DOSSIER KOSSOVODIARIO – Come una prigione a cielo aperto

La casa in cui dormivamo si trova a Gorazdevac, un’enclave serba di 800 abitanti. Gorazdevac è un villaggio di circa 3×3 km, attraversato da un’unica strada asfaltata. All’entrata e all’uscita ci sono i militari della Kfor (questa zona è assegnata a militari rumeni e italiani), che prendono nota di tutti quelli che entrano ed escono e sono naturalmente armati fino ai denti. Il villaggio è fatto di case in mattoni a vista, strade non asfaltate e orti, sembra di stare in campagna, ma una campagna decisamente squallida e anche piuttosto sporca. Gli 800 serbi che vivono qua non possono uscire dal villaggio, se non 3 volte alla settimana, sui convogli scortati dalla Kfor, e solo per andare in Serbia. Naturalmente il viaggio per uscire dal Kossovo e arrivare in Serbia è lungo e costoso e non è fattibile di frequente. Quindi il villaggio è, a tutti gli effetti, una sorta di prigione a cielo aperto. Noi italiani usciamo ed entriamo tranquillamente per andare nella vicina città albanese, Peja-Pec, mentre i serbi (nessuno di loro) può farlo senza rischiare la vita.
«Ma davvero se in città si accorgono che un tipo che sta passando è un serbo, lo ammazzano, così mentre cammina per la strada? E da cosa lo riconoscono, poi?» continuo a chiedere. Mi sembra ancor più incredibile in quanto noi invece ci muoviamo tranquillamente e tutti sono molto amichevoli con noi. Riesce difficile pensare che questi stessi abitanti della città possano trasformarsi in belve sanguinarie alla sola vista di un serbo. «Intanto i serbi per la maggior parte non parlano albanese – mi spiega Fabrizio – poi hanno dei tratti somatici lievemente differenti. Inoltre, prima del ’99 non erano così rigidamente segregati, quindi molti albanesi conoscono molti dei serbi del villaggio. Non è detto che tutti gli albanesi si metterebbero a picchiare un serbo appena lo vedono, ma è molto probabile che qualcuno lo farebbe. Prima degli avvenimenti del 13 agosto 2003, qualcuno si azzardava ad uscire qualche volta, anche se comunque sempre scortato da noi, magari per venire in città a fare acquisti, ma ora non è più possibile».
Ogni famiglia a Gorazdevac ha un po’ di terra e qualche animale, molto importanti per il loro sostentamento. Ci sono due o tre chioschi che vendono qualcosa da mangiare, una «boutique» (c’è scritto così sull’insegna; in realtà, è un chiosco di 2 metri x 2, che vende qualche vestito), una farmacia, un bar e una specie di centro di ritrovo per i ragazzi (che consiste in due stanze in pietra sotto terra che fanno da pub e un biliardino), una chiesa, un campo di calcetto, due cimiteri e qualche gioco per i bambini. Essendo il villaggio un’economia chiusa, il lavoro non c’è per tutti e comunque chi lavora, ha una paga media di 200 euro; chi non ha lavoro dispone di un sussidio di 30 euro al mese per famiglia. Si fa fatica ad arrivare a fine mese, ma il problema di fondo non è la povertà, è la depressione. Per i vecchi e i bambini la dimensione del villaggio potrebbe anche avere dei lati positivi, ma per i giovani diventa incredibilmente frustrante. Nel villaggio ci sono le scuole – fino alle superiori – ma manca ogni prospettiva, ogni possibilità di un futuro normale.
Viene naturale chiedersi perché questi serbi, almeno i giovani, non se ne vadano in Serbia, alla ricerca di una vita normale. Non so rispondere a questa domanda. Sicuramente a Gorazdevac hanno una casa, qualche animale e – alcuni di loro – anche un lavoro, e questo è già molto. In Serbia sarebbero dei profughi senza nulla, e il tasso di disoccupazione in Serbia è già molto alto per i non profughi, figuriamoci quanto sarebbe difficile trovare lavoro per loro. Ma c’è anche la volontà di non abbandonare la propria terra, un sentimento nazionalistico esacerbato dallo scontro con gli albanesi, che difficilmente noi possiamo capire.
Federica e Fabrizio, i due volontari della Colomba, hanno dei progetti di «educazione alla multietnicità» che portavano avanti sia nella città con i ragazzi albanesi, sia nel villaggio, con i serbi. Fino all’anno scorso questo tentativo di integrazione aveva dato anche dei piccoli-grandi risultati, addirittura i ragazzi delle due etnie si incontravano ogni tanto, confrontandosi su attività comuni (rappresentazioni teatrali o mostre fotografiche, preparate separatamente, ma allestite insieme). Poi è successo che una mattina d’estate, i serbi erano in riva al fiume che facevano il bagno e prendevano il sole, quando qualcuno ha sparato sulla «folla», uccidendo due ragazzi e ferendone molti (si legga, in questo stesso dossier, «L’ultimo tuffo di Ivan»). È stato come distruggere in un attimo il lavoro di un anno. Da quel momento la chiusura – sia mentale che fisica – dei serbi è diventata totale. Si è dovuto ricominciare tutto da capo, ma crederci è diventato più difficile.
Un altro lungo periodo di lavoro lento e faticoso, sia con gli albanesi che con i serbi, per convincerli a ricominciare… e poi un nuovo scoppio di violenza. Un altro enorme passo indietro, è difficile ricominciare un’altra volta, anche Federica e Fabrizio fanno fatica a trovare l’entusiasmo. Dopo quello che è successo, anche i rifoimenti dei negozi all’interno dell’enclave diventano più scarsi e Fabrizio e Federica si riducono a fare un servizio di «compere» in città: medicine, scarpe ad un ragazzo che non può sceglierle né provarle, taniche di benzina, pezzi di ricambio per gli attrezzi agricoli…
Fabrizio e Federica non sono a Gorazdevac per questo, ma in questo momento c’è bisogno anche di questo. Comunque continuano a fare attività di discussione con serbi e albanesi. Il villaggio fa molto affidamento su di loro, ed è curioso vedere come comunque i ruoli siano ben definiti: a Fabrizio si rivolgono gli uomini, per chiedergli degli acquisti o una «scorta» se devono uscire dall’enclave; a Federica invece si appoggiano le donne quando la difficoltà di portare avanti una famiglia nella povertà e nella mancanza di speranza si fa più pesante. Per loro è molto importante che lei vada a trovarle e far loro un po’ di compagnia.

Nel villaggio non c’è il metano, la linea telefonica funziona solo nella ricezione. Ci si scalda, si cucina e si fa luce solo con l’elettricità, ma la Kek, l’impresa elettrica del Kossovo, non riesce a rifornire costantemente e così la corrente viene sospesa quasi tutti i giorni e in casa, a lume di candela e senza televisione, non rimane molto da fare. Una stufa a legna è presente in tutte le case, per potersi scaldare e per cucinare anche quando manca la corrente.
Noi non abbiamo condiviso la loro condizione, perché eravamo liberi di spostarci ovunque e lo facevamo, ma la gente di Gorazdevac ci si è comunque affezionata. I giovani parlano un po’ di inglese, i bambini parlano un po’ di italiano (alcuni molto bene) e con gli adulti comunicavamo grazie a Fabrizio e Federica che traducevano. La sera casa nostra diventava un’isola di allegria nel villaggio (cantavamo, giocavamo, parlavamo) e quando ce ne siamo andati, probabilmente a qualcuno siamo mancati.
Un’esigenza molto forte era quella di comunicare col mondo esterno, che in quel momento noi rappresentavamo. La domanda ricorrente era: «Cosa ne pensi di Gorazdevac?». Una domanda a cui era difficilissimo rispondere. Ma non potevi prenderli in giro: dovevi dire loro che a Gorazdevac la situazione è molto triste. Ed immediatamente dopo ti dicevano: «Quando torni in Italia, racconta ciò che hai visto».
Fabiana Scotto

Fabiana Scotto




DOSSIER KOSSOVOVivere a Goradzevac

In una «enclave» serba

Emozioni e sentimenti di una volontaria
che sente sulla propria pelle la disperazione
di non riuscire a fare abbastanza.

Toare in Kossovo è stato emozionante. Rivedere persone e luoghi a cui mi ero affezionata è stato importante e bello, ma è stato molto duro accettare l’evidenza della staticità della situazione, che sembra non lasciare spazio ad una evoluzione positiva.
La morte dei due giovani serbi di Gorazdevac, l’estate scorsa (13 agosto 2003), ne è la prova più triste ed evidente.
Erano andati a fare il bagno al fiume, e qualcuno ha cominciato a sparare, uccidendo a sangue freddo un ragazzo di 19 anni, un altro di 12 e ferendone altri. Il diciannovenne Ivan (si legga, più avanti, il toccante racconto di Fabrizio) era uno dei ragazzi serbi che si dava più da fare per dialogare e creare un contatto positivo con i giovani albanesi di Peja-Pec, uno di quelli che «ci stava» a mollare un po’ di pregiudizi e di condizionamenti politici per cominciare a vivere, a guardare avanti, oltre il check-point.
Così mi sono ritrovata a vivere a Gorazdevac, minuscola enclave serba, alle porte di Pec (o Peja, come viene chiamata dagli albanesi), a condividere con questi serbi rimasti in Kossovo, un mese della mia vita. Troppo poco per sentirmi utile, abbastanza per farmi aprire gli occhi e il cuore su quanto lontano sia l’orizzonte della pace nel cuore della gente, a 5 anni dalla fine della guerra «ufficialmente dichiarata».
Le giornate, in questa parte di Kossovo, trascorrono come ovattate, in sordina, uguali le une alle altre, scandite dal canto del gallo che quasi non sembra riconoscere il giorno dalla notte.
La gente semplicemente si sveglia, beve il suo kafa, la sua rakia, taglia la legna per il fuoco; le donne rassettano la casa, lavano i panni, preparano il pane, accolgono gli ospiti che passano a salutare, cucinano, lavorano a maglia. Pochi hanno la fortuna di lavorare e di poter contare su uno stipendio sicuro (nel senso di fisso, non certo nel senso di sufficiente al proprio sostentamento). I più si dedicano a coltivare il loro fazzoletto di terra e ad allevare le poche bestie che danno loro il latte, le uova e la carne che mangiano. Molti vivono grazie all’aiuto economico di parenti lontani che riescono a mandare loro qualcosa ogni mese.
Sono pochi quelli che si sono rimboccati le maniche e hanno iniziato minuscole attività commerciali (piccole rivendite di generi alimentari) che bastano a guadagnare lo stretto necessario per sopravvivere, o poco di più. Il futuro è qualcosa di intangibile: è come se il tempo si fosse fermato. I giovani, i bambini e gli anziani condividono alla stessa maniera la loro tragica condizione di prigionia, trattando il futuro, o le proprie aspirazioni, come sogni irrealizzabili o troppo lontani (almeno quanto il confine con la Serbia) per poterli anche solo immaginare. Ogni giorno è uguale a quello precedente e a quello successivo…nulla scalfisce il senso di staticità di cui sono intrise le giornate di Gorazdevac.
Le feste del calendario ortodosso e i compleanni sono le uniche occasioni utili ad organizzare qualcosa di nuovo, a creare momenti di aggregazione dal sapore fresco (ma comunque sempre conditi da fiumi di alcornol). Tutto il resto è oblio.
I discorsi girano intorno ai ricordi del passato, alla politica e ai racconti di guerra, a episodi di violenza occorsi tra serbi e albanesi prima e dopo il 1999, a episodi della vita quotidiana che hanno come protagonisti gli stessi abitanti del villaggio o qualche raro «forestiero» capitato lì per sbaglio…
Quello che si respira da queste parti è un senso di impotenza che appesantisce l’animo, deprime l’umore, spezza le gambe.
La possibilità di una convivenza con la popolazione albanese è molto lontana: per loro una eventualità non presa in considerazione, neanche (anzi soprattutto) dai giovani; per noi che cerchiamo un «gancio» per la pace è un miraggio . Il sogno della «Grande Serbia» rappresenta nello stesso tempo lo stimolo a sopravvivere e il grande errore che non farà mai guadagnare agli abitanti di Gorazdevac (e tutti i serbi presenti sul territorio) ad una convivenza serena col resto del Kossovo.
C’è gente che dal ’99 non è mai uscita dai due check-point che delimitano i confini del villaggio. Andare a Peja-Pec, è semplicemente un tabù di fatto. Dopo la morte dei due ragazzi poi, la paura di uscire da Gorazdevac è molto forte, anche per chi viene scortato dalla Kfor. Sono veramente pochi i coraggiosi che si avventurano fuori del villaggio senza scorta e lo fanno quasi esclusivamente per business (come dire che, al solito, sono i soldi il magico «minimo comune denominatore» che unisce uomini di popoli, etnie, religioni, ideologie diverse, nel sacro vincolo del guadagno).
Il convoglio che parte da Gorazdevac per destinazioni serbe, attraversa (scortato dalle camionette della Kfor) le località kossovare senza fermarsi prima del confine, come una meternora con una destinazione prestabilita.

Toare in Kossovo è stato emozionante. Rivedere persone e luoghi a cui mi ero affezionata è stato importante e bello, ma è stato molto duro accettare l’evidenza della staticità della situazione, che sembra non lasciare spazio ad una evoluzione positiva.
La morte dei due giovani serbi di Gorazdevac, l’estate scorsa (13 agosto 2003), ne è la prova più triste ed evidente.
Erano andati a fare il bagno al fiume, e qualcuno ha cominciato a sparare, uccidendo a sangue freddo un ragazzo di 19 anni, un altro di 12 e ferendone altri. Il diciannovenne Ivan (si legga, più avanti, il toccante racconto di Fabrizio) era uno dei ragazzi serbi che si dava più da fare per dialogare e creare un contatto positivo con i giovani albanesi di Peja-Pec, uno di quelli che «ci stava» a mollare un po’ di pregiudizi e di condizionamenti politici per cominciare a vivere, a guardare avanti, oltre il check-point.
Così mi sono ritrovata a vivere a Gorazdevac, minuscola enclave serba, alle porte di Pec (o Peja, come viene chiamata dagli albanesi), a condividere con questi serbi rimasti in Kossovo, un mese della mia vita. Troppo poco per sentirmi utile, abbastanza per farmi aprire gli occhi e il cuore su quanto lontano sia l’orizzonte della pace nel cuore della gente, a 5 anni dalla fine della guerra «ufficialmente dichiarata».
Le giornate, in questa parte di Kossovo, trascorrono come ovattate, in sordina, uguali le une alle altre, scandite dal canto del gallo che quasi non sembra riconoscere il giorno dalla notte.
La gente semplicemente si sveglia, beve il suo kafa, la sua rakia, taglia la legna per il fuoco; le donne rassettano la casa, lavano i panni, preparano il pane, accolgono gli ospiti che passano a salutare, cucinano, lavorano a maglia. Pochi hanno la fortuna di lavorare e di poter contare su uno stipendio sicuro (nel senso di fisso, non certo nel senso di sufficiente al proprio sostentamento). I più si dedicano a coltivare il loro fazzoletto di terra e ad allevare le poche bestie che danno loro il latte, le uova e la carne che mangiano. Molti vivono grazie all’aiuto economico di parenti lontani che riescono a mandare loro qualcosa ogni mese.
Sono pochi quelli che si sono rimboccati le maniche e hanno iniziato minuscole attività commerciali (piccole rivendite di generi alimentari) che bastano a guadagnare lo stretto necessario per sopravvivere, o poco di più. Il futuro è qualcosa di intangibile: è come se il tempo si fosse fermato. I giovani, i bambini e gli anziani condividono alla stessa maniera la loro tragica condizione di prigionia, trattando il futuro, o le proprie aspirazioni, come sogni irrealizzabili o troppo lontani (almeno quanto il confine con la Serbia) per poterli anche solo immaginare. Ogni giorno è uguale a quello precedente e a quello successivo…nulla scalfisce il senso di staticità di cui sono intrise le giornate di Gorazdevac.
Le feste del calendario ortodosso e i compleanni sono le uniche occasioni utili ad organizzare qualcosa di nuovo, a creare momenti di aggregazione dal sapore fresco (ma comunque sempre conditi da fiumi di alcornol). Tutto il resto è oblio.
I discorsi girano intorno ai ricordi del passato, alla politica e ai racconti di guerra, a episodi di violenza occorsi tra serbi e albanesi prima e dopo il 1999, a episodi della vita quotidiana che hanno come protagonisti gli stessi abitanti del villaggio o qualche raro «forestiero» capitato lì per sbaglio…
Quello che si respira da queste parti è un senso di impotenza che appesantisce l’animo, deprime l’umore, spezza le gambe.
La possibilità di una convivenza con la popolazione albanese è molto lontana: per loro una eventualità non presa in considerazione, neanche (anzi soprattutto) dai giovani; per noi che cerchiamo un «gancio» per la pace è un miraggio . Il sogno della «Grande Serbia» rappresenta nello stesso tempo lo stimolo a sopravvivere e il grande errore che non farà mai guadagnare agli abitanti di Gorazdevac (e tutti i serbi presenti sul territorio) ad una convivenza serena col resto del Kossovo.
C’è gente che dal ’99 non è mai uscita dai due check-point che delimitano i confini del villaggio. Andare a Peja-Pec, è semplicemente un tabù di fatto. Dopo la morte dei due ragazzi poi, la paura di uscire da Gorazdevac è molto forte, anche per chi viene scortato dalla Kfor. Sono veramente pochi i coraggiosi che si avventurano fuori del villaggio senza scorta e lo fanno quasi esclusivamente per business (come dire che, al solito, sono i soldi il magico «minimo comune denominatore» che unisce uomini di popoli, etnie, religioni, ideologie diverse, nel sacro vincolo del guadagno).
Il convoglio che parte da Gorazdevac per destinazioni serbe, attraversa (scortato dalle camionette della Kfor) le località kossovare senza fermarsi prima del confine, come una meternora con una destinazione prestabilita.

IL DIPLOMA SPARITO
Al baretto dove si incontrano i ragazzi di Gorazdevac, si può bere birra, succo di frutta, e poco altro. Non ci sono tavoli e sedie: si sta in piedi chiacchierando del più e del meno. A volte (soprattutto il sabato sera) si improvvisano danze di gruppo al ritmo di qualche balcanica ballata. E si fumano centinaia di sigarette, che rendono l’ambiente irrespirabile. Al baretto, la notte del capodanno serbo (tra il 12 e il 13 gennaio) abbiamo festeggiato la mezzanotte insieme ai ragazzi del villaggio. Ho chiacchierato a lungo con V. e R., due giovani in gamba e di cuore, che nella loro vita hanno solo avuto la sfortuna di nascere e vivere a Gorazdevac, e di dover subire le conseguenze di una guerra assurda. Ad un certo punto ho detto: «Adesso basta! Non parliamo più di guerra e di cose tristi. È capodanno, proviamo a divertirci!».
La risposta di R. mi ha scosso profondamente: «Ma io voglio parlare con te, Barbara! Qui non si può mai parlare di queste cose con qualcuno che ci faccia riflettere in un altro modo!».
V. è diplomato presso un istituto tecnico ad indirizzo elettronico. Il suo sogno è di fare l’avvocato. «Voglio fare l’avvocato, perché qui a Gorazdevac non c’è nessuno che fa bene questo mestiere, che difende i diritti di questa gente. Chi lo fa, lo fa per interesse. Chiede molti soldi a chi non ce li ha. Io voglio aiutare queste persone».
V. non può iscriversi all’Università, perché il suo diploma è sparito dopo la guerra. È andato a Pristina 3 o 4 volte (rischiando anche la vita), nella sede centrale della sua scuola, per avere informazioni sul suo diploma. Niente da fare: appena capivano che era serbo, gli albanesi in servizio negli uffici, gli dicevano che la persona competente non c’era e che avrebbe dovuto tornare un’altra volta… A nulla è servito l’intervento di Ong inteazionali per recuperarlo. V. ha persino accettato di pagare 100 euro ad un albanese che lavorava nella sua scuola, ma che alla fine si è tirato indietro (per timore della pressione sociale).
La sua carriera è bloccata. Cinque anni di vita, dal 1999 ad oggi, in cui i suoi sogni sono parcheggiati su un pezzo di carta seppellito tra altri, chissà dove. «Ti rendi conto Barbara? Un pezzo di carta… per loro non è niente, per me è tutto! Cosa gli costa spostarlo da là a qui? Cosa se ne fanno loro del mio diploma? Con esso potrei studiare, potrei costruire qualcosa per il mio futuro, ma è questo quello che non vogliono loro!». E poi aggiunge: «Sai, sono stanco di combattere, perché so che quel diploma non lo vedrò mai più».
V. è un ragazzo d’oro, con un grande cuore. Non ha mai torto un capello a nessuno, non ha bruciato case, non le ha saccheggiate.
Mentre V. mi parlava del suo diploma, del suo futuro mozzato dall’odio etnico, mi sono salite le lacrime agli occhi. Cercavo disperatamente dentro di me, qualcosa che potesse trasmettergli un po’ di energia, un po’ di ottimismo, ma niente.
Alla fine, abbiamo alzato i nostri bicchieri di birra e con un sorriso intenso e triste, abbiamo brindato all’amicizia, all’amore, al futuro.
Perché sognare è un diritto di tutti, anche dei giovani serbi di Gorazdevac.

COSA FACCIO QUI?

Il mio stare qui, a volte mi è incomprensibile e mi succede di essere presa da un senso di inutilità che mi paralizza. Non conoscere la lingua (il serbo) mi dispiace davvero tanto, anche se con qualche ragazzo posso comunicare in italiano, inglese e perfino in spagnolo. Con la maggior parte degli abitanti del villaggio cerco di comunicare a gesti, con piccole frasi in serbo che cerco di costruire a poco a poco («Dobar Dan!», «Kako si?», «Sutra idemo u Pec»), ma soprattutto comunico con lo sguardo. Allora il valore della mia presenza qui, mi diventa un po’ più chiaro. Se non altro potrei rappresentare, costituire un possibile «altro» con cui comunicare, essere lo specchio di un mondo che, al di là del check-point, continua ad andare avanti, che non si è fermato nel 1999.
Potrei essere voce di chi, albanese, nonostante il grande dolore per le morti, sarebbe disposto a comunicare con gli abitanti di Gorazdevac, rendendosi conto della assurdità di questa loro prigionia, che coinvolge giovani, anziani, bambini, esseri umani, esattamente uguali a loro, costretti a soffocare tra due check-point la propria vita, a reprimere i propri sogni e il proprio futuro.
Potrei essere un canale di comunicazione per quei giovani serbi che vorrebbero uscire dal circolo vizioso della pressione sociale, che ti obbliga ad evitare ogni contatto con gli albanesi (pena l’essere considerato una spia o un traditore dai tuoi stessi vicini di casa).
Potrei, ma troppe volte prevale il mio senso di impotenza. A volte, quello che riesco a fare è solo piangere insieme alle persone che incontro e che mi fanno partecipe delle loro piccole, grandi difficoltà quotidiane.

Al baretto dove si incontrano i ragazzi di Gorazdevac, si può bere birra, succo di frutta, e poco altro. Non ci sono tavoli e sedie: si sta in piedi chiacchierando del più e del meno. A volte (soprattutto il sabato sera) si improvvisano danze di gruppo al ritmo di qualche balcanica ballata. E si fumano centinaia di sigarette, che rendono l’ambiente irrespirabile. Al baretto, la notte del capodanno serbo (tra il 12 e il 13 gennaio) abbiamo festeggiato la mezzanotte insieme ai ragazzi del villaggio. Ho chiacchierato a lungo con V. e R., due giovani in gamba e di cuore, che nella loro vita hanno solo avuto la sfortuna di nascere e vivere a Gorazdevac, e di dover subire le conseguenze di una guerra assurda. Ad un certo punto ho detto: «Adesso basta! Non parliamo più di guerra e di cose tristi. È capodanno, proviamo a divertirci!».
La risposta di R. mi ha scosso profondamente: «Ma io voglio parlare con te, Barbara! Qui non si può mai parlare di queste cose con qualcuno che ci faccia riflettere in un altro modo!».
V. è diplomato presso un istituto tecnico ad indirizzo elettronico. Il suo sogno è di fare l’avvocato. «Voglio fare l’avvocato, perché qui a Gorazdevac non c’è nessuno che fa bene questo mestiere, che difende i diritti di questa gente. Chi lo fa, lo fa per interesse. Chiede molti soldi a chi non ce li ha. Io voglio aiutare queste persone».
V. non può iscriversi all’Università, perché il suo diploma è sparito dopo la guerra. È andato a Pristina 3 o 4 volte (rischiando anche la vita), nella sede centrale della sua scuola, per avere informazioni sul suo diploma. Niente da fare: appena capivano che era serbo, gli albanesi in servizio negli uffici, gli dicevano che la persona competente non c’era e che avrebbe dovuto tornare un’altra volta… A nulla è servito l’intervento di Ong inteazionali per recuperarlo. V. ha persino accettato di pagare 100 euro ad un albanese che lavorava nella sua scuola, ma che alla fine si è tirato indietro (per timore della pressione sociale).
La sua carriera è bloccata. Cinque anni di vita, dal 1999 ad oggi, in cui i suoi sogni sono parcheggiati su un pezzo di carta seppellito tra altri, chissà dove. «Ti rendi conto Barbara? Un pezzo di carta… per loro non è niente, per me è tutto! Cosa gli costa spostarlo da là a qui? Cosa se ne fanno loro del mio diploma? Con esso potrei studiare, potrei costruire qualcosa per il mio futuro, ma è questo quello che non vogliono loro!». E poi aggiunge: «Sai, sono stanco di combattere, perché so che quel diploma non lo vedrò mai più».
V. è un ragazzo d’oro, con un grande cuore. Non ha mai torto un capello a nessuno, non ha bruciato case, non le ha saccheggiate.
Mentre V. mi parlava del suo diploma, del suo futuro mozzato dall’odio etnico, mi sono salite le lacrime agli occhi. Cercavo disperatamente dentro di me, qualcosa che potesse trasmettergli un po’ di energia, un po’ di ottimismo, ma niente.
Alla fine, abbiamo alzato i nostri bicchieri di birra e con un sorriso intenso e triste, abbiamo brindato all’amicizia, all’amore, al futuro.
Perché sognare è un diritto di tutti, anche dei giovani serbi di Gorazdevac.

COSA FACCIO QUI?
Il mio stare qui, a volte mi è incomprensibile e mi succede di essere presa da un senso di inutilità che mi paralizza. Non conoscere la lingua (il serbo) mi dispiace davvero tanto, anche se con qualche ragazzo posso comunicare in italiano, inglese e perfino in spagnolo. Con la maggior parte degli abitanti del villaggio cerco di comunicare a gesti, con piccole frasi in serbo che cerco di costruire a poco a poco («Dobar Dan!», «Kako si?», «Sutra idemo u Pec»), ma soprattutto comunico con lo sguardo. Allora il valore della mia presenza qui, mi diventa un po’ più chiaro. Se non altro potrei rappresentare, costituire un possibile «altro» con cui comunicare, essere lo specchio di un mondo che, al di là del check-point, continua ad andare avanti, che non si è fermato nel 1999.
Potrei essere voce di chi, albanese, nonostante il grande dolore per le morti, sarebbe disposto a comunicare con gli abitanti di Gorazdevac, rendendosi conto della assurdità di questa loro prigionia, che coinvolge giovani, anziani, bambini, esseri umani, esattamente uguali a loro, costretti a soffocare tra due check-point la propria vita, a reprimere i propri sogni e il proprio futuro.
Potrei essere un canale di comunicazione per quei giovani serbi che vorrebbero uscire dal circolo vizioso della pressione sociale, che ti obbliga ad evitare ogni contatto con gli albanesi (pena l’essere considerato una spia o un traditore dai tuoi stessi vicini di casa).
Potrei, ma troppe volte prevale il mio senso di impotenza. A volte, quello che riesco a fare è solo piangere insieme alle persone che incontro e che mi fanno partecipe delle loro piccole, grandi difficoltà quotidiane.

BOX 1

L’ultimo tuffo di Ivan

«Jebenti Federica», aspettando sotto il sole che Federica arrivi per portare altri ragazzi al centro giovanile «Zoom», che sta in città, mi scappa questa imprecazione colorita più per attaccare discorso che per dir male di lei. Una voce mi corregge dal sedile posteriore della jeep: «Jebenti Federicu».
Sbaglio sempre le declinazioni dei nomi quando parlo serbo. Chi mi corregge vive qui a Gorazdevac, ma è nella nostra auto perché è uno di quei ragazzi che, paura e genitori permettendo, frequenta il centro giovanile.
Se fossimo in Italia non ci sarebbe nulla di male, ma qui siamo Peja-Pec e i serbi, quelli che sono rimasti, vivono chiusi nelle enclave e la loro mobilità è vincolata dalle scorte della Kfor. Da un po’ di tempo però c’è chi rompe «l’assedio» dall’una e dall’altra parte della barricata. Sono i ragazzi del centro giovanile «Zoom», che incominciano a conoscersi gli uni e gli altri al di là dell’etnia d’appartenenza. Mauro e Agron, che lavorano per il «Tavolo Trentino con il Kossovo», cercano di stimolare i ragazzi all’incontro dando forza alle spinte che arrivano dai ragazzi stessi.
L’incontro c’è, magari ancora un po’ freddo ma almeno tutti scoprono che quelli dall’altra parte non sono «tutti bestie» come si dice. I pretesti nascono quasi per caso: il corso di teatro, quello di fotografia, l’alpinismo, un corso di giornalismo e poi i momenti ludici come la settimana bianca o i pic-nic al fiume.
Non è facile incontrarsi: per i serbi è difficile andare in zona albanese, è pericoloso; per gli albanesi sono ancora limpidi i ricordi dei giorni di esodo per essere a proprio agio in un’enclave serba. Ma gli incontri ci sono e quando li vedi e ti ricordi come era qui 4 anni fa quasi non ci credi. Il ragazzo che corregge la mia imprecazione si chiama Ivan, ha 18 anni e una passione per la fotografia che sta coltivando con il corso organizzato dal centro «Zoom» e con le capatine al laboratorio fotografico dello stesso. In paese fa il barbiere ma si lamenta che non ha molti clienti (gli abitanti sono un migliaio) e poi fa il barista alle feste che ogni sabato vengono organizzate in un barettino per rompere la monotonia e far sembrare questo paesino, circondato dall’esercito italiano e rumeno, un posto più normale. Ivan è tacituo e forse nasconde la naturale baldanza che uno ha a quell’età. Quando il caldo si fa forte corre al fiume a fare un tuffo.

Ivan ha fatto il suo ultimo tuffo il 13 agosto 2003. Ivan e un altro ragazzino di dodici anni sono stati uccisi da una scarica di proiettili uscita da dietro un cespuglio. Ivan è morto al fiume due ore prima del nostro appuntamento che lo avrebbe portato a seguire il corso di fotografia assieme ad altri ragazzi serbi e albanesi.
Dall’altra parte del fiume c’è un paese albanese che nel ’99 ha subito la perdita di 35 persone uccise dai fucili dei paramilitari serbi. Questo però non giustifica nulla. Non è stata fatta giustizia solo ancora ingiustizia. Conosco la madre e la zia di Ivan: solamente il pensiero del loro dolore mi opprime mi fa sentire per l’ennesima volta impotente di fronte all’ingiustizia. Preferirei non aver conosciuto Ivan, sua madre, sua zia, il suo villaggio e il Kossovo. Vorrei che Ivan fosse solo una notizia, solo un nome. Ma non è così, qui c’è chi ci prova, chi muore e ormai ci sono dentro anch’io, non posso fare finta di nulla. Rimane l’amaro in bocca per aver visto che si poteva e aver scoperto che c’è chi non vuole. A qualcuno l’odio è funzionale.
Cosa dire agli amici serbi e agli amici albanesi? Domani come oggi i serbi mi sputeranno in faccia le parole di convivenza che ho usato con loro in questi anni. Non posso che subire: in questo momento i buoni propositi sono stati spodestati dal dolore. Ma poi quando la gente si sarà un po’ tranquillizzata magari consegneremo loro la lettera di condoglianze scritta dai ragazzi albanesi che frequentano il centro, perché per loro Ivan era Ivan prima di essere serbo.
Agli amici albanesi, quelli che vivono qui, vicino all’enclave cercherò di dire che l’odio sta distruggendo l’anima del loro popolo che non è più quello forte e generoso che ho conosciuto in passato. Spero solo che a qualcuno venga la voglia di ricominciare e che la pace contagi anche chi non ci crede.
Fa.Be.

Barbara Magalotti




DOSSIER KOSSOVOLe missioni internazionali in Kossovo

Nel Kossovo sono presenti alcune missioni inteazionali sotto l’egida dell’Onu. Ecco, in sintesi, come sono organizzate e quali sono i principali obiettivi.
KFOR – La Kfor (Kosovo Force) è una forza multinazionale di pace a guida Nato, con il compito di stabilire e mantenere la sicurezza e controllare il rispetto degli accordi di pace, in base alla risoluzione Onu 1244. Nel 1999, all’inizio del suo dispiegamento, la Kfor era composta da circa 50.000 uomini. Ora il suo organico dovrebbe essere di circa 26.000 soldati, di 37 nazioni diverse. I soldati italiani sono 2.800. L’area di competenza è divisa in 4 zone, controllate da brigate multinazionali: il Nord-est a guida francese, il Centro a guida britannica, l’Est a guida statunitense e il Sud-ovest a guida italo-tedesca (nel 2002 sono state unificate le due precedenti zone, la Ovest a guida italiana e la Sud a guida tedesca). Il comandante della Kfor è attualmente il generale tedesco Holger Kammerhof, subentrato ad ottobre 2003 all’italiano Fabio Mini.
UNMIK – L’Unmik (United Nation Mission Kosovo) è un’operazione di pace approvata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu per la riforma e la ricostruzione del Kossovo e per la preparazione del territorio alle elezioni e ad un’eventuale autonomia. Anche l’Unmik è stata istituita con la risoluzione 1244. Da agosto dello scorso anno, l’Unmik è guidata dall’ex primo ministro finlandese Harri Holkeri ed è composta da circa 3.000 persone. L’Italia vi partecipa con uomini della polizia e della guardia di finanza.
MSU – L’Unità multinazionale specializzata è nata all’interno della Sfor, la missione Nato in Bosnia. Nell’ambito dell’operazione Joint Guardian una parte è stata dislocata in Kossovo, dove agisce nell’ambito della Kfor. Ha tra i suoi compiti principali il controllo del territorio e il mantenimento dell’ordine pubblico. La Msu è una forza comandata e composta in gran parte da carabinieri italiani (circa 270), affiancati da contingenti della gendarmeria francese e della polizia militare estone.

Fabrizio Bettini




DOSSIER KOSSOVOScheda storica

• Storicamente il Kossovo è considerato dai serbi come la culla della loro civiltà e per secoli lo hanno conteso ai turchi. Anche se, dall’altra parte, la presenza albanese nella regione è (secondo alcuni) storicamente provata sin dai tempi degli Illiri. Dal XII fino al XIV secolo il popolo slavo dei serbi occupò progressivamente queste regioni senza espellere la popolazione autoctona. Anche nel 1389, quando la Serbia fu sconfitta nella battaglia di Kossovo Polje contro gli ottomani, c’erano albanesi al suo fianco. Durante i 5 secoli di impero ottomano, il Kossovo è stato una delle quattro unità amministrative albanesi. Dopo la fine della dominazione ottomana, nel 1913 viene spartito tra Serbia, Montenegro e Albania.
• Nel 1878, a Prizren, nel sud del Kossovo, viene fondata la «Lega di Prizren», centro del movimento nazionale di tutti gli albanesi. L’obiettivo principale è la liberazione nazionale di tutti gli albanesi.
• Nel 1881 torna il dominio turco che dura fino al 1912, quando il Kossovo viene affidato alla Serbia dopo la 1.a guerra balcanica.
• Con l’accordo di Versailles il Kossovo e la Macedonia vengono assegnate al Regno jugoslavo, nel periodo che va dal 1919 al 1940, senza interpellare la popolazione in maggioranza macedone e albanese. Gli albanesi, a differenza di altri gruppi etnici, non godono di alcun diritto di minoranza.
• Tra il 1941e il 1943, il Kossovo e la parte occidentale della Macedonia vengono occupate dall’Italia e unite all’Albania. Si istituisce il protettorato italiano e si creano scuole in lingua albanese. Alla fine della 2.a guerra mondiale il Kossovo viene assegnato alla Federazione jugoslava. Con la Costituzione del 1946 diviene una provincia autonoma della Jugoslavia, con un potere di autogoverno.
• Tra il 1946 e il 1966 si vive un periodo di dura repressione per opera della polizia jugoslava comandata dal ministro degli interni Alexander Rankovic. Più di 100 morti, con deportazione di numerosi intellettuali.
• L’autonomia del Kossovo viene ampliata dalla nuova costituzione del 1963 e poi del 1974. Il Kossovo, nella sua qualità di Provincia autonoma, viene riconosciuto come uno dei soggetti costitutivi della Jugoslavia, con una propria costituzione, un proprio governo, parlamento, magistratura, sistema scolastico ed altre istituzioni indipendenti da quelle serbe.
• Nel 1981, morto Tito, ci sono i primi moti indipendentisti, domati con la legge marziale. Il Kossovo chiede di essere riconosciuto come repubblica al pari delle altre.
• Nel 1987 Milosevic prende il potere a Belgrado. Inizia il processo di cancellazione dell’autonomia del Kossovo.
• Una nuova rivolta comincia nel marzo 1989, dopo che Belgrado ha annullato lo status di autonomia. Sciopero ad oltranza di 1.300 minatori albanesi a Trepca, grande complesso minerario del Kossovo. Manifestazioni popolari di solidarietà in tutta la regione. Il 2 luglio il parlamento del Kossovo proclama la «Repubblica Kosova» all’interno della Jugoslavia. Il 5 luglio il parlamento viene sciolto da parte di Belgrado; il 7 settembre il parlamento albanese del Kossovo approva la nuova costituzione della Repubblica. La Serbia chiude la stazione Radio-Tv di Pristina, il quotidiano Rilindja, le scuole albanesi. Migliaia di albanesi sono licenziati o lasciano autonomamente il lavoro presso le ditte statali o legate al potere serbo. Inizia fra gli albanesi un’azione di riconciliazione nazionale che pone le basi per la scelta non-violenta del popolo kossovaro.
• Nel 1991 vengono licenziati tutti gli insegnanti albanesi del Kossovo; inizia l’insegnamento scolastico in lingua albanese nelle scuole parallele; il 10 settembre l’università di Pristina viene chiusa. Dal 26 al 30 settembre si tiene un referendum «clandestino»: l’87,5% della popolazione del Kossovo si esprime a favore della «Repubblica del Kossovo». La nuova Repubblica non riceve riconoscimenti inteazionali, se non da Tirana. Vengono boicottate le elezioni politiche e ne vengono organizzate di autonome.
• Gli albanesi del Kossovo eleggono il 24 maggio 1992, presidente della Repubblica, Ibrahim Rugova, capo della Lega democratica del Kossovo. Primo ministro è Bujar Bukoshi, esiliato in Germania. I kossovari creano una società parallela che gestisce le scuole, la sanità e le attività commerciali e politiche.
• Nel 1995 viene siglato il cessate il fuoco in Bosnia-Erzegovina con la firma degli accordi di Dayton, che non prevedono nessuna soluzione per il Kossovo. Non si contano le violazioni dei diritti umani in Kossovo e le richieste di mediazione internazionale portate avanti da Rugova.
• Nel settembre 1996 il presidente Milosevic firma per la prima volta un accordo con Rugova, con la mediazione della comunità di Sant’Egidio, sull’insegnamento della lingua albanese, fino ad allora boicottato.
• Il 1997 segna il riacuirsi delle tensioni: in gennaio il rettore dell’università di Pristina è gravemente ferito dall’esplosione di un’autobomba e a fine mese la polizia arresta decine di presunti terroristi dell’Esercito di liberazione del Kossovo (Uck). Il 16 dicembre successivo un tribunale serbo condanna per terrorismo 17 albanesi del Kossovo a complessivi 186 anni di prigione. La tensione sale.
• Il 28 febbraio 1998 unità serbe compiono un’azione nella zona di Drenica, assediando la casa di Adem Jashari, leader ideologico e fondatore dell’Uck, provocando 80 morti fra i civili albanesi. Inizia una fortissima repressione in tutta la regione. La polizia e l’esercito attaccano numerosi villaggi nelle zone centrali, una repressione che continua fino a giugno e provoca più di 300 morti. Il 22 marzo viene rieletto il presidente e il parlamento del Kossovo. È confermato Ibrahim Rugova e l’Ldk alla guida della Repubblica del Kossovo. Il 15 maggio, su pressione americana, Milosevic incontra per la prima volta Rugova per intavolare trattative dirette. Lo stesso giorno decreta un embargo interno contro il Kossovo. Alla fine di maggio viene attaccata la prima città, Decan. Quindicimila profughi si rifugiano in Albania, quasi quarantamila in altre città del Kossovo. La Nato svolge una serie di manovre per scoraggiare la violenza. A metà giugno Milosevic incontra il presidente russo Eltsin a Mosca, il quale scongiura un intervento della Nato. Sembra ripetersi lo scenario della guerra in Bosnia.
Gli attacchi serbi alla popolazione civile albanese continuano, anche l’Uck, seppur in misura minore, compie azioni contro i civili. Durante l’estate l’Uck avvia un’intensa attività di guerriglia in tutto il Kossovo. La reazione serba non si fa attendere e alla fine di settembre, il numero di albanesi vittime degli attacchi serbi ha superato il migliaio. Oltre 250 villaggi sono inabitabili, mentre più di 400.000 albanesi si sono rifugiati dove possono. La nonviolenza sembra aver esaurito la propria forza propulsiva e contenitiva allo stesso tempo, con l’apparizione pubblica degli aderenti all’Uck.
Il mediatore Holbrooke strappa a Milosevic, dopo tutta la serie dei tentennamenti della comunità internazionale che minaccia l’intervento armato, il ritiro nelle caserme della polizia serba e l’avvio di negoziati partendo dall’inammissibilità delle richieste kossovare di ottenere l’indipendenza. Una missione di 2.000 osservatori dell’Osce monitorerà le varie operazioni che dovranno portare alle elezioni del 1999, il rispetto dei diritti umani, il ritiro dell’esercito serbo nelle caserme e il ritorno dei profughi nelle proprie case.
• Il 15 gennaio del 1999, 45 civili albanesi vengono massacrati a Racak (strage contestata dai serbi che la considerano una montatura). I giorni successivi il procuratore del Tribunale penale internazionale, Louise Arbour, che indaga sul massacro, viene respinto alla frontiera serba. Le autorità di Belgrado ordinano l’espulsione del capo dei «verificatori» Osce William Walker che, recandosi sul posto, ha accusato le forze serbe di responsabilità del massacro. Il 29 gennaio i ministri degli esteri del Gruppo di contatto lanciano un’ultimatum politico ai governanti serbi e ai leader kossovari, per trovare un accordo sulla «sostanziale autonomia» del Kossovo. Il Gruppo di contatto convoca per il 6 febbraio a Rambouillet, vicino a Parigi, una Conferenza internazionale. I negoziati dovranno concludersi entro 7 giorni. Il 23 febbraio scaduto il nuovo ultimatum senza aver raggiunto un accordo, i ministri del Gruppo di contatto stilano la lista dei punti di accordo raggiunti che dovrebbe poi essere adottata quale punto di partenza di una nuova conferenza che si svolgerà a Parigi a partire dal 15 marzo. L’8 marzo i dirigenti militari dell’Uck autorizzano la firma dell’accordo di pace raggiunto a Rambouillet che la delegazione albanese firma il 18 marzo con l’accordo sull’autonomia del Kossovo, i serbi restano fermi sulla loro intransigenza. Il Gruppo di contatto sospende i lavori della Conferenza per alcuni giorni per concedere ai serbi di ritornare sulle loro decisioni. Il 23 marzo risultano fallite tutte le trattative e il 24 alle ore 20 la forza multinazionale sferra l’attacco sul territorio della Serbia. In Kossovo dopo il ritiro di tutti gli osservatori inteazionali i gruppi paramilitari serbi la fanno da padrona, numerose sono le stragi e l’espulsione di circa un milione di albanesi che si rifugiano per lo più in Albania, Macedonia ma anche Montenegro. Finalmente l’8 giugno viene raggiunto un accordo di pace: cessano i bombardamenti.
Il 18 giugno 1999 le forze Nato entrano in Kossovo e con loro rientrano anche i profughi albanesi. Parallelamente le forze di polizia e dell’esercito jugoslavo si ritirano fuori dai confini amministrativi del Kossovo.
Migliaia di serbi lasciano la regione, chi rimane subisce la vendetta. I serbi iniziano a vivere protetti dalle forze di sicurezza inteazionali. Viene insediata un’amministrazione internazionale Unmik che deve amministrare la regione passando gradualmente i poteri ad un’amministrazione locale fino alla definizione dello status del Kossovo.
In settembre l’Uck consegna ufficialmente le armi (anche se molti hanno dubbi sulla reale smilitarizzazione) e si trasforma in Tmk («Truppe di protezione del Kossovo») con compiti di protezione civile.
E dopo la guerra del 1999…
• 2000 – A ottobre il partito di Rugova, la Lega democratica, vince le elezioni amministrative.
• 2001 – A novembre si tengono le prime elezioni parlamentari. Vince il partito di Rugova.
• 2003 – Il 14 ottobre a Vienna primi colloqui tra Pristina e Belgrado dalla fine della guerra. Ma nel paese la situazione è ancora molto precaria con la comunità serba oggetto costantemente di violenze e di violazione dei diritti umani. Decine i serbi uccisi e feriti dalla fine della guerra.
• 2004 – A marzo ci sono disordini ed incidenti,
(a cura di Fabrizio Bettini)

Fabrizio Bettini




DOSSIER KOSSOVOScheda geopolitica

Status giuridico: il Kossovo (Kosovo i Metohia per l’etnia serba e Kosova per l’etnia albanese) è una delle due province della Serbia (l’altra è la Vojvodina), stato questo che fa parte della ex Federazione Jugoslava, dal 4 febbraio 2003 «Confederazione delle Repubbliche di Serbia e Montenegro». La provincia del Kossovo confina direttamente con Serbia, Montenegro, Albania e Macedonia. Dal 1999 è un protettorato delle Nazioni Unite.
Superficie: 11.000 kmq. (come l’Abruzzo) e una popolazione di circa 2.100.000 abitanti, di cui circa il 90% di etnia albanese (di religione musulmana con piccola minoranza cattolica), l’8% di etnia serba (di religione cristiano-ortodossa), il 2% è costituito da turchi, macedoni, rom.
Lingue: albanese, serbo, turco, bosniaco, gorano.
Religioni: musulmani, ortodossi, cattolici.
Capitale: Pristina (200.000 abitanti).
Partiti politici: Ldk, Lega democratica del Kossovo, di Ibrahim Rugova, attuale presidente; Pdk, Partito democratico del Kossovo, di Asim Thaci, ex comandante generale dell’Uck; Aak, Alleanza per il futuro del Kossovo, di Ramus Aradinaj, ex comandante Uck della regione di Paja; tutti questi partiti sono albanesi.
Economia: è la più povera della ex Jugoslavia, anche se sul territorio ci sono risorse minerarie di rilievo. Attualmente si basa su 2 cespiti: le rimesse dall’estero e gli investimenti delle organizzazioni umanitarie.
I tassi di natalità e mortalità infantile sono i più elevati in Europa: più del 50% della popolazione ha meno di 20 anni e l’età media è di 24 anni.

Fabrizio Bettini




DOSSIER KOSSOVONel bus dei kossovari

Da Peja-Pec (Kossovo) a Rovereto (Italia)

Un viaggio sulle strade di Kossovo,
Albania e Italia diventa un’occasione per guardare al recente passato.
E cercare di immaginare un possibile futuro.

È presto quando arrivo davanti all’agenzia viaggi da dove dovrebbe partire l’autobus. L’appuntamento è per le sei meno dieci: arrivo puntuale ma non c’è nessuno, solo un signore con giacca, pantaloni scuri e camicia nera. Vestito comodo per viaggiare, penso io.
Dopo un quarto d’ora si parte, ma da Peja siamo solo in tre passeggeri. Da qualche parte salirà qualcun altro e un altro autobus arriverà da Pristina. L’albanese non lo parlo bene e lo capisco meno, ma questo è sufficiente per le formalità: «Dove vai, dove ti fermi, sei italiano?». C’è anche un uomo che parla italiano.
Intanto siamo diretti verso Prizren e riconosco posti e tratti di una strada percorsa tante volte, tre anni fa. Alla periferia di Peja una casa serba che avevo fotografato per documentae lo stato alla padrona che era scappata è ora utilizzata come deposito di bottiglie di birra o altre bibite. Poi c’è il cimitero albanese curato e con tombe nuove e quello serbo integro, ma abbandonato. La visione di insieme è più normale rispetto ai miei ricordi. Ora ci sono i tetti sulle case, cioè il telo rosso d’emergenza è stato sostituito dalle tegole. C’è poi Ljubenic, dove sono state uccise 60 persone e ora c’è un monumento a ricordarle; un altro villaggio più avanti era stato bombardato nel ’98 dall’aviazione serba ora è, alla vista, totalmente ricostruito.
Arriviamo a Decan, anche qui monumenti e un paio di passeggeri. Arriviamo a Gjakova, non prima di aver passato la zona industriale in parte bombardata e ancora abbandonata. La stazione dei bus a Gjakova è di fronte alla caserma del contingente italiano, negli spazi di una ex caserma serba.
Un ragazzo saluta un uomo più anziano e un bambino. Si allontanano su una macchina con targa tedesca, probabilmente dono del figlio immigrato. Compro del burek e del pane per il viaggio: non spendo molto e mi pare di aver fatto un affarone.
Si riparte. Altro paesaggio noto, reso più normale dall’avvenuta ricostruzione. Le casette a schiera costruite dal regime per accogliere serbi nella regione e tentare di serbizzare il Kossovo ora come tre anni fa sono abitate da albanesi, risparmiate dal fuoco vendicatore. Passiamo poi da un paese (di cui non ricordo il nome); c’è un deposito di gas bombardato dalla Nato tale e quale a come lo ricordavo. Vedo l’imboccatura della strada per Suva Reka, ma non ho rimpianti per non essere stato anche da quelle parti a trovare i vecchi amici. In cuor mio so che, a breve, sarò di nuovo qui.
Più avanti ricordo le vigne, un albergo abitato da gente senza casa che oggi è vuoto (tutti hanno un loro tetto ora). Dove 4 anni fa (quando percorsi la prima volta questa strada) c’era ancora un monumento ai partigiani e al Bratsvo iedinstvo (fratellanza e unità), le corone di fiori per le vittime albanesi di una strage avvenuta durante i bombardamenti sono diventate un monumento che ha preso il posto di quello vecchio.
Siamo ormai a Prizren, ma non si passa dal centro, quindi non posso apprezzare la bellezza di questa città che ricordo bella. Altra sosta: arrivano quelli da Pristina. Siamo ancora pochi, forse una quindicina. Si parte.
Poco fuori dalla città ci si ferma per fare acquisti, poi di nuovo in marcia e vedo la frontiera di Morini, che era il segno della fuga albanese e che tanto triste era nei telegiornali e nei filmati dei nostri volontari e tanto era giorniosa quando, il 20 giugno del 1999, anch’io la attraversai sulle tracce di quei profughi che tornavano a casa. Passare quella frontiera voleva dire la fine di un incubo.
La parte che era stata occupata dai serbi ora non fa più paura anche se un poliziotto internazionale bulgaro parla serbo.
Il trattamento da parte della polizia Unmik e di quella internazionale non è però tanto educato. Ci fanno scendere tutti e ci mettono in fila. Un poliziotto tedesco guarda i nostri documenti e analizza minuziosamente i visti tedeschi sui documenti dei miei compagni di viaggio. Quando arriva a me, mi chiede il permesso di soggiorno. Prontamente, rispondo: «Sono italiano: non mi serve il permesso di soggiorno».
Passa oltre e controlla particolarmente due ragazzi. Uno viene fermato: pare che utilizzasse un passaporto non suo. Un altro ragazzo è tartassato un po’. Alla fine, si parte verso i controlli della polizia albanese; siamo uno in meno.

ALLA FRONTIERA ALBANESE

Alla frontiera albanese ci sono lavori in corso e la strada è dissestata. Ci vengono dati i cartellini per il «visto»: il risultato è che io con il passaporto italiano pago 10 euro, quelli col passaporto Unmik o jugoslavo nulla e quelli con il travel document tedesco due e mezzo.
Dei bambini che vendono sigarette salgono sull’autobus, sono molto insistenti e vengono cacciati a malo modo. Ciò nonostante continuano a sostare nei pressi del mezzo, finché non arrivano altri potenziali clienti.
Passiamo oltre e l’Albania si presenta povera e triste come la ricordavo, ma forse la stagione, il verde o il tempo mi fanno pensare che in qualche cosa sia migliorata. Ci sono i bunker e il paesaggio duro, pastori e contadini che falciano l’erba, vecchie case malandate e un container con una croce rossa dipinta sui lati è diventato un baracchino dove si vendono bibite e altri generi di conforto.
Kukes appare brutta, ma forse meglio di 4 anni fa. Stanno facendo lavori di consolidamento sulla strada. Lo scheletro di una fabbrica o di una miniera domina la città come allora. Cerco le tracce dei campi profughi ma non riesco a ricordare o ad individuare la loro ubicazione. Mi colpisce una scritta che inneggia all’Uck, forse lì dal tempo del soggiorno dei kossovari.
Avanti il paesaggio albanese ha la costante dei bunker disseminati sul territorio all’epoca di Enver Hoxa. Incontriamo bambini che tornano da scuola. C’è chi ci saluta e chi ci fa gestacci con la naturalezza tipica dei bambini. Il paesaggio è aspro, povero, ma bello e affascinante. Rimpiango di aver lasciato la macchina fotografica nello zaino che sta nel bagagliaio. Mi assopisco, ma poi mi sveglio. Siamo fermi.
Una Mercedes bianca è ferma avanti a noi, c’è un poliziotto, una specie di finanziere visto che ha una fascia con scritto «dogana». Non capisco quale infrazione ci contesti, ma poi siamo costretti a caricare dei pacchi di riviste (destinate agli immigrati in Germania) sulla macchina del finanziere, che stranamente ha targa kossovara; chissà come il finanziere ha importato la sua auto con targa kossovara in Albania. Ci viene contestata una certa infrazione sulle regole di importazione.
La contrattazione è concitata e continua. Non capisco i termini dell’accordo, ma quasi tutti i pacchi di riviste tornano sull’autobus. Più tardi ne sfoglio una e mi accorgo che è una specie di Settimana enigmistica in forma albanese. Siamo proprio dei criminali incalliti: siamo stati fermi per quasi un’ora su di una strada di montagna in Albania per importazione illegale di enigmistica!
Il viaggio continua. Incomincio a conoscere i miei compagni: tutti uomini che da anni lavorano in Germania, chi con tutta la famiglia al seguito, chi da solo, cioè con moglie e i figli rimasti in Kossovo.
C’è anche Norbert, il ragazzo tartassato dalla polizia Unmik. Lui sta sempre zitto, non parla praticamente albanese (figlio di immigrati, penso).
Dormo a tratti, ma la curiosità per il paesaggio più che la strada accidentata non mi permette un sonno prolungato.
Facciamo una pausa presso un ristorantino molto carino e pulito, ma io non mangio (questioni di budget e di linea), poi il burek di Prizren mi ha riempito lo stomaco.

AL PORTO DI DURAZZO

Arriviamo piuttosto presto a Durazzo, dove facciamo una prima sosta ad un distributore di benzina moderno e di stile occidentale (molto diverso da quelli incontrati nell’interno). La sosta serve per il lavaggio dell’autobus. Noi passeggeri aspettiamo e osserviamo le fasi del lavoro.
Converso con l’unico viaggiatore che parla italiano. Lui è arrivato a destinazione. Si ferma a Durazzo per un matrimonio, poi ritoerà in Kossovo. L’uomo mi racconta di aver lavorato per la Croce rossa italiana e ora per una Ong inglese di nome War Child, che si occupa di bambini.
Mi racconta di aver vissuto molti anni in Croazia, ma poi con l’inizio della guerra nel ‘91 è tornato in Kossovo, dove il destino gli ha regalato la guerra del ‘99. In Croazia ha perso casa e negozio, in Kossovo altrettanto. La sua famiglia ora vive in Canada. Parla dei serbi come la causa di tutte le guerre dei Balcani, anche se ammette che non sono tutti criminali.
Parliamo in generale della Jugoslavia di Tito e lui dice che gli albanesi comunque non sono mai stati liberi e che il regime ha sempre impedito lo sviluppo del Kossovo. Qui si arrampica sugli specchi e mi dice: «Guarda le città albanesi come sono ben costruite urbanisticamente, con le strade larghe, non come in Kossovo» e mi indica la superstrada costruita un anno fa, che abbiamo di fronte.
Dopo una giornata passata sul sistema viario albanese, mi sento di smentire questa affermazione. Hoxa dal punto di vista urbanistico non era meglio di Tito, anche se giudicare due dittatori dal sistema viario dei loro paesi mi sembra limitato.
Saluto l’amico che parla italiano che parte su una macchina guidata dai parenti dello sposo e risaliamo sull’autobus. Ormai faccio parte del gruppo con l’appellativo di «italiano».
Altra sosta, ad un crocevia. Dobbiamo aspettare che arrivi quello dell’agenzia che ci venderà i biglietti del traghetto. Passano moltissime macchine di lusso e altrettante cadenti segno delle contraddizioni albanesi; molte di queste automobili hanno targa italiana, tutti gli autobus sono italiani, passano anche mezzi della Kfor italiana, segno che qui c’è qualche base logistica. Aspettiamo un’ora e mezza durante la quale familiarizzo ulteriormente con i miei compagni di viaggio. Chiaramente si finisce a parlare di donne, particolarmente di quelle kossovare. Loro smentiscono il fatto che nei villaggi sia pericoloso avvicinare le ragazze, io faccio molte volte il segno del fucile e dico in un albanese maccheronico: «Khalash, kossovar gelos». Loro negano. Non ci credo. Comunque sia, io non sono mai stato in Kossovo per le donne.
La geografia è un altro argomento che va per la maggiore: da dove vieni?, dove vai?
Finalmente arriva l’addetto dell’agenzia. Entriamo in un ristorante bar, dove una scrivania funge da ufficio distaccato. L’uomo dell’agenzia è un vecchio minuto, un po’ sgarbato, che raccoglie tutti i nostri passaporti e incomincia a compilare una lista sollevando e abbassando continuamente gli occhiali, che nulla possono contro la sua miopia. Quest’uomo, che da tutti poi verrà chiamato semplicemente «plaku» (vecchio), mi ricorda uno dei personaggi del film Lamerica.
Dopo un po’, ci chiama uno ad uno: 35 euro senza cabina, 45 euro con la cabina. Norbert, il ragazzo albanese che non parla albanese, viene aiutato dagli altri che parlano il tedesco. Al gruppo si aggiungono altri due ragazzi, albanesi d’Albania: uno si fermerà a Bari, mentre l’altro proseguirà per la Germania.
Quando, finalmente, ci dirigiamo al porto già comincia a far buio. Arriviamo davanti ai cancelli e sullo sfondo c’è il nostro traghetto. Nota caratteristica di questo viaggio da qui in avanti sarà l’attesa. Aspettiamo davanti al cancello, sorvegliato da un poliziotto, una mezz’oretta. Poi «plaku» ci dice che il nostro traghetto non partirà: ha un’avaria, dobbiamo muoverci verso un altro molo, dove è attraccata la nave Palladio della Tirrenia.
Il biglietto ci costerà 10 euro in più per il passaggio ponte, mentre per chi, come me, sognava una cabina il prezzo è proibitivo. Aspettiamo un altro po’. Ora per «plaku» il problema è trovare i biglietti per questa nave. Facciamo i controlli di polizia: gli albanesi non mi chiedono il permesso di soggiorno e una bella ragazza mi timbra il passaporto in uscita. Raggiungiamo la nave e inizia una nuova, lunga attesa. Non abbiamo i biglietti e non possiamo salire.
Intanto alcuni di noi mancano all’appello, rallentati dai controlli di polizia. Aspettiamo almeno due ore: arrivano tutti tranne Norbert (l’albanese che non parla albanese). Lui rimane a terra: pare che la foto sul passaporto non gli somigliasse molto.
Sono già le undici quando il «plaku» ci porta i nostri biglietti. La nave è piena di gente e, oltre al personale, penso di essere l’unico italiano in coperta. Sono tranquillo, ormai sono uno del gruppo e, come tutti i kossovari, nell’attesa e poi sulla nave, ho modo di criticare i fratelli albanesi d’Albania. Salgo sul ponte per vedere la partenza. Poi mi trovo una poltroncina e dormo quasi tutta la notte, in uno stanzone con altre 60 persone.
Quando mi alzo, siamo già in vista della costa. Finalmente attracchiamo a Bari e già sogno casa, anche se so che ci sono almeno 10 ore di autobus. In qualità di italiano, supero tutta la fila degli albanesi e un poliziotto in borghese, dopo aver dato una occhiata veloce al mio passaporto, mi dice: «Vai Bettini, vai».
Sono fuori per primo tra il mio gruppo. Il nostro autobus arriva poco dopo, ma avverto che c’è qualche problema: l’assicurazione montenegrina è scaduta da qualche giorno e finché non si ha un’assicurazione valida non si parte. Intanto, nell’attesa, vado a vedere se arrivano gli amici kossovari. Un poliziotto in divisa mi chiede il passaporto e il perché io, italiano, mi trovo a viaggiare su un autobus di immigrati, albanesi kossovari. Rispondo naturalmente che sono povero come loro e che ho vissuto due anni in Kossovo. Fortunatamente, il poliziotto non è maleducato e questo impedisce che la mia indignazione prenda corpo.
Alla spicciolata arrivano tutti, solo il fax con la conferma dell’avvenuto pagamento assicurativo tarda. Poi tutto d’un tratto la cosa si risolve e si parte: sono le undici e mezza.
Ci fermiamo ad un autogrill, dove non faccio nemmeno caso all’altro autobus, parcheggiato di fianco al nostro. Poi vedo che gli altri scaricano i bagagli e, dopo aver chiesto informazioni nel mio albanese oramai perfetto, capisco che stiamo facendo un cambio di automezzo. Altre persone, anch’esse kossovare, salgono sul bus dal quale scendiamo noi. Capisco poi che il nostro bus con targa montenegrina toerà subito verso il Kossovo per questioni assicurative, trasportando delle persone che fanno il viaggio in senso contrario al nostro.
Il nuovo bus è anche più vecchio del precedente e ha targa KS ossia kossovara.
Finalmente mangio un panino col prosciutto, mentre i miei compagni di viaggio si deliziano guardando videocassette popolari del tipo «gzuar 2003» o ancor peggio del sano umorismo nazional-popolare, condito di canzoni patriottiche con tanto di cantante davanti alla casa di Adem Jashari a Drenica, ora Skenderaj.
La scorta di videocassette dura almeno fino a Verona. Io mi difendo con il walkman e un po’ dei «Ventitre giorni della città di Alba» di Beppe Fenoglio.
Ad ora di cena ci fermiamo nuovamente presso un autogrill. Andiamo verso il bagno e un’addetta alle pulizie dice qualche cosa del tipo: «Arrivano anche i kossovari». Non capisco bene il senso della frase, ma mi verrebbe voglia di sbatterle in faccia il mio passaporto italiano e chiederle cosa ha contro i miei amici albanesi. Mi stizzisco e, quando esco, non le lascio la mancia.
È strano sono in Italia e altri italiani mi credono straniero e mi guardano come tale. Trovo la cosa interessante ed istruttiva, per questo mi sforzo ancor più di parlare albanese… Nessuno ti dice nulla, ma sono gli sguardi quelli che parlano. Alla donna delle pulizie mi verrebbe da dire che i kossovari, che lei guarda come pezzenti, probabilmente in Germania guadagnano più di lei.
Finalmente le montagne prendono il posto della pianura e in un batter d’occhio siamo a Rovereto. Saluto tutti, ormai siamo amici.
Ciao, compagni di viaggio, buona fortuna, Rruga moor. •

Fabrizio Bettini




DOSSIER IMMIGRAZIONE (0)Introduzione

Perché tanti convegni?

L’ufficio Pastorale Migranti (UPM) è un organismo costituito dall’arcivescovo di Torino, Severino Poletto, il 1° marzo 2001 in sostituzione del servizio «Migranti Caritas», per favorire l’evangelizzazione degli emigrati in casa nostra: così recita lo statuto. In verità l’UPM svolge molteplici attività in favore degli stranieri: accoglienza, informazione, consulenza, sostegno psicologico.
L’UPM collabora con la Regione Piemonte, la Provincia di Torino e i Comuni su progetti specifici, che possono essere cofinanziati. Partecipa a tre cornordinamenti: quello di Caritas e Migrantes nel nord Italia, quello della Caritas sulla «Tratta delle donne immigrate» (prostituzione) e quello europeo «Diritto di vivere in famiglia». Inoltre, in appoggio alla scuola pubblica, svolge corsi di lingua e cultura italiana e, con riguardo alla formazione professionale, si impegna a ricercare opportunità lavorative e a verificare gli inserimenti di donne, vittime della tratta, e di minori soli in tutela.
Ha progetti specifici per donne: ospitalità nottua e accoglienza in case di madri con bambini; lotta contro «la tratta femminile» per sfruttamento sessuale, sia locale che nazionale, con cammini formativi, iniziative di recupero, tutela e inserimento lavorativo in collaborazione con la compagnia San Paolo e la presidenza del Consiglio dei Ministri.
Nel 2001 l’UPM organizza il convegno «Da vittime a cittadine. Dall’illegalità alla cittadinanza», relativo ai problemi delle donne migranti, cadute nella «tratta».
Due anni dopo, il 15 marzo 2003, l’UPM promuove un nuovo convegno: «Le donne migranti si confrontano con la città». L’incontro può considerarsi una tappa successiva a quello del 2001, però con una novità significativa…

L’ Alma Mater è un Centro interculturale di donne, nato nel dicembre 1993 per l’impegno comune di alcune signore italiane e straniere e grazie al sostegno del Comune di Torino, della commissione regionale per «le pari opportunità» e di varie associazioni femminili. Il Centro è gestito dall’associazione «Alma Terra», costituita ad hoc. Si tratta di uno «spazio», dove l’accoglienza della migrante è al primo posto.
Il Centro è il frutto della progettualità e delle aspirazioni di innumerevoli donne che vi hanno lavorato per costruirlo e di molte persone che continuano a lavorarvi condividendo le responsabilità. Molteplici sono le attività e i servizi che mette a disposizione delle donne migranti e non.
Nel convegno del 2001 «Da vittime a cittadine. Dall’illegalità alla cittadinanza» le destinatarie sono state le donne migranti, in particolare africane, vittime della «tratta». Il convegno ha parlato di loro con studiosi ed esperti. Si sono riportati dati quantitativi e qualitativi sui percorsi di «uscita» e sugli «inserimenti lavorativi». Ma al tavolo dei relatori le donne straniere non c’erano. C’erano solo persone delle istituzioni pubbliche e associazioni del volontariato italiano.
È stato espresso un certo rammarico sulla mancata visibilità, a quel convegno, delle donne immigrate.
Ecco quindi il proposito di un nuovo incontro, realizzato nel 2003, dove le donne migranti hanno potuto parlare direttamente di sé, delle loro esigenze e difficoltà, delle loro aspettative e progetti. C’è stato anche un confronto-dibattito con le donne «della città»: le donne delle istituzioni locali, delle associazioni imprenditoriali, del terzo settore e dell’associazionismo… per favorire la conoscenza tra donne di provenienze e storie diverse, ma tutte operanti a Torino.
L’auspicio è di continuare, sul territorio, il dibattito sull’accoglienza, il lavoro, la casa, i servizi, l’integrazione sociale e culturale.
La finalità è di pervenire a una convivenza migliore, più solidale, più consapevole dei reciproci diritti e doveri, più rispettosa dell’identità e delle competenze di ciascuna: premessa necessaria per una società più giusta e per una cultura di pace.

Il presente dossier rilancia i contenuti del convegno di Torino del 2003: contenuti comuni ormai a tutte le città d’Italia.
Antonella Pavan

Antonella Pavan




DOSSIER IMMIGRAZIONE (1)E se non ci fossero loro?

A Torino sono presenti ufficialmente
circa 15 mila donne extracomunitarie:
rappresentano il 39% del totale degli immigrati
e il 2% delle donne torinesi.
Marocchine, somale, camerunesi, nigeriane,
ecuadoriane, filippine, cinesi, ecc.
ma anche dall’Albania, Romania e Ucraina.
Sono impegnate soprattutto nei «lavori di cura».
Però non mancano sorprese.

GRAZIE (NONOSTANTE IL RITARDO)
«Lavoro di cura»: ecco una nuova espressione, entrata di recente nella lingua italiana, per indicare l’occupazione nell’assistere malati, anziani e bambini, oltre che il lavoro domestico. È un’espressione che, come un’eco, risuona in varie lingue e allude ai numerosi lavori delle donne che li esercitano: donne che provengono da tanti paesi diversi, ma accomunate tutte in uno stesso destino…
Oggi non sono puntuali le donne migranti, che giungono all’edificio della Facoltà di teologia di Torino per intervenire al «loro» incontro-dibattito su: «Le donne migranti si confrontano con la città». Il convegno è organizzato dall’ufficio Pastorale dei migranti dell’arcidiocesi di Torino e dall’associazione Alma Terra. Inoltre vi partecipa la Commissione pari opportunità uomo-donna della Regione Piemonte.
Il ritardo si dimentica presto grazie al caloroso saluto iniziale di don Fredo Olivero: «Grazie! Da voi abbiamo imparato tanto. Abbiamo imparato, soprattutto, un modo più sereno di affrontare la vita».

COLPO D’OCCHIO MULTICULTURALE

Funziona un servizio di accoglienza dei bambini. Pertanto le mamme entrano nella sala del convegno libere e rilassate; si salutano con calore nella loro lingua o in italiano e prendono posto vestite con i loro abiti migliori, rigorosamente europei. Vengono da nazioni extraeuropee: Perù, Ecuador, Marocco, Somalia, Nigeria, Camerun, Filippine, Cina… ma anche Albania, Romania ed Ucraina. Sono presenti, per lo più, donne che vivono in Italia già da alcuni anni, di età compresa fra i 25 e 40 anni. Ma intravediamo qualche signora decisamente più anziana.
Ci sarà, infatti, confermato che ultimamente si è registrato un innalzamento dell’età; per cui negli arrivi più recenti si trovano spesso persone di 40-50 anni, venute in Italia per lavorare e mantenere o far studiare i figli. Sono originarie specialmente dell’Est europeo; data l’età, anche se trovano lavoro, sono mal pagate, sfruttate e si esigono da loro tanti altri servizi.
Non vi sono solo addette a «lavori di cura», ma anche commesse, infermiere, cameriere e un’impiegata di banca. Scopriamo che numerose sono laureate all’università nei loro paesi d’origine. Oggi lavorano a Torino come interpreti, traduttrici e mediatrici culturali.
«Mediatrice culturale»: ecco una nuova figura professionale, già da alcuni anni operante in Italia (nelle istituzioni pubbliche, negli uffici per stranieri, nel terzo settore, nell’associazionismo); si va anche diffondendo nelle scuole e ovunque si presentano problemi che esigono una «mediazione» fra le «culture altre», per una buona convivenza.
A questo proposito, molti sono gli extracomunitari già inseriti che, nel tempo libero, si prestano (senza alcun compenso) per servizi di prima accoglienza nei riguardi di altri stranieri. Si va diffondendo pure un’altra forma di volontariato; riguarda mamme extracomunitarie di bambini che vanno a scuola: alcune hanno accolto l’invito di prestare qualche ora alla settimana per aiutare i bambini stranieri (della loro stessa lingua), appena giunti in Italia, a superare le prime difficoltà di inserimento.

“LAVORO DI CURA” MA NON SOLO

Dall’intervento di Mercedes Cáceres, rappresentante del gruppo «lavoro di cura» di Alma Terra, possiamo seguire il processo di integrazione della donna immigrata: dall’iniziale bisogno di lavoro fino alla necessità di riconoscimenti e gratificazioni, che vanno oltre la sopravvivenza economica.
In Italia fenomeni demografici come l’allungamento della vita e il calo delle nascite, uniti al cambiamento del modello familiare tradizionale, con la donna sempre più occupata fuori casa, hanno portato ad un bisogno crescente di delegare ad altre persone l’assistenza di anziani, malati e bambini, nonché i lavori domestici.
Quindi le donne migranti, arrivate nel nostro paese, trovano abbastanza facilmente una prima occupazione nei suddetti settori. Questo offre, nello stesso tempo, anche una possibilità di integrazione, che permette l’apprendimento della lingua, degli usi e dei costumi delle famiglie italiane. In tale contesto spicca l’azione di alcune donne torinesi, che si offrono per insegnare alle neoarrivate a cucinare, ad usare gli elettrodomestici e i detersivi, a gestire quotidianamente casa e famiglia.
Però la sussistenza non è l’unico significato che la donna immigrata vuole dare al suo lavoro. Essa ricerca, in misura più o meno accentuata, la realizzazione personale e professionale, un posto attivo nella società come lavoratrice consapevole dei suoi diritti e doveri.
In particolare: «il lavoro di cura», in un primo momento soluzione immediata del problema economico, si rivela in un secondo tempo un impegno di grande responsabilità, che stimola le persone coinvolte nel loro essere più profondo ed autentico. Aiutare un bambino a crescere, accompagnare un anziano nella sua malattia (spesso fino alla morte), dà alle assistenti la possibilità di contribuire all’armonia di una famiglia, ponendo sempre al centro la persona.
Di conseguenza le «badanti», consce dell’importanza della loro figura professionale e del valore sociale della loro azione, chiedono giustamente il riconoscimento economico, sindacale e curriculare delle proprie prestazioni circa retribuzioni, orari, tempi di riposo e possibilità di avere un figlio senza perdere il posto di lavoro.

LA CRISI INDUSTRIALE DI TORINO

Silvia Avila, sposata con una figlia, laureata in economia e commercio, proviene dall’Ecuador dove lavorava come contabile. A Torino è passata dal lavoro domestico alla ristorazione, alla metalmeccanica e, attualmente, è mediatrice culturale presso l’ufficio Pastorale dei migranti. Da lei apprendiamo che numerose «badanti» spesso hanno una buona cultura (anche a livello universitario); talora conoscono 3 o 4 lingue. Accettano questo tipo di lavoro solo perché sanno che non vi sono altre possibilità.
È quindi comprensibile che, nelle loro richieste, vi sia anche il bisogno di momenti di formazione e qualificazione per sostenere la loro speranza di nuovi progetti di vita. Essenziale è il ruolo delle istituzioni, che dovrebbero offrire delle possibilità, ma senza gravare sulle famiglie datrici di lavoro.
Apprendiamo che in Torino, negli ultimi tre anni, la richiesta di «lavoro di cura» è diminuita. Questo è dovuto alla crisi industriale del capoluogo piemontese e alle conseguenti minori disponibilità economiche delle famiglie, che spesso si vedono costrette a ridurre gli orari o a rinunciare all’aiuto esterno, cercando soluzioni più economiche anche per gli anziani.
D’altro canto, aumentano, sfortunatamente, le donne giunte con il marito o figli per il ricongiungimento familiare, poi abbandonate dal coniuge, unica fonte di sostentamento: si ritrovano sole, senza lavoro e senza casa, costrette spesso a rimandare i bambini dai parenti al paese d’origine.
Frequenti sono i casi di maltrattamento, ed enorme è la necessità di ascolto e di sostegno psicologico, oltre all’aiuto materiale.

CERCARE CAPIRE SAPERE

«Vi ho creati da un uomo e da una donna e ho fatto di voi dei popoli e delle tribù perché vi conosciate…».
Con questo versetto del Corano si è concluso l’intervento di Fatima Khallouk. Proveniente dal Marocco, laurea in biochimica conseguita in Francia e diploma di traduttrice, è particolarmente impegnata nei problemi dell’integrazione e del dialogo interreligioso e culturale. Lavora come consulente aziendale, traduttrice, interprete e collabora con l’Ufficio Stranieri della Cisl e con Radio Torino Popolare.
Abbiamo seguito con attenzione il suo appassionato intervento sul dialogo. Il modo più semplice e il ponte più «corto» per comunicare è capirsi. Ogni migrante porta con sé come unica e non effimera ricchezza la sua cultura, acquisita nelle famiglie e società dove è vissuto assimilando storia, tradizioni, letteratura, arte, musica, religione. Nell’incontro con l’«altro» tali valori possono unire senza scontri; ciascuno può mantenere la sua identità e, nello stesso tempo, arricchire la propria personalità.
Cercare i punti comuni delle rispettive religioni, trovare altri terreni d’incontro socioculturali, capire le differenze e promuovere il mutuo rispetto… sono tutti elementi che devono affiancare la politica di integrazione giuridica degli stranieri. Naturalmente, alla base di tutto, ci deve essere l’istruzione, poiché solo una solida base culturale rende il dialogo e l’accordo sui valori fondamentali facile e naturale.
Lingua, lavoro, casa, servizi sociali
Aisha Asli, marocchina di 40 anni, laureata in giurisprudenza, nubile, fa parte del settore che si occupa di accoglienza nell’ufficio della Pastorale dei migranti. Con entusiasmo ci illustra il suo lavoro, che considera gratificante perché aiuta ed orienta gli altri e, contemporaneamente, costituisce un continuo arricchimento culturale per se stessa. L’accoglienza è il punto di riferimento fondamentale, quando lo straniero arriva. Non è un puro inserimento di dati nel computer, ma un accompagnamento della persona nei suoi primi passi in Italia.
I problemi più urgenti da affrontare sono tre: l’apprendimento della lingua (senza la quale uno straniero non può muoversi), la ricerca di lavoro e la sistemazione abitativa. Poi viene l’orientamento nei servizi sociali, scolastici, sanitari e amministrativi, unito all’ascolto dei problemi e delle sofferenze con il sostegno psicologico di esperti, quando è necessario.
Vivienne Maradas, della Repubblica Centrafricana, sposata con due figli, diplomata, si occupa in particolare del problema della casa. È un settore dove l’immigrato, debole e vulnerabile sotto tutti gli aspetti, finisce in molti casi per essere sfruttato dai proprietari di alloggi o da altri immigrati che subaffittano. Le difficoltà maggiori sono rappresentate dai prezzi troppo alti, dalla diffidenza razziale e dalla disinformazione sulle possibilità esistenti e sui diritti in materia di contratti.
Si lamenta, soprattutto, la mancanza di cornordinamento fra i servizi che danno informazioni; inoltre dovrebbero essere più accessibili nelle lingue d’origine e sempre aggioati. Con campagne di sensibilizzazione rivolte ai proprietari si dovrebbe reperire alloggi a prezzi calmierati, garantendo i proprietari.
Una parziale risposta al problema «casa» arriva nell’intervento di Malvina Cagna, rappresentante del Cicsene (Centro italiano di collaborazione per lo sviluppo edilizio delle nazioni emergenti), che dal 1990 ha iniziato un monitoraggio habitat sul territorio nell’ambito di un progetto nazionale.
Poiché lo straniero sta diventando appetibile nel mercato della casa, le agenzie immobiliari hanno intrapreso degli studi sull’argomento. Oltre a forme di sfruttamento abitativo e di subaffitto (senza che gli stessi inquilini ne siano al corrente), ci sono i problemi di discriminazione, a seconda dei paesi di provenienza, e si sta allargando la forbice tra qualità e prezzo.
Occorrono finanziamenti per la ristrutturazione e riqualificazione degli alloggi (che comportano minori guadagni), oltre a fondi di garanzia e bonus di entrata per i proprietari che accettano di affittare a stranieri e che necessitano di assicurazioni per il futuro. Con un occhio alle sanzioni previste dalle leggi sulla discriminazione razziale, è necessario un cornordinamento efficace dei servizi di informazione e controllo e regolarità dei contratti.

IN UFFICIO E DIETRO UNO SPORTELLO

Varie donne migranti, da qualche anno in Italia, superati i primi problemi, hanno la capacità di guardare oltre lo stretto orizzonte di un lavoro domestico. A Torino si parla già di «secondo inserimento» o «seconda fase», con progetti per venire incontro a queste esigenze.
Grace Bassey, nigeriana, da 14 anni nel nostro paese, ci illustra il progetto «Dedalo». In tale ambito il Ministero degli Affari Sociali, anni fa, promosse dei corsi (comprendenti settimane di stage) sia per l’avviamento ad un lavoro autonomo, in collaborazione con la Conferesercenti, sia per l’inserimento in uffici pubblici.
Recentemente 12 donne extracomunitarie fanno parte del personale bancario, grazie al progetto «Percorsi contro l’esclusione sociale e per l’autonomia delle donne», nato dalla collaborazione fra banche, ministeri e Alma Mater.
Ce lo riferisce Rosine Noubissie, giunta in Italia 8 anni fa dal Camerun per studiare. Prima ha lavorato come badante e babysitter per mantenersi agli studi; poi è riuscita ad entrare nei «Percorsi contro l’esclusione», superando tests attitudinali e di lingua italiana, per essere ammessa ad un corso di formazione comprendente stages pratici con i clienti. Grazie al permesso di soggiorno per studi universitari e alla convenzione fra università e banche, oggi lavora presso l’Istituto San Paolo con un contratto part-time di 4 ore per 5 giorni settimanali. Così può continuare gli studi.
Rosine parla dei suoi rapporti con i colleghi e clienti, di come abbia dovuto superare la paura di sbagliare e di essere giudicata secondo il colore della sua pelle. Ma è entusiasta della sua esperienza e si augura che altre donne possano usufruire di tali possibilità.

DARE VOCE A CHI NON HA VOCE

Enrica Recanati, responsabile del servizio Drop in del Gruppo Abele, si definisce nel contesto del Convegno «una voce fuori del coro». Infatti si occupa di migranti in tali situazioni dove, probabilmente, l’integrazione nel contesto italiano non avverrà mai.
Si tratta di donne (e uomini) provenienti dall’Est europeo (Romania, specialmente), ma anche dalla Nigeria e Sierra Leone: spesso non più giovanissime e con problemi di salute, chiedono asilo politico.
Il servizio loro dato è «a bassa soglia», cioè facilmente accessibile: una prima accoglienza come a persone senza dimora, affinché il vivere in strada si arresti, si prevengano i rischi di barbonizzazione e si tuteli la salute
Innanzitutto si mira a soddisfare i bisogni primari (igiene, vestiario e accoglienza nottua) delle persone sprovviste di permesso di soggiorno, che non possono cercare lavoro e casa e alle quali sono negati tutti i diritti. Ci sono anche donne laureate, senza riconoscimento del titolo di studio, che fanno la fila per lavarsi, avere un pasto caldo o un vestito pulito.
Hanno bisogno di ricevere informazioni sui servizi cittadini e sulle leggi che le riguardano, ma soprattutto di socializzare, di essere considerate persone, essere ascoltate e stimolate, perché (nonostante tutto) mettano in campo le proprie risorse e non cadano in una condizione di disagio cronicizzato.
Si cerca di riempire il loro tempo vuoto con varie attività, quali un laboratorio teatrale, un esercizio culturale, un giornalino interno, corsi di italiano e computer. Allora emergono le risorse e potenzialità personali, che strada e disagi hanno intorpidito. Con l’accoglienza e le relazioni personali può avvenire quel cambiamento che porta donne (che sembravano non chiedere nulla) ad esprimere un forte bisogno di riconoscimento della propria dignità.
E questa «voce fuori del coro» ha una nota di speranza.

Silvia Perotti




DOSSIER IMMIGRAZIONE (2)Donne cinesi

Fra gli extracomunitari, i cinesi di Torino costituiscono un caso speciale. I primi cinesi (esclusivamente uomini) vi giunsero prima della seconda guerra mondiale con l’intenzione di lavorare per qualche anno e poi ritornare in patria con una discreta disponibilità economica. Ma i guadagni, ottenuti con la vendita ambulante e abusiva di cravatte (ricordate il richiamo «clavatte, clavatte»?), furono molto scarsi.
Alla fine della guerra pochissimi ritornarono in Cina per rivedere i famigliari, di cui non avevano più notizie. Gli altri, che non avevano neppure la possibilità di affrontare le spese del viaggio, rimasero a Torino. Continuarono le loro vendite, estendendole però ad articoli di pelletteria che incominciarono a produrre a basso costo.
I piccoli imprenditori cinesi, con l’aumento della produzione, assunsero delle ragazze italiane. Furono costretti ad imparare la nostra lingua; nacquero i primi scambi culturali; si incominciò a superare le diffidenze reciproche, grazie anche a qualche matrimonio misto.
Negli anni ’50 si ebbe un nuovo flusso migratorio di cinesi, che potevano contare sull’aiuto dei connazionali, già residenti, per casa e lavoro. Nel 1960 arrivarono le prime donne cinesi, per unirsi ai rispettivi mariti. La disponibilità economica permise a molti di intraprendere attività nel campo della ristorazione e, in seguito, della confezione di abbigliamento.
A scoltiamo Ni Tianxiu o «Stella», per semplificare, come subito dice lei stessa. Laureata in Cina, mediatrice culturale di Alma Mater e vicepresidente dell’Associazione culturale cinese, Stella dichiara: «Attualmente a Torino vivono un migliaio di donne cinesi; lavorano industriosamente, partecipano allo sviluppo sociale dell’Italia e contribuiscono a colorare la cultura globale multietnica. Tranquille, silenziose e chiuse, rispetto ad altre comunità quasi non si notano. Come mai?».
Stella si scusa per la sua pronuncia; legge la sua relazione con difficoltà. Ma gli occhi le brillano; è vivacissima, allegra e contenta di essere fra noi. Il suo riso spontaneo ci conquista.
La lingua italiana, per le donne cinesi, è il più grande ostacolo all’inserirsi ed integrarsi nella nostra vita. La difficoltà di «convertire» la mente da un linguaggio di ideogrammi ad uno alfabetico scoraggia, a tal punto che le donne rinunciano alla vita sociale, si isolano e preferiscono lavorare come api operose e lasciare ai loro figli la possibilità di andare a scuola.
Spesso i figli (anche bambini) fanno da interpreti alle loro mamme nei negozi, negli uffici pubblici e ovunque sia necessario (persino nei consultori medici).
L’altro grave problema delle cinesi è la pianificazione familiare. In Cina, con l’imposizione della politica del «figlio unico» del 1979, le coppie hanno evitato di avere più di un figlio; però in Italia la maggioranza ne ha più di due. Spesso le donne cinesi si trovano nuovamente incinte 3-4 mesi dopo il parto.
A queste situazioni non facili contribuiscono varie cause; con un po’ di aiuto e collaborazione dall’esterno potrebbero essere scongiurate. Purtroppo alcune credenze, comunicate da altre donne (per esempio, l’impossibilità di rimanere incinta durante il puerperio), prevalgono sulle informazioni corrette, sovente completamente assenti. Non conoscendo la lingua, tante cinesi rinunciano alle visite specialistiche e alle cure: sarebbe per loro troppo complicato andare a Milano (dove operano ginecologhe e ostetriche cinesi), oppure attendere a lungo a Torino per avere un appuntamento con un’interprete a disposizione.
Inoltre l’obbedienza-sottomissione al marito (anche se non usa il preservativo) e la mentalità tradizionale (secondo la quale i maschi sono l’orgoglio della famiglia) fanno sì che le donne cerchino di avere figli maschi anche se hanno già partorito tante volte e la loro vita è pesantissima. Spesso sono addirittura i genitori del marito a decidere per un’altra gravidanza…
Così le donne cinesi sono costrette a stare in casa ad accudire i figli, perdendo ogni opportunità di imparare. Hanno un grande bisogno di aiuto.
Per loro Stella chiede a voce alta la possibilità di imparare l’italiano, con metodi bilinguistici semplici ed efficaci, nonché la presenza di mediatrici cinesi nelle istituzioni.

Silvia Perotti




DOSSIER IMMIGRAZIONE (3)Insieme per la casa

E’ UN PROGETTO che ha come scopo la ricerca di soluzioni possibili per affrontare il grave problema abitativo a Torino. La filosofia dell’intervento si ispira alle riflessioni maturate nel corso del convegno «La chiesa dialoga con la città», voluto dal cardinale Severino Poletto nel giugno del 2000.
Tante sono le problematiche che Torino deve affrontare: è necessario che tutte le forze sane della città sappiano mettersi in dialogo per trovare soluzioni rispettose delle persone, della storia, della tradizione culturale, dell’economia e società civile nel suo complesso.
I due uffici dell’arcidiocesi, Caritas diocesana e Pastorale del lavoro, si sono concentrati sul disagio abitativo, soprattutto focalizzando nel mercato della locazione una delle esperienze necessitanti un rilancio significativo, a beneficio delle persone e dell’economia del territorio. Il cammino di riflessione ed elaborazione è stato lungo; ma ha consentito di introdurre positive sinergie sia tra enti di ispirazione ecclesiale sia tra altre realtà: Ufficio Pastorale Migranti, Società San Vincenzo De Paoli, gruppi di volontariato vincenziano, Il Riparo, Federabitazione Confcornoperative Piemonte, Sicet, Patronato provinciale Acli, Cicsene e Cooperativa sociale «Tenda Servizi», ivi compreso il Comune di Torino (concedendo tra l’altro il patrocinio), la Compagnia San Paolo, la Fondazione CRT.
L’unità di intenti intende rilanciare il mercato locativo, offrendo ai proprietari seri incentivi e garanzie, coniugando azioni di accompagnamento degli inquilini. Il fabbisogno di case spinge ad ipotizzare misure più incisive e radicali, poiché la domanda si presenta con volti diversi e richiede risposte diversificate.
A Torino infatti non abbiamo solo gli sfrattati, i casi sociali, le fasce deboli, ma anche nuove forme di emergenza abitativa: e, cioè, quella relativa alle giovani coppie, alle donne sole e con bambini, a giovani famiglie, agli anziani, agli immigrati; tutte persone che regolarmente lavorano e che necessitano di una casa. La città ha il dovere di occuparsene.

L’iniziativa «Insieme per la casa» renderà possibile l’utilizzo di nuovi strumenti, oltre a quelli già sperimentati dal Centro Servizi per la locazione foiti dal Comune di Torino. Gli strumenti offerti da «Insieme per la casa» sono:
1. fondo di garanzia per eventuali morosità da parte degli inquilini;
2. assicurazione in caso di danni causati all’alloggio per mal comportamento dell’inquilino;
3. disponibilità di alloggi «transitori», utilizzabili per situazioni di emergenza e/o sfratto.
Inoltre «Insieme per la casa» assicura:
– accompagnamento nel dialogo e nei rapporti con inquilini, amministratori e condomini;
– accompagnamento ed assistenza tecnica per lo svolgimento di pratiche presso gli uffici pubblici;
– assistenza per contratti di locazione e compravendita;
– reperibilità di operatori per il confronto su questioni tecniche;
– monitoraggio continuo delle persone prese in carico dal progetto con visite domiciliari.
Il progetto nel primo semestre di attività ha inserito circa 60 famiglie, ma tantissime sono le richieste, in lista d’attesa, di persone italiane e straniere.

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I nostri recapiti sono:
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• Cooperativa sociale «Tenda Servizi»
insiemeperlacasa@libero.it
Wally Falchi

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