Dossier – Nel fango di Kilbera

«Qui la polizia entra solo per controllare le birrerie clandestine».
«E lo credo bene», verrebbe spontaneo rispondere, se il degrado che ci sta davanti non riguardasse appartenenti al genere umano, costretti a vivere dove sarebbe difficile per fauna suina.
Kibera è uno dei tanti slums (baraccopoli) di Nairobi. Il più grande. E stiamo entrando dopo una nottata di pioggia intensa. Ruscelli larghi mezzo metro e profondi altrettanto a far da vicoli. Meglio sorvolare sul contenuto. Ci razzolano solo cani spelacchiati e bambini piccoli.
Si procede sullo strettissimo bordo a ridosso delle baracche. Scivoloso come una pista da bob. Spesso con la stessa pendenza. I pali sporgono dalle baracche come appigli, confidando nella buona tenuta. Attenzione identica da equilibristi su una corda tesa sopra un canyon. Una scivolata equivarrebbe a sprofondare fino al ginocchio in melma, di cui il fango è solo componente minoritaria.
E qui vive gente. Tanta. Troppa. Un milione, dicono. In continuo aumento. Nuove baracche crescono come funghi. Appiccicate una all’altra. Casotti fatiscenti di sassi e fango. Lamiera ondulata come tetto. Paletti (rami tagliati) per rinforzare la struttura. Misere abitazioni affittate a povere famiglie, attirate dal miraggio della grande città. Canoni non certo equi: 10 euro al mese, contro stipendi (quando c’è lavoro) di 50-60. Fogne a cielo aperto, davanti all’entrata, che quando piove si confondono con ciò che dovrebbero essere i vicoli. Un’asse come passerella per entrare.

«Q ui la polizia entra solo per controllare le birrerie clandestine. Il quartiere non è affatto violento. Tutt’al più qualche ubriaco di troppo. La birra costa pochissimo».
È Fred che ci accompagna. Lui Kibera la conosce benissimo. Ci è nato. E, da come ne parla, non l’ha ripudiata. Il padre e alcuni fratelli abitano ancora qui. Lui si ritiene un privilegiato. Voleva studiare e ha incontrato le persone giuste per poterlo fare. Con moglie e figli ora abita alla Shalom House, la casa-albergo voluta da padre Kizito. Chi meglio di lui, quindi, può illustrarci la realtà di questo enorme slum, dove anche di notte vivono con la porta aperta. Dove, come ci dice Fred, c’è molta solidarietà. Dove la gente si fa spesso carico dei problemi degli altri.
Ma ciò che è sotto i nostri occhi non è tollerabile. Non è accettabile nel terzo millennio. Analfabetismo a livelli altissimi. Prostituzione idem (spesso unica possibilità offerta a una donna per guadagnare qualcosa). Aids che si trasmette come il morbillo in un asilo.
«Nessuna forma di sanità riconosciuta. Chi non ha i soldi, può morire». La cosa suona ancora più tragica, se detta da un padre, amico di Fred: senza l’aiuto di un’organizzazione umanitaria rischiava di perdere un bimbo di due anni.
La gente che incontriamo è, tuttavia, affabile. Certamente la presenza di Fred contribuisce. I bambini ci salutano e rispondono come un’eco alle nostre voci. Alle nostre forme di saluto. Non ci lasciano l’ultimo suono.
Da una finestrella, alcuni bimbi guardano con curiosità le nostre facce scolorite. Non è mercanzia che circola spesso da queste parti. Una signora gentilissima ci invita a entrare. È una scuola matea. Un’iniziativa della chiesa pentecostale. Un raggio di speranza in quel mare di fango.

Mario Beltrami




Dossier – Pioggia di… solidarietà

Le catapecchie sono arrivate anche nella zona residenziale di Westlands, territorio della parrocchia-santuario della Consolata. Borghesi e commercianti le bruciano, perché non vogliono poveri tra i piedi. Padre Franco Cellana ha mobilitato parrocchiani e vari gruppi di amici italiani che, donando cuore e tempo, hanno reso possibile un’infinità di iniziative per il recupero materiale, sociale e spirituale di tanti sfortunati.

Il primo incontro con padre Franco Cellana avvenne nel 1985, sotto il cielo africano di Iringa (Tanzania), assieme a memorabili missionari, come Giovanni Borra, Aldo Pellizzari, recentemente scomparso, Sergio Antonucci e tanti altri. Da allora non ci siamo più persi di vista. Il nostro è un legame profondo e prezioso, fatto di condivisione di valori e intenti, giornie, sofferenze e speranze.
Sono tre anni che non ci vediamo. Benché in questo triennio, mio marito Andrea, la figlia Alessia e io lo abbiamo seguito passo passo, non vediamo l’ora di sentire da lui i particolari della sua esperienza nella contrastante, cruenta, spasmodica Nairobi. Sarà cambiato?
Lo incontriamo al suo paese, in Trentino, dove è tornato per una breve vacanza. All’arrivo abbiamo immediata la risposta. È in forma smagliante. Intonse la carica vitale, l’energia, la luce degli occhi e del sorriso. In un abbraccio commosso si sciolgono tutti i nodi dei dubbi e nostalgie per la lunga lontananza. È subito casa, subito famiglia nella gioia di ritrovarci. Ed è subito dialogo e storia vissuta.
Luci e ombre a Nairobi…
«Sappiamo del tuo arrivo a Nairobi, dei primi passi in quell’ambiente così diverso e contrastante, delle tue attività e iniziative. Dopo tre anni e mezzo in quella città, hai qualcosa di speciale da comunicarci?».
La risposta è immediata, solida, fluidificante, come lo scorrere delle immagini in un film. «Intanto ti dico che dopo tre anni a Nairobi, nel santuario della Consolata, mi sento diverso, arricchito umanamente e spiritualmente. La pastorale urbana nelle metropoli africane è una sfida enorme. Catechesi, liturgia, servizio sacramentale, dimensione di giustizia e pace vanno rivedute e corrette.
All’inizio è stato un apprendistato di contatti e conoscenze, un girovagare fra grattacieli e supermercati, un circolare tra le potenti macchine Toyota, Mercedes e Pajero, fino a scoprire che la nostra comunità era composta da ricchi e benestanti, da professionisti e lavoratori, da una larga fetta di poverissimi, relegati nelle baraccopoli o sulle strade. A questi in particolare ho diretto la mia attenzione e cura, cercando di coinvolgere anche tutte le altre forze pastorali. “I poveri li avrete sempre con voi” ha detto il Signore.
Volete che vi conduca in uno slum? Ce ne sono ben 130 di questi insediamenti informali a Nairobi. Ebbene, immaginate un alveare di capanne di lamiera, fango o cartone e plastica. Qui manca tutto: luce, acqua, servizi igienici, strade. Al suo interno crudezza e degrado, emarginazione e miseria. Lo stato di denutrizione per molti è permanente, con una infinità di malattie, molte delle quali endemiche: tifo, malaria, colera, Aids, infezioni intestinali, scabbie ecc. Atmosfera infeale, odori indescrivibili di liquami nauseabondi. Là si nasce nella precarietà, si vive su limo infido, si muore senza formalità. La gente vive in uno stress fisico e psicologico, senza valori né vita familiare, nella paura e nella violenza. Lì ho trovato una umanità che soffriva senza alcun sollievo.
Poi ho scoperto i ragazzi di strada, una miriade. Piccoli e grandi, sporchi, stracciati, allucinati dalla colla-benzina, la loro droga povera. Cielo come tetto, erba o marciapiede come materasso. Vita improvvisata, alla giornata, senza futuro. Questo il mio inizio. Primo impatto, primo desiderio: intervenire per un recupero materiale, sociale, morale e spirituale di tutti loro».
Il miracolo della solidarietà
Ho bisogno di una spiegazione. «Come hai fatto a programmare, organizzare e portare avanti questi ideali di promozione umana, recupero delle coscienze e dignità?». La riflessione di padre Franco diventa tagliente, coinvolgente e chiara.
«Assieme alla comunità parrocchiale, sono partito con semplicità e con l’intento primario di essere segno di speranza e consolazione per tutti. L’imperativo? Non è lecito annunciare il vangelo senza metterlo in pratica. L’asso nella manica? Confidare nella provvidenza, dalla quale non sono mai stato deluso.
C’è stato subito bisogno di intervenire per ricostruire le baracche bruciate con petrolio, da qualcuno che non accetta questi insediamenti umani, o rifare quelle di cartone e sacchi di plastica. Occorreva qualche intervento rapido: acqua pulita per i tre villaggi, asilo per i bambini, toelette e docce, assistenza medica di prima necessità, un laboratorio per i giovani e donne senza lavoro, cibo e vestiti per i ragazzi di strada.
Ecco allora la provvidenza! Amici e conoscenti hanno aperto il loro cuore: alcuni hanno donato il proprio tempo, risparmi e frutto del loro lavoro e sacrificio. Sì, tutto questo si è potuto realizzare solo con la condivisione. La mia famiglia e gli amici delle valli trentine, il gruppo degli Amici di Tione di Trento (Africa Rafiki), quello di Roma (Africa Sì), amici di Torino e di altre parti di Italia, come voi del Mugello, tutti insieme siete stati una vera provvidenza.
Vorrei elencarli uno per uno questi uomini e donne, famiglie, alunni che, uscendo dal torpore del qualunquismo e in mezzo ai loro affanni ordinari, hanno trasformato l’indifferenza in attenzione e la passività in azione. Alcuni in particolare sono stati, straordinari; ma sottolineo l’importanza di ognuno di loro: qualcuno è una goccia, qualcun altro una brocca, ma insieme formano un mare di bene e di amore.
volontariato: risorsa umana
Mi viene spontanea una domanda, quasi una sfida: «Padre Franco, tu sai quanto noi crediamo nella grande risorsa del volontariato; riteniamo che, per cambiare le coscienze e il corso della storia del nostro tempo, occorra partire da una vita esperienziale e non di sole parole. Abbiamo bisogno di modelli, di testimoni. Avendolo sperimentato di persona, sappiamo quanto affonda nel cuore l’esperienza missionaria, il contatto diretto con una realtà religiosa, culturale e sociale diversa. Ritieni che sia importante uscire dallo stereotipo di “sostenitore economico” a favore di una più attiva collaborazione e condivisione dell’attività apostolica e missionaria?».
«È bella e attuale la domanda che mi fai. Tento di rispondere attraverso la mia stessa esperienza degli anni di missione. Fin dal 1986, per esempio, ho avuto modo di sperimentare in Tanzania la validità della presenza del gruppo missionario Alto Garda e Ledro. Da allora i suoi volontari, con efficienza, serietà professionale e spirito cristiano, non sono mai mancati per offrire validamente la loro opera di sostegno allo sviluppo e alla promozione umana nelle comunità più bisognose.
Il coinvolgimento e la solidarietà verso il mondo missionario sono una vera benedizione. È la nostra stessa vocazione cristiana che ce lo chiede, per questo hanno un’importanza vitale per l’attuazione del messaggio evangelico che ci fa essere tutti missionari gli uni verso gli altri. Io sono d’accordo in un maggior coinvolgimento attivo al nostro fianco e nel mezzo delle comunità locali. L’appoggio economico è il frutto di questa presenza. Prego che in ognuno sgorghi il coraggio della missione e io sono felice di poter essere uno strumento e un’opportunità perché ciò avvenga.
Chi è andato in Tanzania o è venuto negli slums di Nairobi ha potuto condividere con la gente disagi, fatiche e speranze. Queste persone hanno saputo dare tanto; hanno lasciato le loro famiglie e passatempi, si sono giocate le ferie senza nessun tornaconto, mossi soltanto dal desiderio di fare il bene. Non è missione questa? Non è missione la testimonianza che portano a casa, coinvolgendo altri? Così diventano protagonisti: gente che crede nell’uomo, nella giustizia, nella pace e s’impegna a tessere la storia di Dio in un modo diretto, facendosi trama del tessuto…».
Padre Franco si sofferma a ringraziare tutti a piene mani. Ringrazia per l’acqua pulita, per le toelette, per le casette rifatte, per l’asilo dei bambini, per l’aiuto alle famiglie e ai ragazzi di strada, per l’assistenza medica, per le adozioni dei bambini e degli alunni delle scuole, per i laboratori artigianali delle donne e dei giovani, per la pastorale sociale che si è sviluppata così abbondantemente nella sua parrocchia.
Sì, ringrazia; ma si sa che ognuno che ritorna da quel mondo così diverso ha il cuore pieno di gratitudine con un grande «asante sana» (grazie infinite) per ciò che ha ricevuto, che è infinitamente di più di ciò che ha dato.
Questo vale anche per me, che dal 1985 vivo ancora di rendita. La condivisione con i più diseredati ci riporta alla giusta dimensione sociale e ci fa riprendere coscienza della nostra umanità. È un dato di fatto che chi ha fatto questo tipo di esperienza è accomunato dalle stesse sensazioni: siamo come contagiati dallo stesso virus, abbiamo subito la stessa metamorfosi e vorremmo dirlo a tutto il mondo. Cominciamo a dirlo ai nostri figli, ai nostri amici, ai nostri vicini.
Sull’esempio e sulla scia di padre Franco e di altri missionari, diveniamo fiaccole accese di verità, braci che scatenano fuochi di solidarietà, pioggia sottile che fa rinverdire i deserti dell’abbandono, facendo terra di missione ogni persona, paese e luogo. Non è forse vedendo lui, là a Nairobi, stanziale e non di passaggio, nell’incognita e nel rischio, in mezzo a violenze e malattie, instancabile ma inevitabilmente stanco, tenace ma inevitabilmente scoraggiato, forte ma inevitabilmente provato che ci è venuta la voglia di imitarlo e aiutarlo? Uomini come lui, solari, universali, affascinano per la loro dedizione, per il loro coraggio e coerenza. Di questi uomini veri c’è bisogno, uomini con gli uomini, ma con la luce di Dio.
«Ma è stato fatto tantissimo!», concludo esterrefatta.
«Certo – risponde di rimando -. Grazie al gruppo di Africa Rafiki e Africa Sì e altri, che sono intervenuti a nome di tutti, sono state fatte cose molto significative e le comunità degli slums ne sono felici».
«Allora c’è speranza che anch’io e Andrea e la nostra Alessia di 14 anni troveremo qualcosa di cui occuparci e da condividere con la tua comunità?».
Padre Franco ci guarda sorridendo: «Vi aspetta un mare su cui navigare, venite e con voi invito tanti altri. La famiglia di Dio è vasta e manca di importanti valori da scoprire e da condividere».

A pieni polmoni mi gusto questa ossigenata trentina: profumo di pini e abeti, aria di malga fine e rarefatta, che inebria e rivitalizza le membra assopite dall’apatia della nostra società. Un bel respiro e… via! L’Africa ci attende! •

Antonella Bertaccini




Dossier – Bisturi miracoloso

È il primo volontario laico che ha legato la sua vita a quella dei missionari e missionarie della Consolata, spendendosi a favore degli africani.
A 50 anni dalla morte, la sua memoria è sempre viva tra la gente del Kenya, non solo per la sua professionalità, ma soprattutto per la grande umanità e profonda fede cristiana che hanno animato la sua scelta.

«Ho l’onore di incontrarmi con il medico più famoso del Kenya e il più grande amico degli africani»; così Jomo Kenyata, in visita all’ospedale della Consolata di Nyeri, salutava il dottore Paolo Chiono, nel 1950, mentre il leader kenyano percorreva il paese arringando le folle contro il potere coloniale.
Il dottore non fece caso alla prima definizione, ma si compiacque della seconda: era quello che voleva essere e tale si sentiva, grande amico degli africani.
«dottore buono»
Era nato a Castellamonte (Torino), il 20 agosto 1909, da famiglia benestante. Frequentò il liceo Botta di Ivrea; quindi s’iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Torino, dove conseguì la laurea nel 1933 e fu assunto come assistente volontario presso la clinica chirurgica all’ospedale «San Giovanni». In breve tempo acquisì notevolissime capacità professionali, specialmente in campo chirurgico e urologico.
Scoppiata la guerra in Etiopia, nel 1935, chiese e ottenne di parteciparvi come sottotenente medico. L’anno seguente sbarcò a Massaua e proseguì verso il cuore dell’altopiano etiopico, al seguito dell’esercito. Negli scontri con i soldati etiopici i feriti erano così numerosi da dovere operare notte e giorno. Senza risparmiarsi, il dottor Chiono curava tutti, sia italiani che etiopici. Nei momenti tranquilli si dedicava all’ambulatorio degli indigeni.
Da Addis Abeba così scriveva alla zia Antonietta: «La mia vita qui è piena di lavoro senza soddisfazione. Però il maggiore medico ora non muove un dito senza chiedermi consiglio. Il lavoro è enorme; e tu sai che se io lavoro, non faccio le cose a metà. Ne ho da mattina a sera».
Alla fine del 1937 si fece trasferire all’ospedale militare di Lechemti, nel Wollega, 400 km a ovest della capitale, perché «stanco di stare sotto padrone – scriveva alla zia -. Volevo essere libero di fare a modo mio per i pochi mesi che rimangono da trascorrere ancora in Africa».
Fare a modo suo significava non concedersi un momento di riposo, fino a soffrire di esaurimento e inappetenza: operava nell’ospedale, prestava servizio presso l’ambulatorio della missione dei padri e suore della Consolata, visitava i malati a domicilio, si spingeva nei villaggi più sperduti, curava i più poveri e dimenticati, fino a distribuire loro corredo e stipendio. A una suora che gli faceva osservare come in una settimana la busta paga era già vuota, rispose con un sorriso: «Che m’importa di avere più quattrini o meno? Quando ne ho a sufficienza per vestirmi e nutrirmi, mi basta».
Gli africani lo definirono subito «il grande medico che vuole bene agli africani». Il tam tam della brughiera ne sparse la fama di dottore prodigioso, che curava le malattie inguaribili: i pazienti affluivano dalle regioni più lontane.
All’inizio del 1938 fu chiamato in Italia al capezzale del padre. La popolazione di Lechemti e dintorni salutò l’akimi garidà (il dottore buono) piangendo e accompagnandolo per 4 km; anche lui si commosse fino alle lacrime.
medico e missionario
A Torino il dottor Chiono riprese l’attività nella clinica chirurgica dell’Università; si iscrisse a corsi di specializzazione in chirurgia e urologia; vinse due concorsi per un posto in ospedale ad Aosta e Savona, ma vi rinunciò. Amici e colleghi gli prospettavano una brillantissima carriera professionale e accademica, ma nulla riusciva a renderlo felice.
L’esperienza etiopica, la povertà degli africani e i loro bisogni in campo medico, il contatto con i missionari e missionarie della Consolata lo avevano cambiato. Ancor prima di tornare in patria, aveva ventilato l’idea di spendere la vita a servizio dei poveri in qualche paese africano, dove sarebbe stato più utile che in Italia. Ma come? Non esistevano organizzazioni inteazionali a cui appoggiarsi.
L’idea del dottor Chiono era giunta, tramite le suore, nella missione di Nyeri (Kenya), dove l’ospedale appena costruito era alla ricerca disperata di un medico. Nel maggio 1939 mons. Carlo Re, vicario apostolico di Nyeri, di passaggio in Italia, propose al dottore di recarsi nella sua diocesi per dirigere i servizi sanitari come medico missionario. La proposta fu per lui come un invito a nozze; seduta stante rispose: «Sarò medico missionario».
Per evitare che il lento distacco diventasse un’agonia, tenne nascosta la sua scelta ad amici e colleghi: diede loro l’addio per telefono, da Messina, prima d’imbarcarsi sulla nave Rosandra. Era il 23 ottobre 1939. «È fatto, padre! Sono missionario come voi» disse a uno dei missionari che lo accompagnavano, appena la nave uscì dal porto.
Giunto a Nyeri, ancora vestito da viaggio, fu chiamato per un difficile intervento su una partoriente: il laborioso taglio cesareo salvò madre e figlio. E subito, come capita in Africa, si sparse la voce che alla missione era arrivato un medico «giovane e buono» che si sarebbe preso cura degli africani.
In poco tempo organizzò l’attività dell’ospedale con tutti i suoi servizi e visite periodiche ai dispensari delle altre missioni. Di notte scriveva articoli su elementari norme di igiene, da pubblicare in lingua kikuyu sul mensile Wathiomo Mukinyu (L’amico vero). Insisteva nel dire che non bastava curare le malattie, ma bisogna cogliere ogni occasione per istruire ed educare.
Per otto mesi si prodigò come era suo stile, prendendosi uno svago e riposo mentale, in qualche fine settimana, andando a caccia. Al ritorno, distribuiva di persona la carne alle varie cucine della missione.
tra i reticolati
Ma arrivò il fatidico 10 giugno 1940: l’Italia entrò in guerra e tutti i missionari italiani, lui compreso, furono arrestati e inteati, prima a Kabete, presso Nairobi, poi a Koffiefontein (Sudafrica), dove rimase per tre anni, insieme a un migliaio di altri prigionieri civili e militari.
Anche qui il dottor Chiono continuò la sua opera di medico e di missionario: fu soprattutto grazie a lui che il 98% degli inteati ritornarono alla pratica religiosa.
A metà agosto del 1943, dottore e missionari furono riportati nel campo di Kabete. Dopo un anno di trattative diplomatiche, i padri poterono tornare nelle loro missioni, mentre il dottore, sospettato per i suoi trascorsi in Etiopia, fu trattenuto ancora un anno, «il più terribile della mia vita» racconterà più tardi.
«La mia anima è piena di mestizia – scriveva ai familiari – e cerco disperatamente rifugio in Chi solo può tutto». Nonostante godesse di grande prestigio presso i compagni di sventura e le autorità, tanto da essere chiamato per i casi più difficili a operare nell’ospedale civile di Nairobi, solo la preghiera e le notizie provenienti da Nyeri riuscivano a fargli superare lo stato di tristezza.
I missionari tentarono tutte le strade, fuori e dentro la colonia, per liberarlo dalla prigionia, finché si rivolsero al «Consiglio indigeno» di Nyeri: l’assemblea di cattolici e protestanti inviò una petizione alle autorità coloniali, illustrando come l’opera del dottore era indispensabile ai kikuyu. E fu liberato finalmente.
«da paolo non si muore»
Nel settembre 1945 il dottor Chiono fece ritorno al suo ospedale e riprese il lavoro con entusiasmo e dinamismo, come se volesse recuperare i cinque anni perduti in prigionia. Anzitutto istituì un corso per infermiere africane, per avere personale locale specializzato sia in ospedale che negli ambulatori delle varie missioni: tre di essi furono affidati a suore indigene. «La loro formazione – scriveva – mi è costata enormi sacrifici, se pensiamo alla poca istruzione avuta in precedenza, ma sono felice di averli fatti, vedendo gli ottimi risultati».
Alcune operazioni chirurgiche e conseguenti guarigioni avevano del miracoloso agli occhi degli africani, che pensarono a diffondee la fama in tutto il Kenya. Il suo nome era diventato una leggenda. «Kwa Paulo gutikuaguo» (da Paolo non si muore) dicevano con uno slogan che passava di bocca in bocca.
Ma la fama moltiplicava il numero dei pazienti, obbligando il dottore a orari massacranti, interrotti soltanto dal tempo dedicato alla preghiera e all’hobby della caccia e pesca.
Ben presto arrivarono i riconoscimenti ufficiali: nel 1950 Kenyata lo definiva «il più grande amico degli africani»; le autorità coloniali lo additavano ad esempio; lo stesso anno, dal Vaticano, arrivò la nomina a Cavaliere dell’Ordine di san Gregorio Magno. L’anno seguente scoppiò improvvisa la rivolta dei mau mau contro il governo coloniale inglese. Il dottor Chiono curava tutti, feriti ribelli e loro vittime, senza chiedere da che parte stessero, guadagnandosi il rispetto dei guerriglieri, che gli fecero pervenire questo messaggio: «Uccideremo tutti i bianchi, te no!». Avvalendosi di tale garanzia, si spingeva nei posti più pericolosi per soccorrere i feriti.
bisturi e rosario
«Mi sono creato un piccolo mondo e me lo vivo» scriveva alla sorella Nella. L’ospedale, curato nei minimi dettagli, portato da 20 a 100 posti letto, aggiornato con laboratori e attrezzature sempre più modee ed efficienti, e poi la formazione del personale, la ricerca scientifica sulle patologie tropicali, medicine vegetali, cura e prevenzione di malattie dovute a situazioni sociali, ambientali e culturali… erano il suo mondo, in cui si sentiva pienamente realizzato.
La chirurgia, soprattutto, era per lui un’arte bella: dopo certi interventi provava la soddisfazione che ha un artista davanti alle sue opere migliori. «Ho meditato sul mio bisturi – confessava un giorno a suor Giulietta, sua aiutante -. Più lo medito e più comprendo che grande cosa abbia fatto il Signore, quando diede all’uomo la capacità e la scienza di usarlo: quante vite si può salvare!».
Ma il dottor Chiono non si attribuiva il merito dei suoi successi, come aveva scritto in un foglietto, conservato nel suo libro di preghiere: «Sono io che taglio, ma chi fa tutto il resto e guarisce è il Padre Eteo: che cosa potrei fare io se Egli non mi aiutasse?».
In gioventù egli aveva ostentato un certo snobismo da libero pensatore; ma durante l’esperienza etiopica ritoò con fervore alla pratica religiosa; negli anni seguenti, preghiera e meditazione furono la spina dorsale della sua vita di medico e missionario. «Credi alle mie parole – scriveva al cognato dottor Pesando -, conosco la vita, gli uomini e le cose. La mia conoscenza è stata affinata da anni di sofferenza e di solitudine, solo rallegrata dalla parola scritta dai Grandi, che sono gli unici miei amici».
Prima di ogni intervento pregava e faceva pregare assistenti e pazienti. Il rosario, soprattutto, era la preghiera preferita. In auto era sempre lui a invitare i compagni di viaggio, missionari compresi, a recitarlo, dicendo «che quello era il migliore preventivo contro il mal di schiena».
Un giorno smarrì il suo rosario; lo trovò la mattina seguente su un tavolo dell’ospedale: lo prese con un sospiro di sollievo, dicendo: «L’ho cercato fino a mezzanotte».
«Con le scarpe ai piedi»
Impegnato senza riserve per la salute altrui, il dottor Chiono non ebbe altrettanta sollecitudine per quella propria. Nel 1951 fu colpito da malaria cerebrale, che superò con un periodo di vacanze al mare di Mombasa. L’anno seguente ebbe un secondo attacco: ancora convalescente riprese il suo lavoro all’ospedale.
Era cosciente della gravità della sua situazione; ma a chi gli consigliava di tornare in Italia per rimettersi in sesto, un giorno rispose: «Vorrei morire con le scarpe ai piedi, come un soldato sul campo di battaglia: morire in sala operatoria, con il bisturi in mano». E fu così.
Il 3 luglio 1953, visitò tutti i pazienti e preparò strumenti e libri per andare a sostituire un collega nell’ospedale di Nkubu; ma durante la notte fu colpito dal terzo attacco di malaria e fu fatale. Spirò la mattina del 6 luglio, assistito dai missionari e dal vescovo mons. Carlo Cavallera, dopo aver cercato di dare un ultimo bacio al crocifisso.
Fu sepolto nel cimitero della missione e, dieci anni dopo, i suoi resti furono trasferiti all’interno stesso del suo ospedale, vicino alla cappella, ove si trovano tutt’ora. Accanto alla tomba è stato di recente inaugurato il reparto di oculistica, ad opera della Fondazione Paolo Chiono, creata dall’omonimo nipote dell’illustre medico missionario.
Ancora oggi in Kenya la sua figura è ricordata con grande venerazione, non solo per la professionalità, ma soprattutto per i valori umani e cristiani profusi a favore degli africani, come testimonia pure il suo testamento: «Ho amato i kikuyu senza misura né limite, come del resto loro sanno; e auguro loro da questo letto la elevazione e la redenzione completa e sollecita». •

Benedetto Bellesi




Dossier – All’ombra del baobab

Vivono in un piccolo villaggio, in uno dei paesi più poveri del mondo. Cercano di conoscere la gente, ma ci vuole tempo e adattamento.
Il loro piano finanziario: la provvidenza.

Siamo in piena savana africana, nel centro del Burkina Faso in Africa Occidentale. Nella lista delle Nazioni Unite circa l’indice di sviluppo umano, questo paese ha lo strano primato di essere da anni il terzultimo, dopo altri 173 paesi che in teoria «stanno meglio».
Intoo è tutto secco in questa stagione: da ottobre a inizio giugno la terra non vede una sola goccia d’acqua. L’erba è gialla; i pochi alberi riducono al minimo il metabolismo. Gli statuari e imponenti baobab, alberi magici da queste parti, perdono le minuscole foglie, in attesa delle prossime piogge.
In questa regione, non lontano dalla città di Kupela, vivono in prevalenza popolazioni di etnia mossì (maggioritaria nel paese), coltivatori, e gli onnipresenti allevatori peul. Ci avviciniamo al villaggio di Kanougou, che in lingua moore (parlata dai mossì) significa «senza mani». La gente vive in gruppi di case famigliari, fatte di fango essiccato e con tetti di paglia.
Oltre a mossì e peul, da circa un anno e mezzo a Kanougou vivono due italiani: Paolo e Caterina. Paolo Turini, «Turpa» per gli amici, capelli sempre cortissimi, forte accento toscano, corporatura robusta, è di Montevarchi (diocesi di Fiesole). Caterina, minuta, lunghi capelli neri, parlata tranquilla, è sarda di Bolotana (Nuoro).
Li incontriamo nel cortile di una famiglia del villaggio. Stanno facendo un giro di visite ai presepi realizzati dai bambini. L’Africa, e il Burkina in particolare, ha avuto un peso decisivo nella loro vita, innanzitutto perché li ha fatti incontrare.
Tutto per caso …

Alcuni anni fa, Paolo era capo scout a Montevarchi. Gli capitò di assistere alla presentazione di un missionario in Bolivia; nacque in lui l’idea di un viaggio di conoscenza. «Lo chiesi a don Gabriele Marchesi, allora responsabile diocesano per le missioni; mi spiegò che avrei dovuto seguire un corso per poi sperare di partire d’estate».
Il sacerdote disse a Paolo che cercava qualcuno per piastrellare un dispensario di una missione africana, perché la persona che doveva andare aveva rinunciato. «Non sapevo fare quel lavoro – spiega Paolo -, ma avevo un amico che mi avrebbe potuto insegnare. Feci la proposta a don Gabriele. Egli era dubbioso; voleva un esperto, ma accettò la sfida».
Paolo si fece insegnare i rudimenti del mestiere durante i fine settimana; poi riuscì a prendere un mese di aspettativa dal lavoro; nel dicembre 1994 partiva per l’Africa. Era la prima volta e proprio a Kanougou svolse il suo primo servizio.
Qui conobbe don Carlo Donati, anche lui della diocesi di Fiesole, responsabile dell’associazione «Campo di lavoro del santo Natale», che da anni segue progetti e organizza scambi con il Burkina Faso.
Tornato in Italia, Paolo decise di lasciare gli scout e investì le sue energie nella creazione del centro missionario di Montevarchi, organizzando concerti, serate, sensibilizzazioni a favore dei missionari della diocesi.
Il suo impegno crebbe e, con esso, anche la voglia di ripartire. «Da quell’anno, tutte le mie ferie sono state dedicate a viaggi di servizio in Burkina e il mio tempo libero in Italia ad attività di appoggio alla missione».
Caterina, infermiera professionale, arriva in Burkina anche lei un po’ per caso. «Lavoravo a Nuoro e mi capitò di assistere un’infermiera in pensione, che aveva lavorato due anni in Burkina Faso – racconta -. Avevo sempre avuto un desiderio nascosto di andare in Africa, ma non avevo mai avuto occasione».
Caterina insiste perché l’anziana l’accompagni in un viaggio di conoscenza e di servizio. Così, alla fine del 1996, si ritrova al dispensario di Kupela, gestito dalle suore camilliane.
Sotto la Croce del Sud
È nel centro diocesano di accoglienza di Kupela, a 140 chilometri dalla capitale Ouagadougou, che Paolo e Caterina s’incontrano per la prima volta. «Qui transitano molti volontari, legati a missionari o a diocesi italiane che collaborano con quella di Kupela – racconta Paolo -. Quella sera di dicembre, qualcuno ci disse che in questo cielo si può vedere la Croce del Sud, ma solo in certe stagioni e di mattino presto».
Un gruppo di italiani, impegnati su diversi progetti, che casualmente si trovavano al centro, decise di darsi appuntamento alle cinque del mattino, per uscire in savana a contemplare la costellazione. «Io mi svegliai – dice Paolo – andai a chiamare gli altri. Ma solo Caterina si alzò. Fu così che iniziammo a conoscerci».
Rientrati in Italia, i contatti tra Nuoro e Montevarchi si intensificano, anche per attività di animazione missionaria; ma la distanza è grande. Paolo vola a Nuoro per una testimonianza; Caterina organizza una visita a Firenze. Nel frattempo Paolo, che ha iniziato a lavorare alle ferrovie, chiede e ottiene il part time «verticale» (15 giorni di lavoro al mese), che gli permette di dedicare molto tempo libero alla «sua» Africa.
Sono fidanzati, quando alla fine del 1998, decidono di partire per due mesi e mezzo in Burkina. I missionari li destinano a missioni diverse, piuttosto lontane tra loro: «Ci vedevamo e sentivamo meno che in Italia – scherza Paolo -. Verso la fine di quel periodo, insieme, incontrammo una persona che è ancor oggi il nostro ispiratore: fratel Silvestro Pia, religioso della Sacra Famiglia, in Burkina da oltre 40 anni, deceduto nel gennaio 2003».
La guida
«Ci siamo sposati il 2 ottobre del ‘99 e abbiamo chiesto un anno di aspettativa, per sperimentare una presenza più lunga in Burkina – racconta Caterina -. Dieci giorni dopo eravamo sull’aereo».
Raggiunto fratel Silvestro a Kudougou, Paolo è impegnato nella formazione professionale, Caterina in un centro nutrizionale. Il religioso li fa riflettere sulla possibilità di dedicarsi totalmente ai burkinabé, per un impegno di lunga durata nel paese. Chiede a Paolo di continuare l’attività nell’insegnamento dei mestieri, dato che è molto abile in falegnameria, costruzioni metalliche e altre attività tecniche.
«Silvestro è stato per noi guida spirituale e punto di riferimento – spiega Paolo -. È l’unico che ci ha incoraggiati a lasciare tutto e partire. Diceva “Se voi lavorate per il Signore, troverete sempre la soluzione”. Ci ha tranquillizzati sul futuro».
Continua Caterina con un po’ di emozione: «Disse che ci avrebbe seguiti anche se fossimo andati a realizzare l’opera lontano…».
Ma l’anno di aspettativa termina in fretta; bisogna scegliere: rientrare o fare una scelta ancora più radicale. «A questo punto abbiamo capito che potevamo farcela: abbiamo deciso di licenziarci, per impostare una nostra presenza qui senza limiti temporali» racconta Caterina.
«La nostra idea – continua Paolo – è la possibilità di mettere i nostri talenti al servizio degli altri. Questo può avvenire anche in Italia; ma lì io li usavo per me, mentre qui riesco ad aiutare qualcun altro a crescere».
«Dopo tante esperienze in pochi mesi, abbiamo capito che per avere più frutti occorre seguirli da vicino» conclude Caterina.
I Lion’s e gli altri
Dopo un periodo con i camilliani a Ouagadougou, nel centro per i malati di Aids, arriva una proposta allettante: realizzare un centro di formazione professionale nella diocesi di Kupela. «Sono i Lion’s di Montevarchi a proporsi come finanziatori – spiega animatamente Paolo -. Era l’occasione che aspettavamo. Insieme a don Gabriele e al vescovo di Kupela, mons. Sérafin Ruamba, abbiamo studiato il progetto nei dettagli».
Si trasferiscono a Kanougou, villaggio già noto a Paolo, e organizzano i preliminari. Ma qualcosa nei Lion’s non funziona: «Avevamo già acquistato il terreno, quando ci fanno sapere che i principali donatori erano falliti e non ci daranno una lira». Sembra il crollo di tutto, ma i due non demordono. Si affidano alla «provvidenza», dichiarano più volte. E la loro fiducia viene premiata.
«Si può dire che è la provvidenza, perché sono molte le persone, alcune appena conosciute, che hanno reso possibile il progetto». I centri missionari di Montevarchi e Nuoro, organizzando serate e concerti, riescono a raccogliere i soldi per la cisterna; un dottore, conosciuto in Burkina, mobilita amici per pagare la perforazione di un pozzo per l’acqua potabile; una donatrice di Catania, la sorella di Paolo, ex colleghi mettono insieme oltre 16 mila euro per pagare la costruzione di due laboratori. «Pensate, una signora di Chieti vende presepi per finanziarci e noi non l’abbiamo mai incontrata!».
«E il vostro budget per il 2004?».
«È ancora “la provvidenza”, che si concretizza in due conti bancari, uno in Italia e l’altro in Burkina, dove versano vari donatori».
Vita di villaggio
Occorre del tempo per abituarsi a vivere in un villaggio della savana burkinabé; è tutt’altra cosa che vivere in città. Paolo, con la sua abilità, adatta due stanze del dispensario delle suore come abitazione essenziale. Occorre procurarsi l’acqua, che proviene da una perforazione, mentre l’elettricità è prodotta da un impianto solare, dono di un amico.
Allo stesso tempo inizia i lavori di costruzione del centro di formazione, che prevede falegnameria, saldatura e riparazione di biciclette.
Caterina si occupa di animare i giovani del villaggio, per iniziare a coinvolgerli in diverse attività, come la produzione di statuette di gesso, che saranno vendute nella capitale. «Stiamo iniziando a conoscere la gente – racconta Caterina – e non è una cosa rapida. Per esempio, riusciamo a coinvolgere un gruppo di giovani di un quartiere; ma ci accorgiamo che non chiamano quelli di altri quartieri, a causa di piccole rivalità. Quindi siamo noi che li andiamo a cercare».
I problemi sono tanti. Il clima: in aprile e maggio la temperatura supera anche i 45 grandi all’ombra. Le malattie: qui occorre proteggersi costantemente dalla malaria, parassiti e infezioni alimentari.
Ma le vere difficoltà sono altre. «Spesso, mi spiace dirlo, abbiamo avuto incomprensioni nella collaborazione con i religiosi italiani – spiega Paolo -. Altro fattore importante è la gelosia tra la gente. Dobbiamo stare attenti a non creare squilibri; occorre consultare sempre le figure di riferimento del villaggio: il capo, i responsabili culturali. E poi i tempi, che non sono i nostri e rischiamo, con le nostre programmazioni, di turbare le persone».
Il loro orizzonte temporale: «Finché c’è la salute, pensiamo ai primi dieci anni».
Gli chiediamo se si sentono laici missionari. «Eh! Missionario è una parola grossa. Siamo “amici degli africani”. Abbiamo un ideale: fede e povertà».

Marco Bello




Un unico grido: noi esistiamo

Roraima / Brasile:
campagna internazionale Nós existimos
indios, agricoltori ed emarginati della città
uniti per la vita contro la violenza e l’impunità

È la prima volta che indigeni,
agricoltori ed esclusi della città
si uniscono insieme nella solidarietà, per cercare la soluzione
ai problemi che devono affrontare…
«Presidente Lula, vogliamo aiutarti
a vincere la battaglia per il rispetto
dei diritti umani.
Facci credere che ne vale la pena…».

Silvia Zaccaria e Silvano Sabatini




Introduzione – Noi ci siamo e contiamo

N egli ultimi 25 anni, per i lettori di «Missioni Consolata», lo stato di Roraima (Brasile) è divenuto quasi un sinonimo di «campagne». Tutte a favore degli indios. Ricordiamo le principali.
p La campagna per gli indios Yanomami del 1979-80. Promossa dai missionari della Consolata, si svolse soprattutto in Italia. Dal nostro paese partirono circa 700.000 lettere e/o cartoline, con oltre un milione di firme, che sollecitavano il presidente della repubblica del Brasile a creare il parco per gli indios Yanomami. Dopo altee vicende, l’obiettivo fu raggiunto nel 1991, allorché il parco fu demarcato e omologato.
p La campagna indios/Roraima, realizzata nel 1988-89 ancora dai missionari della Consolata (a livello europeo), si proponeva la raccolta di firme, da presentare al segretario dell’Onu, per il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni dello stato; le firme consegnate furono circa 400.000. Inoltre la campagna lanciò il progetto una mucca per l’indio in favore dei Macuxi, Wapichana, ecc., che si concretizzò in 10.000 capi di bestiame (oggi 42.000).
p Ma la caserma no! È la campagna del 2001: si opponeva ad un insediamento militare nel villaggio macuxi di Uiramutã. Purtroppo la caserma fu costruita. Ma gli indios non si sono demoralizzati: incoraggiati anche da oltre 17 mila firme raccolte in Italia (in un solo mese), hanno pressato il presidente Lula per l’omologazione in area continua della regione «Raposa Serra do Sol». Il 28 novembre 2003 Lula ha assicurato che l’area sarà omologata, ma «senza fretta». Tuttavia, il 19 dicembre, c’è stata una doccia fredda: la Commissione «relazioni estere e difesa nazionale» della Camera dei deputati ha approvato il disegno di legge, che consente la costruzione di nuove caserme nelle aree indigene di Roraima. Un passo avanti e due indietro?
p Nós existimos è la campagna in corso, ma con tre novità rispetto alle precedenti. La prima: la campagna è nata e cornordinata in Brasile da realtà locali (diocesi di Roraima, missionari e missionarie della Consolata, Consiglio indigenista missionario, Consiglio indigeno di Roraima, ecc.). Seconda novità: la campagna è «globale», perché investe non solo i popoli indigeni, ma anche i piccoli contadini e i lavoratori emarginati della città; insomma tutti i poveri. La terza novità è, a nostro parere, sorprendente: è una campagna che sta diventando «movimento». Un movimento che continuerà anche quando la campagna chiuderà i battenti.

P er anni abbiamo sentito i popoli indigeni di Roraima affermare: «Vogliamo vivere!». È stato un grido di fronte ad una costante minaccia di morte.
Oggi tutti i poveri dello stato ostentano con giusto orgoglio il fatto di esistere. «Nós existimos e… resistiamo. L’unione di indigeni, lavoratori rurali ed emarginati della città è un segno di cambiamento» dichiarano con forza gli interessati.
E in altre parole: «Noi ci siamo, eccome! Ma soprattutto contiamo. E vogliamo contare sempre di più nella vita del nostro paese».

Francesco Beardi




Una svolta per mutare la storia

Poveri sono gli indigeni,
ma anche i piccoli contadini
e gli emarginati della città.
Tutti bisognosi di terra e lavoro,
di riconoscimento dei loro sacrosanti diritti,
di fronte a politici che, invece, privilegiano
la «Brancocell» (industria della cellulosa
con capitale svizzero-canadese)
o la giapponese «Mitsubishi».
I «piccoli» si arrenderanno ai «grandi»?
«L’unione fa la forza» recita un adagio.
Vale anche per le formiche.

Nelle mire della globalizzazione
Roraima (Brasile) per gli indigeni Macuxi, Wapichana, Ingarikó, Patamona e Taurepang, che abitano questa terra da tempi immemorabili, è la «madre dei venti», la montagna sacra da cui il dio Macunaima fece sgorgare tutti i fiumi che danno vita e alimento. Per i non-indios, che arrivano dal sertão (le zone desertiche dell’interno), Roraima è il «Nuovo Eldorado», uno spazio vergine da colonizzare e occupare, dove trovare acqua e sostentamento per i propri figli. Inoltre, per latifondisti, forze armate e multinazionali, è terra di conquista, l’ultima frontiera da sfruttare, da integrare al resto del paese e «globalizzare».
Secondo Flamarion Portela, attuale governatore dello stato più settentrionale del Brasile, il Roraima rappresenta una fonte ancora non sfruttata di opportunità per tutti, migranti ed imprenditori, soprattutto stranieri.
Con un linguaggio da spot pubblicitario, Portela ritrae Roraima come il luogo dove «il sole splende due ore in più che in qualsiasi altra regione del Brasile; per tale motivo il metabolismo delle piante si accelera e permette, nel caso della soia, di guadagnare circa 19 giorni, tra semina e raccolto, rispetto al centro-ovest e al sud». Ancora, trovandosi nell’emisfero nord, lo stato è capace di produrre soia quando il sud si trova in piena stagione delle piogge, permettendo così una produzione continua.
Soia, parola magica in Brasile, da quando il colosso sudamericano è diventato il primo esportatore al mondo. Soia in parte transgenica, allorché il governo del presidente Luis Ignacio Lula Da Silva (detto Lula) ha varato, soprattutto per le pressioni di Blairo Maggi, governatore dello stato del Mato Grosso (grande imprenditore di soia) e della multinazionale americana Cargill, una misura provvisoria che ne prevede la liberalizzazione in Brasile e l’esportazione.
L’inaspettata (e sofferta) decisione del «compagno» Lula ha scioccato la ministra dell’Ambiente, Marina Silva. Secondo alcuni giornali, Silva in lacrime avrebbe reagito alla notizia così: «Sono costretta ad ingoiare il transgenico, però, se mettono le mani sulle terre indigene, mi dimetto».
A parte il transgenico, Silva non deve avere gradito nemmeno i suoi nuovi compagni di partito, tra cui in primis il governatore di Roraima Flamarion Portela, grande fan del transgenico e degli investimenti di capitale internazionale.
È il caso della Brancocell, industria della cellulosa a capitale svizzero-canadese, che produrrà carta digitale ricavata da 150.000 ettari di acacia mangiun, in mano (anche questi) ad uno svizzero. La produzione, prevista per il 2006, dovrebbe generare 6.000 posti di lavoro ed investimenti per circa 300 milioni di dollari.
Il progetto della Brancocell prevede l’acquisto, da parte dello stato di Roraima (e dei suoi contribuenti), di energia elettrica dal Venezuela, da destinarsi al funzionamento della fabbrica, con acacie capaci di produrre carta di ottima qualità.
Secondo i politici locali, l’industria cambierà profondamente la fisionomia economica di Roraima. Con un investimento di 300 milioni di dollari, l’impresa ha dichiarato che produrrà, nel 2004, 800 tonnellate di carta al giorno; questa sarà esportata verso il mercato europeo ed americano per un fatturato di 120 milioni di dollari. Grazie a ciò, il Pil di Roraima dovrebbe salire del 17%. «Saremo un polo di attrazione per altri investimenti nello stato» ha affermato il direttore della Brancocell.
Il prossimo gruppo ad approdare in Roraima (questa volta per la coltivazione di soia nel lavrado) sarà, con molta probabilità, la giapponese Mitsubishi, con la quale l’ex governatore Neudo Campos aveva avuto frequenti contatti. Secondo Portela, la realizzazione di tale impresa dipende dal trasferimento di terre dall’Incra (Istituto nazionale per la riforma agraria) allo stato di Roraima.
Infine sette grandi produttori di riso (tra cui Luiz Afonso Faccio di Riso Acostumado, considerato il primo nello stato) espandono senza limiti le proprie coltivazioni, fino ad invadere le aree indigene.
Così si incoraggiano monocolture estremamente dispendiose per la produttività del suolo e si danno incentivi fiscali per investimenti stranieri, con possibilità limitate di assorbire manodopera locale, ma con beneficio dei pochissimi todos poderosos di sempre.
Invece, per la popolazione roraimense, non si realizza nello stato alcun programma di sostegno all’agricoltura familiare e di tutela e assistenza dei piccoli agricoltori. Questi migrano senza posa in Roraima, in cerca di un pezzo di terra da coltivare e di una vita più degna.
La terra promessa
Da circa 30 anni il Roraima è invaso da ondate di migranti provenienti da tutto il Brasile, specialmente dal Maranhão, lo stato più povero del nord-est. Gli effetti di tale invasione (circa 1.000 persone al mese) sono preoccupanti.
Secondo l’ex presidente della repubblica, Feando Henrique Cardoso, l’Amazzonia rappresenta tuttora la valvola di sfogo delle tensioni sociali presenti in altre regioni, come dimostra la localizzazione nello stato di Roraima della maggioranza dei lotti di terra distribuiti nell’ambito della riforma agraria da lui proposta.
In verità queste migrazioni forzate evitano oggi, come 40 anni fa, il varo di una vera riforma agraria che elimini, una volta per tutte, lo scandalo del latifondo.
Fino a qualche tempo fa era facile trovare maranhensi al lavoro, come tante piccole formiche, nei garimpos (miniere all’aperto) di Serra Pelada, nello stato del Pará, o nella terra yanomami. Adesso sono loro i migranti per eccellenza del Brasile. Secondo l’Istituto brasiliano di geografia (Ibge), negli anni ’90 circa 700.000 persone hanno abbandonato il Maranhão. La mancanza di incentivi governativi all’agricoltura familiare e il dilagare del latifondo hanno spinto i contadini a lasciare le campagne, trasformandosi in potenziali portatori di conflitti sociali, una volta giunti a destinazione.
Molti agricoltori sono stati cornoptati, con false promesse, nelle stesse terre d’origine e attratti verso il Roraima con l’unico scopo di aumentare i «serbatorni» elettorali del governo locale, e poi abbandonati al proprio destino in insediamenti improvvisati in mezzo alla foresta.
Delle 15.000 famiglie stanziate dal governo Cardoso, 11.000 hanno già abbandonato i lotti che erano stati loro assegnati e sono andate ad allargare le favelas della periferia di Boa Vista. I municipi più distanti dalla capitale si svuotano, determinando una forte concentrazione urbana.
Le ragioni di questo esodo rurale vanno ricercate nella mancanza di assistenza, sostegno e incentivi economici per le comunità stanziate nei lotti; per quanto riguarda il sud dello stato, nelle pressioni dei grileiros (invasori illegali di terre dell’Unione, destinate a progetti di riforma agraria), che minacciano ed espropriano le famiglie, determinando la riconcentrazione della terra nelle mani di pochi.
Verso il
«nuovo eldorado»
Dunque, mentre nel nord-est prosperava l’industria della siccità, nel Roraima emergeva quella dell’immigrato.
Scopo ultimo era quello di riempire un territorio disabitato (siamo nei primi anni ‘80), attirando migranti, principalmente dal sertão nordestino verso il «Nuovo Eldorado» e creare così serbatorni elettorali per i coroneis, appartenenti a grandi famiglie di proprietari terrieri che, trasferitisi in Roraima dal nord-est, avevano creato una nuova élite politica, conservatrice, corrotta e fortemente anti-indigena.
Nel 1991, quando Roraima si trasformava da «territorio» in «stato», la popolazione passava dai 70.000 abitanti del 1980 a 217.000. Così i politici locali disponevano di un elettorato stabile attraverso la costante importazione di miserabili, soprattutto contadini senza terra, posseiros e garimpeiros del nord-est. Intanto questo si spopola, mentre il latifondo avanza.
Da qualche tempo, tale tattica è utilizzata anche nel Roraima. I beneficiari dei lotti di terra nei municipi dell’interno, abbandonati al loro destino, senza incentivi e la minima assistenza sanitaria, lasciano le terre concesse e raggiungono la famiglia rimasta in città, nei quartieri periferici, che per questo motivo crescono a vista d’occhio.
I lavoratori rurali sono stati trasferiti in Roraima con la promessa di denaro facile, terra fertile e appoggio alla produzione.
I lavoratori urbani (ex operatori rurali costretti ad abbandonare lotti e garimpos) e gli indios (che hanno lasciato le loro malocas per vivere in città) sono vittime dell’esclusione sociale; subiscono la violenza della polizia (risultato dell’impunità), le conseguenze dello squilibrio causato dal sovraffollamento nelle città, la disoccupazione, la fame, la mancanza di opportunità e di una politica seria per i migranti.
Molti di loro hanno paura di parlare e si trincerano, pertanto, in una umiliante omertà.
Però… da oltre un anno tutte le sfere tradizionalmente escluse dalla società roraimense (popoli indigeni, piccoli agricoltori ed emarginati urbani) si sono unite nella campagna Nós existimos (Noi esistiamo), per tentare di invertire il quadro di ingiustizia sociale e di costanti violazioni dei diritti umani, combattendo l’impunità di cui godono i criminali e la corruzione che prolifera in ogni sfera della società.
Lo scandalo «cavallette»

È di qualche tempo fa la denuncia della grande truffa conosciuta come «lo scandalo delle cavallette».
La truffa fu architettata dalle massime autorità politiche, amministrative e giudiziarie del Roraima, con la partecipazione di vari signorotti dei municipi più isolati, ai danni delle casse dello stato. Alcune persone (le «cavallette» appunto) entravano in rapporto, grazie a procure, con funzionari veri o fantasma (ne sarebbero stati identificati circa 5.500), inseriti nelle liste di pagamento dello stato, per ritirare in loro vece il salario, che poi avrebbero ripassato al loro «padrone» per avere protezione, una percentuale in denaro e una posizione nel caso di vittoria elettorale.
Le «cavallette», in verità, sono anch’esse delle vittime: persone molto semplici, semi-analfabete, sfruttate da vari politici artefici della truffa, che rimangono con più del 95% dei salari «mangiati» dalle loro «cavallette».
Maria Ivanilde Arruda era una di loro. All’inizio del 2002 aveva chiesto aiuto ad un deputato statale. Per ottenere l’appoggio richiesto, si era dovuta recare presso un notaio, accompagnata dagli assessori del deputato, e aveva firmato una procura a loro nome. Alla fine del mese questi ritiravano il salario di Ivanilde, di 300 euro, lasciandole appena tra i 30 e 60 euro.
L’operazione «cavallette» avrebbe sviato finora 100 milioni di euro dalle casse dello stato. Tra i principali imputati dello scandalo c’è l’attuale governatore, Flamarion Portela, che rischia di perdere l’incarico per impeachment. Gli subentrerebbe Ottomar Pinto, il brigadiere già due volte governatore del Roraima e noto nemico dei popoli indigeni.
Un’alleanza per cambiare la storia
L’alleanza dei tre segmenti, tradizionalmente esclusi dalle politiche economico-sociali dello stato di Roraima, fu ufficializzata al 3° Forum sociale mondiale di Porto Alegre nel gennaio 2003. Tuttavia le sue basi furono gettate attraverso alcuni incontri fra le stesse realtà realizzati nel corso dei mesi precedenti.
Ora gli incontri hanno cadenza fissa (ogni due mesi) e prevedono una rotazione fra le tre realtà ospitanti (indigena, rurale e urbana), nonché uno scambio di esperienze attraverso la visita e la permanenza (di durata variabile) di membri di un gruppo presso la realtà dell’altro.
Il primo incontro ufficiale fra le tre entità fu realizzato alla fine di marzo 2003 nella maloca di Maturuca, in area indigena macuxi.
Qui emergeva subito una novità nei rapporti tra indios e non-indios: la sorpresa e poi la coscienza, da parte dei primi, di avere degli alleati all’interno del loro stesso stato. Fino a quel momento, infatti, i popoli indigeni pensavano che i loro alleati fossero solo gente estea: singoli cittadini e/o organizzazioni straniere di difesa dei diritti umani.
Fino a quel momento, gli indios avevano considerato la società roraimense e tutto il popolo locale fortemente anti-indigeni. Di fronte alla scoperta della solidarietà nei loro confronti da parte di un gruppo abbastanza consistente di non-indios, interno a quella stessa società, gli indios si scusarono con i loro nuovi alleati: «Ci scusiamo per aver parlato male dei bianchi. Ma noi non parliamo male di voi presenti. Parliamo male dei bianchi che hanno interessi nelle aree indigene, che invadono la nostra terra, che ci maltrattano e ci uccidono». Infatti l’incontro avveniva appena due mesi dopo l’assassinio del macuxi Aldo da Mota.
Nel gennaio 2003 Aldo fu brutalmente giustiziato dai jagunços della fazenda Retiro, appartenente al politico Chico das Chagas (conosciuto come Chico Trippa), che nascosero il cadavere in una fossa. Dopo una settimana, gli indios della regione, attirati da avvoltorni, ritrovarono il corpo in uno stato di avanzata decomposizione.
Visto che l’Istituto medico legale di Boa Vista affermava che Aldo era morto per causa «naturale indeterminata», il Consiglio indigeno di Roraima (Cir) e la Fondazione nazionale dell’indio (Funai), non convinti dell’autopsia, mandarono il corpo a Brasilia, dove i periti dell’Istituto di medicina legale indicarono che Aldo era stato assassinato con un colpo di pistola, mentre era con le braccia alzate. I presunti colpevoli dell’esecuzione, arrestati e poi rilasciati senza essere identificati, sono ancora a piede libero.
Aldo è uno dei 24 indigeni uccisi nei primi mesi del governo Lula. Solo in un paio di casi gli esecutori sono stati arrestati, mentre i mandanti sono tutti in libertà.
La percezione della nascita di un qualcosa assolutamente nuovo nei rapporti tra indios e non-indios, nel Roraima, fu avvertita anche da Paulo, leader degli agricoltori presente a Maturuca: «Esco da questo incontro con la consapevolezza che esiste un movimento ben organizzato in Roraima. E questo è il movimento indigeno, che ha molto da insegnare ai non-indios. La stampa e una parte dell’opinione pubblica roraimense ritraggono sovente gli indios come inetti, indolenti e incapaci; ora che li abbiamo conosciuti da vicino sappiamo che non è così; anzi, abbiamo capito che possiamo imparare molto da loro».
Gli indios, a loro volta, affermavano di avere molto da imparare dai non-indios.
Altri importanti incontri
A quello di Maturuca fece seguito, nell’aprile 2003, un secondo incontro nell’area rurale dell’Apiaù, che rafforzava ulteriormente la solidarietà creatasi nella prima assemblea. La solidarietà tra indios e contadini si basa su una rivendicazione comune: il diritto alla terra e ad una vita dignitosa, attraverso opportuni progetti di sviluppo economico sostenibile.
Le relazioni con i lavoratori urbani sono, invece, di natura diversa, in quanto le loro rivendicazioni vertono più che altro sulla ricerca di un impiego e la lotta alla corruzione.
Il terzo incontro si tenne a Boa Vista in maggio. I temi di discussione furono: l’installazione della fabbrica di cellulosa della Brancocell, attraverso lo sfruttamento di 150.000 ettari di piantagioni di acacia; i costi in termini di impatto ambientale ed economico per la popolazione; l’iscrizione al Partito dei lavoratori (PT) del governatore Flamarion Portela, sul quale pesano le denunce di partecipazione allo «scandalo delle cavallette». L’incontro terminava con una marcia contro la corruzione per le strade della città.
Il quarto incontro avvenne in settembre nel municipio di Rorainopolis, una cittadina attraversata dalla strada Br-174 che lega Manaus a Boa Vista, al quale parteciparono 21 leader indigeni, 21 agricoltori e 21 rappresentanti dei lavoratori urbani.
L’incontro verté sul bisogno di raggiungere, sulla base del dialogo e dell’ascolto dei problemi di ciascuna realtà, una convivenza armoniosa e di costruire una proposta comune, con nuove strategie di azione finalizzate ad una maggiore partecipazione alle politiche statali, ma anche federali.
Attraverso tale partecipazione, è necessario realizzare un graduale mutamento nell’inclusione dei settori esclusi, nel rispetto dei diritti umani dei popoli indigeni e nei diritti al lavoro degli agricoltori e del proletariato urbano e, infine, nella «moralizzazione» degli apparati amministrativi, giudiziari e politici dello stato, di fronte ad una situazione di corruzione estesa a tutti i livelli, e di impunità tanto radicata da apparire come la regola per l’intera società.
Nell’incontro di Rorainopolis i tre gruppi poterono verificare con i loro occhi, nei politici dello stato, la totale indifferenza al benessere della popolazione: una città costruita senza alcun progetto e costituita per il 90% da famiglie immigrate dal nord-est; alcune opere incompiute, per le quali il governo aveva stanziato più di 1.300.000 euro, nonché un sistema di fognature inoperante, a causa della mancanza di allacciamenti alle abitazioni (per cui fu speso inutilmente oltre 1 milione di euro) e, infine, attrezzature per l’ospedale, costate più di 300.000 euro, non funzionanti.
Quello di Rorainopolis, comunque, non è un caso isolato: i municipi dell’interno abbondano di opere pubbliche-fantasma.
Rompere il monopolio
Dai vari incontri, da quello di Maturuca a quello di Rorainopolis, i partecipanti uscirono con la consapevolezza di aver combattuto, fino a quel momento, una guerra voluta da poteri a loro opposti.
Era una vera e propria guerra tra poveri, orchestrata secondo il principio divide et impera, dove le parti in lizza, ignare l’una dei problemi e ragioni dell’altra, nonché dei possibili punti di incontro, si affrontavano alla cieca, spinte dal sospetto reciproco inculcato soprattutto attraverso la propaganda dei mezzi di informazione, completamente nelle mani del potere locale.
Gli incontri, quindi, si sono proposti e si propongono di ridurre la distanza e la tradizionale contrapposizione fra le tre componenti, e di giungere all’elaborazione di proposte comuni.
Particolarmente interessante e rivoluzionaria è l’idea della creazione di una banca di solidarietà: un’agenzia finanziaria che, a partire da un fondo comune, possa appoggiare delle iniziative nell’area della produzione; ad esempio la coltivazione di riso, alternativa a quella dei sette grandi produttori dello stato. Nascerebbe un sistema in cui indios e agricoltori potrebbero commercializzare liberamente i prodotti tra loro e, inoltre, venderli all’esterno senza che i primi siano più costretti a comprarli dal latifondista, che ha invaso le loro terre, e senza che i secondi siano costretti a lavorare per i loro tradizionali sfruttatori.
È necessario generare una domanda estea che incoraggi la produzione indigena e degli agricoltori familiari, rompendo così il monopolio che li soffoca, e creare una rete alternativa di commercializzazione dei prodotti. Le proposte mirano a liberare gruppi potenzialmente produttivi dalle strutture di potere da cui dipendono e dalle false promesse da cui troppo spesso sono allettati.
Avere creato una sinergia tra indios, lavoratori rurali e urbani significa, come ha dichiarato nel corso di un incontro un agricoltore, cambiare la storia di Roraima.
Significa che indios e non-indios decidono di abbandonare le loro armi tradizionali (frecce e fucili) e la reciproca diffidenza, per combattere finalmente contro il loro vero nemico: i todos poderosos, i potenti di sempre, e la loro cultura di sfruttamento, violenza e ingiustizia. Il tutto garantita dall’impunità.

Silvia Zaccaria




Perché camminare non basta

L’intervistato è il cornordinatore
della campagna «Nós existimos» a Roraima,
il quale fa il punto della situazione.
Si sofferma sugli incontri fra indios, agricoltori
ed emarginati della città:
a Maturuca, Apiaú, Boa Vista e Rorainopolis.
La volontà di non demordere di fronte a potenti
e prepotenti si accompagna alla speranza
nella solidarietà degli amici italiani,
che appoggiano la campagna.

Da Rorainopolis quattro proposte

Signor Vasconcelos, ci descriva l’ultimo incontro fra indios e non-indios avvenuto nella cittadina di Rorainopolis nel settembre scorso.

All’incontro, nel sud dello stato di Roraima, hanno partecipato 21 leader indigeni, 21 agricoltori e 21 rappresentanti dei lavoratori emarginati delle città. Sono stati accolti dalla comunità locale, da famiglie che li hanno ospitati e si sono dimostrate interessate.
L’incontro ha affrontato la necessità di formulare una proposta che unisse indios, agricoltori e lavoratori emarginati delle città alla ricerca di una maggiore dignità fra loro. In tale senso, tutti gli incontri di «interscambio» che si realizzano sono molto interessanti. Sono incontri di solidarietà, cui partecipano le tre componenti dello stato di Roraima, e fanno parte della strategia della campagna Nós Existimos.
Noi non vogliamo che la diocesi di Roraima ci presenti qualcosa di già preconfezionato, ma, a partire dal dialogo e dall’ascolto reciproco, vogliamo raggiungere una convivenza armoniosa tra indios, lavoratori rurali ed emarginati delle città, e costruire quindi nuove strategie e alternative di lotta.

Cosa si è detto a Rorainopolis delle situazioni «non normali»?

I precedenti tre incontri, nel primo semestre del 2003, sono stati di pura conoscenza; nell’ultimo invece, di Rorainopolis, abbiamo cercato di essere dinamici e concreti. La campagna si propone di interagire meglio fra i tre gruppi e di offrire prospettive alternative.
Rorainopolis è un caso lampante di disattenzione dello stato verso la popolazione. Vi sono opere pubbliche incompiute, che sono già costate al governo federale 1.330.000 euro. E noi le abbiamo esaminate.

Può portare qualche esempio?

Il sistema fognario non è finito: si sono già spesi circa 660.000 euro, e tuttora mancano gli allacciamenti alle abitazioni. La stessa cosa è successa ad un ospedale: le installazioni sono costate 330.000 euro, ma l’opera non funziona e per mancanza di personale e perché è stata costruita in forma inadeguata: non si può neppure installare una apparecchiatura per raggi X o altri strumenti.
Un’altra opera incompiuta è la casa per la produzione di farina di manioca, realizzata con l’intervento di un deputato. Inaugurata oltre due anni fa, non funziona, perché nessuno si è preoccupato di produrre la manioca con cui ottenere la farina. Si è costruita una casa abbastanza esuberante, ma non è utilizzabile.
Poi abbiamo visitato un mercato comunitario (anch’esso non terminato, che non risponde alle aspettative della comunità), un campo sportivo, una palestra all’aperto costata 33.000 euro, di cui esiste solamente la struttura metallica… In totale abbiamo visto sette opere che non rispondono agli obiettivi per i quali erano stati stanziati i soldi.
L’esperienza di visitare opere pubbliche (e quindi di interagire con la realtà locale) è stata molto elogiata. Le persone si rendono conto che non possono più accettare una situazione imposta, ma debbono cercare nuove strade, che richiedono riflessione e dibattito.

È vero che qualcuno voleva impedirvi di fotografare le opere visitate?
È vero. Un giovane wapichana stava filmando le fognature non finite ed è stato fermato dalla polizia. Poi è arrivato il gruppo dei partecipanti all’incontro (60 persone), e la polizia non ha più potuto impedire le riprese.
Io, come giornalista, non ero lì, perché impegnato in una riunione con la Cut (Centrale unica dei lavoratori). Mi trovavo con 11 sindacalisti, che hanno un’esperienza maggiore dei contadini sul come affrontare la polizia. Quando sono arrivato, ho cercato di forzare un po’ la situazione. Gli indios hanno commentato l’episodio dicendo che, se fossero stati in territorio indigeno, avrebbero sequestrato i poliziotti; però, essendo in territorio bianco, hanno rispettato l’azione dei leader bianchi.
Questa dichiarazione è bella: dimostra che, se i bianchi avessero deciso di affrontare la polizia, gli indios si sarebbero schierati dalla loro parte. Un’esperienza molto interessante.

Quali sono stati i tratti salienti dell’incontro di Rorainopolis?
Oltre alla visita delle opere pubbliche non finite, importante è stato stabilire rapporti di solidarietà con la popolazione.
Nell’incontro di Maturuca si è creata una forte solidarietà tra agricoltori e indios, perché le lotte sono simili: per esempio la lotta per il diritto alla terra. Con gli emarginati urbani i rapporti sono diversi, perché la città ha una realtà più complessa, e le lotte vertono soprattutto sulla ricerca di un impiego e contro la corruzione. L’incontro in area Apiaú ha segnato la vita di quella comunità. Il terzo incontro, a Boa Vista, è terminato con una marcia per le strade contro la corruzione.
Nel quarto incontro, a Rorainopolis, abbiamo fatto un’altra marcia; e, poiché la città è più piccola, ha avuto un impatto maggiore rispetto a Boa Vista. Molte persone si sono aggregate, sebbene non avessero partecipato agli incontri anteriori. Abbiamo dimostrato che la gente non è soddisfatta.
È stata una marcia contro la corruzione, ma anche a favore degli indios della Raposa Serra do Sol, dell’agricoltura familiare, degli incentivi agricoli, della creazione di nuovi impieghi. Siamo passati, marciando, davanti alle opere incompiute, ed è stato un momento di formazione per la popolazione locale. Si è proposta l’analisi della realtà. Questo non è ben visto da chi ha il potere.
Dopo la marcia, l’incontro è continuato. È stata importante la discussione per trovare proposte concrete di azione.

Quali sono state le proposte emerse?
Le proposte possono essere divise in quattro aree.
1. Necessità di informazione.
Nelle zone rurali arriva solo la radio del governo, internet non esiste, non c’è tivù (esiste solo in città). Si avverte l’urgenza di scambiare informazioni che portino ad una conoscenza migliore. Se indios, agricoltori e lavoratori delle città non si sono uniti prima, ciò è dovuto in parte alla non conoscenza delle problematiche di ciascuno. Esiste fra loro contrapposizione, favorita dal governo locale, che gli incontri si propongono di ridurre. Al riguardo, è importante fare un giornale popolare.
2. Formazione e interazione.
Gli enti che hanno lanciato la campagna Nós existimos offrono già una formazione ai loro dirigenti. I leader indigeni si incontrano sovente; gli agricoltori, attraverso la Cut la Pastorale della terra, realizzano diversi programmi; in città la Cut ha un costante processo di formazione. Però manca l’interazione tra queste realtà: ecco ciò che proponiamo. La formazione di ogni settore è importante, così pure la socializzazione. Noi non proponiamo programmi alternativi, ma all’interno di quelli già esistenti consigliamo una metodologia, affinché ogni gruppo non discuta solo di se stesso, ma interagisca con tutti. Questo è il lavoro che stiamo iniziando. Per ora sono coinvolte 60 persone. Noi vogliamo interagire con tutti quelli che già si occupano di indios, agricoltori, emarginati delle città. Con le strutture già esistenti, possiamo coinvolgere circa 3 mila persone.
3. Una banca di solidarietà.
Si tratta di organizzare un’agenzia finanziaria che sostenga, a partire dai fondi (limitati) esistenti, iniziative nel campo della produzione economica. L’idea è nuova, audace e rivoluzionaria. L’obiettivo ha bisogno di studio; il dibattito è incentrato sul come liberare le persone dalle strutture di potere da cui dipendono, dalle false promesse elettorali.
4. Commercializzazione dei prodotti.
L’efficacia di Nós existimos passa, anche, per l’autonomia economica. Esistono oggi in Brasile i mediatori, che speculano e guadagnano su ciò che noi produciamo. La ricerca di un commercio di giustizia è affascinante. Bisogna fare in modo che indios e agricoltori possano commercializzare tra loro i prodotti, perché l’indio non deve comprare riso dal latifondista (che ha invaso le sue terre) e l’agricoltore non può smettere di coltivare riso o fagioli solo perché i latifondisti già lo fanno. Occorre generare una domanda che rompa la struttura di monopolio, che soffoca la popolazione. Bisogna costruire un interscambio tale che tutti possano guadagnare.
I politici corrotti approfittano della situazione: ad esempio, nel settore dei trasporti, dove i contadini sono alla mercé dei politici; se gli agricoltori non sono d’accordo con loro, non hanno la possibilità di commercializzare i prodotti, perché viene loro negato il trasporto.
L’idea è di creare una commercializzazione giusta dei prodotti, per arrivare all’autonomia economica e politica. Si possono organizzare delle cornoperative che trasportino direttamente le merci in città.

Questi obiettivi, dall’inizio della campagna ad oggi, sono cresciuti? Esiste maggiore presa di coscienza?
Un agricoltore, leader sindacale, durante l’ultimo incontro ha detto: «Dobbiamo essere prudenti, perché il nostro progetto è audace, e non dobbiamo commettere sbagli nell’esecuzione. Il governo locale, sebbene corrotto, può attaccarci con i suoi avvocati, perché rompere la dipendenza economico-politica e costruire una sinergia tra indios, agricoltori ed emarginati delle città significa cambiare la storia di Roraima». Questo intervento è stato appoggiato da tutti.
Noi abbiamo la coscienza che la campagna destruttura il potere locale. Esiste la consapevolezza della necessità di costruire una proposta economico-politica alternativa, ma non possiamo risolvere la situazione da un momento all’altro.

Altre osservazioni sull’incontro di Rorainopolis?
Rorainopolis è una città costruita senza alcun progetto; più del 90% della gente è immigrata o di famiglie immigrate: lavora, è onesta, lotta. Ma è senza protezione. Vive in una condizione di miseria e sfruttamento estremo; proviene già dalla povertà del nord-est brasiliano, alla ricerca di una terra promessa, perché qui c’è acqua e terra fertile. È uscita da una vita di fame e siccità, e oggi incomincia a capire che vuol dire essere cittadini. Non si accontenta più delle «briciole» dei politici. Con un po’ di organizzazione, sta prendendo coscienza dei propri diritti.
Gli incontri ad Apiaú, maturuca e Boa Vista
Parliamo anche degli altri incontri, come quello dell’Apiaú (aprile 2003).
Nel 1999 alcuni agricoltori dell’Apiaú parteciparono ad un incontro di animatori pastorali a São Luis de Anauá. Uno di loro, nel 1953, abitava dove esisteva una maloca indigena. Lo feci notare. Egli mi aggredì: «È tutto falso. Non ci sono mai stati indios in quest’area». Risposi: «Vuoi che ti mostri centinaia di fotografie che attestano il contrario?». Rispose urlando: «Voi, preti, siete solidali solo con gli indios…».
L’incontro dell’Apiaú ha fatto capire che cosa si può fare in futuro. La proposta di incontrarci a Rorainopolis è venuta proprio dall’Apiaú. Qui prevale il mondo agricolo; non è molto diverso dagli altri mondi, ma ha la sua peculiarità. Apiaú è più vicina a Boa Vista, ha avuto un processo di colonizzazione recente, una organizzazione più forte dei lavoratori. Apiaú è vicina agli indios yanomami (con terre strappate a loro), c’è più consapevolezza di abitare vicino ad un’area indigena.
Nell’Apiaù si sfrutta il legname, ma, diversamente da Rorainopolis, non ci sono segherie. Rorainopolis è esplosa demograficamente negli ultimi 6-7 anni, da quando è divenuta municipio. È città piccola, ma con un grande caos sociale: droga, avventurieri, violenza, assassini, prostituzione femminile e infantile…
L’incontro di Rorainopolis, rispetto a quello dell’Apiaú, è stato più intenso. Il confronto con la realtà è stato maggiore. Abbiamo capito come l’organizzazione popolare possa cambiare i cammini della storia.

E in area indigena? Cosa c’è stato di importante nell’incontro di Maturuca di marzo-aprile?
L’incontro di Maturuca è stato il primo, ed è emersa la novità di Nós existimos. La sorpresa di capire, da parte degli indios, di avere degli alleati. I popoli indigeni, nel corso di questi anni, pensavano che i loro alleati fossero solo fuori dello stato di Roraima: cittadini stranieri e organizzazioni in difesa dei diritti umani. Gli indios hanno sempre considerato il popolo di Roraima anti-indigeno. A Maturuca gli indios hanno anche chiesto scusa per avere parlato male dei bianchi.
Gli indios hanno un grande rispetto per la chiesa, ma anche per la Cut. Si sono interessati per capire che cos’è il sindacato, la Commissione pastorale della terra, il Centro di difesa dei diritti umani e le altre organizzazioni della campagna. Paolo, leader degli agricoltori, dopo l’incontro di Maturuca, ha detto: «Ho la consapevolezza che esiste un movimento bene organizzato in Roraima. È il movimento indigeno, che ha tanto da insegnare ai non indios». E gli indios hanno risposto che hanno molto da imparare dai bianchi.

Nell’incontro di Boa Vista (1-2 maggio), con i lavoratori urbani, quali novità sono emerse?
C’erano 124 persone, mentre se ne aspettavano 60. Il tema principale è stato la corruzione nel pubblico impiego. Il problema grosso per i lavoratori urbani è il lavoro, per gli indios la terra e per gli agricoltori ancora la terra con una agricoltura familiare sostenibile.
Si è discusso dell’installazione di una fabbrica di cellulosa a Boa Vista e sul suo impatto ambientale. Una fabbrica che, secondo dati governativi, dovrebbe generare 634 posti di lavoro che lo stato presenta come la salvezza di Roraima. Ma la fabbrica causa un grande inquinamento; 634 posti di lavoro sono insignificanti, ma il governo li presenta come il toccasana e offre incentivi fiscali per favorire l’azienda. Noi consumatori pagheremo l’impatto ambientale, ma anche il costo in dollari dell’energia importata dal Venezuela, necessaria alla fabbrica. Una fabbrica, proprietà di un gruppo svizzero-canadese, che produrrà cellulosa su 150.000 ettari di acacia mangium. Ecco l’impatto ambientale disastroso.
Si è discusso pure del governatore di Roraima che ha aderito al Partito dei lavoratori. Il governatore, su cui pesano denunce di corruzione, è stato invitato ad entrare nel partito del presidente Lula, quando tutti sanno che Lula appoggia il movimento sociale della sinistra. È un problema inquietante.
la campagna diventa «movimento»
Parliamo della Cut, delle caratteristiche e prospettive di questo grande sindacato.
La Cut è entrata subito in Nós existimos. Quando abbiamo lanciato la campagna nel Forum mondiale sociale di Porto Alegre, per esempio, l’abbiamo fatto nella sede dei sindacalisti della Cut.
C’è stata una reazione violenta del governo di Roraima contro la Cut, la quale voleva realizzare il proprio congresso nell’area indigena Raposa Serra do Sol. C’è stata la reazione dura di alcuni leader della Cut, legati al governo di Roraima, i quali sono intervenuti contro la realizzazione del congresso.

Chi sono questi sindacalisti della Cut legati al governo?
C’è il sindacato della scuola, dei lavoratori rurali e alcuni segmenti del sindacalismo pubblico; c’è un deputato del Partito dei lavoratori di Roraima, che ha subìto l’influsso del governo locale ed è intervenuto perché la Cut abbandoni la campagna. L’opposizione dura del governo è avvenuta allorché la Cut ha deciso di riunirsi in area indigena, invitando persino alcuni indios.

Non è rivoluzionario ciò che è successo?
La partecipazione della Cut è fondamentale per la campagna, perché è un’istituzione molto rappresentativa. La Cut di Roraima è molto giovane e piccola; però la sua alleanza con il mondo indigeno è molto importante; se si alleasse con il governo di Roraima, sarebbe un disastro per tutti noi. È necessaria una proposta politica che coinvolga la Cut, il cui gruppo dirigente è ottimo. Ma ha bisogno di autonomia.
È un processo nuovo anche per i sindacalisti, che prima non conoscevano gli indios; la campagna permette l’integrazione tra sindacato e indigeni. La direzione della Cut, per tutto il 2004, non si lascerà comprare e farà gli interessi dei lavoratori. Crediamo che questa Cut sarà solidale con tutti.

Dagli incontri è emersa anche un’«azione estea» al Brasile, che potrebbe avere una finalità economica ricercando aiuti all’estero. Come giudica, per la campagna, l’aiuto finanziario esterno?
Gli amici stranieri sono preoccupati non solo per la nostra situazione economica, ma sono anche coinvolti nelle loro realtà con azioni politiche. Dobbiamo interagire di più con chi appoggia la campagna. Siamo giunti alla proposta di incontrare, qui a Roraima, i nostri alleati per chiarire cosa noi possiamo loro offrire e cosa essi possono darci. Siamo coscienti del lavoro che ci aspetta, a partire dagli scambi culturali e politici tra le varie entità della campagna.
È importante chiarire che noi siamo un piccolo gruppo di persone. C’è una sola persona che lavora a tempo pieno nella campagna. Io ne sono il cornordinatore, ma lavoro anche come giornalista nel Consiglio indigeno di Roraima. È difficile avere altri professionisti.
Ho incontrato una ragazza, di origine palestinese; le ho proposto di lavorare con noi, visto che sta finendo il corso universitario di giornalismo. Si è detta interessata, ma due giorni dopo ha dichiarato che non è possibile. Sicuramente c’è stata la pressione dei genitori, perché qui è pericoloso lavorare con gli indios e nella campagna.

Non pensa che il progetto economico, come l’avete elaborato, vi costringa a impegnarvi oltre le vostre possibilità?
Il progetto economico è nato dopo molta riflessione. Siamo in difficoltà per mancanza di professionisti (avvocati, giornalisti) che assumano il lavoro. Se li inviate dall’Italia, noi li accettiamo!

Senza professionisti, la campagna è ancora possibile a Roraima?
Mah, potrebbe esserlo! Noi facciamo tutto il possibile, ma siamo al limite. Stiamo affrontando necessità estreme. La speranza è di trovare persone che programmino, proprio per uscire dalla logica dell’urgenza. Noi non siamo il potere politico, però abbiamo quello della giustizia, della verità, della conoscenza, della lotta. Affrontare il potere politico è difficile, ma è anche entusiasmante.
Però, senza un’équipe di lavoro, ci sarà un momento di stallo. Allora diremo: l’idea è buona, ma non possiamo realizzarla.

Intanto però lavorate nella campagna.
Gli indios lottano per l’affermazione dei loro diritti, così gli agricoltori e gli emarginati delle città.
Noi, della campagna, nelle quattro domeniche di ottobre, abbiamo organizzato marce di protesta contro l’impunità e la corruzione, contro la centrale idroelettrica di Cotingo, perché in area indigena. Il nostro lavoro ha creato così numerose aspettative; a tal punto che, invece di una campagna, dovremmo parlare di un movimento permanente «Nós existimos». Come fare?
Le proposte che abbiamo presentato hanno ottenuto molti consensi; siamo stati invitati, per esempio, ad una conferenza sull’ambiente organizzata dall’università. Siamo invitati a numerose iniziative promosse a Roraima dal governo federale; però non sempre abbiamo la possibilità di presenza.
Ciò vuol dire che, invece di organizzare la festa per l’omologazione della terra indigena Raposa Serra do Sol, forse finiremo per organizzare il funerale di… André!
Recuperare il tempo perduto
André, lo so, tu sei un cornordinatore senza cornordinati. (Ndr: improvvisamente l’intervistatore ricorre al «tu», abbandonando il «lei»).
Mi auguro che tu abbia anche persone da cornordinare. I nostri gruppi in Italia capiranno che i loro aiuti sono essenziali perché possiate continuare la campagna.
Noi porteremo avanti il nostro progetto con o senza appoggi finanziari estei. Parlo del progetto ideale della campagna. È un cambiamento strutturale, e abbiamo una responsabilità enorme.
Noi vorremo fare, in un anno o poco più, il cammino perso nei 10 anni precedenti. Dal 1991, quando Roraima diventò stato, i politici hanno rubato il denaro del popolo. Ora dobbiamo rifare uno stato, recuperando 10 anni. C’è anche una pesante eredità storica di circa 300 anni, quando arrivarono i primi colonizzatori a Roraima con la convinzione che l’indio dovesse essere sempre schiavo. Dobbiamo convincere i «bianchi comuni» che sono stati sfruttati, come lo sono stati gli indios, e che devono organizzarsi, come hanno fatto gli indios.
E capire che gli indios non sono esseri inferiori o incapaci.
Abbiamo bisogno di correre contro il tempo.

Tu puoi correre, André, perché hai solo 27 anni.
Lei, padre Silvano, è più vecchio e, quindi, conosce meglio le fasi difficili della crescita: agricoltori in aree indigene, strade aperte in terre degli indios, loro stermini intenzionali, come ha documentato nel suo libro «Massacre» (Ndr: traduzione italiana «Sangue nell’Amazzonia»).
Io sono di un’altra generazione. Negli anni ‘80 ero ragazzino, ma ho visto che l’élite di Roraima si è appropriata di tutte le ricchezze, dimenticando i cittadini.

Il vostro è un lavoro ottimo. Potete contare sul nostro appoggio, non solo economico. Faremo in modo che non sia il ricco che dà al povero, ma uno sforzo di solidarietà.
Noi desideriamo proprio questo. Chi lavora con lei in Italia è preoccupato per l’ingiustizia presente anche da voi, così come noi lo siamo qui. È così che nasce la consapevolezza di aiutarci tra fratelli…
Grazie, padre Silvano, di averci dato ascolto.

La redazione ringrazia vivamente
Roberto Giacone e Paolo Guglielminetti,
che hanno sbobinato e tradotto dal portoghese l’intervista.

a cura di Silvano Sabatini




Brasile, indios Yanomami: nos existimos!

Uniti per la vita,
contro la violenza
e l’impunità.

Il manifesto della campagna internazionale
degli indigeni, dei contadini
e degli emarginati della città
(Roraima – Brasile).

N oi popoli indigeni, piccoli agricoltori e lavoratori emarginati della città, per la prima volta ci uniamo nella solidarietà per formare l’alleanza degli oppressi nello stato di Roraima (Brasile).
Insieme vogliamo affrontare l’esclusione sociale cui siamo sottomessi, quale conseguenza di progetti politici che favoriscono latifondi, monocolture e aggressioni all’ambiente, che occultano trame di corruzione e che negano i nostri diritti di cittadini.
Noi, popoli indigeni brasiliani di Roraima, subiamo aggressioni fisiche, psicologiche e culturali. Viviamo sotto la minaccia costante di essere invasi da latifondisti, risicoltori, garimpeiros (cercatori d’oro), industriali del legname e delle miniere (nazionali e multinazionali): sono questi i maggiori responsabili della distruzione dell’ambiente e della nostra sopravvivenza.
Inoltre si costruiscono caserme (Uiramutã, Surucucús e Auarís) vicino ai nostri villaggi; le donne sono vittime di abusi sessuali e gli amici assassinati; ci è negato il diritto alla terra, contemplato dalla Costituzione federale, soprattutto nell’area Raposa Serra do Sol. La classe politica locale e i mezzi di informazione fomentano razzismo e discriminazione, seminano odio contro di noi e ci accusano di interferire nello sviluppo dello stato.

N oi, piccoli agricoltori, siamo stati attirati in Roraima dalla promessa di possibilità economiche, di terre fertili, di sostegni alla produzione agricola. Oggi sappiamo di essere stati ingannati e usati dai politici locali per i loro interessi.
Siamo abbandonati nei nostri campi senza titoli di proprietà della terra che lavoriamo, senza strade, senza scuole, senza strutture sanitarie. In tale situazione, spesso, i nostri parenti si vedono costretti ad emigrare in città, alla ricerca di migliori condizioni di vita.
Mentre l’abbandono si aggrava e generalizza, il governo statale favorisce i latifondisti, e precisamente: sette grandi risicoltori, un gruppo svizzero-canadese (coltiva acacia mangium) e la multinazionale Mitsubishi (intende piantare soia nella savana). Tali monocolture causano gravi danni ambientali.

N oi, lavoratori emarginati della città, siamo veramente tali. Abbiamo dovuto abbandonare i campi, i garimpos (siti minerari all’aperto) e le malocas (villaggi indigeni) per venire a vivere in città.
Oggi subiamo ogni violenza della polizia (compresa quella sessuale sulle nostre donne), risultato dell’impunità e dello squilibrio sociale causato dallo sviluppo disordinato nelle città, dalla disoccupazione, dalla fame e mancanza di opportunità.
Non esiste una politica per gli emigrati in città.
Molti hanno paura di parlare, di denunciare, perché qui trova lavoro solo chi sta zitto o si umilia davanti ai politici. Stiamo ancora aspettando la restituzione dei fondi pubblici, sottratti illegalmente da politici corrotti, come nel caso della Lista dos Gafanhotos (pagamento di salari a funzionari pubblici fantomatici per fini elettorali).
Il fatto è stato denunciato pure dalla stampa nazionale.

N oi esistiamo, resistiamo e lottiamo per i nostri diritti. L’unione di indigeni, agricoltori e lavoratori urbani emarginati è un segno di grandi cambiamenti.
Chiediamo a voi, amici ed alleati in Europa, di partecipare alla campagna «Noi esistiamo». Tutti insieme costituiamo una vasta mobilitazione locale, nazionale e internazionale a favore della popolazione di Roraima.
Vi chiediamo di sottoscrivere
le seguenti rivendicazioni:
• Regolarizzazione fondiaria e concessione dei titoli di proprietà delle terre urbane e rurali di Roraima, rilasciando la documentazione anche alle donne lavoratrici.
• Approvazione del nuovo Statuto dei popoli indigeni, da 10 anni bloccato nel Congresso Nazionale di Brasilia, e regolamentazione della presenza dei militari nelle terre indigene di frontiera.
• Riconoscimento legale di tutte le terre indigene e protezione delle terre già demarcate, come esige la Costituzione federale, impedendo la deforestazione, l’inquinamento, lo sfruttamento minerario (a scapito dei diritti costituzionali indigeni) e le altre forme di aggressione all’ambiente e ai popoli indigeni.
• Immediata omologazione, come area continua, della terra indigena Raposa Serra do Sol e allontanamento degli invasori.
• Incentivi economici prioritari all’agricoltura familiare, con investimenti in infrastrutture basilari nelle zone rurali, e «stop» agli incentivi fiscali ai latifondisti: risicoltori e piantatori di acacia mangium o soia.
• Creazione di posti di lavoro per i lavoratori urbani e «stop» agli incentivi fiscali e all’installazione di una fabbrica di cellulosa a Boa Vista, dato l’altissimo costo sociale e ambientale.
• Combattere la violenza, l’impunità e la corruzione a tutti i livelli, con indagini e pene comminate agli implicati (a cominciare, per esempio, dalla Lista dos Gafanhotos) e la restituzione dei fondi sviati.
• Regolamentazione della presenza militare nelle aree indigene di frontiera.
I promotori di Nós existimos
– Diocesi di Roraima
– Missionari e missionarie della Consolata / Brasile
– Centri di difesa dei diritti umani / Roraima
– Pastorale urbana / Roraima
– Pastorale indigenista / Roraima
– Consiglio indigenista missionario (Cimi) / Brasile
– Consiglio indigenista di Roraima (Cir)
– Commissione pastorale della terra / Roraima
– Centrale unica dei lavoratori / Roraima (Cut)
1. Sottoscrivendo questo testo ed inviandolo per posta ad uno dei seguenti recapiti:

n Missioni Consolata (signora Gloriana)
Corso Ferrucci 14 – 10138 Torino
n Co.Ro. (Comitato Roraima) presso Barone
Via Tolmino 67 – 10141 Torino
n Movimondo (Vincenzo Pira)
Via di Vigna Fabbri 39 – 00179 Roma
2. Collegandosi al sito www.giemmegi.org/nos1.htm
(adesione via informatica). Da questo sito è possibile scaricare dei moduli che, sottoscritti, potranno essere spediti per posta ad uno dei suddetti recapiti.
3. Partecipando ai progetti di solidarietà della campagna con offerte di denaro. Si può servirsi del conto corrente postale numero 33.40.51.35,
intestato a Missioni Consolata Onlus,
Corso Ferrucci 14 – 10138 Torino.
Specificare la causale del versamento
con «Nós existimos».

aa.vv.




Cipro – Il dialogo che non c’è

Sono tutti concordi: tra ortodossi, cattolici, maroniti, musulmani non esiste inimicizia; si rispettano e, a volte, si dicono amici, ma il dialogo è un’altra cosa.
L’entrata di Cipro nell’Unione Europea è l’occasione per rompere il ghiaccio.

Boutros Gemayel,
arcivescovo maronita
La prima cosa che mi fa visitare è il piccolo museo di icone. «Le abbiamo portate dal nord senza troppa “pubblicità” quando la regione è stata occupata dai turchi» mi dice.
Sino all’invasione turca (1974) la maggior parte dei maroniti vivevano senza grossi problemi nei villaggi agricoli, quattro dei quali erano al nord. Due sono stati occupati dai militari, che ne hanno trasferito la popolazione; in un altro, parte degli abitanti è rimasta e parte si è trasferita al sud: a Kormakiti, il villaggio più grande con più di 2 mila persone, rimaneva il 40% degli abitanti, che piano piano sono passati al sud per lavorare: oggi ne rimangono poco più di un centinaio.
Quella dei maroniti è l’unica comunità cipriota che ha sempre avuto la possibilità di attraversare la linea verde piuttosto liberamente per visitare i parenti rimasti nei villaggi natii e fermarsi per 3-4 giorni. Il fatto è significativo sull’importanza che la piccola comunità cristiana potrà avere in un futuro dialogo con islamici e ortodossi, una volta ristabilita l’unità dell’isola.

Dopo questo esodo, la comunità ha mantenuto la propria unità?
«Purtroppo no. Sono gruppi sparsi. Solo recentemente abbiamo potuto avere una scuola maronita. Prima i nostri figli erano obbligati a frequentare le scuole pubbliche, dove gli alunni sono in maggioranza ortodossi. Ciò ha promosso la mutua conoscenza fra i giovani, ma favorito anche matrimoni misti: erano arrivati al 70%; oggi sono scesi al 50%».

In un paese diviso, dove si cerca d’instaurare un clima di dialogo, senla parlare di pericolo in questo contesto, mi sconcerta.
«Il pericolo è l’assimilazione: in una famiglia dove la madre è ortodossa e la fede molto sentita, i bambini seguiranno la religione della madre. Quando i maroniti abitavano nei loro villaggi, i matrimoni misti erano pochissimi. Noi abbiamo cercato di fondare centri di aggregazione, con scuole, centri sociali, casa per gli anziani, chiesa. Aspettiamo la soluzione, che permetta ai nostri maroniti di tornare ai villaggi, magari anche lavorando a Nicosia. Il piano di Annan, riconoscendo solo due grandi comunità cipriote, quella greca e quella turca, ha sottoposto i villaggi maroniti sotto l’autorità politica greca. Siamo felici di essere nella parte greca».

Perché?
«Perché sono cristiani come noi: con i greci i maroniti lavorano; con i turchi abbiamo religione, usi e costumi differenti».

Come sono i rapporti con i turchi e le autorità islamiche?
«Buoni. A natale ho celebrato la messa a Kormakiti: due importanti ufficiali turchi, assieme al responsabile religioso, sono venuti ad augurarmi un buon natale. Non abbiamo inimicizia né attriti, ma ci sentiamo parte della comunità greca».

Come vede l’entrata di Cipro in Europa?
«La sto guardando con molto interesse: come chiesa, io sarò cipriota e anche europeo e libanese. Potremo essere il ponte tra Europa, chiesa e Medio Oriente. Piuttosto, abbiamo alcuni problemi con i giovani, che, come in tutto il mondo, non sono molto vicini alla chiesa. Ma con la soluzione del problema di Cipro, potremmo essere più ottimisti, dato che un ritorno ai villaggi significherebbe anche un ritorno alla fede dei padri, alle chiese, alla casa, alla famiglia e potremo di nuovo riunirci».

E con la chiesa ortodossa?
«Abbiamo buone relazioni. Siamo cattolici, né uniati né latini: per gli ortodossi questo è importante. Noi maroniti siamo una chiesa a parte, tutti cattolici della chiesa di Antiochia; abbiamo le nostre tradizioni e relazioni sociali e umane con ortodossi; non siamo occidentali, ma orientali; quindi non siamo visti implicati nelle crociate. È per questo che abbiamo buone relazioni umane e tanti amici tra gli ortodossi».
Seyh Nazim Kibrisi,
leader musulmano
È la più importante guida sufi del mondo islamico. Ultraottantenne, vive in un paesino nella parte cipriota sotto occupazione turca, dove riceve visite di fedeli di tutto il mondo ed esponenti del sufismo internazionale.

La riunificazione dell’isola in una confederazione sembra a un passo: cristiani e islamici saranno di nuovo uniti e interagiranno insieme? Come vede questa nuova unione? Vi sentite pronti?
«Toerà tutto come prima. Dal punto di vista politico Cipro Nord ha una legislazione basata esclusivamente sul nazionalismo, senza alcun attributo islamico. Siamo turchi e la Turchia è uno stato secolare, così come lo è Cipro Nord».

L’islam non è solo una religione, ma anche un modo di vita. È possibile scindere le due fasi?
«Questo governo lo ha reso possibile. Ma sono fortemente critico nei suoi confronti e nella politica che sta attuando».

I politici di Cipro Nord dicono di essere pronti a entrare nella Unione Europea: cosa significa per voi, islamici, unirsi a una Comunità principalmente fondata su valori cristiani?
«È vero che l’Unione Europea è quella che io definisco un «club» cristiano. Nella storia turca abbiamo avuto i cosiddetti «nuovi ottomani». La loro idea di secolarizzazione è ancora viva. I «nuovi ottomani», che ora governano Turchia e Cipro Nord, sono pronti ad abiurare la loro religione e farsi cristiani pur di essere accettati nell’Unione Europea».

Ne è sicuro? Mi sembra un paradosso troppo estremo…
«Si, ne sono sicuro. Ma non lo fanno, perché hanno vergogna. Con il dominio ottomano si è formata una nuova idea di nazione, di leggi, di ordine mondiale ed essi pensano che essere con gli europei significa raggiungere il culmine della civiltà. Io non lo accetto questo».

Lei è contro anche alla globalizzazione dell’economia, che taglia ogni autosufficienza locale.
«Certamente. Sono anche contro quella grande associazione dell’Europa unita, che fa perdere ai singoli paesi identità e cultura originaria».

Nel 2004 una parte di Cipro, quella cristiana, aderirà all’Unione Europea: secondo lei perderà la propria identità?
«No, perché noi non siamo realmente in Europa. Siamo un’isola nel Mediterraneo e siamo indipendenti. Cipro chiede di aderire all’Unione solo per benefici economici e politici; oggi Cipro è un ricco paese, che può competere con qualsiasi nazione europea, sia dal punto di vista economico che politico. Se Cipro non fosse ammesso nella Comunità, non cambierebbe nulla. In realtà, oggi, c’è una grande voglia di non diventare cosmopolita, ma di mantenere la propria identità. E io non penso che questa Unione avrà lunga vita».

Lei critica l’Unione Europea perché cristiana e cosmopolita, la Turchia e Cipro Nord perché secolari: esiste un paese che definirebbe islamico?
«No, e non sa quanto mi dispiace rispondere alla sua domanda in modo negativo! Tra quelli che conosco, forse la Siria è quello che più si avvicina all’ideale islamico”.

Il problema è che l’islam non ha un leader riconosciuto, così ogni capo di comunità interpreta a piacimento ogni parola del Corano.
«La partizione non è una cosa positiva per l’islam. Il mondo islamico si è parcellizzato dopo la prima guerra mondiale, con il collasso dell’impero ottomano: è crollato con il califfo di Costantinopoli, che univa l’islam e dettava le leggi; così l’islam non ha più avuto un leader da seguire e ogni paese e territorio si è erto a giudice per la propria popolazione.
Anche i cristiani sono divisi: cattolici, protestanti, ortodossi. Per anni si sono combattuti. Oggi anche noi combattiamo tra noi stessi. Personalmente sono contro ogni tipo di fondamentalismo nell’islam».
Umberto Barato,
vicario del nunzio apostolico
a Cipro
Francescano, colmo di esuberante simpatia, Umberto Barato è la figura più in vista della chiesa cattolica latina a Cipro. La sua dimora lambisce la linea verde nel punto più caldo di Nicosia. Nella sacrestia della cattedrale la porticina che dà sulla parte turca è sigillata dal 1974.
Impossibilitato a dialogare con gli islamici, domando a che punto è quello con i cristiani ortodossi. La risposta è categorica: «Inesistente. Ci sono buoni rapporti, nel senso che ci si parla e non c’è alcuna inimicizia; ma non si può definire dialogo».

Come mai? Sono loro a chiudere le porte o entrambi?
«Non siamo pronti. Mi sembra che loro non si interessino per nulla della nostra chiesa. Nel passato c’era completa indifferenza; ma la situazione sta migliorando: l’apertura fatta dalla chiesa cattolica certamente facilita le cose.
Tre anni fa, in occasione della visita del papa in Grecia e Siria, sulle orme di san Paolo, abbiamo pensato a uno scalo a Cipro, poi andato a monte per ragioni diplomatiche e di tempo; ma quando si sparse la voce, un vescovo ortodosso disse che il papa avrebbe “attirato l’ira di Dio sulle loro teste”».

Nessuno lo ha smentito?
«Naturalmente quel vescovo fu preso in giro perfino dall’arcivescovo ortodosso di Cipro; ma è significativo che tale frase sia stata pronunciata. Anche tra alcuni fedeli ortodossi il pensiero verso la chiesa cattolica non è benevolo, anche se non è duro come in Grecia. Più che dalla chiesa, è dall’ambiente ortodosso che deriva tale malevolenza. L’unione tra le chiese dovrà esserci, ma per ora vedo tanti piccoli elementi che indicano che siamo molto distanti.
Personalmente penso che l’arcivescovo ortodosso abbia stima del papa e della chiesa cattolica, ma altri metropoliti lasciano un poco a desiderare«.

Tale diffidenza è riconducibile ad un preciso periodo storico?
«È certo eredità dei secoli passati. Fino a poco tempo fa trattavamo i greco-ortodossi come scismatici, che, a loro volta, ci consideravano esempio del male. Ci rinfacciano ancora l’occupazione di Costantinopoli, come se fosse tutta colpa della chiesa; ma io domando loro se turchi e arabi non abbiano fatto mai niente di male. Dopo Maometto, con le guerre sante, hanno occupato regioni asiatiche e l’Africa del nord, distruggendo chiese e costringendo i cristiani a convertirsi. Molti turchi convertiti una volta erano greci: lo afferma lo stesso arcivescovo ortodosso di Cipro. I crociati hanno commesso dei soprusi, non lo nego; ma i musulmani che hanno fatto? Scopo principale delle crociate, anche se poi sono degenerate, era proteggere i luoghi santi, perché i pellegrini venivano molestati e costretti a pagare una tassa. Ben diverso era il fine dei musulmani che volevano conquistare e convertire».

Per le due amministrazioni, turca e greca, la soluzione di Cipro sarebbe vicina: siete pronti per l’apertura e dialogo con l’islam?
«Con il governo Erdogan, la Turchia sembra avere un atteggiamento positivo e spera, attraverso Cipro, di entrare in Europa. Noi comunque siamo pronti. I contrasti potrebbero venire con la chiesa ortodossa: ufficialmente ha rifiutato «unanimemente» il piano di riunificazione, anche se non so quanto valga tale unanimità. Oramai non si può tornare indietro. Spero che non ci siano violenze, poiché non c’è solo l’ideale dell’unione; ma sono in ballo interessi economici, politici, strategici, personali, case, terreni e altre proprietà».

L’eventuale soluzione del problema di Cipro non cambierà molto per la chiesa cattolica, dal momento che la quasi totalità del lavoro si svolge nella parte greca.
«Sarà più facile andare al nord, anche se già mi reco due volte al mese a Kormakiti, dove lavorano tre suore, e a Kyrenia, dove abbiamo una chiesa e celebro la messa con una ventina di pensionati inglesi che vivono nell’isola.
Anche nella parte sud la chiesa cattolica è «straniera», in quanto composta da srilankesi, indiani, filippini. La chiesa latina, stabilitasi con le crociate, è vecchia di secoli; abbiamo una comunità locale cipriota che però sta diminuendo, anche perché i latini, sposandosi con greci ortodossi, si sono assimilati con gli ortodossi. Adesso abbiamo 400 persone, tutti stranieri. Un prete dello Sri Lanka è venuto ad aiutarci e segue la comunità cingalese. Così Cipro diventa un campo di apostolato che ci apre nuove prospettive per l’Asia».

Piergiorgio Pescali