., il governatore romano Sergio Paolo, dopo aver fatto sferzare san Paolo con trentanove scudisciate, si convertì al cristianesimo assieme alla maggioranza della popolazione. La colonna a cui l’apostolo di Cristo fu incatenato e frustato è ancora oggi meta di pellegrinaggi nel sito archeologico di Chrysopolitissa, a Pafos, sulla costa occidentale.
Il vangelo portato dalla violenza della frusta, fu causa di ben altra violenza mille anni più tardi, quando lo slancio fideistico dei crociati mise a ferro e a fuoco i correligionari ciprioti, rei di aver abbracciato l’ortodossia. Come accade di frequente, sono proprio i compagni di partito, che militano in un’altra fazione, ad essere l’oggetto delle più feroci angherie. Così per i cristiani.
La spartizione dell’Impero romano, avvenuta nel iv secolo, precorre ciò che noi abbiamo solo riscoperto di recente con la caduta del muro di Berlino: più che le frontiere politiche, sono i confini linguistici e quelli religiosi ad essi legati, a caratterizzare l’Europa del futuro.
La divisione del mondo cristiano tra l’Occidente latino, che rompe ogni legame col passato per ricrearsi una nuova cultura, tradizione, lingua, arroccandosi attorno alla chiesa di Roma, e l’Oriente bizantino, che rappresenta la continuazione del passato, è sancita dallo scisma d’Oriente del 1054.
Ma è la terribile profanazione del trono di Bisanzio, nel 1204, da parte dei condottieri della iv crociata, che misero sul trono di Santa Sofia una prostituta, a essere ricordata dagli ortodossi come la causa della definitiva scissione tra chiesa cattolica romana e chiesa ortodossa.
Quegli anni, fatti di eccidi in nome dello stesso «Dio, buono e misericordioso» bruciano ancora nel mondo greco e slavo. Padre Umberto Barato, vicario del nunzio apostolico di Nicosia, mi dice che ricorderà per tutta la vita il giorno in cui un giovane ortodosso rinfacciò ai cattolici di aver causato il crollo della capitale bizantina e la divisione del mondo cristiano (vedi pag. 37).
Altri ricordano la devastazione portata da Riccardo Cuor di Leone nel 1191 e quella dei templari subito dopo. La famosa Bulla cipria, emanata da papa Alessandro iv nel 1260, che dava alla chiesa cattolica il dominio di Cipro, viene tuttoggi citata dai greco-ciprioti come esempio dell’arroganza di Roma nei loro confronti. Poco sorprende, quindi, che la cacciata dei veneziani da Famagosta e dall’intera isola da parte dei turchi, nel 1571, sia stata salutata con favore dai cristiani ortodossi locali.
I PRIMI «NO GLOBAL»
In questo periodo di oscurantismo religioso, per scampare alle persecuzioni cattoliche, molti pope rimasti fedeli alla chiesa di Bisanzio cominciarono a fuggire nell’interno dell’isola, inerpicandosi lungo i monti Troodos, costruendovi piccoli eremi.
Il monachesimo, una delle peculiarità che all’inizio hanno differenziato le due chiese cristiane, è per la fede ortodossa il principale protagonista della vita spirituale.
Il turista che con i modei mezzi di trasporto raggiunge le piccole chiesette isolate, di pietre rozzamente squadrate, dovrebbe sempre aver presente l’isolamento cui si erano volontariamente relegati i primi mistici ortodossi. Tragitti che oggi si compiono in poche ore, allora richiedevano giorni di cammino. Dove sorgono ristoranti, hotels e piscine, c’erano poche casupole di pastori che, durante l’inverno, tornavano sulla costa. Persino i monasteri e le chiesette più antiche all’inizio erano poco più che una cella di nuda pietra.
La devozione che il popolo tributava ai monaci portò, dopo la morte di chi le abitava, a erigere santuari e chiese che andavano a inglobare le primitive casupole. Sorsero così le centinaia di cappelle disseminate come semi di grano un poco ovunque a Cipro. A volte si sceglie un luogo particolarmente suggestivo, in cima a una rupe o una scogliera; altre volte, invece, si preferiscono siti più oculati, all’interno di un bosco o vicino a grotte. Tutte, però, sono situate lontano dalle arterie principali e, soprattutto, dalle rotte commerciali, a voler rafforzare la scelta di distacco dal mondo terreno.
«I monaci eremiti sono stati i primo no-global della storia» mi dice scherzando il pope di Panagia tou Arakou. Anche oggi, per gustare la vera atmosfera cipriota, davanti a un buon bicchiere di vino e ottimo halloumi (formaggio arrostito alla griglia), occorre salire fin quassù, lontano dai McDonalds e dalle anonime vetrine zeppe di vestiti firmati.
CERCATORI DI QUIETE E DI DIO
Lontano anche dalla calca dei turisti. Gli incerti raggi del sole appena sorto accarezzano la roccia di Petra tou Romiou e la minuscola spiaggia sassosa che le fa da contorno. La calma, per ora, è assoluta; ma so che questa fetta di paradiso, ritagliata rubando ore al sonno, durerà poco, giusto il tempo perché i pullman scarichino orde di turisti vocianti, interrompendo quell’atmosfera mistica che solo la solitudine e la quiete riescono a creare.
In greco solitudine e quiete si traducono con una sola parola: hesychia, da cui deriva il termine «esicasmo»: il movimento ascetico e monastico, rivalutato nella chiesa ortodossa, che si sforza di raggiungere la comunione con Dio.
E così, abbandonando frettolosamente Petra tou Romiou e la costa, cartina alla mano, vado alla ricerca dei monasteri e, per non subire un distacco troppo repentino tra dei greci e Dio cristiano, inizio dal più pagano di tutti: quello di Agios Nikolaos ton gaton (San Nicola dei gatti). Qui decine di gatti trovano pace e rifugio grazie a Sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, la quale introdusse questi felini a Cipro per liberare l’isola dai serpenti.
A mano a mano che mi addentro tra le pinete dei monti Troodos, comprendo la volontà degli eremiti di allontanarsi dal bailamme della costa. Essi erano in fuga dalle truppe militari e dai mercanti, io da altri tipi di eserciti, spesso non meno devastanti e prevaricatori: quelli dei turisti, che nel xiii secolo erano certo meno invadenti.
Fu in quel periodo che Gregorio Palamàs, monaco del Monte Athos e poi arcivescovo di Tessalonica, elaborò la prassi teologica dell’eremitaggio, che ben presto divenne un dogma nella chiesa ortodossa.
MADONNA DELLA TENEREZZA
Mi dirigo al monastero di Kykkos, il più importante di Cipro, passando per il monte Olimpo. I paesaggi si susseguono incantevoli uno dopo l’altro e alla fine giungo alle porte del monastero, costruito nel xii secolo per volontà dell’imperatore bizantino Alessio Comnenus.
Qui il futuro primo presidente di Cipro, l’arcivescovo Makarios iii, passò il suo noviziato e poco lontano la sua tomba domina simbolicamente l’intera isola.
I monaci di Kykkos, come altri confratelli greco-ortodossi sparsi negli altri monasteri, favorirono apertamente la lotta dell’Eoka, l’organizzazione filogreca che negli anni ’50 contrastò la colonizzazione britannica. Non è certo un caso che lo sguardo della mastodontica statua bronzea di Makarios iii, di fronte al palazzo arcivescovile di Nicosia, si posa sul monumento alla libertà, dedicato ai combattenti dell’Eoka.
Ma la notorietà di Kykkos travalica il mero significato politico. La fama del monastero si è espansa in tutto il mondo slavo e greco, grazie alla Panagia Eleousa, l’icona della Madonna della Misericordia, venerata da Mosca a Lalibela (Etiopia).
Entro nella cappella dove è custodita la sacra immagine; un monaco legge passi dell’Antico Testamento proprio sotto la Vergine, che nel suo braccio destro culla Gesù Cristo ancora bambino. La tradizione vuole che sia stato l’evangelista Luca a dipingere il quadro, ritraendo la Madonna così come la ricordava.
Vera o falsa che sia la leggenda, l’icona infonde serenità e profonda spiritualità, grazie allo sguardo e la postura dei due protagonisti. Se pare impossibile che sia stato realmente Luca a dipingee le fattezze, è difficile comprendere come il vero pittore abbia potuto infondere ai soggetti tali cariche spirituali senza averli conosciuti di persona.
ARTE E FEDE
Per un paio di giorni girovago tra i monti Troodos visitando chiese, monasteri, santuari. Alcuni sono dei veri e propri conventi ristrutturati e abitati da decine di monaci, come quello di Trooditissa; altri, invece, e sono quelle che più preferisco, sono piccole cappelle poco illuminate, affrescate di motivi tratti dai vangeli: ultima cena, entrata di Gesù a Gerusalemme, assunzione della Vergine, ritratti di santi.
Nove di queste chiese sono state iscritte nel patrimonio artistico mondiale dell’Unesco: Agios Nikolaos tis Stegis (xi secolo), Agios Ioannis Lambadhistis (xi secolo), Panayia Phorviotissa tou Asinou (xii secolo), Panagia tou Arakou (xii secolo), chiesa della Vergine di Moutoullas (xiii-xiv secolo), di San Michele Arcangelo (xv secolo), di Timios Stavros (xiii-xv secolo), Panagia tis Podhithou (xvi secolo), chiesa di Stavros Ayiasmati (xv secolo) e di Ayia Sotira tou Soteros (xvi secolo).
Nella bellissima e isolata Agios Nikolaos tis Stegis osservo un affresco raffigurante la resurrezione di Lazzaro, uno dei miracoli di Cristo che più hanno colpito l’immaginazione di noi bambini quando, per la prima volta, lo sentimmo raccontare.
Mi reco a Laaca, dove Lazzaro si trasferì e morì. Nella chiesa dedicata al santo, c’è ancora la sua tomba, venerata in tutta la cristianità. Anche qui, rimango in contemplazione degli stupendi affreschi che oano le facciate intee e delle icone raffiguranti san Lazzaro e la Madonna con Bambino.
Rapito dal loro fascino, visito il Museo bizantino di Nicosia, che ne espone un’intera collezione, proprio dietro la stupenda cattedrale di San Giovanni e il palazzo arcivescovile.
Le icone (dal greco eikòn, effige), assieme al canto, divennero ben presto oggetto di devozione presso il popolo. Ma l’affermarsi di questa arte, che caratterizza ancora oggi la fede ortodossa, non è stata così lineare come potrebbe sembrare. L’imperatore bizantino Leone iii cominciò l’iconoclastia (distruzione delle icone); il successore Costantino v, 30 anni dopo radunò il «conciliabolo» di Hiereia (754), in cui fu stabilito che solo l’eucaristia poteva rappresentare l’immagine di Cristo; finché il Concilio ecumenico di Nicea ii (787) riammise il culto delle immagini.
Il movimento iconoclasta, che imperversò con violenza tra l’viii e il ix secolo e che voleva riportare in auge l’aniconismo del cristianesimo originario (quando Cristo era rappresentato solo da un pesce), a Cipro non raggiunse mai gli eccessi che ebbe nel continente. Forse per questo l’arte dell’icona nell’isola raggiunse livelli elevatissimi.
SFIDA ECUMENICA
Mi dicono che presso il monastero di Stavrovouni, il primo edificato a Cipro, continua a esistere una comunità di monaci che ha proseguito la tradizione. Decido di andarla a trovare, ma le regole che ritmano la vita ecclesiale sono ferree: l’ingresso è vietato alle donne; per noi maschietti le visite sono permesse solo in determinati orari, per non disturbare la preghiera e la meditazione quotidiana. È un modo per preservare antichi rituali.
Padre Kallinikos, un vispo ottuagenario, mi accoglie nel suo stupendo studiolo, dalle pareti ricoperte di icone, libri, pennelli, tempere prodotte a mano. Parliamo a lungo del significato delle icone e delle diversità di vedute tra cattolici e ortodossi. «Dovremmo iniziare a parlarci iniziando dalle cose che abbiamo in comune» mi dice mostrandomi col dito un’icona della Madonna col Bambino dipinta da lui.
Abbandono la hesychia di Stavrovouni per rituffarmi nelle strade affollate di Nicosia. Seduto in un caffè, di fronte alla Linea Verde che divide la zona greco-cipriota da quella turco-cipriota, mi tornano in mente le parole riferitemi dal pope del monastero di Kykkos: «Cipro potrebbe essere un grande esempio ecumenico per tutta l’umanità e rappresentare il futuro dell’Europa: qui vivono latini, maroniti, greco-ortodossi, islamici, anglicani. La sua divisione, politica e religiosa, rappresenta il vero dramma dell’incomunicabilità del nostro tempo».

Piergiorgio Pescali




Cari Amici italiani noi vi scriviamo…

Questo dossier nasce grazie alla sensibilità e disponibilità della redazione di Missioni Consolata e ha due intenti:

1) Non dimenticare quei bambini che, essendo nati dalla parte bollata come «cattiva», negli ultimi dieci anni di guerre «umanitarie» e ormai infinite, non hanno mai ricevuto dai vari organismi e Ong inteazionali, che una solidarietà infinitamente ridotta, spesso sottoposta a precise clausole discriminanti.
L’Associazione «Sos Jugoslavia» ha fatto fin da subito una scelta precisa: aiutare e solidarizzare, senza guardare il luogo di nascita, con i bambini serbi e jugoslavi, perché bombardati dalla Nato e per anni sottoposti a embarghi e sanzioni, armi di devastazione e annichilimento di popoli e genti, in particolare di bambini e anziani.

2) Facendo parlare e testimoniare questi bambini, forse per la prima volta in Italia, e tramite le loro storie e speranze, fare un’opera di sensibilizzazione e sostegno ai progetti di solidarietà con alcune realtà di bambini in Serbia e in Kosovo Methoija.

N ei nostri periodici viaggi di solidarietà, abbiamo raccolto brani di lettere, poesie, pensieri, disegni, che ci trasmettono sentimenti, sofferenze e desideri più profondi di questi bambini. Le presentiamo con una sintetica descrizione delle realtà sociali in cui vivono quotidianamente.

Sono tre realtà che rappresentano lo spaccato sociale, simbolo della odiea società serba ed ex jugoslava del dopoguerra. E sono anche le realtà dove la nostra Associazione ha tre dei suoi progetti di solidarietà:
– quella dei figli dei lavoratori disoccupati della Zastava;
– quella dei bambini profughi dal Kosovo Methoija;
– quella dei bambini assediati nelle enclavi serbe dello stesso Kosovo Methoija.

La scelta di privilegiare l’impegno verso i bambini è legato a dati di fatto: essi rappresentano l’anello più debole e indifeso degli eventi, quindi i più bisognosi; in essi vive una potenzialità costruttiva positiva; soprattutto i bambini rappresentano in ogni società la speranza ed il futuro.

Per quei paesi e popoli che hanno vissuto e vivono sulla loro pelle cosa significano guerre «umanitarie», proiettili democratici all’uranio impoverito e terapie di miglioramenti sociali, fondati su bombardamenti dei civili per motivi «etici», la necessità di ritrovare anche solo un brandello che possano ridare frammenti di speranza in un futuro migliore, in un mondo più giusto e di pace per tutti, passa necessariamente attraverso le generazioni che devono venire; e i bambini, anche nelle situazioni più drammatiche e di miseria, rappresentano e sono gioia e sorrisi in ogni famiglia.
E per fermare i mercanti di morte e i propugnatori delle guerre «infinite», sarà necessario un forte protagonismo e coinvolgimento delle nuove generazioni, anche e soprattutto nel nostro paese.

Enrico Vigna




Scende la notte, si sente la sirena antiaerea

I bambini dell’ex Jugoslavia raccontano i loro sogni, ancora popolati
dagli incubi della guerra passata, le difficoltà dell’esistenza presente, le speranze
di un futuro di pace e di amicizia.
La solidarietà dell’Associazione «Sos Jugoslavia» vuole che questa speranza
non muoia.

Fino al 1999 la Zastava era la più grande fabbrica dei Balcani: produceva 220 mila vetture l’anno e impiegava 36 mila lavoratori di 34 etnie diverse. Oggi, ufficialmente, i dipendenti sono 17 mila; ma impiegati a rotazione, con tui di 4-5 mila al mese. Quando lavorano percepiscono un salario medio di 165 euro mensili; quando non lavorano 70/80 euro.

Secondo i dati ufficiali, oggi, in Serbia, i due terzi della popolazione spende meno di 1 euro al giorno pro capite, quando il paniere dei soli generi di primissima necessità per una famiglia di 4 persone è di 250 euro.
Essendo privatizzati o in fase di privatizzazione i servizi sociali, la scuola sta diventando un lusso, mentre prima erano praticamente garantiti dallo stato. Buona parte delle famiglie non ha più acqua, luce, riscaldamento, perché non possono pagare le bollette. Occorre ricordare che in inverno le temperature possono toccare i 20 gradi sotto zero.

Mentre dilagano le malattie, dovute sia ai 10 anni di embargo, sanzioni e guerre, sia ai bombardamenti all’uranio, che cominciano a emergere massicciamente (tumori, leucemie e malattie cutanee), la stragrande maggioranza delle famiglie non può curarsi e comprare i medicinali.

In queste condizioni vivono i bambini di cui riportiamo alcuni pensieri.

«… Adesso farò la terza media. La vita qui è dura: dobbiamo vivere in cinque con la pensione di vedova della mamma, che riceve 70 euro mensili, ma è difficile arrivare a fine mese. Senza il vostro aiuto sarebbe anche peggio… Tutti abbiamo grave stress; non riesco a esprimere cosa proviamo».

(Aleksandar T., 15 anni)

«Spero che tutto passi presto e riavere la nostra infanzia rubata. Siamo diventati grandi troppo in fretta: ragioniamo diversamente dai nostri coetanei che non hanno conosciuto la guerra… Scrivimi di te; sapere che ci sono bambini che vivono bene mi fa stare un po’ meglio e mi aiuta a sopportare le nostre sofferenze».

(Ana C., 12 anni)

«Caro amico, tu la notte riesci a dormire? Io sogno e sento sempre il suono degli aerei e delle bombe. Sogno di camminare in mezzo a rovine, tanti animali soli davanti alle case distrutte e tutto brucia. Tanti fantasmi mi stanno intorno… Grazie delle tue lettere, soprattutto perché ti ricordi di me… Anche a me piacciono le stelle: ogni sera le guardo e mi chiedo cosa starai facendo… Ho pensato di regalarti qualcosa: ho solo una penna; se te la regalo, non so più come scriverti».

(Boba K., 10 anni)

«Caro amico, mio padre è tornato dalla guerra su una carrozzella, non ha più le gambe. Perché gli hanno fatto questo? Lui è sempre stato buono, sul suo viso c’era sempre un sorriso per noi. Ora, a volte, lo vedo piangere da solo; ma con noi si sforza sempre di sorridere. Mio padre era un operaio della Zastava, ora passa la vita sulla carrozzella e non può più lavorare… Eravamo una famiglia allegra, contenti di quello che avevamo, ora non abbiamo più nulla. La mamma è sempre triste e piange… Viviamo con la pensione di papà, 60 euro in quattro; una o due volte al mese la mamma trova da andare a fare le pulizie; allora torna con qualche cioccolatino per me e mia sorella e per qualche momento tutto sembra come era prima… Voglio crescere e diventare grande presto, così farò il soldato e andrò a cercare quelli della Nato, anche fino in America, per punirli di ciò che hanno fatto alla nostra famiglia. Anche se mio padre non vuole e mi dice che bisogna avere pazienza… Amico mio, vorrei conoscere altri bambini italiani per diventare amici e un giorno raccontarci tante cose. Di questo sarei felice».

(Radko M., 12 anni)

Alle tragedie e sofferenze che i profughi si portano dentro e che, specie per la psiche dei bambini, spesso non sono superabili, si aggiungono quelle della vita quotidiana, legata alla mancanza di condizioni minime di sopravvivenza: casa, lavoro fisso, relazioni sociali minime, impossibilità di un proprio decoro, progettualità e prospettive future.

Dalle lettere dei bambini che sono al Centro collettivo profughi di Kragujevac, emerge la realtà di vita delle famiglie che vivono in questi centri di fortuna. Uno di questi era un supermercato, dove sono state messe delle pareti di compensato, ottenendo stanze di circa 6 metri quadrati, alcune senza finestre; le condizioni igieniche sono al minimo, nonostante una autoregolamentazione rigida e funzionale: ogni nucleo familiare può fare la doccia ogni 12/15 giorni; per andare al bagno occorre aspettare il proprio tuo; così pure per lavare piatti e vestiario. Non esiste riscaldamento e topi e scarafaggi convivono normalmente con i bambini.

Alienazione e disperazione favoriscono alcornolismo, malattie e disturbi nervosi, anche nei bambini. Dopo i bombardamenti della Nato, secondo studi e ricerche fatte da pediatri e psichiatri, risulta che circa il 71% dei bambini e adolescenti della Repubblica Serba hanno disturbi psichici di vario genere.

Un dato mai evidenziato è che molte migliaia di queste famiglie e bambini hanno vissuto la condizione di profughi due volte in pochi anni: esse sono parte di quei 650 mila profughi mai menzionati, che erano scappati dalle varie pulizie etniche delle guerre in Croazia e Bosnia.

Nonostante tutto questo, chi viene a conoscere direttamente la loro situazione sono colpiti dal senso profondo di grande dignità e orgoglio di questi profughi.

«… come avete visto, la stanza del Centro profughi, in cui viviamo in cinque, è piccola; ma almeno la nostra vita è più serena: abbiamo una porta solo per noi; possiamo andare a letto e svegliarci quando vogliamo… Lei è stata la prima persona che è venuta a conoscere la nostra famiglia… Grazie perché ci aiuta e perché siamo amici… siamo felicissimi di potervi offrire la nostra amicizia, i nostri sorrisi e tanto affetto… altro non abbiamo».

(Dragana N., 8 anni)

«… avevamo una vita serena; con i bombardamenti della Nato sono cominciate le nostre disgrazie: hanno distrutto i nostri sogni, i nostri sorrisi, le nostre allegrie. Continuo a chiedere ai miei genitori: «Perché?», ma non riescono a spiegarmi; mi dicono solo che così hanno voluto dei signori stranieri ricchi e potenti… Nella piccola testa ricordo sempre il paese dove sono nata, la piccola casa con i fiori, i campi intorno con l’erba, dove giocavo con gli amichetti; l’altalena costruita da papà e io sopra che ridevo, ridevo… Penso al cagnolino Lesi, che stava sempre con me felice… E poi piango; sento ancora il rumore degli aerei; rivedo le fiamme che restavano, fumo e tanti che piangevano… Finita la guerra e i bombardamenti, siamo dovuti scappare dalla nostra piccola felicità; siamo venuti a Kragujevac, in mezzo a tanta gente sconosciuta, ma ora ho tanti nuovi amichetti… Vorrei tornare nella nostra casa… ritrovare il mio cane, che forse ha fame e sete e sarà triste perché pensa che l’ho abbandonato; anche se sono passati quattro anni, sono sicura che non mi ha dimenticato… La invito a visitarci ancora… la nostra stanza è piccola, non siamo ricchi, ma vedrà che insieme a noi starà bene».

(Ndt: il padre non ha ancora trovato la forza di dirgli che la casa è stata bruciata e il cane Lesi è stato impiccato a un albero).

(Tjana D., 9 anni)

«… nel Kosovo avevamo una casa con la terra e animali: eravamo felici. Ma qualcuno ha deciso di distruggere la nostra felicità e la nostra vita. Non scorderò mai più il 20 giugno 1999: sono venuti i vicini piangenti; hanno detto ai miei genitori di prepararsi per scappare, perché stava arrivando l’Uck. Ma non avevamo un’auto e siamo rimasti solo noi della zona… poi è arrivato mio zio con la macchina a prenderci. Piangevamo tutti: abbiamo baciato la porta della nostra casa e siamo venuti via con alcune borse e un po’ di cibo per il viaggio. Io ho dovuto lasciare tutti i miei giocattoli e i miei ricordi. Tutti e cinque siamo saliti sulla macchina e siamo partiti, senza conoscere la destinazione. Siamo poi arrivati a Kragujevac e abbiamo trovato posto al Centro profughi, in un grande camerone, dove ci hanno dato 4 letti e 4 coperte militari e nient’altro… Io e i miei fratellini continuavamo a piangere e chiedere di tornare a casa; poi i genitori ci hanno detto che la nostra casa era stata bruciata dai terroristi. Dopo quattro anni piango ancora, anche nella notte, quando ricordo».

(Danica P., 10 anni)

«… in famiglia parliamo spesso di lei, della sua umanità e amicizia. Voi siete stati i primi a offrirci l’amicizia… Io sono rimasta colpita al vedere le sue lacrime, mi hanno fatto pensare che non sono sola e la nostra famiglia non è più sola: questo ci scalda tanto il cuore di speranza… Come ha potuto vedere, pur essendo in 6 in questa piccola stanza, siamo riusciti lo stesso a stare anche in otto, insieme a voi… Io e i miei fratellini abbiamo tanti desideri: avere una piccola casa nostra, dei giocattoli, dei dolci e un po’ di serenità e gioia. Un po’ di tutte queste cose ce l’avete regalate voi… Per noi ora è più facile e continuiamo a domandare quando toerete… Ogni volta che toerete, vi regaleremo il nostro affetto e i nostri sorrisi, so che è poco ma state sicuri che saranno sempre grandi».

(Ivana A., 8 anni)

Queste sono le cifre ufficiali di un anno di bombardamenti, dal giugno 1999 al giugno 2003: 350 mila profughi di tutte le etnie, in maggioranza serbi e rom, fuggiti in Serbia; 1.138 scomparsi; 1.194 assassinati.

Solo poche migliaia di non albanesi non sono scappate dalla pulizia etnica dell’Uck. Essi vivono barricati in piccolissime aree, spesso recintate col filo spinato, circondate dalle forze militari della Kfor, o assediati dentro gli ultimi monasteri ortodossi rimasti: 140 sono stati attaccati; 92 totalmente distrutti.che cosa posso portargli? >>. D ‘improvviso esclama <>

Durante le settimane successive per ogni preghiera e opera buona pose nel vaso una pietra lucente. Quando il vaso fu colmo il sant’uomo si affrettd su per la montagna, dove aveva appuntamento con Dio. Arrivd in vetta e non vedeva nessuno. All ‘improvviso udi una voce: >

E il sant’uomo, sorpreso: <>.

E Dio disse: <>

(liberamente tratto da P. Ribes
Ascolta questa…, Paoline 1997, pp. 40-42)

Queste enclavi del Kosovo sono vere e proprie prigioni a cielo aperto dell’apartheid etnico nel cuore dell’Europa. In esse si vive una vita quasi surreale: tutto ciò che accade è precostituito, dall’attesa degli alimenti e ogni bene materiale portati da fuori, alle modalità dei giochi che si possono fare solo se possibili e sicuri, alla vita scolastica, che è affidata alla volontarietà dei maestri e insegnanti rimasti. Tali «riserve indiane» sono un incubo a cielo aperto per i bambini serbi e di altre minoranze, quotidianamente minacciati e assassinati, se vengono trovati fuori dalle enclavi. Ne sono una tragica conferma gli eventi accaduti il 13 agosto scorso nell’enclave di Goradzevac, ultima isola multietnica del Kosovo occidentale, dove sopravvivono circa 700 persone. Un gruppo di ragazzi serbi decise di «evadere» per bagnarsi nel fiume Bistric, che scorre poche centinaia di metri fuori dell’enclave: due ragazzi di 11 anni e 18 anni vennero uccisi da colpi di fucile; un altro di 15 anni è in coma; altri due furono feriti gravemente e rimarranno invalidi a vita.

Le lettere dei bambini parlano di questa «normalità», risultato della guerra «umanitaria» che doveva portare pace, serenità e progresso in una terra dove, fino al 1999, convivevano 17 etnie diverse. Non era un paradiso terrestre; ma era un luogo dove chi uccideva un bambino o una persona, solo perché appartenente a un’altra etnia, era «normalmente» condannato all’ergastolo.

«… con la primavera, lentamente torna tutto ciò che se ne era andato in autunno, ma non tornano i miei amici e amiche, i miei fratelli e sorelle, che sono fuggiti, non a causa del freddo e dell’inverno, ma perché li hanno cacciati dalle loro dimore. Le loro case sono state incendiate; i loro nidi sono distrutti per sempre. Nei loro giardini l’erba non cresce, non diventa verde, perché è stata distrutta fino alle radici. Anche gli alberi sono stati distrutti e quelli nuovi non hanno il coraggio di crescere, perché hanno paura di essere abbattuti anche loro».

(Sladana V., 11 anni)

«… la mia infanzia trascorre circondata dal filo spinato. Ho 12 anni, ma da quattro anni non ho ciò che hanno tutti i bambini del mondo: la libertà. Vorrei che tutte le fabbriche di filo spinato si trasformassero in fabbriche di giocattoli e fiori, così ci sarebbero giocattoli e fiori per tutti i bambini del mondo».

(Dusan M., 12 anni)

«Scende la notte. Si sente la sirena antiaerea. Ancora non credo che qualcosa di terribile possa accadere. Si sentono gli aerei e poi esplosioni che fanno scoppiare i vetri delle finestre. Panico, urla, latrati di cani, fragore di persone nelle strade. Sto sognando? Avrei voluto che fosse un sogno! Avrei voluto svegliarmi e dimenticare, ma purtroppo questa è la mia realtà…».

(Bojan M., 14 anni)

«… ora viviamo come in gabbia, prigionieri: ma gli stranieri dicono che siamo liberi…».

(Jovan R., 10 anni)

«… quando fu sera ci sedemmo in cantina. Tutta la notte mi chiesi: cosa sarà di noi domani? Dopo alcuni giorni passati in cantina, uscii in cortile, ma tutto era impazzito: nel cielo, al posto del sole c’erano aerei ed elicotteri. Dopo alcuni minuti il tuono annunciò il pericolo. Quando tornai in cantina, guardai la piccola Jovana che dormiva e mi chiesi: perché la piccola Jovana deve sognare in cantina?».

(Ivana V. 9 anni)

«Il bombardamento che ho subito ha lasciato in me forti tracce e profonde cicatrici: sul mio viso si legge la tristezza, come incisa dalla lama di un coltello; gli occhi sono più cupi per le lacrime; la mia anima soffre per l’immenso dolore… A volte desidero andarmene da qualche parte, dove possa essere solo. Desidero essere completamente solo e dimenticare questi tremendi avvenimenti per sempre».

(Ratko L., 14 anni)

«… la guerra non è una canzone, che si può dimenticare
la guerra è una favola funesta,
che ogni giorno si manifesta…».

(Milena N., 12 anni)

«… il sole non sa che i miei occhi sono felici, come tutta la natura; ma il mio cuore è triste per tutto ciò che accade intorno a me. Saltellerei anch’io allegramente e canticchierei per i tanti boschi e radure, ma non posso. Non posso per le persone, non posso per le mine e non posso per le tante cose che stanno in agguato a ogni mio passo. Non tanto lontano da me, solo una decina di metri, sento il rumore allegro dei bambini, i colpi del pallone, canzoni che si svolgono dietro allegre altalene; ma io posso solo osservare tutto ciò. Perché non posso anch’io giocare, cantare e rallegrarmi della primavera con i miei coetanei? Che colpa abbiamo commesso, perché da quattro anni aspettiamo la primavera con il cuore di ghiaccio?».

(Milica S., 12 anni)

Non lasciar morire la speranza
Questi bambini non hanno subito solo danni fisici, ma anche devastazioni emotive e comportamentali: balbuzie, tic nervosi, disfunzioni, esaurimenti nervosi e alterazioni psichiche. Sirene di allarmi, rumore di aerei e scoppi di bombe… hanno innalzato del 19% il tasso di suicidi e atti autolesivi, di cui il 40% riguarda bambini e adolescenti.

La Convenzione dell’Onu del 1989 riconosce il diritto all’uguaglianza per tutti i bambini del mondo, senza discriminazioni di «razza, colore, sesso, lingua, religione, origine etnica» (art 2). Perché nel Kosovo Methoija, conclamato come «liberato», essere bambini serbi, rom, montenegrini, goranci, egiziani, turchi… non dà diritto neanche alla vita?

Oltre alle sofferenze e privazioni, i bambini parlano di sogni, desideri di serenità, ricerca di legami di amicizia con coetanei: una ricerca di «ponti» per andare al di là del fiume di orrori, violenze e crudeltà passate e quotidiane.

Gettare «ponti» di solidarietà è il senso del nostro modesto ma caparbio lavoro nell’Associazione «Sos Jugoslavia»; al tempo stesso vogliamo essere «voce» di chi non ha più voce nei nostri giornali, Tv, mass media, dibattiti, tranne rarissime eccezioni.
Ci viene richiesta non elemosina, ma solidarietà (vedi riquadro). Essa è spesso l’unica arma che possiedono i deboli e gli oppressi e fa parte del patrimonio migliore nella storia dei popoli. Solidarizzare e sostenere delle vittime di una guerra non voluta è anche lotta per la pace.

Vogliamo aiutare a non far morire il sentimento della speranza per questi bambini e forse anche per noi.

«Non so se c’è un tempo della fine,
ma so che c’è sempre la speranza.
La speranza come coscienza
e la coscienza come lotta
per la vita…
Senza fine…».

Enrico Vigna




I miei alunni serbi raccontano…

Io sono una mediatrice interculturale. Il mediatore è una nuova figura professionale, nata con la formazione del nuovo stato europeo e con l’immigrazione. I mediatori interculturali hanno un ruolo nobile: mediare fra diverse culture «costrette» a convivere in uno stato, con l’obiettivo di creare una maggiore comprensione, accettazione e tolleranza verso le diversità etniche, culturali e religiose.

Provengo da uno stato che non esiste più, la Jugoslavia. Sono testimone che le differenze tra le genti possono essere fonte di benessere economico e culturale, come lo furono nel mio paese negli anni Sessanta; ma possono anche diventare uno strumento per chi vuole fare la guerra, come è successo prima nel 1941, poi nel 1991.

Oggi, la «mia» Jugoslavia, multietnica, multiculturale, socialista e progressista, non allineata ed indipendente, si è frantumata in 5 piccoli stati, che si stanno inginocchiando davanti alla Nuova Europa, ricca, potente e prepotente, per diventae parte. Il mio è uno dei molti paesi dai quali sono emigrate migliaia di persone, famiglie intere, che sono scappate dalla guerra o dalla miseria, cercando fortuna in Europa…
Io mi occupo dei bambini di quegli immigrati. Sono i «miei alunni», che lasciai molti anni fa sui banchi delle scuole belgradesi, dove insegnavo il serbo-crornato. I loro genitori, che erano cresciuti in pace e in una società benestante, per dare ai propri figli pace e benessere hanno dovuto privare loro e se stessi della propria patria.

Io mi occupo di quei bambini quando vengono iscritti nella scuola italiana senza sapere una parola d’italiano. Sono per loro e le loro famiglie un punto di riferimento; cerco di essere una persona che ascolta e comprende tutte le loro difficoltà, i problemi, le aspettative e i progetti. Facciamo insieme una parte di strada, quella dei primi mesi nella nuova scuola. Ho conosciuto molti bambini serbi: della Croazia, della Bosnia, della Serbia. Ultimamente mi occupo anche degli alunni di madrelingua macedone.

Molti di questi bambini e ragazzi hanno vissuto la guerra e mi hanno raccontato le loro esperienze. Ho chiesto ad alcuni di scrivere le loro esperienze per «Missioni Consolata». Questi sono i loro racconti.

Snezana Petrovic




E da allora tutto cambiò

La guerra civile era iniziata nel 1991, ma la data che cambiò per sempre la vita
dei popoli della ex Jugoslavia è il 24 marzo 1999, giorno in cui cominciarono i bombardamenti della Nato.

Nelle lettere di questi bambini, costretti a lasciare villaggi, case ed affetti, c’è di tutto: paura e coraggio, poesia e realismo, ma soprattutto rifiuto assoluto della guerra. Parole di «bambini» che molti «grandi» dovrebbero leggere e ripetere ad alta voce.

Milan C`osic`,
Scuola media «D. Chiesa»
di Rovereto, classe II c:
«Ho visto una grande paura negli occhi della gente»

«Quella primavera del ’99 vivevo nel piccolo villaggio di Bioska. Il mio villaggio si trova vicino all’aeroporto militare di Ponikve. La mattina del 24 marzo, noi bambini andavamo a scuola allegri e per strada vedevamo i contadini che aravano i campi, preparando la terra per la semina. Nessuno immaginava cosa sarebbe accaduto.

Quella sera caddero le prime bombe della Nato. La sera prima avevano bombardato il nostro aeroporto. Prima si udivano le sirene e poi cominciava a tremare la terra per le detonazioni. La gente usciva dalle case e correva nei rifugi. Anche noi siamo andati nel rifugio. Ho visto una grande paura negli occhi della gente. Alcune donne piangevano. Anche la mia mamma piangeva. Io e il mio fratello più piccolo, sotto la coperta pregavamo Dio che gli americani smettessero di lanciare le bombe. Poi ci siamo addormentati.
Di mattina arrivavano delle notizie, sempre brutte: un ragazzo della mia scuola era stato ferito dalle schegge, anche una donna era stata ferita all’occhio dalle stesse schegge, una casa del villaggio era stata demolita, nel cortile di un’altra casa era caduta una bomba ma non era esplosa.

Una notte mio padre mi portò fuori dal rifugio. Mi fece vedere la nostra contraerea. Ho visto i nostri aerei, guidati dai nostri coraggiosi piloti, che cacciavano via gli aerei con le bombe. Da quella sera non ebbi più paura».

Nikola Kostic`,
Scuola «L. Negrelli»
di Rovereto, classe III d:
«Da quella sera
non ebbi più paura»

«Io avevo 10 anni e mio fratello 4. Mi ricordo quel giorno come fosse ieri. Giocavo a calcio con i miei compagni, quando abbiamo udito le sirene. Noi non sapevamo perché suonavano, ma abbiamo cominciato a correre verso casa. Quando siamo arrivati, la mamma non c’era. Era al lavoro. Allora io, il mio fratellino, mio zio e mia zia, andammo in cantina. Era tutto buio, perché non c’era energia elettrica. Si sentivano gli aerei sopra la testa e all’improvviso si udì un fragore, come di un tuono. In quel momento mi spaventai moltissimo.
All’inizio di giorno potevamo uscire a giocare, ma dopo cominciarono a bombardare anche nelle ore di luce e non potemmo più uscire. Alcuni bambini uscivano lo stesso, ma la mia mamma non ci lasciava, aveva troppa paura.

Il mio papà era in Italia, noi eravamo soli con la mamma: se ci fosse stato anche lui con noi, io avrei avuto meno paura. Adesso sono felice perché siamo qui in Italia tutti insieme. Vorrei che non si ripetesse mai più quello che abbiamo vissuto quando papà non era con noi».

Dajana Dupkarova,
Scuola media di Ala, classe II:
«La guerra è un gioco
pericoloso dei grandi»

«Io ho portato molti ricordi belli e felici dal mio paese e pochi brutti. Tra questi, l’avvenimento più brutto sono stati i bombardamenti della mia piccola Serbia. Quel periodo della mia vita fu pieno di momenti di paura, tristezza e dolore.

Mi ricordo il 24 marzo del 1999: a scuola, l’ultima ora, c’era ginnastica e la maestra ci portò nel cortile. I ragazzi giocavano a calcio e noi bambine incominciammo a parlare dei vicini bombardamenti in Serbia. Nel bel mezzo del nostro discorso, pieno di confidenze e preoccupazioni per quello che avevamo sentito dagli adulti, si udirono le sirene. Per un attimo pensammo che fosse un errore, ma le sirene aumentarono d’intensità.

«La guerra? Da noi? Le bombe? Cosa faccio adesso?», pensavo terrorizzata. I ragazzi smisero di giocare e ci radunammo intorno alla nostra maestra. Lei cercava di rassicurarci, dicendo che ci avrebbe accompagnato verso il cancello, perché dovevamo tutti andare a casa. Davanti alla scuola c’erano alcuni genitori. Noi di solito andavamo a scuola e tornavamo sempre da soli, anche i bambini piccoli, della prima elementare, ma quel giorno c’erano molti genitori davanti alla scuola, venuti a prendere i figli.

C’era anche mia mamma. Era terrorizzata, mi disse che era cominciata la guerra e che dovevamo andare nel rifugio. Il rifugio era una grande cantina piena di gente di tutte le età. I bebé e i bambini piccoli piangevano e i loro genitori cercavano invano di tranquillizzarli. Dopo circa un’ora, sentimmo nuovamente le sirene che ci avvisavano che il pericolo era passato. Quella prima sera, la mia città, Cacak, fu risparmiata.

Il giorno dopo, verso sera, di nuovo le sirene, il rifugio, la paura. Quella notte sentimmo un bornato che fece tremare la terra e frantumare i vetri delle finestre. Avevano colpito una fabbrica. I miei genitori ascoltavano sempre le notizie alla radio e alla Tv e mi dicevano che presto sarebbe finita. Io non vedevo l’ora. In quel periodo era il mio unico desiderio: non sentire più le sirene, non andare nel rifugio, non sentire le esplosioni che facevano raggelare il sangue dalla paura. Volevo andare liberamente a scuola (che era sospesa per la guerra), giocare con le mie amiche senza paura che ci interrompessero le sirene. Quando finalmente finì, dopo tre mesi circa, tutti eravamo felici.
La guerra è un gioco pericoloso dei grandi che hanno il potere, e che usano questo potere per togliere la gioia ai bambini di crescere nella libertà e nella pace. Nessun bambino al mondo dovrebbe provare quello che ho provato io in quei tre mesi mentre bombardavano il mio paese».

Dragan C`osic`,
Scuola elementare
di Noriglio, classe V:
«Ai signori delle bombe»

«Il 24 marzo 1999 era una giornata come tante altre: andai a scuola e durante l’ora di matematica imparai le sottrazioni; durante l’ora di serbo la maestra c’insegnò le nuove lettere; durante il grande intervallo giocai a pallone con i miei compagni. Toai a casa e non trovai né la mamma né il papà: erano andati dai nonni matei, che abitavano lontano da noi, a Smederevo. Dovevano restare da loro 10 giorni circa per aiutarli in qualche lavoro. Io e mio fratello eravamo rimasti a casa con i nonni patei. Quella sera bombardarono per la prima volta il mio paese e da allora tutto cambiò. La nostra casa si trovava vicino all’aeroporto, e la prima bomba cadde proprio là. Io ero confuso. Non sapevo cosa pensare, vidi un’enorme preoccupazione e paura negli occhi del nonno, anche se lui cercava di nascondere lo sguardo.

Il giorno dopo io e mio fratello andammo a scuola. Tutte le notizie erano sugli attacchi aerei e tutti i giorni si sentivano le sirene. Il loro suono assordante avvisava la gente di andare nei rifugi. Dopo un po’ di tempo, arrivava il rumore degli aerei che, come uno sciame di vespe, passavano sopra il nostro paese scaricando dall’alto le bombe.

Si udivano le esplosioni di giorno e di notte. Ma io in quei momenti non pensavo a noi. Pensavo alla mamma e al papà che erano lontani. Se avessi potuto almeno sentirli al telefono, ma le comunicazioni telefoniche erano interrotte. Io ero spaventato per loro. La paura che potesse succedere qualcosa a loro era più grande della paura delle bombe. Volevo che fossero accanto a me, che potessimo essere insieme, qualsiasi cosa accadesse. Alla fine i miei genitori riuscirono ad arrivare a casa. Non so come, perché non avevano voluto raccontarmelo. Provai un gran sollievo. I miei genitori erano con me e sapevo che mi avrebbero protetto.

Passavano i giorni, ma nessuno dei bambini usciva a giocare. Non andavamo a scuola e i contadini non lavoravano più nei campi. Non c’era neanche la Tv: mi spiegarono che l’avevano bombardata. Eravamo spesso senza luce e non sapevamo quanto sarebbe durato. Nel rifugio la mamma cercava di cantare o di raccontare storie allegre. Voleva distrarci, ma, quando tremava tutto per le esplosioni, il mio cuore cominciava a battere più forte. Di giorno la gente raccontava che cosa avevano visto e i loro racconti mi facevano impressione. Io so che i contadini del mio villaggio non avevano mai fatto del male ai signori che buttavano le bombe. Quelli venivano da lontano e io non capivo perché lo facevano.

Dopo più di due mesi una sirena annunciò che i bombardamenti erano finiti. Per la prima volta ero felice di sentire il suono della sirena. Finalmente potevo di nuovo correre all’aperto e giocare con i miei compagni. Anche se ero piccolo (avevo solo 7 anni), avevo capito quanto è importante essere liberi. Ho capito quanto ho bisogno dei miei genitori. Ho capito che cosa è veramente la paura. Vorrei che nessun bambino provasse quella paura. È difficile dimenticare. Ancora oggi, quando sento il rumore, di un aereo aspetto l’esplosione, ma passerà…

Un giorno non ci saranno più guerre e la gente vivrà insieme in pace, indipendentemente dal colore della pelle e dalla nazionalità. Allora il canto allegro dei bambini felici sarà l’inno di un mondo libero dalle guerre».

Ivana Vasiljevic,
18 anni, Rovereto:
«Ora gli aerei sono
nei cieli di altri paesi»

«Avevo 14 anni. Frequentavo l’ottava elementare (terza media). Tutti i giornali dicevano che la Nato minacciava di bombardare il nostro paese, ma nessuno ci credeva.
Quel martedì sera gli aerei sono partiti dall’Italia verso la Serbia. Siamo rimasti senza energia elettrica, tutta la mia città era nel buio. Abbiamo passato la notte in cantina, al buio, ascoltando dei rumori che arrivavano da fuori, con l’ansia che la bomba potesse cadere sopra la nostra casa. Ma le mete della Nato erano le fabbriche e i ponti.

Dopo alcune notti passate in cantina, la mia mamma ed io decidemmo di dormire in casa, nei nostri letti. Ci addormentammo. Ci svegliò un fortissimo scoppio, la mia camera fu illuminata come da un lampo. Sono saltata dal letto, e non sapendo dove andare, mi sono nascosta sotto il letto e ho cominciato a piangere. Arrivata la mattina sentii il telegiornale e vidi che quella notte era passata senza vittime, solo con la paura. Nelle altre città, invece, molti erano stati feriti dalle schegge.

All’inizio bombardavano solo di notte, e di giorno si poteva vivere quasi normalmente. Ma dopo bombardavano a tutte le ore, anche a Pasqua.
Quando tutto finì, provai un’immensa gioia, passeggiando la sera per le strade di Cacak con le mie amiche. Guardavamo il cielo sereno, i tramonti, le stelle, sapendo che non sarebbero più venuti gli aerei con le bombe.

Adesso quegli aerei si sono spostati sopra i cieli di altri paesi, e seminano lo stesso terrore e le stesse paure che avevo provato io, agli altri bambini. Perché?».

Ivana Tisot,
15 anni di Rovereto:
«Mamma, chi è che spara?»

«Io sono nata a Stivor, un piccolo paesino di trentini emigrati in Bosnia, vicino a Banja Luka, nel lontano 1888. Io, i miei genitori, e i miei nonni, matei e patei, siamo nati in Bosnia e amiamo quel paese.
Se non ci fosse stata la guerra, la nostra piccola comunità trentina sarebbe rimasta per sempre in Bosnia e adesso non sarei qui in Trentino.

Vivevo con i miei genitori, con le mie sorelle più grandi e i miei nonni in una fattoria, e avevamo molti animali, che mi rendevano felice; tutti tranne i tacchini di cui avevo una folle paura, perché mi correvano dietro. Ma una notte d’estate sentii una paura più grande di quella dei tacchini: io e la mia mamma eravamo nell’aia buia, rischiarata di tanto in tanto da moltissimi lampi che cadevano tutt’intorno alla valle illuminando il cielo tetro. La campana della chiesa suonava senza sosta. Insieme a noi c’erano la nonna, le mie sorelle e una zia.

Ricordo che parlavano, commentavano tra loro, e io non capivo cosa si dicevano, ma sentivo che erano spaventate. Allora mi spaventai anch’io e cominciai a piangere. La mamma cercò di calmarmi e io mi addormentai fra le sue braccia. Dopo un po’ mi svegliarono i frequenti spari che si udivano dal bosco.
«Mamma, chi è che spara?», le chiesi e lei mi guardò con occhi pieni d’apprensione. «Ci sono i cacciatori nel bosco», mi disse.

Sentivo che qualcosa stava cambiando: vendemmo le mucche e un po’ alla volta scomparirono anche gli animali. Anche il cane e la gatta scapparono. Il papà non c’era, era andato in Italia (adesso so che era andato lì per evitare di essere richiamato e mandato in guerra).

Un giorno, mia madre, le mie sorelle ed io dovevamo prendere una corriera, che doveva portarci in Italia, da papà. I nonni decisero di rimanere. Avevamo molta fretta e io dimenticai il mio orsacchiotto a casa. Me ne accorsi, mentre la corriera stava arrivando; cominciai a piangere così disperatamente, che la mamma decise di tornare a prendere il mio orsacchiotto, rischiando di perdere la corriera.

Il pullman era pieno di donne e bambini. Il viaggio fu lungo e scomodo, ma finalmente arrivammo in Italia.
Io cominciai a frequentare l’asilo, ma non subito potei giocare con gli altri bambini, perché non sapevo l’italiano: io capivo un dialetto che nel Trentino non si parlava più, e il serbo. All’inizio rimanevo in disparte. Imparai l’italiano velocemente e presto cominciai a correggere i miei genitori nel parlare.

Adesso, dopo 11 anni che sono in Italia, ho dimenticato quasi completamente la mia vecchia lingua e sono diventata una vera trentina, anche se continuo ad amare la mia vecchia patria. In Bosnia ho ancora una nonna e alcuni zii. La maggior parte dei miei parenti sono in Italia, a Strigno. Io vado tutte le estati a trovare mia nonna e i pochi parenti rimasti a Stivor, ma non toerò mai più a viverci. La vita di molti trentini è continuata là dove si era fermata nel 1888».

Snezana Petrovic




Vivere nella società multietnica

PROFUGHI NEL PROPRIO PAESE

Il mio lavoro nelle scuole trentine mi ha fatto tornare anche in quelle serbe, sempre come mediatrice interculturale. In Serbia non ci sono i mediatori, non ci sono neanche bambini stranieri, ma ho fatto la mediatrice interculturale fra i bambini serbi e quelli italiani che così hanno iniziato a scriversi.

A Belgrado mi aspettavano con impazienza e, ogni volta che andavo a visitarli, mi accoglievano con gioia. In accordo con il loro insegnante di serbo avevamo un’ora per i nostri amici italiani, per le nostre lettere, per la nostra conoscenza dell’Italia. Leggevamo ad alta voce tutte le lettere e poi loro facevano le domande, pieni di curiosità. Mi chiedevano della scuola italiana, del mio lavoro, dei bambini stranieri. Le scuole a Belgrado sono degli enormi palazzoni costruiti negli anni Cinquanta e da allora non sono cambiati molto. Le aule sono grandi, luminose, pulite, ma con poco materiale scolastico, piene di bambini chiassosi, ma molto silenziosi e disciplinati durante le lezioni.

Una volta chiesi loro: «Ci sono tra voi bambini venuti da lontano come nella mia città, Rovereto?». Si alzarono alcune mani. Erano bambini profughi, venuti dalla Croazia, dalla Bosnia o dal Kosovo. Anche loro erano «diversi» fra i loro compagni, anche se di stessa nazionalità. Erano i bambini portati via da una casa, da una scuola, dai compagni, con una esperienza dolorosa che nella scuola dovevano affrontare con le loro maestre. Durante i bombardamenti i bambini hanno perso quasi 3 mesi di lezioni.

Alcune maestre hanno in classe circa 35 alunni; molte volte non arriva neppure lo stipendio. I genitori di molti bambini sono in difficoltà economiche, ma la scuola va avanti perché le risorse umane riescono a superare molti ostacoli.

IL NUOVO «MURO DI BERLINO»

I ragazzi e i bambini del mio paese non possono viaggiare, perché per venire in Europa è necessario il visto. Per ottenere il visto servono molto tempo, fatica, soldi, e bisogna soddisfare innumerevoli ed umilianti richieste delle autorità degli stati europei.

Il «Muro di Berlino» non è stato abbattuto: è stato solo spostato. Per scavalcare quel muro, ho avviato una corrispondenza fra i ragazzi serbi e i ragazzi italiani delle scuole elementari, medie e superiori. Scambiando i pensieri, i desideri, i progetti per il futuro, facendo conoscere gli uni agli altri il proprio paese, non dai libri di testo e atlanti, ma come loro lo vedono, come ci vivono e come lo vorrebbero. Sono diventati amici che aspettano con impazienza la risposta dell’amico dall’altra parte del «muro» e quella amicizia tra loro spero riuscirà ad abbattere il muro dell’ignoranza, della diffidenza e del pregiudizio.
Quando è cominciata la guerra in Iraq, i ragazzi italiani avevano chiesto agli amici serbi che cosa si prova mentre ti cadono le bombe addosso, e loro hanno risposto. Abbiamo poi elaborato le testimonianze dei ragazzi serbi nelle varie classi delle scuole elementari, medie, e superiori, insieme agli insegnanti, con l’obiettivo di contribuire ad un’educazione alla pace. Mi ha colpito in modo particolare una frase di un bambino della scuola elementare: «Io so che le bombe che cadevano al mio paese partivano dall’Italia, ma so che i bambini italiani non c’entrano niente. Io voglio diventare tuo amico e aspetto con impazienza la tua risposta».
Queste lettere, dei bambini e ragazzi serbi e quelle degli italiani, per me sono un bene prezioso, perché mi hanno svelato un mondo meraviglioso dell’infanzia, che dà una speranza a questo mondo di cui tutti parliamo male. Mi danno speranza il loro ottimismo, la capacità di sdrammatizzare, di sperare, di perdonare.

LE RADICI DELL’UOMO

Tutti i ragazzi stranieri (in particolare, quelli venuti dal mio paese) sono «i miei alunni», perché tutto il mio lavoro è rivolto a loro: per integrarsi, ma soprattutto per non perdersi, per non perdere l’identità nazionale, la madrelingua, la religione (ortodossa, di solito).
La società multietnica avrà un sapore se gli esseri umani restano quello che sono, come Dio li ha fatti, tutti diversi fra di loro, e non come un miscuglio variopinto di individui, privi dei valori e delle tradizioni, che nonni e genitori si sono tramandati per secoli, ignoranti della propria storia. Senza radici, insomma.

Né la pianta né l’uomo possono durare a lungo senza una radice solida. Uno degli obiettivi di lavoro di un mediatore interculturale è rafforzare le radici, aiutando in questo modo i ragazzi (ma anche gli adulti) a trovare una sana integrazione.

Snezana Petrovic




AFRICA CENTRALE – Pigmei I «piccoli» signori

Ritoo agli albori della nostra umanità

E LA LUNA STAVA
A GUARDARE

Nel sud del Camerun vivono, isolati nella foresta,
i pigmei baka, ma per quanto ancora?
La deforestazione e la prepotente invadenza
dei bantu sta mettendo fine a questo meraviglioso mondo, distruggendo per sempre la cultura
e la storia del più antico popolo dell’Africa.

Gennaio-febbraio 2003.

…I canti cessano e il suono dei tamburi va sempre più affievolendosi fino ad arrestarsi del tutto. Sento dei passi che si allontanano, qualche rumore sordo ed infine cade il silenzio, la festa d’iniziazione è finita. Edjenghi, lo spirito, è ritornato nella foresta.
Mi guardo intorno, tutti si sono ritirati a dormire nelle minuscole capanne, illuminate dai bagliori delle braci. Un senso di pace e di tranquillità mi pervade, anche i lugubri rumori che echeggiano ogni tanto nella foresta, che cinge il minuscolo villaggio, mi sono diventati familiari.

Mi siedo a guardare quel piccolo lembo di cielo stellato, che spunta dalle alte cime degli alberi, e mi ritorna in mente la leggenda: «I padri dei nostri padri vivevano al bordo della grande acqua, dove gli animali erano numerosi. Poi un giorno venne il popolo nero, con lance e scudi di ippopotamo, e dissero che la terra era loro…

I nostri padri dissero: No! Non è vero! La battaglia incominciò e molti morirono.
Allora i nostri padri dissero: fuggiamo!
Le donne con i bambini partirono e i guerrieri li seguirono proteggendoli. I padri dei nostri padri dissero: abiteremo la foresta!».

C osì da più di cinquemila anni i pigmei vivono nella tenebrosa foresta, cacciando, pescando, raccogliendo quanto offre in un connubio armonico di perfetto equilibrio fra le risorse naturali e il solo fabbisogno giornaliero, senza accumuli e sprechi e, devoti al loro mondo-foresta, la ringraziano con danze e canti.
Ma il pericolo che li aveva minacciati migliaia di anni fa si è materializzato nuovamente ancora sotto la forma del «popolo nero», a cui si è aggiunta quella del «popolo bianco»; e questa volta non è rivolto solo alla loro esistenza, ma anche a quella della loro amata foresta.

Giro lo sguardo nel piccolo villaggio e provo un senso di tristezza. Perché deve finire tutto ciò? Perché le cose semplici devono soccombere? Perché non è possibile vivere senza distruggere?
Il pensiero ritorna al primo impatto con la foresta, quando con i miei compagni di viaggio decidiamo di andare a conoscere i baka, i pigmei che vivono nella parte meridionale del Camerun, sotto la riserva di Dija, verso il confine con il Congo.
Mi ricordo che, prima di entrare nella foresta, avevo alzato istintivamente la testa verso le cime degli alberi, e mi ero sentito piccolo, incredibilmente piccolo. I primi passi che mossi all’interno mi diedero la sensazione di oltrepassare un sipario che si apriva lentamente davanti a me, dove, a fatica, riuscivo a mettere a fuoco le cose che mi si paravano davanti, frastornato dalle mille gradazioni di verdi che sembravano velarle.
Provai la netta sensazione di avventurarmi verso l’ignoto e l’istinto mi fece girare di scatto, per fissare almeno il punto da dove ero entrato e avere quindi un riferimento certo; ma tutto era già scomparso: come Alice quando aveva attraversato lo specchio, anch’io ero entrato in un’altra dimensione. Un mondo umido, apparentemente inospitale, dove corsi d’acqua formano acquitrini, paludi, e danno vita a una selva sovrastata da giganteschi alberi, dalle cui cime filtra mollemente la luce del sole o scompare del tutto, lasciando uno stato di isolamento e di solitudine, che permea da tempo immemorabile ogni cosa.

Più mi addentravo e più provavo un senso di oppressione per la pesantezza della natura che mi circondava, oltre all’umidità dell’aria che mi riempiva i polmoni a ogni respiro.

Superato il primo impatto, quando la calma riprese il sopravvento e incominciai a mettere a fuoco le cose, a rilassarmi, a muovermi con più disinvoltura, allora mi resi conto di essere entrato in un mondo affascinante che mi riportava inevitabilmente all’enigmatica materializzazione dell’«altro», che è più o meno in noi: la suggestione del «come eravamo».

Il desiderio di conoscere i baka, «i signori della foresta», ci fa superare ogni ostacolo, ogni fatica, e la stanchezza svanisce davanti all’emozione del primo incontro, quando in una radura naturale, finalmente scorgiamo quattro enkulu, le tipiche casette a forma di igloo, e i loro ospitali e sorpresi abitanti.

Di una mitezza proverbiale, inclini al sorriso, curiosi ma riservati, ci accolgono permettendoci di allestire il campo fra le loro casette, di seguirli nelle loro attività, di condividere con loro la giornata.

I baka, vivono una vita semplice, atavica: la si vede subito dalle loro piccole abitazioni, fatte di rami e ricoperte di foglie impermeabili, che solo all’apparenza sembrano fragili, ma che resistono bene alle forti piogge cui sono sottoposte quasi quotidianamente. All’interno l’arredamento è minimale: un letto di canne, qualche stuoia, pochissime suppellettili, qualche pentola per cucinare ed il fuoco sempre acceso.
L’attività quotidiana degli uomini è la caccia. Lungo piste, a noi invisibili, percorrono la foresta, armati di balestre o lance, alla ricerca delle trappole disseminate, dove ignare finiscono prede come: gazzelle o piccoli caivori che, dopo essere stati affumicati, vengono tagliati a pezzi e racchiusi in larghe foglie.

Durante il loro giro di perlustrazione sono sempre attenti a ciò che li circonda, pronti ad approfittare di ogni occasione. Abilissimi a imitare i suoni da richiamo degli animali, sfruttano questa tecnica per avvicinarli e quindi ucciderli con le loro frecce avvelenate.
Mentre gli uomini si dedicano alla caccia o ad allestire le trappole, le donne, oltre ad accudire ai bambini, si recano nella foresta, con la gerla sulle spalle, a raccogliere tutto quello che trovano di commestibile, conoscendo alla perfezione tutte le proprietà delle piante e come utilizzarle.

Al villaggio le si vede ritornare cariche di radici, tuberi o banane verdi da cuocere e poi, sedute sotto ripari di foglie o davanti alla propria casa, a intrecciare stuoie o preparare la cena, usando grossi machete o pestelli.
La vita sociale, pur essendoci un capo villaggio, è governata da un sistema altamente democratico che si basa principalmente sulla meritocrazia. Non minacciano, non puniscono, non giudicano, perché ogni disputa viene ricomposta partendo dal presupposto che è meglio ristabilire l’armonia per il bene di tutti.

Abituati a vivere sull’essenziale e spostandosi frequentemente nella foresta, rifuggono dai soliti canoni estetici di vanità; unica eccezione è la limatura dei denti che appuntiscono, oltre a qualche piccolo tatuaggio o scarificazione sul volto o, come in alcune donne anziane, un piccolo foro sul labbro superiore segno di appartenenza a un particolare clan. E poi ci sono i canti, i balli, i festeggiamenti per la raccolta, per le iniziazioni.
Q uando i tamburi presero a suonare, fu come un segnale: i primi ad arrivare furono i bambini, poi le donne; gli uomini avevano già preso posto e preparavano gli iniziati.

Si disposero tutti in cerchio e incominciarono a cantare e danzare; il ritmo si fece sempre più frenetico e i canti più alti; poi calarono improvvisamente e restarono solo i tamburi e, da uno spiraglio della foresta, si materializzò Edjenghi lo spirito.

Una grande agitazione pervase i presenti che ripresero i canti e i balli, con gli occhi puntati sulla enorme figura che piroettava nel centro dello spiazzo, alzandosi e abbassandosi ritmicamente.
Mi allontanai e mi sedetti a fianco della mia tenda a osservarli, grato di avermi invitato alla loro festa, ma conscio che solo gli iniziati e la luna potevano partecipare.

Da Omero… al saccheggio della foresta

SCOMPARE UN PEZZO DI UMANITÀ

Piccoli: perché?

A ntropologhi e studiosi di genetica, già nel secolo scorso, cercarono di capire perché i pigmei erano «piccoli». La maggior parte era convinta che fossero privi dell’ormone della crescita. Il fatto si rivelò errato: l’ormone c’è; ciò che è carente, specie durante il periodo della pubertà, è un’altra sostanza biochimica contrassegnata con la sigla IGF-1 (Insuline-like Growth-Factor), peraltro oggetto ancora di studio.
La mescolanza della razza pigmea con quella dei bantu (generalmente sono gli uomini bantu che sposano le donne pigmee e non viceversa) danno vita a figli più alti, creando, se si può dire, una nuova classificazione etnica denominata pigmoide.

Da quanto tempo esistono?

Sono ritenuti fra i primi abitanti dell’Africa. La loro comparsa documentata risale al 3° millennio a.C., in un antico papiro ai tempi del faraone Neferkere, che ne volle uno a corte come ballerino. Coincidenza o no, il dio egizio della danza, Bes, è raffigurato come un nano.
Anche Omero, nel terzo canto dell’Iliade, li descrive nella battaglia con le gru, chiamandoli Pygmaios (alti un cubito). Nelle Metamorfosi di Ovidio, viene descritta la gelosia di Giunone per la regina dei pigmei, che verrà trasformata in gru.
Sempre nella mitologia, anche Ercole, durante le sette famose fatiche, si imbatte sulla costa mediterranea in un esercito di omuncoli. Descrizioni contrastanti e a volte fantasiose sulla esistenza, furono portate da Erodoto, Aristotele, Plinio. Nell’era cristiana sant’Agostino, nella Città di Dio, ammette, se pur vagamente, una loro esistenza.
Dal X secolo fino al XVII secolo si cade nell’oscurantismo della ricerca scientifica, per dare luogo a quella delle dissertazioni accademiche, che arrivano addirittura a equipararli a scimmie o a esseri deformi, che popolano il mondo sconosciuto; tipico il trattato di Giacinto Gimmi intitolato De hominibus et de animalibus fabulosis.
Solo verso la fine del 1800, con le prime esplorazioni nel grande continente africano, ci fu l’incontro «sul campo» con questa sorprendente etnia, uno dei primi fu il naturalista George August Schweinfurth.

Minaccia Continua

R elegati quasi nella preistoria, a volte messa in discussione perfino la loro esistenza, non riconosciuta una loro cultura, vissuti in secoli di isolamento, tutto questo scompare di fronte agli ultimi 50 anni di contatti con il resto dell’umanità.
Tali contatti iniziarono dapprima con i «grandi neri» bantu, sotto forma di baratto: scambiavano selvaggina con sale, tabacco, granaglie e altri beni. Quindi sono caduti nella spirale della dipendenza, foendo manodopera di tipo feudale agli agricoltori neri, in cambio di inutili vestiti e di alcolici, dando via a un inizio di sedentarizzazione non loro congenito.
Inoltre, l’invadenza e vicinanza sempre più soffocanti dei bantu incide profondamente sulla vita spirituale e materiale, tradizioni e libertà di questo piccolo popolo della foresta.
Ma c’è anche l’incontro con il «popolo bianco», interessato a soddisfare i bisogni di pregiato legname per costruire mobili o pavimenti da calpestare. E così incomincia, o meglio, è già in atto la deforestazione, quindi la distruzione del mondo dove vivono, emarginandoli anche fisicamente.

Dio nell’arcobaleno
T utta l’espressione culturale dei pigmei è permeata da una profonda spiritualità, che si manifesta con la danza, i canti e i riti. Essi riconoscono l’esistenza di un Dio creatore di tutte le cose: Komba presso i baka, Nzambe presso i bakola/bayeli, Kmvum per i bambuti. Generalmente Dio si manifesta sotto la forma dell’arcobaleno.
Parallelamente esistono una moltitudine di piccole divinità o spiriti della foresta, ai quali essi si rivolgono per tutte le loro imprese: caccia, pesca, raccolta del miele, danza, musica, riti.

Le aree di distribuzione
O ggi i pigmei vivono nell’immensa foresta tropicale, più precisamente in otto stati dell’Africa: Burundi, Camerun, Congo, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centroafricana, Repubblica Democratica del Congo, Rwanda.
Tale dislocazione contribuisce alla differenziazione di vari aspetti culturali, per cui essi si distinguono in diverse etnie:
– bambuti nel Congo, a loro volta suddivisi a seconda della lingua parlata in aka, afe, awa;
– bongo nel Gabon;
– baka, detti anche babinga, nel Camerun.

Oggi in Camerun si distinguono tre grandi gruppi di pigmei:
– i baka, circa 40 mila, occupano il sud e sud-est del paese;
– bakola o bayeli vivono nella parte sud-ovest e sono stimati in circa 3.000 individui;
– medzam, appena 1.500, sono nella piana di Tikar, nel centro del Camerun.
Tristemente possiamo dire che un nostro stadio di calcio li contiene tutti.

Bruno Bocchi




A Fatou manca la ricetta

Storie di malati e malattie nel Sud del mondo
In un ospedale africano:
«Per favore, dottore, niente anestesia locale.
Io ho i mezzi: mi faccia un’anestesia d’importazione».
(Serge Latouche, La fine del sogno occidentale)

Presentazione
SALUTE?
Dovrebbe essere un diritto universalmente riconosciuto. Non è così.
Nei paesi del Sud si muore di Aids, tubercolosi, malaria,
ma anche di morbillo e altre patologie normalmente curabili.
Intanto, in quelli del Nord…

Nei paesi occidentali il progressivo smantellamento
dei sistemi sanitari pubblici sta producendo
un sistema all’americana: soltanto chi può
permetterselo avrà le cure migliori. Sarah Delaney,
una giornalista statunitense, ha raccontato (1) la vicenda
di un amico riemerso da un coma profondo:
«Adesso, dopo circa un mese di cure dagli esiti incoraggianti,
il suo tempo è scaduto: la sua assicurazione
(privata) ha deciso che 30 giorni potevano bastare
e dall’ospedale l’hanno rispedito a casa. La sua
famiglia non può permettersi di pagare le costose cure
di cui avrebbe bisogno ancora per un anno. (…)
Negli Usa, l’assistenza sanitaria può essere eccellente,
ma solo per chi se la può permettere».
Se al Nord il problema è soprattutto di qualità, al Sud
è ben più grave. Nella quasi totalità dei paesi del Sud,
soprattutto in quelli dell’Africa (ma anche in America
Latina e in Asia), un servizio di sanità pubblica universale
e gratuito non è mai esistito. «Sono stanco di
vedere – ha denunciato James Orbinski di Medici
senza frontiere (2) – donne, bambini e uomini morire,
mentre so che un trattamento efficace esiste e potrebbe
essere alla loro portata. Sono stanco di constatare
come il profitto abbia sempre la meglio sul
diritto alla salute. Non ne posso più della logica per
cui chi non può pagare, muore».
«Mancava – si legge nel libro di Andrea Moiraghi (3)
– solo un’ulteriore tragedia che, puntualmente, è arrivata:
l’Aids. La sindrome da immunodeficienza acquisita
(…) è la nuova malattia dei poveri e sta causando
in Africa la più devastante epidemia che l’umanità
ricordi: il numero dei contagiati è tale che
intere generazioni di africani rischiano di scomparire.
Ma questo in Africa, non nei paesi occidentali, dove
l’infezione è relativamente sotto controllo, grazie
a costosissimi farmaci, inavvicinabili alla stragrande
maggioranza degli africani; tant’è che all’equatore è
nato questo slogan: “Il Nord del mondo produce i farmaci
e il Sud produce Aids”».
Si stima che ogni giorno 15.000 persone contraggano
l’Aids. La Sars, la polmonite atipica individuata
da Carlo Urbani, è a 6.500 casi mondiali in 3 mesi.
Il vaccino non c’è ancora, ma è già guerra (mondiale)
per i brevetti. Avvenne così anche negli anni
Ottanta per il virus Hiv, ma allora la guerra fu circoscritta
a due contendenti: l’équipe dello statunitense
Robert Gallo e l’Istituto Pasteur di Parigi. «L’argomentazione
– scrive Paul Benkimoun (4) – è chiara:
senza brevetti, niente profitti; senza profitti,
niente ricerca e sviluppo. Se non si colloca su un piano
etico, il ragionamento non fa una grinza, anche
se sarebbe necessario dimostrare che le aziende farmaceutiche
compiono effettivamente sforzi considerevoli
per coprire i costi di ricerca e sviluppo. In
realtà, dai bilanci pubblicati dai grandi laboratori
emerge che questi spendono una quantità di denaro
nettamente superiore per il marketing, la pubblicità
e le spese di gestione che per la ricerca e lo sviluppo,
mentre i profitti ammontano a cifre impressionanti».
Chissà cosa avrebbe detto e scritto Carlo Urbani sulla
corsa al deposito dei diritti sulle scoperte che riguardano
la Sars…
Per concludere, mi si conceda un piccolo ricordo
personale. Nel lontano 1988, con Carlo Urbani,
sua moglie Giuliana e altri amici facemmo un viaggio
in India del Nord e Nepal. Al ritorno in Italia Carlo
fu subito ricoverato per febbre tifoide. Già allora
egli aveva la volontà di conoscere luoghi, culture e
soprattutto persone ben al di là del consueto. Fino
al punto di prendersi una malattia tipica del luogo.
In questo dossier ritroverete alcuni vecchi articoli di
Carlo, pubblicati nell’ambito di «COME STA FATOU?»,
la rubrica che MC gli aveva affidato. Ora, in ricordo
dell’amico e collaboratore prematuramente scomparso,
noi abbiamo inventato il «PREMIO GIORNALISTICO
DOTTOR CARLO URBANI» che, al contrario di altri
concorsi, invece di distribuire riconoscimenti in denaro,
manderà i vincitori… a esercitare la loro professione
di medici.
Proprio là, dove l’«assenza di salute» è prassi quotidiana.
PAOLO MOIOLA

(1) Su Internazionale del 27 settembre 2002.
(2) Riportato in «Accesso ai farmaci», dossier di Msf – Italia
(si veda in bibliografia).
(3) Andrea Moiraghi, Pole pole, 2003 (in bibliografia). Segnaliamo
che lo scorso 26 maggio l’Unione europea ha
approvato una nuova regolamentazione che dovrebbe permettere
alle aziende farmaceutiche di vendere nei paesi
poveri i medicinali contro Aids, malaria e tubercolosi a
prezzi inferiori.
(4) Paul Benkimoun, Morti senza ricetta (in bibliografia).

Dove povertà e malattia
si generano a vicenda

di Carlo Urbani
(gennaio 1999)

Nel corso degli ultimi anni
si è assistito ad un
miglioramento globale della
salute delle popolazioni.
Tuttavia resta ancora
elevatissimo il numero di
individui, soprattutto nei
paesi della fascia
intertropicale, che non hanno
accesso alle cure sanitarie, e
lo scarto tra poveri e meno
poveri si è ulteriormente
approfondito.
Secondo l’Organizzazione
Mondiale della Sanità (OMS),
2 miliardi di individui vivono
nella povertà, e di questi 700
milioni vivono in situazioni di
estrema precarietà. Per queste
persone l’accesso a servizi
sanitari e a cure mediche non
è assolutamente assicurato,
quando addirittura
impossibile. La povertà genera
malattie, attraverso la
mancanza di igiene, strutture
sanitarie e adeguati
trattamenti, educazione. Per
questo in
molti paesi
l’attesa di
vita alla
nascita non supera i
50 anni, e sono malnutrizione
e tutta una serie di malattie
tropicali a compiere la
decimazione soprattutto nei
primi anni di vita.
Nel 1977 i governi e l’OMS
nell’Assemblea generale
hanno fissato l’obiettivo di
garantire la salute per tutti i
popoli del mondo entro l’anno
2000. Purtroppo tale
traguardo sembra ancora ben
lontano, e addirittura in
alcune aree si è assistito ad
un deterioramento della
situazione sanitaria e della
qualità della vita.
Per chi vive in un paese
sviluppato è in genere
difficile immaginare la
situazione nella quale la gran
parte dell’umanità vive nei
paesi in via di sviluppo. E di
molte delle
malattie più
diffuse al mondo
si sa quasi nulla,
spesso anche il nome
suona del tutto insignificante,
come avitaminosi,
schistosomiasi, dracunculosi,
dengue, e così via. Si
impiegano nel mondo risorse
enormi per la ricerca sul
cancro, o le cardiopatie, o le
malattie vascolari, ma non
tutti sanno che non è per
queste malattie che la
maggioranza dell’umanità
soffre e muore.
In questa rubrica, attraverso
brevi resoconti di giornate
di lavoro in alcuni paesi
tropicali, ci racconteremo
qualcosa che riguarda la
salute, o meglio l’assenza di
salute, in questo mondo dei
più sfortunati, dove povertà e
malattia si generano a
vicenda.

Pcome parassiti
I PARASSITI DEL MEKONG
Troppi bambini cambogiani hanno la «pancia grossa» o addirittura la
cirrosi epatica. Basterebbero 180 lire contro la schistosomiasi, ma…
Viaggio in un paese stremato dalla guerra civile e dalla povertà.
di Carlo Urbani
(gennaio 1999)

L’ATR72 della «Royal Air
Cambodge» sfiora con il
carrello le cime di alcuni
alberi. Dopo aver posato rumorosamente
le ruote sulla corta pista in
terra battuta, le turbine frenano
con un ruggito la corsa dell’aereo.
Un’ora abbondante di volo ci ha
portati all’aeroporto di Stung
Treng, nel nord-est della CAMBOGIA,
dove il Sesan e il Sekong si versano
nel Mekong, a circa 40 chilometri
dalla frontiera con il Laos.
Pochi minuti prima, seduto vicino
al finestrino, osservavo il paesaggio
sotto di me e, nei varchi tra
i cumuli di condensa tipici di quell’ora,
intorno a mezzogiorno, scorrevano
lentamente risaie, foreste e
fiumi. Il corso del Mekong, visto
dall’alto, lascia immaginare l’imponenza
di questo fiume, che disegna
ampie curve nel verde intenso
della vegetazione. A stento si possono
vedere i piccoli villaggi sulle
sue sponde, giusto una linea di
quadratini di un altro colore, tra
cui è magari identificabile il tetto
variopinto di una pagoda. Ed è difficile
immaginare in questo stupendo
quadro quante incredibili
atrocità siano state consumate, e
quanta sofferenza sia nascosta sotto
quegli alberi. Il verde intenso
della foresta a tratti scompare, per
lasciare il posto ad ampie macchie
grigiastre, testimonianza della
deforestazione selvaggia che incombe
nella regione.
Ora, sbarcati nell’aeroporto di
Stung Treng, ci prepariamo a risalire
un tratto del Sekong, per andare
a visitare gli abitanti di un gruppo
di villaggi più a monte. Poco più
tardi stiamo già scivolando sulle acque
blu e perfettamente lisce del
fiume, tra due pareti di impenetrabile
verde. Con me viaggiano due
medici e due microscopiste cambogiani.
Trasportiamo farmaci e
materiale di laboratorio.
Sulla piroga sventola la bandiera
di Médecins Sans Frontières
(MSF), che dal 1993 cerca di
far fronte in questa regione al grave
problema della schistosomiasi.
Oggi stiamo andando a verificare
la presenza della malattia in una zona
molto remota, ed eventualmente
distribuire il farmaco che trasportavamo,
il praziquantel.
La schistosomiasi è uno dei problemi
sanitari più importanti dei
paesi della fascia intertropicale, e la
forma diffusa lungo il fiume
Mekong è una delle più gravi. In
Cambogia le dimensioni del problema
sono state comprese solo di
recente, grazie all’intervento di
MSF che ne ha identificato l’area
più colpita e ha messo in opera delle
misure di controllo. In molti villaggi
lungo il Mekong i segni della
malattia sono drammaticamente
evidenti.
Gran parte dei bambini soffrono
di dolori addominali cronici, emettono
feci con sangue e muco, il loro
addome si gonfia progressivamente
per l’ingrossamento di milza
e fegato, ed a partire dagli anni
dell’adolescenza sviluppano i primi
sintomi della cirrosi epatica, la
stessa malattia che colpisce gli alcolisti.
Si forma acqua nella pancia
(ascite), si gonfiano le vene sulla superficie
dell’addome e si formano
varici nell’esofago. Negli stadi
avanzati della malattia il soggetto è
estremamente emaciato, sofferente,
con una enorme pancia, gambe
magre ed edematose, fino a che la
rottura delle varici esofagee e la
conseguente emorragia ne causa il
decesso. Coloro che sono infettati
da molti parassiti hanno anche un
arresto della crescita e dello sviluppo
sessuale, così che l’età apparente
trae spesso in inganno e un
ventenne può essere facilmente
preso per un bambino di 11-12 anni.
La schistosomiasi è causata da
un piccolo verme che vive nelle vene
intorno alla parete dell’ultimo
tratto dell’intestino. Se le uova prodotte
con le feci arrivano nelle acque
del fiume, si schiudono e liberano
un piccolo organismo che,
nuotando, viene attirato particolarmente
da un certo mollusco, una
piccola conchiglia che vive nelle
fessure delle rocce semisommerse
nel fiume. All’interno della conchiglia
il parassita matura e forma una
piccola larva. Questa lascia la conchiglia
e si libera nelle acque del
fiume. Se entra in contatto con la
pelle umana, è in grado di perforarla
ed attraversarla. Una volta penetrato
il parassita si lascia trasportare
dal sangue e, dopo un
complicato percorso, raggiunge la
sede definitiva del suo sviluppo,
appunto le vene intorno all’intestino,
per diventare adulto.
Il problema principale è causato
da quelle uova che, prodotte dalla
femmina, non riescono a mescolarsi
alle feci come previsto, ma vengono
portate via dalla corrente sanguigna
nelle piccole vene dove i
vermi vivono. Queste uova finiscono
intrappolate nel fegato, causandone
l’ingrossamento, la fibrosi, e
poi la cirrosi. Questo fa ingrossare
la milza e fa aumentare la pressione
del sangue nella vena porta.
Questa «ipertensione» causa l’ascite
e la formazione di varici esofagee.
Più sono numerosi i vermi adulti,
più grave è la malattia. Ne deriva
che solo i soggetti continuamente
esposti a nuove infezioni sviluppano
gravi sintomi. Essere esposti all’infezione
significa avere molti
contatti con l’acqua del fiume, nelle
zone dove ci sono quelle conchiglie
e dove nelle acque finiscono le
feci umane. In zone disabitate la
trasmissione non può esistere. E
chi ha più contatti con il fiume? Basta
arrivare in un villaggio per capirlo.
La nostra piroga quel pomeriggio
è arrivata a Sdau, un
villaggio di un migliaio di abitanti,
lungo il Sekong. È quasi il tramonto:
i colori del fiume e del cielo
sono stupendi. Spento il motore
dell’imbarcazione per arrivare dolcemente
sulla riva, piombiamo in
un piacevole silenzio, nel quale è facile
sentire le grida dei bambini che
giocano poco lontano, tutti immersi
nell’acqua del fiume… vicino le
rocce dalle quali si tuffano. Ecco il
primo bersaglio della malattia: i
bambini.
Il loro contatto con l’acqua del
fiume è importante. È forse l’unico
gioco disponibile e offre un piacevole
ristoro nell’afa soffocante. E
poi correre nei campi non è, forse,
così raccomandabile… in un paese
con una delle più alte concentrazioni
al mondo di mine antiuomo!
Poco più vicine alla riva le sorelle
più grandi, sedute sulle rocce semiaffioranti,
a lavare i poveri panni
o intente a sciacquare gli umili
utensili domestici: un cesto di
bambù, un mestolo, o qualche ciotola.
E sulla riva qualche bambino
più piccolo, che fa la cacca nel fiume.
Una scena normale lungo un
fiume tropicale, ma è questo il ritratto
della trasmissione della schistosomiasi.
Bambini infetti fanno
la cacca, dove probabilmente ci sono
delle uova di schistosoma. Poco
lontano le rocce ospitano la conchiglia
che fa diventare infettante la
larva, e nella stessa zona altri che
nuotano, ed il cerchio si chiude. Incuriositi
dal nostro arrivo i bambini
escono all’asciutto, mostrando i
loro enormi ventri, costellati di tante
piccole cicatrici. Ci accompagnano
silenziosi lungo il sentirnero
che sale al villaggio.
Girando nelle case, palafitte di legno
o di bambù per i più poveri, incontriamo
altri bambini, quelli che
non hanno abbastanza forza per
andare a schiamazzare nel fiume.
Sono seduti sulla scala che sale al
piano rialzato, con lo sguardo più
triste degli altri, e la pancia ancora
più grossa. Alcuni adulti sanno che
quei bambini sono malati di qualcosa
che ha a che vedere con il fiume,
ma sanno anche che per loro,
gli abitanti di Sdau, come per quelli
di tantissimi altri villaggi in Cambogia,
non ci sono cure. L’ospedale
più vicino è a due ore di piroga,
e poi bisogna pagare le medicine, e
quassù soldi non ce ne sono. Non è
facile avvicinare le persone, tutti
sembrano diffidenti, ed anche un
po’ spaventati. La strategia del terrore
fa ancora sentire il suo alito in
Cambogia. In questi villaggi è facile
morire anche per molto meno:
basta una diarrea o una polmonite,
quando poi non si accanisca su
questa gente una epidemia di febbre
emorragica o di malaria. Le
donne partoriscono nelle loro capanne
senza alcuna assistenza sanitaria
ed in precarie condizioni igieniche.
Ci dicono che a volte i bambini
muoiono vomitando sangue
(la rottura delle varici esofagee).
Nonostante l’evidenza decidiamo
di esaminare alcuni campioni di feci
per confermare la presenza della
malattia.
Intanto do un’occhiata al resto
del villaggio, mentre penso a
cosa servirebbe per restituire la
salute a queste persone. Sono colpito
dalla loro povertà. L’unico bene
che custodiscono in casa è una
piccola riserva di riso e qualche
utensile. Nella «passeggiata» mi accompagna
Huong, silenzioso ragazzino
con una fionda appesa al
collo, un viso pallido e affilato, ed
un enorme ventre che lo obbliga a
camminare con la schiena curvata
indietro, come una donna alla fine
della gravidanza. Mi osserva curioso
e, dal modo di sorridere, sembra
evidente che si aspetta qualcosa da
me.
Passiamo la notte nel villaggio,
rassicurati dagli abitanti che ci mostrano
i loro AK47, con i quali ci difenderebbero
dai khmer rossi. Al
mattino cominciamo a distribuire il
farmaco. Verrebbe voglia di curare
anche tutte le polmoniti, congiuntiviti,
anemie e quanto altro scorre
sotto i nostri occhi. Purtroppo,
quando le risorse sono carenti, occorre
stabilire delle priorità e la
schistosomiasi, per la grave malattia
e la mortalità che ne derivano,
qui a Sdau rappresenta una priorità.
Distribuiamo la dose di praziquantel
ad ogni abitante. In queste
situazioni costa meno trattare tutti
che esaminare tutti e trattare solo le
persone infette. È una delle regole
in simili programmi di sanità pubblica
nei paesi in via di sviluppo.
Huong vuole essere il primo
a ricevere la medicina, e rimane
vicino a noi ad assistere
al trattamento degli altri del
villaggio. Si fa anche fotografare orgoglioso
del suo ventre enorme. La
medicina tradizionale di queste regioni
tratta il dolore addominale facendo
delle piccole bruciature con
dei tizzoni ardenti sulla pelle. Per
questo le pance di chi ha la schistosomiasi
qui sono piene di cicatrici:
sono le bruciature che i bambini
crescendo accumulano, ogni
volta che si lamentano dei loro dolori.
Purtroppo chi è già gravemente
malato non beneficia del
trattamento: la cirrosi del fegato è
una malattia irreversibile.
Trattae i sintomi per allungare
la sopravvivenza è possibile, ma tali
trattamenti sono completamente
fuori della portata di chi vive in villaggi
come Sdau. Dopo due giorni
lasciamo il villaggio, con almeno un
problema in meno, ma allontanandoci
lo immaginiamo sprofondare
di nuovo nell’isolamento e nella
mancanza totale di cure mediche.
In zone come queste la schistosomiasi
interessa anche l’80% dei
bambini, e il trattamento costa 12
centesimi di dollaro: circa 180 lire.
Ma moltiplicare le 180 lire per le decine
di migliaia che aspettano di essere
trattati fa diventare il costo insostenibile
per il paese, e poi la mancanza
di infrastrutture ne rende
difficile la distribuzione, e negli
ospedali non c’è personale formato
per controllare la distribuzione del
farmaco e l’evoluzione della malattia,
e ancora in molte aree l’accesso
è difficile a causa dell’insicurezza:
khmer rossi, banditi, anche gli infermieri
cambogiani hanno paura
ad andare in certe zone. Così un
problema in apparenza semplice diventa
in realtà difficile in paesi (e
non sono pochi) come la Cambogia.
Quando, sei mesi dopo, torniamo
a Sdau, Huong è già
morto, ma in tanti altri l’infezione
è scomparsa. L’infermiere
che ci assisteva sa ora riconoscere
agevolmente i malati attraverso i
sintomi. E la gente è un po’ più fiduciosa.
A piccoli passi il programma sta
dando i suoi frutti. Dopo tre anni
di attività, in molti villaggi le «pance
grosse» stanno scomparendo,
ma ne restano altri in attesa. Di un
po’ di salute e pace. E magari di
una piroga di Msf.

B come bambini
SE I BAMBINI
URINANO ROSSO

Può un’opera idrica aggravare un problema sanitario?
Sì, purtroppo…
Viaggio tra i piccoli malati di uno sconosciuto paese africano.
di Carlo Urbani
(marzo 1999)

Da Nouakchott a Rosso –
Scendiamo verso sud sulla
strada asfaltata che unisce
Nouakchott, capitale della MAURITANIA,
alla frontiera con il Senegal,
segnata dal fiume omonimo. Duecento
chilometri di asfalto, a tratti
completamente inghiottito da alte
dune che si muovono secondo il
vento, sommergendo palmeti e pali
del telegrafo.
Dopo un viaggio di 4 ore si arriva
a Rosso, capoluogo della regione
e posto di frontiera. Qui la sabbia
del deserto, solo punteggiata da
una timida vegetazione di arbusti e
palmeti, incontra le acque del fiume
Senegal. Di Rosso colpisce la
povertà e la desolazione di una
sconfinata bidonville, dove migliaia
di persone vivono (o meglio sopravvivono)
in piccoli ripari di teli
di plastica o sotto latte. In questa
zona negli ultimi 3 anni i medici del
locale ospedale riferiscono un netto
incremento del numero di bambini
che urinano sangue.
Urinare sangue in Africa è sinonimo
di schistosomiasi urinaria,
una varietà dell’infezione dovuta
ad una specie del parassita che vive
nelle vene intorno alla vescica,
causandone alterazioni che portano,
tra l’altro, alla presenza di sangue
nelle urine.
In questa zona fino a 2-3 anni fa
la schistosomiasi urinaria, pur già
presente, non sembrava costituire
un grosso problema. Ora in alcuni
villaggi lungo il fiume pressoché
tutti i bambini urinano rosso, e da
alcuni mesi alcuni hanno anche
sangue e muco nelle feci, un segno
di schistosomiasi intestinale, finora
sconosciuta nella regione.
Sull’altra sponda del fiume, in
Senegal, sta accadendo la stessa cosa
e la situazione sanitaria costituisce
ormai una seria emergenza. Cosa
sta succedendo? Da circa 8 anni
è entrata in funzione una grossa diga
poco più a valle di Rosso. Le
modificazioni chimico-fisiche delle
acque del fiume hanno notevolmente
favorito la diffusione dell’infezione,
agevolando lo sviluppo
della conchiglia necessaria al parassita
per maturare.
Questa conchiglia vive attaccata
ad alcune piante acquatiche, che
proliferano semi-sommerse sulle
sponde dei corsi di acque dolci in
ambiente tropicale. Prima della diga,
quando il livello del fiume, seguendo
l’alternarsi delle stagioni,
variava notevolmente tra stagione
secca e piogge, queste piante non
avevano vita facile e, in genere, seccavano
nei mesi in cui il livello dell’acqua
del fiume scendeva.
Ora, invece, si è creato un nuovo
variegato e diffuso ambiente favorevole
al loro sviluppo. Infatti il fiume,
alzandosi di livello, ha portato
l’acqua nei canali o piccoli laghetti
di ogni villaggio, formando piscine
naturali usate per lavare, lavarsi e
soprattutto giocare. Ora il livello è
costante per 12 mesi l’anno e la vegetazione
cresce rigogliosa. Così in
queste acque la trasmissione del
parassita è ormai altissima e l’infezione
si è diffusa raggiungendo livelli
impressionanti.
Andiamo a visitare una scuola
a Rosso. Spiegata agli insegnanti
la ragione della visita,
questi ci accompagnano a incontrare
una classe. La scena è
comune alle migliaia di scuole dei
paesi più poveri dell’Africa subsahariana.
I bambini sono ordinatamente
seduti in terra, perfettamente allineati,
con una piccola lavagna sulle
gambe e un gessetto per scrivere.
La parete di fronte, tinteggiata di
nero, è piena di scritte e disegni
esplicativi. Chiediamo ai bambini
chi di loro ha visto la propria pipì
di colore rosso. Una buona metà,
dopo le prime esitazioni, alza la mano
con un timido sorriso. Il maestro,
non soddisfatto, insiste, dicendo
che la pipì rossa non costituisce
motivo di vergogna. Così un
altro gruppetto si unisce ai primi.
Restiamo a lavorare nella scuola
per tutta la giornata. Dopo aver
esaminato con una tecnica di filtrazione
ed esame al microscopio
campioni di urine di tutti i bambini,
confermiamo l’allarmante dato.
In un villaggio poco lontano da
Rosso, Boghè, troviamo una zona
dove tutti i bambini hanno ematuria
(sangue nelle urine) e, poiché ce
l’hanno tutti, nessuno si ritiene malato.
Considerando che i bambini
iniziano ad infettarsi quando passano
parte del loro tempo a giocare
nell’acqua, quindi verso i 5-6 anni,
e che la malattia impiega qualche
anno prima di determinare
sintomi importanti, è intorno alla
pubertà che i bambini cominciano
a sviluppare una ematuria visibile
ad occhio nudo. Questo fa sì che
molti, nelle popolazioni residenti
nelle aree endemiche, ritengano
che le urine rosse siano un segno
della avvenuta o incipiente maturità
sessuale, un po’ l’equivalente
delle mestruazioni nelle femmine!
Ma purtroppo non si tratta solo di
una questione di colore.
Anzitutto la perdita di sangue
contribuisce all’anemia. In queste
regioni la malnutrizione, la malaria,
ed alcuni vermi intestinali costituiscono
già importanti fattori di rischio
per l’anemia, e il sanguinamento
dovuto alla schistosomiasi
non fa che aggravare il quadro clinico.
Ricordo di aver visto bambini
seduti in un’aula scolastica (che
qui significa sul pavimento) risultare
avere 4 gr. di emoglobina per
decilitro di sangue (i valori normali sono tra 12 e 14, e l’OMS giudica
anemico un bambino quando il
livello scende ad 11). Un’anemia
così grave costituisce una seria malattia,
mettendo in pericolo la vita
stessa.
Ci spostiamo a Tonguene,
un piccolo villaggio
che vive prevalentemente
della
coltivazione della
menta, richiestissima
al mercato di
Rosso per la preparazione
del tipico
thè mauro, e di ortaggi,
prevalentemente
pomodori, melanzane, patate
e okra.
Il villaggio è costituito da un
grappolo di casupole addossate su
un dolce pendio ad anfiteatro. Nella
piccola valle centrale, un tempo
terreno sabbioso dove pascolavano
le capre, ora si è formato un laghetto,
in connessione con il
bacino del fiume aumentato
di livello per la costruzione
della diga.
Questo marigot è considerato
dagli abitanti
una vera miniera: con
l’acqua trasportata nei
catini sul capo delle
donne si innaffiano gli
orti, si cucina e tutti i bambini passano
interminabili ore a sguazzare
felici nelle sue acque.
La sera al tramonto, sotto due
fromagers che si protendono sulle
sue acque, le donne si raggruppano
per lavare le vesti, i bambini più
piccoli e loro stesse. Tutto sembra
andare per il verso giusto, sennonché
da alcuni mesi sono sempre più
numerose le donne di Tonguene
che si recano a piedi all’ospedale di
Rosso, per portare i loro figli stanchi,
inappetenti, che lamentano talvolta
bruciore a urinare. La diagnosi
è facile: è sufficiente guardare
il colore delle loro urine.
Così capita che un anziano del
villaggio guardi con preoccupazione
quel laghetto e dica che «tutto
questo progresso» lo riempie di
preoccupazioni!
Come porre rimedio al problema
della schistosomiasi in
Mauritania? Occorre formare
il personale sanitario per metterlo
in condizione di conoscere la
malattia e saperla trattare, ed educare
la popolazione riguardo ai sintomi
e alle possibilità di guarigione,
qualora sia assunto un determinato
farmaco. Nelle scuole si deve insegnare
ai bambini a non urinare
nel fiume: meglio in brousse, nella
savana, se non ci sono latrine. E poi
altre strategie, ormai sperimentate
e certamente efficaci nel controllare,
se non l’infezione, almeno la
malattia.
Il problema è sempre lo stesso,
un ritornello noioso che interrompe
spesso i progetti di sviluppo a
queste latitudini: la mancanza di
danaro.
In Mauritania problemi come la
schistosomiasi sembrano insormontabili,
e solo il supporto di un
donatore esterno (in genere, organizzazioni
inteazionali o un governo
o una Ong) può permettee
la gestione. Proprio in queste
settimane nella regione di Rosso,
compreso il villaggio di Tonguene,
grazie al supporto di una fondazione
tedesca e dell’OMS, è iniziata la
distribuzione di praziquantel, un
farmaco efficacissimo nel curare
l’infezione. Ma per molti altri villaggi
in altre regioni o paesi le urine
resteranno rosse a tempo indeterminato.

F come farmaci
PRIMA IL PROFITTO,
POI LA SALUTE

Le multinazionali farmaceutiche investono nei settori dove maggiore
è la possibilità di guadagnare, indipendentemente dai bisogni.
I brevetti sono ostacoli insormontabili. Insomma, i farmaci sono
trattati alla stregua di un qualsiasi altro prodotto.
Questa politica comporta gravi conseguenze per una larga fetta
dell’umanità.
Carlo Urbani

(febbraio 2000)

Un pomeriggio di ottobre del
1999, nella Cambogia nordorientale.
Stiamo percorrendo
una pista che costeggia il fiume
Mekong, risalendone il corso.
Andiamo a verificare lo svolgimento
di un programma di controllo
delle malattie parassitarie, gestito
dal ministero della sanità con
il nostro supporto tecnico. Il programma
sembra andar bene, e siamo
orgogliosi di aver abbattuto i
tassi di mortalità per queste malattie
nella regione.
Decidiamo di concederci una sosta
per sgranchirci un po’ e bere
dell’acqua. Ci fermiamo in un grazioso
villaggio, affacciato su una
bella insenatura del grandioso fiume.
L’aria è pulita e profumata, e la
luce dell’imminente tramonto colora
di violetto le acque del fiume, incoiciato
dal verde della esplosiva
vegetazione. Mi allontano un po’
dalla Toyota, e mi fermo sotto una
delle casupole, tutte uguali, tutte
estremamente precarie: un pavimento
di bambù su quattro alti pali
(le case sono così, anche per proteggersi
dalle inondazioni), quattro
pareti di foglie di palma intrecciate
e un tetto, anch’esso di foglie. Una
bambina sorridente sta appoggiata
alla ripida scala che conduce all’interno,
e in alto sua madre – così credo
– è seduta intenta a eliminare le
scorie da una manciata di riso. Mi
sorride. Così mi tolgo le scarpe e
salgo.
Seduta sul pavimento, la donna
ha sulle gambe un fagotto, che si
muove ritmicamente. Lei sposta un
lembo degli stracci e scopre un bimbetto
(10-12 mesi) ansimante, viso
affilato, occhi spalancati e una colata
di muco dal naso. Chiamo l’interprete,
per avere notizie di quel
piccolo visibilmente sofferente. È
così, mi dicono, da 3-4 giorni; ha anche
smesso di succhiare il seno. Lo
tocco: è bollente. Avvicino un orecchio
al suo dorso: polmonite. Non
si lamenta mentre lo esamino, continua
solo ad ansimare rumorosamente.
Apro la borsa per vedere cosa abbiamo
di utile in quella condizione:
trovo delle compresse di ampicillina
e di paracetamolo. Dovrebbero
andare. Poi l’interprete spiega alla
mamma come fare: bollire dell’acqua, schiacciare una compressa in
una ciotola, scioglierla e dae un
cucchiaio al bimbo ogni 8 ore; poi
reidratarlo con acqua, zucchero e
sale, poi il paracetamolo… cose banali
insomma, una serie apparentemente
semplice di istruzioni.
Ma la preoccupazione sul volto
della mamma sembra indicare tutto
il contrario: manovre complicate,
quasi impossibili, gesti del tutto
estranei alla quotidianità della sua
vita. Ci allontaniamo dalla casupola
lasciando il rantolo del bambino
con la polmonite alle nostre spalle.
L’indomani, sulla via del ritorno,
ci fermiamo di nuovo. La mamma
in lacrime ci dice che la sera prima
il bimbo ha chiuso gli occhi dopo il
tramonto e durante la notte ha
smesso di respirare.
Cosa ha di particolare questa
storia? Nulla, assolutamente
nulla. Rivela semplicemente
quanto accade ogni giorno, in migliaia
di villaggi, per milioni di bambini.
Ricordo la prima volta che misi
piede in Africa, fresco di studi di
medicina tropicale. Aspettavo con
ansia di vedere malati affetti da quei
misteriosi e «affascinanti» morbi
esotici. Rimasi quasi deluso quando,
nella prima giornata di consultazioni
mediche, vidi solo bambini
gravemente malati o prossimi al decesso
per banali infezioni.
Diarrea, infezioni delle vie respiratorie:
sono queste le prime cause
di morte nei paesi in via di sviluppo.
Il 95% dei decessi sono dovuti
a malattie infettive, per le quali
esistono efficaci trattamenti. Ma un
terzo della popolazione mondiale
non ha accesso ai farmaci basici.
Gran parte di queste malattie sarebbero
facilmente curabili; però,
proprio là dove più servono, i farmaci
relativi non sono disponibili,
spesso perché troppo costosi.
La causa di questa discrepanza
tra bisogni
e offerta risiede in
rigide leggi di mercato,
in base alle
quali i prezzi dei farmaci,
protetti da
brevetto, sono fissati
sulla disponibilità a
pagarli nei mercati
dei paesi industrializzati.
Alla base di gran parte dei disastri
sanitari, dell’impossibilità a
gestire epidemie o endemie, a prevenirle,
a impedire la morte per banali
infezioni, alla base di tutto possiamo
affermare oggi con certezza
che c’è un problema di farmaci. Vediamo
di capire di cosa si tratta.
Anzitutto mancano nuovi farmaci
utili in medicina tropicale, che
siano poco tossici, a basso costo ed
efficaci per debellare le malattie
(parassitarie, ad esempio), causa di
sofferenza e morte.
Basta un dato: negli ultimi 20 anni,
tra i 1.233 nuovi farmaci offerti
dal mercato internazionale, solo 11
avevano come indicazione malattie
tropicali, e di questi 7 venivano dalla
ricerca veterinaria. Per cui appena
lo 0,3% della ricerca farmaceutica
contemporanea è indirizzata alle
malattie ai vertici di ogni classifica
mondiale di morbosità e mortalità.
Perché? Semplice, perché queste
malattie imperversano in mercati
poco remunerativi. Le priorità sono,
quindi, più di ordine economico-
commerciale che medico.
Da un lato fiumi di miliardi vengono
investiti sulla ricerca di nuove
pillole contro l’obesità e l’impotenza,
dall’altro quasi niente per malattie
tropicali. Se poi talvolta (e c’è
l’evidenza) una multinazionale farmaceutica giunge a sintetizzare un
farmaco attivo su una malattia tropicale,
spesso il fabbricante decide
di non commercializzarlo, poiché la
sua vendita sarebbe poco remunerativa
nei paesi dove i pazienti interessati
sono concentrati.
A volte, per le stesse ragioni, farmaci
già disponibili, efficaci e semplici
da somministrare scompaiono
improvvisamente, come è stato il caso
della sospensione oleosa di cloramfenicolo,
usata per trattare la
meningite meningococcica (malattia
capace di uccidere in 24 ore). Tale
farmaco era l’alternativa al trattamento
con ampicillina, che richiede
4 infusioni endovenose al giorno,
contro un paio di iniezioni intramuscolari
in tre giorni per il cloramfenicolo.
Una bella differenza,
per trattare pazienti in strutture sanitarie
carenti di materiale e igiene.
Altro esempio, quello della efloitina.
Questo farmaco serve per
trattare lo stadio avanzato della tripanosomiasi,
più conosciuta come
malattia del sonno (trasmessa dalla
famosa mosca tse-tse). Bene, mentre
il vecchio farmaco usato (un derivato
dell’arsenico estremamente
tossico e somministrabile in dolorose
iniezioni) diveniva anche inefficace
per l’insorgenza di ceppi di
parassiti resistenti, appare questo
nuovo ritrovato. Sfortunatamente
due anni fa la ditta produttrice, detentrice
del brevetto, ha deciso di
sospendee la produzione per motivi
commerciali. E i circa 300 mila
malati si vedono rioffrire il vecchio
melarsoprol.
Questo è quanto accade, in questo
mercato globalizzato.
Uno dei problemi principali è
causato dal brevetto che
protegge il farmaco. Il brevetto
rappresenta un diritto sacrosanto
dell’industria per salvaguardare
i frutti dei suoi investimenti in
sperimentazioni. Accade però che
i brevetti si tramutino in micidiali
armi che limitano l’accesso ai farmaci.
Esistono paesi definiti in via di
sviluppo, ma in realtà detentori di
tecnologie sufficienti per una produzione
farmaceutica. Nazioni come
India, Thailandia, Sudafrica o
Brasile sono in grado di produrre
farmaci utili per le loro popolazioni
e quindi rivenderli a prezzi accessibili.
Il prezzo di farmaci come
il fluconazolo, efficace in gravi infezioni
fungine, crolla così dai 20
dollari al giorno per un trattamento
in Kenya, dove è importato, a
meno di un dollaro al giorno in
Thailandia, dove è prodotto da una
azienda nazionale.
Questo è reso possibile da una
norma che si chiama compulsory licensing,
o licenza obbligatoria.
A questo punto, la domanda che
sorge è: etica e sviluppo economico
del settore farmaceutico sono obiettivi
incompatibili?
Le più autorevoli riviste mediche
inteazionali (ad esempio, British
Medical Joual e JAMA) sostengono
che l’etica è compatibile con l’economia.
Per questo i medici, che
operano in questi contesti, sono
stanchi di dover pensare, di fronte
all’ennesima morte di un loro paziente:
«Mi spiace. Stai morendo a
causa di una inadeguatezza del mercato».
Il caso dell’Aids mostra poi cifre
apocalittiche. Il 95% dei malati di
Aids nel mondo non ha accesso a
farmaci efficaci per restituire salute
e dignità. Ma (fatto ancor più
grave) i trattamenti per ridurre significativamente
la trasmissione
verticale dell’infezione da madre
sieropositiva a figlio al momento
del parto non sono disponibili proprio
nei paesi dove questa modalità
di trasmissione sta segnando le
nuove generazioni, condannando a
morte entro 5-8 anni un bambino
già al momento della sua nascita.
Farmaci come l’Azt o la nevirapina,
efficaci anche se somministrati
per solo 4 settimane intorno alla data
del parto, sono vittime delle stesse
regole di mercato. Spietati brevetti
ne permettono la vendita a
prezzi proibitivi e ne impediscono
la produzione da parte di altre
aziende. Se è vero, si può sempre
applicare la licenza obbligatoria. Ci
ha provato la Thailandia iniziando
a produrre Azt per le sue donne
(tantissime) incinte e sieropositive.
Il farmaco ha avuto il costo abbattuto
del 7000%.
La reazione degli Usa, dove risiede
la ditta detentrice del brevetto, è
stata: non possiamo impedirtelo,
ma possiamo però ridurre le importazioni
dalla Thailandia… Cosa
questa insostenibile in questo momento
di crisi economica.
Ecco come vanno le cose.
Farmaci che ci sono, ma costano
troppo; farmaci che esistono,
ma non vengono prodotti,
germi che divengono resistenti ai
comuni trattamenti (Tbc, leismaniosi,
tripanosomiasi, ecc.), ma la ricerca
farmaceutica ha altri obiettivi…
e le cifre di morte e malattia
continuano ad avere parecchi zeri
nei paesi dei poveri del mondo.
Quello che basterebbe è esigere un
«diritto alla salute per tutti».
Già sentito?

SUGGERIMENTI
BIBLIOGRAFICI

ESPERIENZE
Andrea Moiraghi,
Pole pole.
Dentisti volontari in Africa,
Edizioni Camilliane, Torino 2003
CRITICHE AL SISTEMA
Paul Benkimoun,
Morti senza ricetta.
La salute come merce,
Edizioni Elèuthera, Milano 2002
Medici senza frontiere (Msf)
Accesso ai farmaci:
la malattia del profitto,
Dossier di Msf-Italia, Roma 2001
SANITÀ ITALIANA
Paolo Coaglia-Ferraris,
Camici e pigiami,
Editori Laterza, Roma 1999
Paolo Coaglia-Ferraris,
Pigiami e camici,
Editori Laterza, Roma 2000
Informatore anonimo,
La mala-ricetta,
Fratelli Frilli Editori, Genova 2000
SITI INTERNET
• Medici senza frontiere: www.msf.it
• Organizzazione mondiale
della sanità: www.who.org
Tutti i libri sono acquistabili
od ordinabili presso la
«Libreria Missioni Consolata»,
via Cialdini 2/a, Torino;
tel./fax 011.4476695,
e-mail: libmisco@tin.it.

Carlo Urbani (a cura di Paolo Moiola)




Storie di barboni e volontari

BARTOLOMEO NON HA LE CHIAVI

ERA UNA SERA D’INVERNO
Alcolisti, malati di mente, ex-carcerati, malati di Aids e da qualche anno anche tossici e immigrati. Il mondo dei «senzafissadimora», meglio conosciuti come «barboni», è sempre più popolato. E sempre più difficile da gestire.

QUANDO ESMERALDA URLAVA
Sul finire degli anni ’70 appartenevo
a una parrocchia che gestiva
una mensa in cui andavano a mangiare
i poveri. Lì mi occupavo di anziani
e malati. Un giorno, andando
in Fiat (dove lavoravo come operatore
sociale), mi imbattei in una
donna. Era sporca, vestita malamente,
scalza, scarmigliata e urlante.
E la gente, vedendola, scappava.
Quello che più mi colpì non era
tanto lo stato della donna, ma proprio
il vedere che la gente scappava.
E allora, mi chiesi, dovrei scappare
anch’io? Mi avvicinai sorridendole.
Lei smise di gridare. Disse di
chiamarsi Esmeralda. Le domandai
perché gridasse e lei mi rispose in
piemontese: «Grido al mondo la
mia disperazione». L’accompagnai
in un bar a mangiare qualcosa e mi
raccontò la sua storia di donna dimessa
da un ospedale psichiatrico.
Poi, assieme, facemmo uno strano
itinerario: dalla stazione di Porta
Nuova alla mensa del Cottolengo,
dove incontrammo tante persone
come Esmeralda.

BARTOLOMEO
AVEVA 54 ANNI

L’associazione «Bartolomeo &
C.» è nata 23 anni fa, precisamente
in una notte d’inverno del 1980. Andavamo
in giro a fare la ronda, cioè
a cercare i nostri amici barboni e
perché non gelassero portavamo loro
panini, coperte e roba calda.
Quella sera non trovammo Bartolomeo
al suo solito posto, nella
stazione di via Fiocchetto. Così cominciammo
a cercarlo, fino a che
arrivammo nel centro storico di Torino
in via Conte Verde, vicino al
Duomo, dove sorgeva una casa diroccata
nella quale Bartolomeo
qualche volta si rifugiava.
A un certo punto inciampai in un
mucchio di cartoni e nylon e, mentre
cercavo di rialzarmi, vidi spuntare
un piede. Allora chiamai i ragazzi,
togliemmo i cartoni e sotto
trovammo il cadavere assiderato di
Bartolomeo. Bartolomeo aveva 54
anni. Noi che non avevamo ancora
scelto un nome per il nostro gruppo,
quella notte decidemmo di chiamarci
«Bartolomeo & Compagni».
Quell’evento fece definitivamente
maturare in noi la scelta di continuare
a cercare queste persone
chiamate popolarmente «barboni»,
aiutandoli in primis conquistando
la loro fiducia e poi elaborando dei
programmi per loro. Ad esempio la
reiscrizione anagrafica, in modo tale
che potessero riacquistare un’identità,
visto che molti di loro erano
stati «cancellati» dall’anagrafe e
vivevano nel totale anonimato.
Chiedemmo alla polizia ferroviaria
il permesso di transitare in stazione,
per contattare la gente che di
lì transita. Aprimmo un ufficio all’interno
della stazione centrale, poi
affittammo alcune stanze, dove collocammo
i malati di mente e successivamente
i malati di Aids.
All’epoca a Torino i dormitori
erano molto pochi, alcuni in situazioni
davvero allucinanti. La città
allora non garantiva quasi niente e
quindi cominciammo a rompere le
scatole al sindaco del tempo, Diego
Novelli, che si rivelò sensibile a
queste problematiche, tanto che mi
chiamò ad andare a lavorare all’ufficio
per i «senzafissadimora», nato
nel 1981. Poi venne aperta la casa
di accoglienza di via Marsigli a cui
fecero seguito tanti altri interventi
sul territorio.

L’AUMENTO
DEI «NUOVI POVERI»

Nel 2001 alla porta della Bartolomeo
& C. hanno bussato 220 nuovi
casi. La stragrande parte sono
maschi (90,53%), l’85,26% disoccupati,
il 3,16% occupati e l’11,58
pensionati. Sono malati di mente,
malati di Aids, immigrati, alcolisti,
ex-carcerati, qualche transessuale.
Il 52,41% sono single, circa il 30%
divorziati o separati, ma il 10% è
sposato. Gli analfabeti sono solo
l’11%, mentre il 45% ha fatto la
scuola media e il 15,26% le superiori.
Sotto il profilo dell’età prevale
la fascia che va dai 30 ai 60 anni
(circa il 60%) ma stanno crescendo
i giovanissimi e gli anziani.
Soprattutto i nuovi poveri hanno
poco a che vedere con i barboni tradizionali.
Il panorama è molto cambiato.
Il barbone tradizionale, il
classico «clochard», è quello che dà
meno problemi, ma sono rimasti
davvero in pochi. In questi ultimi
anni ci troviamo di fronte a persone
molto più giovani e sempre più
«sballate» psicologicamente. Tossici
molto più cattivi, arrabbiati; gente
carente di valori, che ammazza
per un nonnulla. Assistiamo all’aumento
dei sieropositivi, dei tossicodipendenti,
di quelli che abusano di
droga e alcornol.
Troviamo residui di vecchia immigrazione
meridionale che si associano
agli extracomunitari, delinquono
insieme, danno vita a
clan. I vecchi barboni vivono sempre
peggio, spiazzati dai nuovi poveri,
che magari rubano loro il sacco
a pelo e le scarpe. La caratteristica
di questa nuova povertà è
proprio l’assoluta mancanza di valori:
vogliono tutto subito.
C’è gente davvero difficile, magari
con più problemi: buca, batte
e beve. Poi c’è il problema dei malati
sieropositivi e quelli in Aids
conclamato. Casi cronici in cui la
prevenzione non serve più ed è
molto difficile fare capire loro la
necessità di seguire una serie di
norme.

PRECIPITARE
NELLA POVERTÀ

Abbiamo persone che vivono da
barbone ma senza esserlo, persone
che provengono da famiglie disgregate;
e poi immigrati. Decine e
decine di casi di persone normali
precipitate nella povertà. Le cause
sono molteplici, spesso disgregazione
familiare. Gente di buona famiglia,
che però in famiglia non si
ritrova più.
Abbiamo incontrato un ragazzo
di 16 anni che diceva di non sentirsi
giovane: «A casa nessuno mi parla,
nessuno mi vede e nessuno mi
ascolta». Il padre sempre in giro
per lavoro, la madre pure lei assente,
impegnatissima tra bingo, canasta
e amiche. E lui che fa? Non sta
in casa, è pieno di problemi, i genitori
gli danno tanti soldi, ma non sa
come usarli e così viene da noi ad
elemosinare la merenda per poter
parlare.
C’è un signore di mezza età, che
faceva l’agente di scorta a un importante
uomo politico, poi un
giorno molla tutto, lavoro e famiglia,
per approdare a Torino a fare
il barbone. Ora è stato recuperato,
è diventato un operatore della Bartolomeo
& C.. Fa le commissioni e
aiuta me e i volontari.
Esistono anche i poveri da usura.
C’è una donna di sessant’anni, che
faceva la manager e aveva parecchi
attici. Poi l’usura l’ha devastata fino
a condurla sul lastrico. L’esaurimento,
l’insorgere di problemi
mentali, il baratro. Oggi è riuscita
ad avere una casa popolare. Si è rimessa
in quadro, ma vive sempre
con il terrore di rincontrare i suoi
ricattatori. Ci siamo sempre occupati
non solo di assistenza, ma di
promozione. I risultati li abbiamo
avuti grazie a interventi efficaci che
hanno permesso a queste persone
di ristabilirsi psicologicamente e
che adesso ci aiutano a lavorare con
gli altri.
Noi pratichiamo la filosofia del
«dare la canna da pesca e non il pesce». Ai nostri assistiti offriamo dei
lavoretti e, quando hanno qualche
soldo, li accompagniamo in banca
per aprire un conto, imparare a gestirsi,
non spendere più di quello
che hanno, ecc… Hanno bisogno di
essere supportati e seguiti. Hanno
difficoltà ad alzarsi al mattino, a rispettare
i tempi. Ma se una persona
ha problemi di mente, non può
stare nei tempi perché è fuori del
tempo.
Quando vediamo che una persona
ha delle potenzialità, allora la
collochiamo nelle case e, quando
sono in grado di gestirsi da soli, allora
li aiutiamo ad ottenere una casa
popolare, il lavoro se si può, in
modo tale da conquistare una certa
autonomia.

QUEL CADAVERE
NELLA CELLA FRIGORIFERA

Alla vigilia di Natale del 2001 fui
chiamata dall’ispettore di un commissariato
di zona, perché avevano
in frigo una persona da 12 giorni e
non sapevano chi fosse. Così andai
alle celle mortuarie dell’ospedale
delle Molinette.
Aveva 35-40 anni. Lo avevano
trovato morto d’infarto davanti al
supermarket delle Molinette e ancora
non erano riusciti a dargli un’identità.
Colpisce vedere che in una
città pullulante di fermenti positivi,
si possa morire nell’anonimato. C’è
gente che se ne va, in silenzio. Sono
tutti «caduti» sul fronte della nostra
indifferenza.
A Torino ci vuole una casa di
pronta accoglienza, aperta 24 ore su
24, gestita dal Comune e dai volontari
insieme. Un luogo che possa essere
un punto di riferimento per
tutti quelli che di giorno e di notte,
se hanno freddo, possano stare lì a
giocare a carte, a farsi la barba, ad
usufruire di una certa rete di servizi.
Questo posto oggi non esiste.
Le persone continuano a girare da
un dormitorio all’altro. C’è gente
che non ha un luogo dove andare
per cambiarsi e lavarsi. Uno dei nostri
va a stendersi le mutande nel reparto
dialisi dell’ospedale Mauriziano!
E poi non c’è continuità sui
casi.
Se una persona viene accolta dal
Comune o dai servizi per l’emergenza
freddo, dopo tre mesi questa
va fuori e più nessuno la segue. Se
non è in grado di pagarsi una pensione
per dormire o se non è in grado
di comprarsi da mangiare, come
fa? L’intervento oggi non è adeguato
ai bisogni delle persone.

DALLA PARTE
DEGLI «ULTIMI»

A queste persone manca la casa e
il lavoro, ma anche tutta una vita
di relazione: non sanno come vivere
il tempo «libero» e, quando sono
in crisi di identità più profonda,
mancano dei referenti che siano in
grado di gestire questi momenti,
aiutandoli ad avere ancora voglia
di vivere, curarsi, riacquistare
un’autonomia. Troppe volte queste
persone non trovano risposte.
Ogni giorno alla «Bartolomeo &
C.» arrivano persone che ci interpellano
come pugni sullo stomaco.
Penso allora a tutti coloro che riempiono
le sedi dei partiti, delle chiese,
delle associazioni e mi chiedo come
mai così tanti tra loro sono prigionieri
di chiusure mentali e
pregiudizi. Penso a quanto disagio
in meno ci potrebbe
essere, se ci fosse meno
burocrazia nell’applicazione
delle leggi.
Oggi si parla molto di
qualità della vita, ma attorno
a noi si respira
ancora troppa intolleranza
verso i problemi
degli «ultimi». Non è
solo colpa dello stato.
Ogni cittadino dovrebbe
avere il coraggio di
guardare in faccia la realtà,
perché tutti siamo in colpa
se il disagio aumenta. E come
aumenta!

NON RIMANERE
SPETTATORI

Non bastano le scelte politiche,
sociali, culturali, se
non c’è la scelta e una risposta
dentro noi stessi.
Non fare da spettatori, ma
chiedersi cosa stiamo facendo
concretamente per gli altri. Il
nostro è un tentativo quotidiano
fatto di limiti, ma anche di
atti concreti di condivisione.
Che cosa ha fatto Cristo per
gli emarginati? Cristo nasce
da emarginato, le prime persone
che incontra sono i pastori,
non i re. Chiude la sua
vita tra i ladroni.
Noi che lo vogliamo seguire
dobbiamo vederlo e scoprirlo
negli altri. Signore, quando ti
abbiamo visto? Tu eri nell’alcolista,
nel malato di mente,
in quell’amico che si buca…
Se il nostro fratello non ce
la fa da solo a portare la
croce, noi abbiamo il dovere
di aiutarlo.
È ora di smetterla di essere
spettatori. Occorre
diventare protagonisti attraverso
il nostro impegno
concreto e quotidiano.

UN RIPARO, UNA PANCHINA, UN BICCHIERE DI VINO
di Enrica, volontaria della «Bartolomeo & C.»
Al mattino Bartolomeo viene svegliato da svariati
fattori: la voce di un passante, la pioggia
che s’insinua tra le sue coperte, un clacson di
un’auto, l’abbaiare di un cane. Per lui le operazioni
del risveglio sono velocissime. È sufficiente alzarsi
in piedi e sistemare le proprie cose, preparandosi
a… spostarsi.
Bartolomeo difficilmente ha un luogo di lavoro da
raggiungere, raramente delle occasioni fisse d’incontro
con altri. Bartolomeo non ha bisogno di portare
un orologio al polso.
La sua giornata ha come sole tappe costanti i pasti.
Bartolomeo sa che, per poter fare colazione, può
recarsi dalle suore o in altro luogo ove viene somministrata
tra le 8 e le 9. Per avere un piatto di pasta
bisogna andare invece in corso «buonappetito»
tra le 12 e le 13, mentre la tazza di latte serale viene
servita in via «buonanotte» dalle 19 alle 20.30.
Se ha fame, si recherà in quei posti a quelle ore. Se
non ci andrà nessuno se la prenderà con lui.
Durante il resto della giornata Bartolomeo vaga
per la città. Gli incontri con i compagni di strada
sono solitamente casuali. Bartolomeo si reca ai
giardini, perché sa che lì può trovare
il suo amico e bere insieme un bicchiere
di vino di poco costo, comprato
nel supermercato. Se non c’è
da bere, forse potranno fumarsi una
sigaretta. Tuttavia, se quel giorno
Bartolomeo non andrà ai giardini,
nessuno lo cercherà né si preoccuperà.
Nel suo girovagare egli può trovare
un quotidiano abbandonato su una
panchina e trascorre un po’ di tempo
nella lettura. Se è fortunato, può
commentare le vicende politiche
con un’altra persona, appena conosciuta
su quella stessa panchina.
Qualche volta, se ha contatti con i
servizi sociali, Bartolomeo va dall’assistente
sociale. Nella sua mente
le cose pratiche occupano uno
spazio piccolissimo. Tutto il resto è
lasciato… a che cosa? Proviamo ad
immaginare. Bartolomeo osserva le
cose che capitano: la lite tra due
persone, l’incidente stradale. Dentro
di sé le commenta.
Bartolomeo ricorda il suo passato,
forse ha trascorso anni diversi, nei
quali la sua giornata era simile a
quella di una persona «normale»,
con una casa e un lavoro. Forse li
rimpiange, forse no.
Bartolomeo presta una grande attenzione
al cielo, ai mutamenti meternorologici.
Per lui è importante che
non piova.
Èsera ormai. Bartolomeo stende
le sue coperte in un luogo riparato.
Se fa molto freddo deve bere
del vino, forse molto vino, altrimenti
per lui è impossibile prendere
sonno. Riesce a crearsi un suo
spazio, con le sue cose tutte ammassate
attorno a lui e alla fine …
si addormenta.

Lia Varesio