Intanto, a Davos, si elabora il lutto

M come media: c’è Forum e Forum

Negli stessi giorni di Belém, molti dei responsabili della crisi mondiale – speculatori, finanzieri, banchieri, magnati, amministratori delegati, politici ed economisti neoliberisti – si sono incontrati a Davos per parlare di economia, autornassolversi e chiedere aiuto agli stati nazionali. Nella città svizzera non si sono fatti vedere i rappresentanti degli Stati Uniti, primi responsabili del disastro. Ma come hanno raccontato i due eventi – Davos e Belém – i media italiani? Così…

Belém. Paulo Pereira Lima, giornalista e direttore di Viração (1), rivista brasiliana per i giovani, ha un atteggiamento molto didattico. I ragazzi, seduti in circolo, lo ascoltano con attenzione. Hanno tutti meno di 18 anni e provengono da quartieri disagiati di Belém. Indossano una maglietta con la scritta Curso de comunicacão popular (Corso di comunicazione popolare). «Per le giornate del Forum sono diventati giornalisti», spiega Paulo. Ogni giorno, nel tardo pomeriggio, c’è la riunione di questa redazione particolare per fare il punto sulla giornata e preparare quella seguente.
Già, i media. Ma come è stata fatta l’informazione nei giorni del Forum?
Che si dice del Forum in Italia?, chiedo al mio collega. «Poco o nulla. Ah, c’è stato un giornale gratuito, Metro, che l’altro giorno ha pubblicato in prima pagina una foto da Belém, ma poi l’articolo era costituito da poche righe, come d’altra parte consuetudine per questo tipo di media (2)». Vado in sala stampa per scrivere e mettere in rete il mio disappunto.
Così:«Belém, 29 gennaio 2009. Ieri, tutte le volte che ho fatto tappa nella sala stampa allestita nell’Università nazionale, ho cercato su internet qualche articolo che dicesse una parola o due sul Forum di Belém, contemporaneo a quello di Davos. Ebbene, sui siti on-line di Repubblica e Corriere, vale a dire i due primi quotidiani del nostro paese, non ho trovato nulla.
Sarò distratto o stanco per questo intercalare di sole e piogge torrenziali, ho pensato (invero con poca convinzione). Quello che invece i due quotidiani riportavano erano vari pezzi sul Forum economico della città svizzera. Un evento importante, ma certamente non più di quello di Belém, dove al posto di banchieri, politici e magnati ci sono indigeni, operai e studenti. Una bella compagnia di gente che pagherà la crisi prodotta dai famosi ospiti di Davos. Ma ecco la ciliegina sulla torta confezionata dai media nostrani.
Sul sito del Corriere ho letto un articolo su quella riunione, articolo firmato Danilo Taino (3). In esso si parlava di strapotere degli stati nazionali? Ma come?, mi sono chiesto tra me e me. Pensavo che la crisi fosse stata originata, sì dallo strapotere, ma del libero mercato.
Nello stesso articolo si parlava di egoismi nazionali. Egoismi nazionali? Pensavo che l’egoismo fosse quello dei capitalisti, dei finanzieri, dei banchieri, dei magnati, che hanno lucrato su tutto (compreso il nulla) per anni, infischiandosene del bene comune, della società, dell’ambiente, dello stato nazionale.
Meglio chiudere qui. L’umidità dell’Amazzonia mi gioca brutti scherzi. Sicuramente oggi leggerò qualcosa di diverso. O no?» (4).
No, la mia speranza risulta vana. Sui giornali italiani più importanti (per diffusione) non trovo nulla neppure nei giorni seguenti. In compenso, trovo altri articoli sul Forum di Davos, peraltro distrutto con intelligente ironia (ed un pizzico di sarcasmo) da Loretta Napoleoni: «Quest’anno il meeting dei superglobalizzati è stato molto più sobrio del solito, quasi fossero tutti in lutto».
«Quelli che dovrebbero spegnere il fuoco – scrive ancora l’economista italiana – non sono pompieri professionisti, ma sono gli stessi bambini che fino a poco tempo fa giocavano con i fiammiferi. Su entrambe le sponde dell’Atlantico i signori della deregulation, che ha messo in ginocchio il capitalismo moderno, presiedono le commissioni che dovrebbero affrontare la crisi» (5).

Insomma, riassumendo: i media nazionali non hanno parlato di Belém, ma hanno parlato di Davos, anche se non troppo, probabilmente perché il lutto (per il crollo dei miti: il libero mercato, l’impresa, la finanza creativa) non è stato ancora elaborato. Allora, per dare una spiegazione alle scelte giornalistiche, proviamo a pensare male (che forse ci avviciniamo alla verità).
I giornali più importanti appartengono ai grandi gruppi industriali e bancari (6). Ovvero a quei gruppi di potere che, direttamente o indirettamente, in misura maggiore o minore, sono corresponsabili della crisi e che da questa oggi vogliono uscire con l’aiuto degli stati nazionali (cioè dei cittadini-contribuenti), ma senza cambiare i paradigmi della globalizzazione neoliberista che stanno alla base del sistema e del suo fallimento. Proprio ciò che da sempre chiedono invece i Forum sociali mondiali. Come forse racconteranno i ragazzi del «Corso di comunicazione popolare», che a Belém hanno sperimentato cosa significa fare i giornalisti. Liberamente ed esibendo con orgoglio il proprio pass.

Di Paolo Moiola                                


(1) Vedi: www.revistaviracao.org.br.
(2) Quotidiano gratuito Metro, 28 gennaio 2009, pagg. 1-2.
(3) Vedi: Corriere della Sera, del 28 gennaio 2009.
4) Pubblicato sul sito: www.gennarocarotenuto.it
(5) Loretta Napoleoni, Davos, parole in libertà, settimanale Internazionale, 6 febbraio 2009; Loretta Napoleoni, Il falò del capitalismo, settimanale Internazionale, 20 febbraio 2009.
(6) Sulla proprietà dei media italiani, si legga l’ottimo dossier pubblicato sul mensile Altreconomia, febbraio 2009.

Paolo Moiola




Sull’utilità delle prediche

Antonio Rovelli

A che servono i Forum sociali mondiali? Per esempio, che resta dopo le giornate di Belém? Soltanto parole, buoni propositi, sogni, come dicono i suoi detrattori? Oppure dal Forum si esce con la consapevolezza che nel mondo c’è una grande ricchezza di donne, uomini e idee da valorizzare?  

Belém. Antonio Rovelli, missionario della Consolata, fondatore della Scuola per l’alternativa, è venuto al Forum, dopo aver partecipato a quello di Nairobi, nel 2007.

Si dice che a Belém i protagonisti siano stati, in ordine casuale: la foresta amazzonica; gli abitanti delle Americhe, ovvero i popoli indigeni; i brasiliani, con i loro problemi e le loro speranze; i presidenti latinoamericani progressisti. Padre Antonio, è d’accordo con questa visione?
«Mi è piaciuta l’espressione di Americhe. Identicamente, io sono convinto che occorra parlare di Afriche. Dunque, qui a Belém abbiamo incontrato diverse Americhe, con proprie e specifiche ricchezze. Pensiamo ai popoli indigeni, ai movimenti sociali e a tutte quelle realtà. Quanto alla presenza di tutti quei presidenti (che si auto-definiscono progressisti), la scelta di venire a Belém è positiva. Ma fino a che punto scendono dal palco da cui parlano? Fino a che punto accettano di cambiare radicalmente anche le loro politiche economiche per far sì che i diritti degli indigeni e dei movimenti sociali siano rispettati? Questo secondo me è tutto da vedere. Per questo è bene che i movimenti sociali ed indigeni continuino a stare alle calcagna dei loro leaders, perché non si dimentichino delle promesse che hanno fatto loro».

Un esempio?
«Accenno soltanto al Brasile. Alla politica degli agro-combustibili che sta distruggendo la foresta e alla permanenza dei grandi latifondi a causa della mancanza di una politica agraria che tenga conto dei diritti dei Senza terra e dei popoli indigeni. Insomma, ci sono delle contraddizioni. Cioè occorre stare attenti che ciò che i presidenti scrivono con la mano, non venga cancellato con il gomito».

Evo Morales, presidente della Bolivia, ha parlato di chiesa, con evidente riferimento ai problemi avuti nel suo paese con la gerarchia cattolica. Come prete, qual è la sua opinione al riguardo?
«Prima di tutto dividerei la chiesa gerarchica, quella dei vescovi e delle conferenze episcopali, dalla chiesa delle comunità di base, di chi si fa orante della parola di Dio, ossia missionari, laici, preti, religiosi che camminano a fianco dei movimenti sociali e dei popoli indigeni. La chiesa gerarchica purtroppo sta dimenticando il cammino che è stato fatto da alcuni vescovi che si sono fatti portavoce delle istanze dei poveri (alcuni dei quali sono stati uccisi: come Oscar Romero in Salvador, Juan Girardi in Guatemala). E oggi mancano, a livello gerarchico, voci profetiche conosciute che fanno opinione.
Dunque, un’altra chiesa è auspicabile. E lo è sicuramente, per chi ascolta i poveri e per chi lavora in mezzo alla gente. D’altra parte, parlare in nome di o farsi voce di chi non ha voce, è giusto fino ad un certo punto. È bene che siano gli stessi soggetti a portare avanti le proprie istanze e lotte, facendo sentire la propria voce».

Da Nairobi a Belém. Portare il Forum in questa regione del Brasile è stata una scelta azzeccata?
«La scelta di Belém è stata strategica. Ed è strategico il luogo, l’Amazzonia, per il suo patrimonio umano, naturale e culturale. Qui troviamo un concentrato di ricchezza che il mondo può custodire o distruggere».

A Belém sono venuti i rappresentanti di centinaia di popoli indigeni. Come valuta questa presenza?
«Secondo me, è l’elemento qualificante di questo Forum».

Nel momento in cui gli indigeni vengono visti e trattati alla pari…
«Assolutamente. Non devono essere trasformati in oggetto per le nostre fotografie, da mostrare alla nostra gente quando si torna a casa. Un parallelo lo posso fare con i popoli nomadi del nord del Kenya. Quando arrivano i turisti, loro si mettono a danzare davanti alle macchine fotografiche…».

Dunque?
«È una ricchezza che deve essere compresa, valorizzata, con la quale bisogna camminare. Quello indigeno è per noi un mondo difficile da catalogare. Dobbiamo farci guidare da loro, che hanno una forza e un coraggio di lottare, che purtroppo sono venute a mancare nel nostro mondo. Ad esempio, per i popoli indigeni la terra è questione di vita o di morte. È parte integrante della loro esistenza. È come un vestito che portano addosso, è come l’aria che respirano».

La salvezza dell’Amazzonia deve passare esclusivamente attraverso i popoli che la abitano?
«Io sono stato molto colpito dalla diversità di questi popoli, dalla loro forza, persone che sono state picchiate, torturate… Il coraggio di queste persone dobbiamo condividerlo con gli altri. D’altra parte, io penso che da soli i popoli indigeni non potranno portare ad un cambiamento. Dovranno unirsi ad altri movimenti sociali, del mondo del lavoro, del mondo agricolo per diventare una forza propositiva che un giorno possa arrivare ad occupare i posti di potere. Così il mondo potrà essere diverso».

Peccato che la maggior parte dei media mondiali continui a descrivere il Forum come una manifestazione folcloristica…
«Mi ha tolto la parola di bocca. Per molti media importanti il Forum attira e incuriosisce soltanto se descritto come un fatto folcloristico».

E dunque?
«I problemi devono essere risolti a livello globale. Se il nostro mondo cosiddetto ricco non accoglie questo mondo che si sta affacciando timidamente, ma con forza, finiremo con il perdere tutti».

di Paolo Moiola

Vuoi ascoltare l’intervista?
Questo brano è parte di una lunga intervista trasmessa nell’ambito del programma radiofonico «Cartoline dall’Altra America», trasmesso da Radio Flash (www.radioflash.to) e curato da Paolo Moiola. L’intervista completa è disponibile sul sito
www.rivistamissioniconsolata.it.

Paolo Moiola




A parte tutto: «grazie di esistere»

F come Forum: il Forum sociale mondiale è …

Abbiamo chiesto a quattro giornalisti, tutti stranieri, di scrivere la propria opinione sul Forum di Belém cui hanno partecipato in prima persona. Non mancano le critiche, ma tutti ne sottolineano l’utilità. E criticano l’indifferenza, la superficialità o la supponenza con cui i grandi media mondiali hanno guardato alla manifestazione.

Se la resistenza
al «pensiero unico» non è raccontata

La crisi mondiale e la resistenza dei popoli indigeni sono stati al centro dei dibattiti della nona edizione del Forum sociale mondiale (Fsm) in Belém nello stato del Parà, nell’Amazzonia brasiliana. Questa volta il Forum è avvenuto in un momento unico, dove la globalizzazione neoliberale, dominata dalla finanza libera da qualsiasi controllo pubblico, è in crisi e sta perdendo la sua egemonia. Allo stesso tempo, in Davos, il Forum economico mondiale riconosceva il fallimento e la miscredenza nei principali pilastri del sistema, dando così maggior fiducia al processo del Fsm iniziato nel 2001.
Un consenso sembrava attraversare la maggior parte delle discussioni in Belém: la crisi finanziaria globale deve essere pensata congiuntamente alle crisi energetica, climatica e alimentare. Le conseguenze del processo egemonico hanno generato una crisi di sostenibilità. È importante notare che, oltre le giornate di lotta e azioni globali, molte delle riflessioni realizzate nelle riunioni del Fsm sono trasformate in decisioni politiche. Nonostante i problemi nell’organizzazione, il bilancio finale è stato positivo. L’aspetto più importante è che, attualmente, l’Fsm continua ad essere una delle uniche proposte multisettoriali e inteazionali con un progetto alternativo emergente. In un mondo carente di iniziative, questo è un fatto straordinario. Rispetto alle prime edizioni, l’evento di Belém è stato segnato da una maggior radicalità nelle analisi e una maggior articolazione tra i movimenti. Vi è un consenso comune verso il fatto che la definizione di strategie di lotta sociale e politica, per il superamento della società del capitale, si fa più urgente. Non si tratta più di salvare il sistema, ma di risolvere i problemi dell’umanità cornordinando le forze per uscire da una grave situazione, o vi è la possibilità che non avremo futuro.
Una delle maggiori sfide ancora affrontate dal Forum è la sua comunicazione con il mondo.
Partecipare al Forum è una cosa. Ascoltare parlare del Forum da parte di altri e soprattutto dai grandi mezzi di comunicazione di massa è un’altra cosa. La contraddizione è il non riuscire a «comunicare» ciò che realmente succede nell’evento, proprio perché il Forum stesso è sorto come un’operazione di «controcomunicazione» di fronte al Forum economico. «Un altro mondo è possibile» e non solamente quello del pensiero unico di Davos. Nonostante la presenza di una grande quantità di giornalisti (4.500), l’Fsm è sempre meno «relazionato/descritto» dai grandi mezzi di comunicazione, che quando lo fanno, non raccontano ciò che dovrebbe essere raccontato, ma rimangono sull’aspetto folclorico che l’evento offre.
Per ora l’unica soluzione è valorizzare i media alternativi e la comunicazione che ogni partecipante fa nel suo circolo di appartenenza.


di Jaime Carlos Patias


Guardare oltre, guardare verso chi sta fuori

Mi guardo intorno, a Belém, e vedo una quantità straordinaria di progetti che fervono in tutto il mondo. Al Forum passano in tanti. Ci sono ideologie ormai sclerotizzate. Ci sono missionari cattolici che in Mozambico, Colombia o  Roraima fanno quello che lo Stato o il mercato o chi dovrebbe farlo non fa. Ci sono associazioni che partecipano attivamente nel definire la vita della propria città, della propria regione e perfino del proprio Paese. Ci sono città che praticano quella forma di democrazia e cittadinanza che è il «bilancio partecipativo». Ma tutto ciò non è argomento per riempire pagine di giornali. Sì, al Forum vi è anche folclore; sì, resiste anche un ideario/insieme di idee vecchio, logoro e consumato, ma ciò che mi sorprende è che questo evento, che coinvolge più di 130 mila persone, sia appena una nota di fondo nei telegiornali o una breve notizia nei giornali.
È vero anche che il Forum sociale mondiale è palco di contraddizioni. Dove si accumula immondizia, mentre si discute di un mondo più pulito. Dove ci sono automobili in eccesso, mentre si discute di un mondo più verde. E vi è la mancanza di portare le istanze del Forum fuori dai suoi territori: uscire dalla discussione per andare alla prassi politica, uscire dalla tenda per andare alla città. Oltrepassare i semplici slogan o la parola d’ordine facile è un compito più arduo di ciò che appare. Il Forum è cresciuto molto (133 mila partecipanti, più di cinque mila organizzazioni), ora è necessario crescere nel mondo. Guardare verso chi sta fuori, a lato, al margine. Capire che è necessario tradurre, negli intervalli tra i forum, la ricchezza dei sei giorni di dibattito.
Basta guardare al Forum sociale mondiale di Belém del Parà. La sua realizzazione è avvenuta in due campus universitari enormi, che obbligavano a camminare molto. Ma altro tipo di esercizio è stato mettere insieme alle università, i quartieri di Guamá e Terra Firme, che sono una immersione reale in questo Brasile di contrasti. Favelas immense e poveri al bordo delle strade avrebbero dovuto interpellare maggiormente coloro che hanno partecipato al Forum, per superare la frontiera che separava queste realtà.
«Un altro mondo è possibile», ricorda lo slogan del Forum…

di Miguel Marujo


L’Arca di Noè non è disponibile …

Davanti all’estesa superficie a specchio del fiume Guamá, si è sviluppato il nono Forum sociale mondiale. Il luogo è stato per se stesso un simbolo del proposito di un evento così singolare: «un altro mondo è possibile». La vastità delle acque, il verde e l’esuberanza delle foreste sono una novità impressionante e, allo stesso tempo, scioccante. La ricerca di un mondo senza miseria, senza sfruttamento, senza fame, senza violenza fisica, dove esista comunione, solidarietà, frateità, e rispetto dei diritti di tutte le persone senza distinzione, si scontra però con la più nera e gridante realtà della miseria, rispecchiata nelle favelas e nel commercio informale che pullula in questo paradiso terrestre.
L’Amazzonia è una enorme regione del pianeta, ricca di biodiversità dove, come qualcuno scrisse, «la vita scorre attraverso i fiumi, respira attraverso la foresta, canta attraverso gli uccelli, si dona attraverso i frutti, sogna, soffre e spera attraverso il cuore umano, parla e adora nelle diverse lingue dei popoli amazzonici». In Belém ci siamo sentiti parte del pianeta blu, più vicini gli uni agli altri. L’armonia della natura, ferita dall’uso e abuso senza regole e senza rispetto, penetra nella nostra pelle e denuncia la situazione privilegiata di pochi ottenuta al costo del sangue della maggioranza. Lo stato del Pará porta un carico di problemi drammatici – la deforestazione, l’inquinamento dei fiumi, la moltitudine dei poveri e degli sfruttati, dei Sem terra e altri -, ma la stessa sostenibilità del pianeta è pericolosamente posta a rischio. La minaccia è grande. Come ha allertato Leonardo Boff: «Oggi noi non abbiamo più l’Arca di Noè, che salva alcuni e lascia morire  quelli in eccesso. O noi salviamo tutti o moriamo tutti».
La presenza massiccia di forze di sicurezza nella città e nei locali del Forum non ha oscurato un clima caratterizzato dalla spensieratezza e da una contentezza facile e contagiosa. A Belém, si è respirata un’allegria spontanea e una comunicazione facile tra persone che rispecchiano l’incontro di razze e popoli, provenienti dai vari continenti. Si è formato un ambiente cosmopolita, in contrasto con il Forum di Nairobi, accentuatamente africano, sebbene ci fosse un’allegria e colore che nulla hanno da invidiare a Belém. Di entrambi questi eventi resta la sensazione che è necessario andare oltre la rotta del tanto agognato «altro mondo», che nel frattempo da «possibile» è passato ad essere «necessario e urgente».

di Elisio Assunção

Per la «differenza», contro l’«indifferenza»

La ragione di questo titolo deriva da una delle molte realtà che abbiamo sperimentato nel Forum sociale mondiale (Fsm) di Belém, cioè che è possibile una globalizzazione alternativa e che è possibile unire i movimenti sociali e le Organizzazioni non governative (Ong) per lottare per un mondo più giusto e solidale. È stato in questo contesto, che ho sentito e vissuto l’Fsm del 2009 come un’alternativa effettiva per affrontare le cause sociali, i problemi che preoccupano l’umanità in generale e i popoli che soffrono in particolare.
Il Forum è dunque uno spazio aperto di incontro per l’approfondimento, la riflessione, il dibattito democratico delle idee, per la formulazione di proposte, per il libero scambio di esperienze e per l’articolazione di azioni efficaci. È su queste basi che l’Fsm riunisce entità e movimenti della società civile, che si oppongano al neoliberismo e al dominio del mondo da  parte del capitale o di qualche forma di imperialismo. Ho verificato che un indefinito numero di movimenti sociali, popoli indigeni e Ong inteazionali sono impegnati nella costruzione di una società planetaria incentrata sull’essere umano. Tutti, a viva voce, hanno ricordato che non ha senso, oggi, vivere in un mondo con tanta disuguaglianza e indifferenza.
Dal Forum di Belém sono emerse, in vari pannelli di discussione, proposte che aiutano a dibattere su alternative per costruire una globalizzazione solidale. Ovvero una globalizzazione che, rispettando i diritti umani universali e l’ambiente, si appoggi su sistemi e istituzioni inteazionali democratiche al servizio della giustizia sociale, della uguaglianza e della sovranità dei popoli. Questo significa garantire a tutti gli abitanti del pianeta Terra l’applicazione dei diritti fondamentali, che cominciano con il diritto alla terra, a un tetto, alla salute, al lavoro e all’educazione. Per raggiungere questo obiettivo noi tutti dobbiamo lavorare anche per finanziare questi progetti.
Sono uscito da questo Fsm del 2009 con la speranza che ci sono elementi nuovi e ottimistici rispetto alle alternative. E perfino in termini di lotta, dato che, quello che era impensabile soltanto dieci anni fa, cioè unire in un unico spazio uomini e donne per discutere l’utopico, oggi è stato realizzato. In tutto il mondo abbiamo movimenti che, pur abbracciando il pianeta intero, hanno radici locali create attraverso le proprie lotte e propri sistemi di economia solidale. Partendo da questi soggetti locali stiamo costruendo un nuovo ordine internazionale, più flessibile, più ampio, nel quale i movimenti sociali e i movimenti di cittadini di tutto il pianeta abbiano l’opportunità di dimostrare all’Umanità che un altro mondo è possibile. Un mondo differente, ma contro l’indifferenza.

di Beardino Silva

J. Patias, M. Marujo, E. Assunçao, B. Silva




Migrazione spinta, migrazione attratta

Migranti dal mondo all’Italia

Milioni di persone nel mondo lasciano ogni anno la propria patria per migrare in altri paesi in cerca di un futuro migliore. L’Italia è tra i primi paesi di immigrazione nell’Unione europea e il fenomeno è destinato a crescere, anche perché a causa della crisi demografica cresce il bisogno di manodopera straniera in tutti i settori della nostra società. Un fenomeno necessario e positivo, quindi, ma deve essere accompagnato da politiche aperte e lungimiranti, che favoriscano l’integrazione, il passaggio da immigrati a cittadini. I «nuovi italiani» non sono numeri e statistiche, ma persone con storie di vita, portatori di nuovi valori culturali, che è  necessario conoscere, per la convivenza interculturale e la pace religiosa.

O ggi i migranti nel mondo sono arrivati a quota 200 milioni, pari a quasi il 3% dei 7 miliardi di esseri umani sulla terra, con un incremento annuale di 3 milioni di persone.
Di questi 200 milioni, nonostante il crescente numero di richiedenti asilo e sfollati denunciato annualmente dalle Nazioni Unite, la parte più consistente rimane costituita da lavoratori in cerca di un futuro migliore. Lavoratori immigrati che secondo l’Inteational labour organization arrivano a rappresentare nei paesi industrializzati circa il 12% dell’intera forza lavoro.
Migranti: produttori di ricchezza
La spinta ad abbandonare il proprio paese per cercare condizioni di vita migliori è dettata dal fatto che la ricchezza mondiale è sempre più concentrata nei Paesi a sviluppo avanzato (Psa) a scapito del resto del mondo. Sulla base di una serie di elaborazioni teoriche, si calcola che nel corso del 2007 nel mondo si siano prodotti 65.200 miliardi di dollari di ricchezza, una cifra che sarebbe in grado di assicurare a ogni abitante della terra un reddito annuo pari a 9.768 dollari.
In realtà la forte sperequazione nell’accesso alle risorse tra le diverse aree del mondo fa sì che appena il 13% della popolazione mondiale residente in America settentrionale e negli stati membri dell’Unione europea detenga la metà del Prodotto interno lordo (Pil) mondiale. Mentre Africa, America Latina e Asia, che rappresentano la metà della popolazione mondiale, raggiungano appena un quarto del Pil dell’intero pianeta terra.
Per contrastare la crescente povertà nel mondo, l’Onu, nel corso del 2000, ha lanciato gli Obiettivi del millennio. Si tratta di otto obiettivi finalizzati al contrasto della povertà estrema, delle malattie, dell’inquinamento ambientale e all’impegno nell’innalzamento della qualità della vita di ogni essere umano che abita il pianeta, che tutti i 191 stati membri si sono impegnati a raggiungere per l’anno 2015.
Ma oggi, a causa del rallentamento della crescita economica globale, il raggiungimento di tali obiettivi resta incerto. E non è un caso che il 2008 sia da ricordare per il fallimento dei negoziati presso l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) per la liberalizzazione del commercio dei prodotti alimentari, misura che avrebbe dovuto apportare concreti benefici in termini di competitività internazionale per le economie prevalentemente agricole dei paesi in via di sviluppo (Pvs).
I pochi dati economici globali presentati bastano a far capire quali sono i principali flussi delle immigrazioni nel mondo, che vedono milioni di persone abbandonare i propri paesi del Sud del mondo verso quelli del Nord. Storie di speranza, ma anche di fatiche e sofferenze, qualche volta di disperazione. E proprio per quanto riguarda «l’immigrazione disperata», quella che spesso finisce nelle mani di trafficanti di uomini senza scrupoli, il bilancio è impressionante: nei primi 7 mesi del 2008, tra coloro che hanno cercato di raggiungere Italia e Spagna via mare, si contano 399 morti accertati nel Canale di Sicilia e 188 sulla rotta verso le isole Canarie. Dal 1988 oltre 12.566 persone, per rimanere alle morti accertate, sono annegate nel tentativo di raggiungere l’Europa.
Il caso Italia
«Molti immigrati nel nostro paese trovano impiego nell’ambito dei servizi alla persona – spiega Tiziana Caponio, del Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione -, soprattutto agli anziani. Perché l’Italia si presenta con una grossa domanda di servizi di cura per anziani non autosufficienti in assenza di strutture residenziali adeguate. Abbiamo un sistema di welfare debole sul lato dei servizi, che viene compensato con il trasferimento dei redditi delle famiglie a badanti straniere».
Nel nostro paese l’équipe del Dossier Caritas/Migrantes stima che a fine 2007 fossero 4 milioni i cittadini stranieri presenti, che su una popolazione totale di 59.619.290 abitanti è uguale al 6,7% del totale, ben al di sopra della media europea. L’Italia infatti si colloca oggi tra i primi paesi di immigrazione dell’Unione europea, subito dopo Germania e Spagna, con un incremento annuo di immigrati di 350 mila unità. E se continuerà questo ritmo l’Italia è avviata a superare la presenza di 10 milioni di stranieri ben prima di metà del secolo, diventando il primo paese europeo per numero di immigrati insieme alla Spagna.
Uno scenario preoccupante?
Al contrario: se si calcola che nel nostro paese il saldo tra nascite e morti è ormai negativo da anni, per l’esiguo numero di nuovi nati e l’aumento esponenziale dei decessi; che l’età media è in continuo aumento e la popolazione attiva in costante diminuzione, il futuro non è pensabile senza gli immigrati che, essendo persone più giovani d’età, diventano indispensabili per abbassare l’età media della popolazione complessiva.
«L’immigrazione in Italia comincia nel ‘74 – spiega Francesco Ciafaloni, ricercatore dell’Ires Lucia Morosini di Torino -. Ma la vera immigrazione importante parte solo 4 anni fa, quando diventa evidente l’effetto della transizione demografica del nostro paese: il passaggio da natalità alta a bassa e da mortalità bassa ad alta».
A quel punto il sistema economico nazionale, non trovando più manodopera nel paese, ha avuto bisogno di importae dall’estero. «Questo aumento di immigrati – continua Francesco Ciafaloni – non è quindi dovuto al degrado del mondo, ma al fatto che il sistema produttivo italiano richiede forza lavoro. Mentre fino a 25 anni fa si parlava di immigrazione spinta, cioè persone arrivate in fuga da guerre e carestie, oggi si può parlare di immigrazione attratta dal lavoro».
Un fenomeno che presenta delle positività per il nostro paese, ma che allo stesso tempo necessita di essere governato e accompagnato da politiche ad hoc. «Si impone la necessità di una politica positiva – scrivono gli specialisti Guerino Di Tora, Vittorio Nozza e Piergiorgio Saviola nell’introduzione al XVIII Rapporto Dossier statistico 2008 immigrazione di Caritas/Migrantes – a favore della maggioranza degli immigrati, investendo in idee e risorse. […] L’ambito delle politiche di integrazione è il banco di prova della capacità della classe dirigente di un paese chiamato ad affrontare il tema delle migrazioni. La reiterazione di provvedimenti sicuritari o emergenziali non mostra la forza nell’affrontare il tema, ma la sua debolezza nell’impostare politiche lungimiranti e illuminate capaci di costruire percorsi di cittadinanza, che siano nello stesso tempo inclusivi e anche esigenti nei confronti delle persone immigrate».
Chi sono questi immigrati
«Sono badanti, muratori, agricoltori – spiega Francesco Ciafaloni -. Ma anche operai e infermieri. Perché se le cose che si possono trasportare, in periodo di globalizzazione e con i trasporti a basso costo, si fanno dove costa poco per portarle dove costano tanto, rimangono alcune cose che bisogna necessariamente fare qui. E infatti le cose che si fanno gli immigrati sono le cose che non si possono trasportare: case, strade, buchi per terra e servizi alla persona. O le infrastrutture per le Olimpiadi di Torino 2006, che, se non ci fosse stata la comunità rumena, non si sarebbe riusciti a fare».
Ma per andare oltre alla professione, se a livello statistico non mancano i dati sui «nuovi italiani» provenienti da paesi esteri, pochi sono gli studi in profondità, la raccolta delle cosiddette «storie di vita» delle famiglie immigrate, per capire chi sono, cosa pensano e quali prospettive hanno i nuovi abitanti della penisola.
Si tratta di una realtà in espansione e soggetta a molti cambiamenti. Dove ad esempio alcune famiglie, a causa dei bassi prezzi degli immobili e dell’alta qualità della vita, decidono di lasciare la città per trasferirsi in provincia. Andando a ripopolare quel «Mondo dei vinti», per citare Nuto Revelli, quelle zone «di confine» abitate da contadini e montanari. Nuovi abitanti impiegati in servizi alla persona, nella ristorazione, nell’edilizia ecc. Intere famiglie trasferite in piccoli comuni per costruirsi una nuova vita. Una nuova identità frutto della mediazione tra la loro cultura d’origine e quella del luogo eletto a nuova dimora.
Grazie a questo fenomeno in questi luoghi si vengono a creare reti lunghe tra piccoli comuni e regioni estese, fino alla creazione di consistenti comunità straniere, provenienti da paesi dell’Africa, dal Sud America, dai paesi dell’Est Europa o da paesi orientali.
«In genere gli immigrati arrivano nei grandi centri urbani – continua Ciafaloni – per poi spostarsi lentamente verso le periferie e creare delle catene migratorie minori. Nei piccoli comuni delle zone marginali, come nei comuni montani ad esempio, si possono creare nicchie che si sostituiscono allo svuotamento. Perché se c’è una nicchia ecologica, in cui si può vivere, lavorare e magari riattarsi una casa a poco prezzo, allora gli immigrati arrivano. Cosa capita poi in provincia con i nuovi arrivi è una cosa che bisogna andare a scoprire sul posto. Perché per cercare di indovinare il futuro bisogna tenere un occhio al mondo e andare a parlare con quelli che ci stanno».
E proprio al fine di conoscere meglio queste nuove realtà artefici, insieme alle comunità originarie, della trasformazione del tessuto socio-economico delle zone di provincia italiane, insieme al collega fotografo Davide Casali, abbiamo avviato un lavoro di raccolta testimonianze nel corso del 2008. Attraverso una serie di interviste in profondità, condotte con lo strumento sociologico dell’«intervista discorsiva guidata», si è raccolta la testimonianza di oltre 12 comunità straniere numericamente rilevanti residenti in altrettante zone di provincia italiane (alcune delle quali presentate di seguito). 

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Dalle navi dei disperati alle nevi delle Alpi

La comunità albanese di Sestriere (To)

Sbarcato a Brindisi nel 1991 e raggiunto Sestriere, il signor Vebi Zeneli ha trovato lavoro nei cantieri edili, d’estate, e nelle cucine dei ristoranti d’inverno, finché si è messo in proprio, come gestore di un bar.

«I primi lavoratori albanesi arrivarono da noi una quindicina di anni fa – spiega Luca Paparozzi, vice sindaco del comune montano di Sestriere, in provincia di Torino, 886 abitanti -. Erano per lo più lavoratori stagionali, impiegati nel campo dell’edilizia».
Correva l’anno 1991 quando, per risolvere l’emergenza delle migliaia di albanesi sbarcati sulle coste pugliesi, le autorità italiane organizzarono decine di centri di prima accoglienza in tutte le regioni. Uno di questi venne realizzato a Susa, a pochi chilometri da Sestriere. E proprio da quell’esperienza è nata l’attuale comunità albanese di Sestriere, che ormai conta 47 residenti regolarmente registrati.
«C’è voluta una decina di anni prima che i lavoratori albanesi diventassero stanziali – continua Luca Paparozzi – ma oggi vivono a Sestriere con le famiglie e sono sicuramente la comunità straniera più numerosa in paese. Oltre il 50% di tutti gli stranieri residenti».
Una comunità coesa, che si ritrova spesso presso il bar Le cafè creme, gestito dal connazionale Vebi Zeneli. «L’arrivo di queste famiglie, in numero non eccessivo, è stato da noi accettato e percepito come una risorsa positiva» spiega il sindaco di Sestriere Andrea Maria Colarelli.

«Sestriere ormai non la lascio più. Sono 15 anni che ci vivo e mi trovo bene. Questa ora è casa mia». Non ha più dubbi Vebi Zeneli, gestore del bar Le cafè creme, in via Pinerolo 23/b, dove ogni settimana arrivano una ventina di copie di Bota Shiptare, il giornale degli albanesi in Italia.
È arrivato nel 1991, sbarcato in Puglia dalle «navi dei disperati», che ogni sera ci venivano proposte dalle immagini dei telegiornali.
«Era primavera – ricorda Vebi Zeneli -. E con il mio vicino di casa abbiamo comprato una bicicletta per andare in due da Tirana, mia città natale, al porto di Durazzo, a 40 chilometri, sulla costa. Avevo 25 anni e lavoravo in una miniera. Arrivati sul molo il mio amico ha dato l’orologio e un mese di stipendio a un poliziotto che ci ha fatto salire sulla “carretta” ormeggiata, carica all’inverosimile, che batteva bandiera panamense».
Dopo 12 ore arrivavano a Brindisi, dove le autorità italiane smistavano gli sbarcati presso i campi di prima accoglienza organizzati in tutte le regioni italiane per affrontare l’emergenza. «Ci hanno subito dato acqua e cibo. E latte per i bambini – continua Zeneli -. Sono finito nel campo di Ostuni, e dopo poco ho cominciato a uscire durante il giorno in cerca di lavoro. Davano 25 mila lire al giorno. Che non era una gran cifra. Ma d’altra parte eravamo sbarcati in 30 mila. E devo dire che i pugliesi ci hanno davvero aiutato, in tutti i modi».
Un giorno un amico chiama il signor Zeneli dal piccolo comune piemontese di Sestriere. Anche lui un boat people del 1991, sbarcato a Brindisi era stato trasferito presso il campo di prima accoglienza di Susa, in provincia di Torino. «Lavorava a Sestriere dove viveva con la famiglia – spiega Zeneli -. Mi disse che se lo raggiungevo mi avrebbe trovato lavoro». Ed è così che il signor Zeneli arriva finalmente a Sestriere.
«Nel 1993 eravamo una ventina di albanesi a Sestriere – ricorda -. Molti hanno lavorato per anni nella costruzione dell’autostrada del Frejus. Io ho cominciato a lavorare in un cantiere edile. E finita la stagione estiva sono andato a fare il lavapiatti al ristorante Alpette, sulle piste da sci». D’estate nei cantieri e d’inverno in cucina. Prima da clandestino, poi ottenuti i documenti, con contratti stagionali.
Poi, un giorno, la svolta: il vecchio gestore del bar Le cafè creme decide di lasciare l’attività. E il signor Zeneli si fa avanti: «Ho chiesto a un amico ristoratore di Sestriere – ricorda -. Ho lavorato anni per lui, e siamo diventati buoni amici. Mi ha consigliato di provarci. Così sono andato dal padrone dei muri e ho detto: lo prendo. Non lo conoscevo, e mi ha subito detto che per lui non c’erano problemi. Albanesi, americani o cinesi, per lui l’importante era che pagassero l’affitto».
Da ormai 5 anni la famiglia Zeneli gestisce l’esercizio commerciale. Aperto dal mattino alle 6 alla sera alle 21; 365 giorni all’anno. Diventando un punto di riferimento sia per gli abitanti locali che per la comunità albanese. «Penso di non aver fatto male a prendere il bar – spiega Vebi Zeneli -. Riesco a viverci con la famiglia». E riesce a mandare il figlio di 10 anni allo sci club. Che è un’attività costosa, ma praticamente l’unico sport esistente a Sestriere.
«Certo trasferirsi in Italia non è stata una passeggiata – racconta Vebi Zeneli -. Di difficoltà ne abbiamo incontrate. E il problema più grosso è sempre stato il rinnovo dei documenti. Ogni quattro anni. Ora che ho il bar ho ottenuto il permesso di soggiorno decennale. E spero vada meglio. Anche se per chiedere la cittadinanza ci vogliono i documenti albanesi: certificato di nascita ecc. Ma da noi è difficile ottenere i propri diritti. Bisogna pagare per qualsiasi cosa. Per questo non ho ancora fatto domanda».

I l signor Zeneli, quando parla del suo paese natale, si incupisce: «Le scuole non funzionano – spiega -. Gli ospedali neppure. La situazione dal 1991 è molto peggiorata. E mi spiace veramente vederlo in questo stato, perché il paese è molto bello». Ma la tristezza dura poco.
Appena entra un cliente nel locale il suo volto è di nuovo sorridente: «Qui ho ottimi rapporti con tutti – spiega -. L’ex sindaco Franco Giaime, ad esempio, viene spesso a giocare a carte da me con gli amici, e mi ha insegnato un gioco locale di nome Belot. Ho imparato la lingua lavorando: e oggi capisco anche patornis e piemontese. Alle feste locali andiamo sempre. E anche se io non so ballare, i balli occitani non sono poi tanto differenti dai nostri. Persino la questione religiosa non è mai stata un problema: siamo musulmani, ma siccome fino al ‘91 le moschee in Albania erano chiuse, siamo abituati a fae a meno. Mio figlio è felice di frequentare la chiesa cattolica».
E anche se la prospettiva della famiglia è quella di rimanere a vivere a Sestriere, con le rimesse verso il suo paese il signor Zeneli ha comunque ristrutturato la vecchia casa di famiglia. Perché non si sa mai: «Quando William finirà la scuola – conclude – potrà liberamente decidere se tornare in Albania o meno. È per questo motivo che in casa parliamo albanese, così ha l’opportunità di conoscere due lingue. Inoltre gli parlo spesso dell’Albania, e quando andiamo a trovare i nonni gli faccio vedere i luoghi della mia infanzia. Ma sarà comunque molto difficile che torni. Perché ormai amici e interessi li ha a Sestriere. Ho deciso di trasferirmi qui per stare meglio, per migliorare la mia vita. E così è stato. Lavoriamo tanto, è vero, ma con la stessa fatica giù non riuscirei a fare questa vita». 

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Da  spaccapietre a imprenditore tessile

La comunità cinese di Barge (Cn)

Le tradizioni familiari e i legami clanici sono ancora forti nelle comunità cinesi; ma qualcosa sta cambiando tra i giovani, che rompono con il passato, avviandosi sulla strada dell’integrazione con l’ambiente in cui lavorano.

«Le prime famiglie cinesi in valle sono arrivate verso la fine degli anni ’90. Richiamate da un mercato del lavoro carente di operai che lavorassero nelle cave di pietra dei piccoli comuni di Barge e Bagnolo, in provincia di Cuneo». Ricorda bene quel periodo Pietro Schwarz, responsabile di progetto del Consorzio Monviso solidale, associazione costituita dai 52 comuni dell’area cuneese compresa tra Fossano, Saluzzo e le Comunità Montane Valle Varaita e Valle Po, Bronda e Infeotto, per la gestione dei servizi socio-assistenziali.
«Abbiamo subito aperto due sportelli a servizio degli immigrati a Barge e Bagnolo – continua Pietro Schwarz -, i luoghi in cui si è concentrata la comunità cinese. Che oggi conta più di 800 persone». Su 12.700 abitanti (rispettivamente 7.000 a Barge e 5.700 a Bagnolo), secondo i dati ufficiali, vivono ben 801 cinesi – rispettivamente 495 a Barge e 306 a Bagnolo. Ma gli impiegati comunali non nascondono che in realtà ce ne sono molti di più. E presso gli sportelli, un giorno a settimana gli operatori del Consorzio accolgono gli immigrati, aiutandoli nelle operazioni più disparate: dal disbrigo di una pratica burocratica alla lettura e comprensione di una contravvenzione; dalla presa in carico di problemi nati sul posto di lavoro, spesso a causa della scarsa conoscenza della lingua italiana, all’ascolto dei possibili problemi interni alla stessa comunità cinese.
«Il nostro lavoro, che possiamo definire “di comunità” – continua l’operatore – è nato all’indomani di alcune segnalazioni del Tribunale dei minori di Milano. Perché sebbene a Barge e Bagnolo non si siano mai verificati problemi con la giustizia minorile, è sempre meglio prevenire i problemi lavorando per l’integrazione tra italiani e cinesi».
Il Consorzio non si limita agli sportelli, ma promuove laboratori didattici nelle scuole elementari e medie. «Nel complesso scolastico di Barge i ragazzini cinesi sono ormai il 17,82% – spiega Pietro Schwarz -, mentre in quello di Bagnolo il 19,44%. Numeri rilevanti da cui partire per promuovere fin da subito un corretto percorso di integrazione». Perché se, come spiegano gli operatori del Consorzio, con adulti e anziani l’integrazione praticamente non esiste, e i rapporti con gli italiani si limitano alla coabitazione all’interno del paese, è sui giovani e giovanissimi, fino ai 16/17 anni, che si gioca la vera partita.
«Con i giovani, se si propongono delle attività, si può legare tranquillamente – continua il responsabile di progetto -. E in un luogo come Barge e Bagnolo, dove c’è pochissimo fermento culturale, è molto semplice agganciare i ragazzi». E grazie al paziente lavoro della scuola, delle associazioni come il Consorzio Monviso solidale e alla buona accoglienza da parte della popolazione locale, anche all’interno della conservatrice comunità cinese, dove i clan familiari hanno ancora la loro influenza, oggi qualcosa sta cambiando: «Gli esempi di rottura con il passato sono ancora pochi – conclude Pietro Schwarz -, ma cominciano a nascere. E non mi riferisco agli otto magazzini di lavorazione della pietra gestiti da imprenditori cinesi, che comunque lavorano sempre per conto terzi. Ma ad esempio alla nuova gestione del ristorante cinese in valle o al laboratorio tessile aperto recentemente a Bricherasio. Tutte attività nate per volere di giovani imprenditori cinesi desiderosi di migliorare la loro condizione di vita, sganciandosi dalla tradizione familiare della lavorazione della pietra».

«Sono arrivato a Barge dalla Cina cinque anni fa. Oggi ho 19 anni, che per l’Italia sono solo 17 (l’età anagrafica in Cina viene calcolata in maniera differente rispetto al resto del mondo, nda), e da sei mesi lavoro nel laboratorio tessile di mio fratello maggiore Chen Rongqian, di 21 anni italiani, a Bricherasio».
Chen Rongyong, originario del villaggio di Yuhu, nei pressi di Wenzhou, provincia dello Zijang, oggi lavora dalle 12 alle 15 ore al giorno nel laboratorio di famiglia. Si fa chiamare Davide, perché dice: «Mi serve per lavoro: il nome italiano è più semplice da ricordare per i clienti». Oltre a cucire e stirare, infatti, Davide cura i rapporti con i fornitori. «Arrivato in Italia – spiega – ho continuato gli studi di economia aziendale. E anche se non mi sono diplomato, perché ho preferito andare a lavorare prima, mi è servito per imparare la lingua. Oggi tengo i contatti con i clienti che foiscono i capi da cucire. Ditte importanti come Armani o altre simili».
Il padre di Davide è arrivato a Barge con il fratello maggiore Rongqian nel 1998 per lavorare in una cava di pietra. Dopo tre anni è arrivata la mamma, poi la sorella maggiore e infine, nel 2003, Davide. «Sono contento della scelta che ho fatto – spiega il ragazzo -. Un anno fa ho smesso di studiare, ho fatto un po’ di esperienza presso laboratori tessili di Padova e Rovigo e sei mesi fa sono tornato per aprire il primo laboratorio tessile della zona con mio fratello».
Certo, ammette Davide, prima aveva molto più tempo libero, «mentre ora insieme ai miei colleghi (tutti rigorosamente cinesi, nda) lavoro almeno 12 ore al giorno. Io, mia sorella di 25 anni e mio cognato arriviamo anche a lavorae 15. Perché quando c’è tanta merce da cucire passiamo anche le notti in laboratorio. E non esiste sabato e domenica».
Ma la contropartita è il guadagno. Un buon mensile che permette alla famiglia Chen di sperare in un futuro migliore. «Mia mamma ora lavora con noi, tutti i giorni ci prepara il pranzo che consumiamo in laboratorio – spiega Davide -. Prima faceva le stagioni nella raccolta della frutta, si svegliava tutte le mattine alle 5 e lavorava fino alle 20. Ora è più tranquilla e si può svegliare più tardi. Mio padre invece lavora la pietra, si alza tutte le mattine alle sei».

Davide, quando è partito dalla Cina, aveva solo 12 anni. Sono stati i genitori a decidere per lui. «A Yuhu non stavamo male e avevamo buone scuole – ricorda il ragazzo -. Ma si guadagnava poco e la vita diventava ogni giorno più cara. E in definitiva non mi è dispiaciuto lasciare il mio paese. Da quando sono arrivato in Italia mi son sempre trovato bene, ben accolto da tutti».
In Italia, secondo Davide, oltre al tempo libero non manca nulla. E continua: «Oggi posso dire che vorrei rimanere per sempre in Italia. In Cina c’è troppa confusione, mentre in Italia si vive più tranquilli, si fanno le cose con più calma». Con buona pace dei suoi genitori, che vorrebbero un giorno riportare a Yuhu tutta la famiglia.
«I miei genitori vorrebbero che tornassi con loro. Ma io non voglio. Ormai qui in Italia ho i miei amici, vado al bowling o in altri luoghi di svago. In Cina, in questi cinque anni, non ci sono mai tornato. Non mi interessa più. Anche se questo, sono convinto, non fa molto piacere ai miei genitori». 

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Tra nostalgia e integrazione

I turchi di Pietrabruna (Im)

La comunità turca nella provincia di Imperia è consistente; le amministrazioni locali cercano di offrire opportunità di integrazione, ma non è sempre facile, sia per mancanza di mezzi che per la resistenza degli immigrati, specie tra i più anziani. 

«Quando hai oltre 100 cittadini stranieri residenti su 390 abitanti si pone un problema di tenuta. Non si tratta assolutamente di razzismo o intolleranza, è un problema di numeri: problemi con le scuole, con i parcheggi ecc.: 100 nuovi cittadini che si aggiungono ai residenti rischiano di mandare in tilt tutti i servizi». Riccardo Giordano, sindaco di Pietrabruna, piccolo comune di 591 abitanti sparso in diverse borgate nell’entroterra della provincia di Imperia, non usa mezzi termini per spiegare la trasformazione vissuta dal suo piccolo comune.
«Abbiamo ben 148 stranieri residenti nel comune, di 14 paesi diversi, in maggioranza, 94, di origine turca. E questi ultimi sono tutti concentrati nella borgata centrale di Pietrabruna». Era la seconda metà degli anni ‘90 quando la vecchia polveriera militare dismessa, che si trova sulla strada d’accesso al piccolo comune imperiese, viene trasformata in un centro di accoglienza per profughi kurdi, in fuga dalla persecuzione subita nella loro regione d’origine. Il piccolo centro arriva ad ospitare fino a 2.500 persone. Alcune delle quali riescono a trovare lavoro e stabilirsi a Pietrabruna.
«Nel 2000, quando sono diventato sindaco, i turchi non erano più di una decina – ricorda Riccardo Giordano -. Poi è successo che famiglia chiama famiglia, e pochi mesi fa abbiamo raggiunto il top. E si, perché più di così non ci possono stare fisicamente, non ci sono più case disponibili». E nonostante le periodiche proteste di alcuni residenti che si sentono «assediati», il primo cittadino cerca di gestire la situazione.
«Se dal punto di vista culturale l’atteggiamento di alcuni abitanti è “fuori dalle scatole”, dal punto di vista economico è “belin che gli affitto la casa”. Poi c’è la maggioranza silenziosa, che non si esprime. In mezzo, noi del comune, che cerchiamo di fare da mediatori».
Ma l’arrivo dei turchi ha anche permesso al comune di mantenere attivi alcuni servizi, che altrimenti sarebbero stati dismessi. «La scuola ad esempio, la manteniamo aperta a tutta la popolazione grazie ai bambini turchi – spiega il primo cittadino -. Nel 2008 infatti su sei bambini nati, cinque sono turchi e uno italiano».
Ma l’altra faccia della medaglia è che alcuni scolari stranieri arrivano durante l’anno, senza conoscere la lingua, e ci vorrebbe il sostegno di un insegnante d’appoggio. Che l’Istituto comprensivo scolastico non riesce a garantire. E finisce che l’amministrazione comunale deve farsi carico del servizio. «Tuttavia non dobbiamo preoccuparci più di tanto – tranquillizza il sindaco -. Qui fortunatamente non abbiamo mai avuto problemi di ordine pubblico. Guai, diventerebbe difficile amministrare la situazione. I turchi sono molto tranquilli, tutti occupati nell’edilizia. Molti magari lavorano in nero, ma altrettanti hanno aperto partita iva, lavorano onestamente e pagano le tasse». Sono specializzati in muri in pietra.

Il vero problema da affrontare in un futuro prossimo, secondo Riccardo Giordano, è quello dell’integrazione della nuova comunità. «Qui integrazione non ce n’è, perché loro non la cercano. Forse ci sarà in un’altra generazione, ma oggi in paese non c’è nessuna visibilità della comunità turca, non hanno aperto negozi né creato nulla di loro. È tutto come prima. Le donne velate le vedi solo quando vanno a fare la spesa. Altrimenti stanno in casa. I turchi si frequentano tra loro ed escono poco».
La giunta comunale ha organizzato corsi di italiano per le donne turche realizzati da una maestra madre lingua. «Non so se il prossimo anno riusciremo a riproporre il servizio – continua il primo cittadino – perché dobbiamo ancora trovare le risorse economiche. L’Ici non c’è più e le spese aumentano. Bisognerebbe anche costruire delle occasioni di confronto, qualche festa assieme per promuovere l’integrazione. Ma non ce la facciamo a far tutto da soli».

«Alle olimpiadi io tifo per l’Italia e non per la Turchia. Perché ormai il mio posto è questo. Sono arrivato a Pietrabruna nel ’99 da Sorgum, provincia di Yozgat, vicino alla capitale Ankara, che avevo 12 anni. Insieme a me tutta la famiglia: padre, madre, quattro fratelli maschi e due sorelle». Questa la confessione di Karaman Ismail, che insieme a tre cugini turchi racconta la sua storia seduto al dehor del bar, nella piazza del paese.
«Partito dalla Turchia – racconta il giovane – sono venuto subito qui. Mio padre lavorava a Pietrabruna come muratore dal 1996, e io, dopo qualche anno di studio, ho aperto una ditta edile con mio fratello. Mio padre aveva conosciuto un connazionale in Germania che gli parlò della provincia di Imperia, dicendo che si trovava lavoro. Abbiamo deciso di venirci tutti».
La comunità turca della provincia di Imperia, secondo Karaman, conta oggi circa 2.500 persone. Di cui ben 94 residenti nel piccolo comune di Pietrabruna. «Il grosso problema per chi arriva qui è trovare casa – spiega -. Giù ad Imperia per una stanza ti chiedono anche 800 euro al mese. Per questo molti sono venuti a stare qui a Pietrabruna, dove si trova anche per 250».
Altro problema, ammette il giovane, è quello della lingua. Anche se, dice: «L’italiano è più facile di tedesco e inglese. E tutto sommato è stato facile impararlo. Chi non lo parla, e purtroppo sono ancora molti, è perché non vuole integrarsi. E questo non è giusto; alcuni vengono qui esclusivamente per lavorare e fare i soldi con la sola idea di tornare in Turchia. Vogliono prendere in giro la gente. Ma a me, come a tanti della mia generazione, non va. Io tra qualche mese prendo la cittadinanza, almeno sono tranquillo di poter rimanere».
Karaman è amico di tutti, parla con i connazionali e i liguri indifferentemente. Suo papà, invece, appartiene a un’altra generazione, non parla ancora molto l’italiano, e tra qualche anno vorrebbe tornare in Turchia. «Mio padre adesso lavora meno, ha cominciato a 12 anni e oggi ne ha 48. Arrivato in Italia ha lavorato per ditte locali, poi appena ottenuto il permesso di soggiorno ne ha aperta una sua. Ma ora è vecchio e tocca a noi provvedere alla famiglia; penso che tra tre o quattro anni toerà a Sorgum».
L’idea di tornare in Turchia al giovane turco invece proprio non va. «A volte mi viene la nostalgia del mio paese – spiega – ma mi va via in fretta. Quando too per le vacanze trovo sempre tutto cambiato. La gente mi guarda in un modo diverso, e anche la mentalità ormai non mi appartiene più. Mi sento a posto più qui che al mio paese, e in Turchia non riuscirei più a viverci. Noi giovani non ce la facciamo più a tornare».

La famiglia Ismail, che ha da poco comprato casa nel piccolo comune ligure, ha comunque conservato la casa di famiglia in provincia di Yozgat. Dove il padre sta addirittura costruendo due alloggi per le vacanze ai figli maggiori. «Oggi tutto sommato non possiamo proprio lamentarci – continua il giovane turco -. Siamo andati via dalla Turchia per motivi economici e da quel punto di vista va molto meglio. Qui possiamo addirittura festeggiare le ricorrenze musulmane nel nostro centro a Porto Maurizio, dove abbiamo un imam e dove ci rechiamo a comprare i prodotti per la nostra cucina. Come la carne alal, proveniente dalla Francia. Sempre a Imperia, poi, c’è un foo e un bar gestiti da turchi. E stanno pensando di aprire un negozio con i nostri prodotti. Tutte notizie positive, perché penso sia un bene che oggi i turchi non facciano più solo i muratori».
Certo Karaman non nasconde che rimangono alcuni problemi, primo fra tutti quello dei documenti. «Il sistema qui da voi proprio non funziona. Possibile che se uno temporaneamente non lavora e non ha la busta paga, per avere il rinnovo del permesso in questura debba iscriversi all’artigianato? E se poi non riesce a pagare le tasse? Gli ritirano immediatamente il permesso di soggiorno».
Inoltre, spiega Karaman tra i gesti di consenso degli amici, il vero problema che deve affrontare la comunità turca di Pietrabruna è la crisi economica. Perché da un anno a questa parte nel piccolo comune gli immigrati faticano a vivere: «C’è poco lavoro e le tasse continuano a salire, tanto che dalla Turchia non arriva più nessuno – conclude Karaman Ismail -. Anzi qualcuno comincia a tornare indietro ed altri emigrano in Francia. In Germania meno, perché lì vive bene chi è andato qualche anno fa. Ora è difficile entrare, fanno il test della lingua. Dicono che vogliono farlo anche in Italia, e secondo me sarebbe giusto, perché chi vuole venire a lavorare qui dovrebbe saperla. Poi come se non bastasse sono arrivati anche i rumeni, che lavorano quasi gratis». 

di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Due culture ma… senza patria

Gli ivoriani di Dronero (Cn)

Ottenere la cittadinanza del paese ospitante è il primo passo per l’integrazione con la società locale… Ma rimane incancellabile la nostalgia per il paese di origine.

«N el 2008, la comunità ivoriana di Dronero (piccolo comune montano in provincia di Cuneo, ndr) è stata colpita da un lutto molto sentito: è morta una donna con un bambino di un mese. In paese si sono riversati centinaia di connazionali per assistere al funerale. Era impressionante: sono arrivati fin da Milano e Perugia. Insieme al Comitato per gli immigrati di Dronero hanno raccolto i soldi per mandare la salma al loro paese».
Elda Gottero, insegnante di scuola media in pensione, presidente della locale associazione «Voci del mondo» e animatrice dei corsi serali di alfabetizzazione per stranieri, ricorda con commozione l’evento. È sicuramente la persona più informata sulle comunità straniere in paese. Perché ha seguito l’arrivo dei primi ivoriani, la nascita della numerosa comunità e i suoi sviluppi.
«Oggi a Dronero abbiamo 750 stranieri residenti, su una popolazione di poco più di 7.000 abitanti. E la comunità ivoriana, con i suoi 220 membri registrati, è sicuramente la realtà più grossa». Era il 1992 quando si cominciò a vedere i primi uomini di colore nella zona. «Erano ivoriani irregolari – continua la professoressa – attirati dall’opportunità di lavorare nel corso dei quattro mesi della raccolta della frutta. E venivano a risiedere a Dronero per via dei costi di soggiorno più bassi rispetto a Cuneo».
In seguito alcuni di loro trovarono lavoro anche in inverno presso le piccole fabbriche della zona. «Perché qui da noi i neri sono molto meglio visti di magrebini e balcanici – continua la Gottero -. La gente dice: “I neir a sun pì bun. E a travaiu ad’pì” (i neri sono più buoni e lavorano di più, ndr)».
Nel 1998 viene approvata la Legge sull’immigrazione Turco-Napolitano, e gli extracomunitari possono mettersi in regola con un contratto di lavoro regolare. «In quel periodo arrivarono molti ivoriani dal Sud Italia – ricorda la professoressa – perché, mi dicevano, che in meridione nessuno gli avrebbe mai fatto un contratto. Qui da noi invece, con un po’ di fatica, riuscivano a ottenerlo. Sono nate in quel periodo molte cornoperative, che chiamavano i soci stranieri nel periodo di gran lavoro per poi lasciarli a casa quando non servivano. Una volta sistemati i documenti, comunque, gli immigrati hanno chiamato a Dronero amici e parenti». Ed è così che è nata la comunità ivoriana più grossa della provincia di Cuneo, nonché una delle più numerose in Piemonte.
«Una vera integrazione tra le persone di origine ivoriana e gli abitanti di Dronero è ancora al di là da venire – spiega Elda Gottero con rassegnazione -. I nuovi arrivati stanno prevalentemente tra loro e anche i ragazzi che frequentano le scuole faticano a legare con i compagni».
Da qualche anno la comunità ospite ha allestito un centro culturale presso un capannone affittato poco fuori dal centro di Dronero. «Organizzano feste, celebrano matrimoni e si ritrovano per le preghiere durante il ramadan. Qualche volta invitano imam illustri che arrivano da altri comuni limitrofi».
E proprio l’elemento religioso sembra essere un forte collante per la comunità ivoriana, per la stragrande maggioranza di fede musulmana. «Siamo ormai abituati a vedere, in occasione delle feste, le donne ivoriane nei loro vestiti tradizionali dai colori sgargianti – spiega Elda Gottero -. Ma da qualche tempo a questa parte hanno cominciato a fare la loro comparsa anche i veli islamici. Che prima, almeno a Dronero, non esistevano. Mi dicono che la componente religiosa in Italia è molto più accentuata che al loro paese. Perché la stragrande maggioranza delle donne in Costa d’Avorio non ha mai messo il velo. Molte di loro arrivate a Dronero, dopo qualche mese, cominciano a metterlo».
Gli ivoriani a Dronero sono in costante aumento, e il comune continua a ricevere iscrizioni di stranieri all’anagrafe. I cambiamenti in paese si notano, secondo la professoressa. Anche se in realtà, tolto il call center del signor Bakary Dembelé in centro paese, non esistono ancora esercizi commerciali o attività gestite da ivoriani.

«A vevo 19 anni quando son partito da Abidjan, in Costa d’Avorio. Ho preso un aereo e sono venuto in Italia per trovare lavoro, perché da noi era impossibile campare. La scelta è stata casuale, non conoscevo l’Italia, ma era il paese più comodo da raggiungere tra quelli in cui non c’era bisogno di visto d’entrata».
Bakary Dembelé, 37 anni, sposato con tre figli, racconta la scelta più importante della sua vita seduto al bancone del call center aperto nel centro di Dronero nel 2003. «Ad Abidjan ho studiato presso la scuola coranica e in seguito ho cominciato quella francese. Sono partito prima di finire il percorso di studi, e arrivato in Italia, trascorsi i primi tre mesi con un permesso di soggiorno da turista, sono diventato clandestino».
Il primo periodo di residenza in Italia il signor Dembelé l’ha passata a Napoli, dove un gruppo di connazionali gli ha trovato un lavoro in nero. «Dopo qualche anno sono andato a lavorare a Cuneo – ricorda l’ivoriano -, mi sono regolarizzato, e sono tornato ad Abidjan per sposarmi».
Bakary Dembelé oggi, oltre ad aver aperto con la moglie il call center, è operaio presso una ditta metalmeccanica di Dronero, che realizza parti per veicoli speciali Fiat. «Da quando sono nati gli ultimi due figli non siamo più tornati in Costa d’Avorio – spiega l’ivoriano -. I parenti li sentiamo per telefono e le notizie le vediamo al computer o in tv con la parabola».
Bakary non nasconde che qualche volta, dopo una telefonata con un parente, viene preso dalla nostalgia: «La cultura italiana mi piace molto, ma è come se stessi vivendo in un universo parallelo – spiega -: mi manca il mio paese natale, la mia terra, ma quando ci vado, dopo pochi giorni mi viene la nostalgia dell’Italia. Perché ormai in Costa d’Avorio è tutto cambiato. Capita anche agli italiani che vivono per un po’ in Costa d’Avorio, quando tornano in Italia hanno problemi a reintegrarsi. E lo chiamano mal d’Africa…».
Non più ivoriano, non ancora italiano. Il signor Dembelé si sente ormai un «senza patria». «Sicuramente l’accoglienza in Italia per noi è stata buona – spiega l’ivoriano -. Dronero è uno dei paesi della provincia di Cuneo con più extracomunitari: gli ivoriani nella zona oggi sono quasi un migliaio, e dal 1990 al 2008, in concomitanza con la crisi politica del nostro paese, sono praticamente raddoppiati. Siamo davvero tanti, e capita a volte di trovarsi a cena con famiglie di Dronero. Mi sembra un sintomo di buona integrazione».
Anche se, fa capire Bakary, gli incontri «misti» non sono certo la regola. E i membri della comunità locale ivoriana continuano a trovarsi tra loro in occasione delle feste tradizionali o religiose. Inoltre la moglie Tagarigbé Dembelé «parla meno l’italiano – spiega il marito -, perché essendo una mamma con tre figli ha meno tempo per badare all’integrazione. Per lei è dura, non ha i parenti vicini e, anche se io cerco di fare la mia parte, non è facile. Perché i figli danno la felicità ma sono anche un bell’impegno…».

C on due lavori, tre figli e tanta voglia di migliorare la loro condizione perché, dice il capofamiglia: «Ho sempre la tendenza a crescere. E se mi viene in mente un’altra attività come quella del call center per soddisfare nuove esigenze dei migranti, la farò».
La famiglia Dembelé ha sicuramente dovuto affrontare grossi cambiamenti. «In Africa vivi in un altro mondo, dal cibo ai comportamenti, ai rapporti – continua Bakary -. Se sei abituato a vivere qui, giù ti trovi malissimo, ma se in Africa ci sei nato e cresciuto te la “fai andare”. Da noi c’è più il senso dell’amicizia, mentre in Italia sono tutti più distaccati a causa della vita frenetica. Ma se si parla ad esempio di sanità, non c’è paragone. In Costa d’Avorio la sanità pubblica è pessima».
Il vero grosso problema per la comunità ivoriana, come per quasi tutti gli immigrati extracomunitari sul nostro territorio nazionale, è quello della burocrazia: «Per fare un documento valido tre mesi chiedono un sacco di cose e lo aspetti anche un anno – spiega Bakary -. E se ti chiamano per un lavoro vogliono il permesso di soggiorno, che se non ti è ancora arrivato ti fa perdere l’opportunità».
Ma nonostante tutto, la famiglia Dembelé è ormai sicura della scelta fatta: «Penso di aver fatto la scelta giusta – spiega il capofamiglia -. Il nostro futuro è questo. I miei figli stanno crescendo qui, e se decidessimo di rientrare per loro sarebbe davvero difficile. C’è qualche mio connazionale che alleva i figli in Costa d’Avorio presso i parenti. Ma io penso che loro debbano stare con i genitori, e un domani avere una doppia cittadinanza. Che è sempre una cosa in più: imparano la cultura italiana a scuola e quella ivoriana da me e mia moglie». 

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Migrazione di ritorno

La comunità polacca di Pomaretto (To)

Dalle miniere di carbone polacche a quelle del talco in Piemonte, con minore fatica e maggiore guadagno; ma molte cose stanno cambiando e gli immigrati polacchi aspettano solo l’occasione della migrazione di ritorno.

«I primi polacchi sono arrivati in galleria nel 2000 – racconta Ezio Sanmartino, capo servizio presso la cava di talco della Rio Tinto-Luzenac di Rodoretto, da 30 anni al lavoro nel sottosuolo -. L’azienda non trovava più persone locali disposte a scendere nelle gallerie e ha contattato un’agenzia polacca: sono arrivati in 26 in un colpo solo». Tutti assunti a tempo indeterminato. «All’inizio non è stato facile – continua il capo servizio, ormai prossimo alla pensione – perché i minatori polacchi provenivano da cave di carbone. Dove l’attività estrattiva è completamente diversa. Inoltre la lingua era un vero problema».
I responsabili della gestione dell’impianto hanno subito messo a disposizione dei nuovi arrivati una professoressa di italiano, e organizzato tui in galleria in modo che ci fossero sempre coppie formate da un italiano e un polacco. «Questo sicuramente ha aiutato l’integrazione sul posto di lavoro – spiega Sanmartino -, anche se ormai i polacchi sono in maggioranza, 21 su 29, ed è diventato impossibile rispettare il criterio della “coppia mista”. Bisogna comunque dire che “loro” sono più disciplinati dei “nostri giovani”, sono arrivati con esperienza in galleria e lavoravano di più. Una volta. Perché oggi, direi, si sono abbastanza omologati ai ritmi italiani… E hanno giustamente eletto un loro delegato sindacale».
Al signor Ezio capita spesso di accettare l’invito dei colleghi polacchi, che non mancano mai di offrirgli vodka, insaccati artigianali e caffè portati direttamente dal loro paese: «Si può dire che sono ben visti in valle – sottolinea Ezio Sanmartino -, si vedono spesso in giro la domenica e c’è addirittura un ragazzo che va a suonare l’organo nella parrocchia di Perrero, facendo cantare tutti in polacco».
Anche se, ammette il capo servizio, hanno lasciato tutti la famiglia al paese d’origine e appena possono tornano a passare i periodi di vacanza in Polonia. «Addirittura qualcuno dice di voler tornare a vivere nel paese d’origine – spiega -, perché ormai la differenza di salario si è praticamente annullata».
Gli arrivi di polacchi si sono effettivamente fermati. E la proprietà è nuovamente in difficoltà nel reperire mano d’opera: «Le gallerie saranno di sicuro attive ancora per 6 o 7 anni – spiega Sanmartino – e nel frattempo stanno facendo campionamenti per cercare altri filoni. Hanno messo degli annunci di ricerca personale sui giornali specializzati, ma per ora ancora nulla. Perché la miniera è un lavoro che ha il suo fascino, ma poi bisogna fare i conti con la fatica, il fango, lo sporco. E ai giovani oggi tutto questo non piace. Finirà che arriveranno da qualche altro paese in difficoltà, e tra poco non ci sarà più un italiano impiegato nella cava di talco. Pensi che già i miei due nonni e mio padre hanno lavorato a Rodoretto. All’inizio io mi son detto “mai in miniera”. Poi compiuti i 18 anni sono stato come attratto. E oggi, dico la verità, non mi dispiacerebbe se uno dei miei due figli seguisse le mie tracce. Anche se penso sia difficile: uno è diventato ingegnere informatico, l’altro ha 14 anni e sicuramente continuerà anche lui gli studi».

«S ono in Italia da quattro anni – dice Rafael Kubanda -. Vengo da Bielsko Biala, 60 km da Katoviza, zona mineraria. Mio padre e mio fratello sono minatori e sono venuti qui in Italia a lavorare nella cava della Rio Tinto-Luzenac in Val Germanasca otto anni fa. Poi hanno chiamato anche me».
In Polonia Rafael aveva un buon posto di lavoro, faceva consegne con un furgone e aveva uno stipendio considerato «alto» per i parametri polacchi di allora. «Il lavoro è molto diverso – spiega -. Qui sono più tranquillo, faccio le mie 8 ore per 5 giorni la settimana. In Polonia ero costretto a lavorare 13 ore al giorno, dalle 5 e 30 alle 22».
E inizialmente c’era anche una certa differenza di stipendio. «Quattro anni fa un euro valeva 4,20 sloti, ora ne vale solo più 3,40 – continua Rafael Kubanda -. E dicono che salga ancora di qui al 2011, anno in cui anche noi adotteremo l’euro. Alla fine, tra qualche anno, guadagnerò tanto quanto guadagnavo a casa mia».
Rafael Kubanda ha moglie e un figlio, e all’inizio della sua esperienza lavorativa in Italia si era trasferito da Bielsko Biala a Perrero in Val Germanasca, unico caso tra i minatori polacchi, con tutta la famiglia: «Avevamo deciso di venire tutti – ricorda il minatore -, mia moglie avrebbe imparato la lingua e trovato un lavoro anche lei. Dopo un anno ci siamo spostati a Pomaretto, dove mio figlio ha cominciato l’asilo. Ma purtroppo nel 2007, dopo un anno e mezzo, mia moglie ha deciso di tornare in Polonia con mio figlio. Non si trovava bene, non è riuscita ha trovare un lavoro che le piacesse e pativa la lontananza dai parenti».

A desso, appena può, Rafael  torna a Bielsko Biala: «Ogni due mesi cerco di mettere insieme i giorni liberi e vado una settimana dalla mia famiglia. Spesso in macchina con gli altri colleghi per spendere meno. Oppure con il pullman da Torino o con i voli low cost».
Un cambiamento netto di prospettiva. Da aspirare a diventare cittadino italiano a lavoratore «in trasferta». «Non abbiamo molti rapporti con i locali – spiega il polacco -. Ogni tanto andiamo alle feste di paese, ma non frequentiamo molto le famiglie. Nemmeno quando c’era qui mia moglie; anche se in quel periodo vivevamo in modo diverso: facevamo più giri, uscivamo di più. Andavamo anche qualche volta al mare. Ora non più. Non ho nemmeno più l’auto. E qui senza macchina è difficile vivere. Anche le montagne, che mi piacciono tanto, le vedo dalla finestra, ma arrivarci a piedi è lunga. Per cui preferisco stare con i connazionali. E piuttosto di andare a spendere in giro, ci compriamo della birra e ce la beviamo a casa. Con questo non posso dire di aver mai avuto problemi con i locali: vado d’accordo con tutti, sono gentili e conviviamo benissimo. Poi magari chissà cosa pensano di noi…».
La giornata di Rafael si svolge tra il magazzino della Rio Tinto-Luzenac e l’alloggio di Pomaretto. In attesa di maturare i giorni per tornare a casa dalla famiglia. «Da un anno niente più sottosuolo, lavoro in magazzino – spiega -. Ho avuto un infortunio in galleria e quando sono tornato dalla mutua mi hanno offerto questo posto. Il mio infortunio era il primo dopo due anni, perché la sicurezza in miniera è la prima cosa».
La sera Rafael Kubanda, quando torna a casa, passa più di un’ora a parlare con moglie e figlio: «Uso skype, perché Inteet costa molto meno delle schede telefoniche». Poi si mette a tavola con il collega polacco, con cui divide l’alloggio, per la cena: «Mangiamo cucina italiana – spiega – che ci piace molto. Da noi si mangia molta carne e patate. E il pane è un po’ diverso. Qui è dolce, da noi è all’aceto. Ma l’unica cosa che qui manca veramente è la salsiccia speziata, come la facciamo noi. Non sapete proprio farla! In compenso sapete fare bene tante altre cose, come pasta e formaggi, che da noi non ci sono».
La prospettiva della famiglia Kubanda è sicuramente quella di tornare a vivere al più presto a Bielsko Biala: «Mia moglie abita a casa dei suoceri – spiega Rafael -. E penso che la ristruttureremo per il futuro. Sicuramente non investiamo in Italia ma in Polonia. Appena trovo un altro lavoro nel mio paese, in cui mi paghino più o meno come qui too. Ma so che più a lungo rimango in Italia e più difficile diventa tornare in Polonia. Oggi ho 33 anni, e in Polonia chiedono lavoratori al massimo di 36 o 37. Sono gli ultimi anni in cui possiamo riorganizzare la nostra vita». 

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Basta mosche …suglio occhi

Dove gli aiuti… aiutano davvero

INTRODUZIONE

Un giornalista non è solo un rigoroso traduttore di informazioni, ma anche un cantastorie. La voce di chi non ha voce. Gli occhi di chi non può o non vuole vedere. Ha la possibilità e la capacità di potersi fermare. Fermarsi a riflettere, osservare, parlare, ascoltare e ascoltare. E questo ho scelto di fare per sei mesi di vita in Tanzania.
Il mio rapporto con il Tanzania è stato da subito viscerale. Il 15 dicembre 2007 la prima sensazione è stata di soffocamento. Un vento caldo, umido mi ha bloccato le narici e i polmoni, ma il cuore era tornato a casa.
«Inside Tanzania» non è solo un reportage. Ma un esperimento di sei mesi di vita a Mbagala, periferia di Dar Es Salaam, e in altri slum musulmano-integralisti, vivendo la quotidianità e gli effetti della cura antiretrovirale su malati di Aids/Hiv. Insieme. Come loro e con loro. Questo era il mio obiettivo.

Un progetto di reportage nato nel luglio 2007 con la mia collega Alessandra Sinibaldi per indagare come mai nonostante la mole mondiale di fondi stanziati da qualsiasi tipo di associazione, ente o struttura grande e piccola per progetti in Africa, questa terra continuasse a morire inesorabilmente. Un’inchiesta sulla cooperazione internazionale decentrata e non, laica e religiosa.
Avevamo passato un mese a girare fotografando e lavorando senza freni. Interviste, riprese, traduzioni, visite, libri, incontri nei villaggi con musulmani, cristiani, protestanti, malati, dottori e scatti e scatti.

Pur disponendo di enormi risorse le organizzazioni inteazionali non riescono a raggiungere risultati soddisfacenti sia nel campo dello sviluppo che nella lotta all’Aids in Africa. Missionari e missionarie, invece, con scarsissimi aiuti e senza la ribalta mediatica, riescono a fare autentici miracoli a favore della popolazione. Lo evidenzia una giovane giornalista nel suo documentario «Inside Tanzania», elaborato
in sei mesi di vita africana.

S ono tornata in Tanzania il 15 dicembre 2007, stavolta sola. Alessandra ha dovuto subire un intervento al ginocchio.
Il soggetto del reportage era lo stesso: indagare come vengono investiti e impiegati i fondi inteazionali per la cura dell’Aids. Ma per fare ciò dovevo prima di tutto rendere «protagonisti», nel reportage e nella mia vita, la gente dei villaggi. Dovevo diventare una di loro. Rassicurarli e farmi conoscere.
Sono stanchi di essere fotografati da jeep cariche di bianchi, che scattano per riportare a casa la foto del poverissimo africano. Ormai è un rito per molti volontari di onlus o associazioni fare il cosiddetto «giro turistico» per i villaggi, mascherato anche dal termine «eco-turismo» ora estremamente di moda, ma pochi sono gli esempi di eco-turismo nel senso etimologico.
I masai sanno dai loro fratelli impiegati nei villaggi turistici e davanti a resort, rigorosamente vestiti con gli indumenti tradizionali e costretti a scimmiottare la loro cultura per affascinare il turista, che molti bianchi realizzano foto che poi vendono a riviste, quindi vogliono essere pagati.
Per sei mesi con la gente
La maggior umiliazione per un fotoreporter è pagare il suo soggetto. È la via più semplice e veloce per non instaurare nessun tipo di contatto o fiducia, ma dalle foto questa sensazione salta agli occhi.
Ho vissuto nella periferia più degradata, colpita da quella piaga che sta «fucilando» l’Africa da decenni. Senza acqua, senza luce, in «case» con lastre di lamiera infuocate, dove solo delle coraggiosissime missionarie operano la loro evangelizzazione. Nei campi, nelle moschee e madrase, davanti a un piatto di polenta e fagioli e davanti a un piatto vuoto, su stuoie, negli ospedali e nei dispensari.
Ho vissuto sei mesi della mia vita seguendo famiglie che mi hanno accettato come figlia, sorella e amica, nella loro speranza di guerra all’Aids, scoraggiandomi e entusiasmandomi con e per loro. Vivere sei mesi, nella stagione più calda dell’anno, nella zona più calda, e satura di persone non è stato facile! Ma la voglia di raccontare attraverso la mia macchina e la mia stessa pelle questo spaccato di vita vera era più forte di qualsiasi malaria, malattia o paura.
Incontri con realtà… speciali
La curiosità, l’interesse giornalistico e, prima ancora, la voglia di capire e raccontare mi hanno fatto girare gran parte del Tanzania, indagando e scoprendo le realtà molteplici di cooperazione. Ho conosciuto realtà di fede profonda, di ritmi di vita scanditi dalla parola di Dio.
Da un Dio che scuote il corpo e la mente sostenendoti in lavori massacranti di aiuto gratuito.
E ho visto realtà di egoismo e superficialità che sembrano giocare con la vita delle persone e con i soldi dei fondi mondiali. Ho conosciuto anche grandi associazioni come il «Cuamm», «Medici con l’Africa», il cui personale medico è attivo anche in strutture governative.
Uno di questi medici è Mario Battocletti, medico chirurgo, presso l’ospedale governativo di Iringa, a cui fa capo più di un milione di persone. Mario vive a Iringa con sua moglie e i suoi tre bambini. Quando sono andata a casa sua, ho scoperto un grandissimo professionista con il sogno di lavorare in Africa e salvare vite. Ed è quello che fa da mattina a sera, scontrandosi con la realtà confusa e purtroppo corrotta della società e dell’ospedale. Ma non si arrende.
Poi ci sono i laici missionari e singoli volontari che fanno tanto e lo fanno senza rumore, ma con creatività, ingegno e impegno. Più osservavo, giravo, conoscevo, e più sentivo che questo reportage stava diventando una missione. Una missione di informazione non solo sul Tanzania, stato sconosciuto se non per la bellezza dei suoi parchi e delle sue spiagge, ma sul mondo dei missionari che operano in un continente a noi ancora sconosciuto seppure ne siamo assuefatti.
Assuefatti all’idea che i media ci hanno sempre proposto e continuano a propinarci, alla convinzione che come l’Iraq, l’Afghanistan, sono realtà irrisolvibili ma per quali fattori? Perché? Conosciamo solo il bimbo con la mosca nell’occhio e la pancia gonfia, la guerra in Somalia, i bambini soldati, le violenze in Congo, Ruanda, Darfur e le meravigliose spiagge di Zanzibar, Pemba, Sharm e Marsa Alam!
Tra stereotipi e disinformazione
Chi conosce l’Africa (non me ne vogliano i grandi esperti di geopolitica, cultura e tradizioni) è chi legge i giornali missionari che attraverso le voci, le testimonianze di missionarie, missionari, volontari e operatori di pace, che vivono trenta, quaranta, settanta anni la realtà, hanno la voglia e la pazienza di fermarsi ad ascoltare, aiutare e poi raccontare.
Chi vive la quotidianità dei giornali, degli special televisivi ha imparato attraverso esponenti del mondo dello spettacolo, i noti «ambasciatori» a donare un euro attraverso l’sms all’Africa che non va mai avanti… a quell’Africa che muore di fame sempre e comunque. All’Africa fatta di uomini e padri che schiavizzano le mogli e i figli pur di non lavorare, a un popolo che muore di Aids perché superficiale e poligamo.
E poi veniamo a scoprire che tutto il denaro mandato tramite sms, per il Darfur o per le famiglie colpite dallo tsunami non è mai arrivato a destinazione. È bloccato in una banca belga o svizzera, ma è solo questione di tempo, recita la smentita sui giornali, ma come non c’era un’emergenza?
A me verrebbe da dire «tanto ci sono i missionari che, attraverso amici, parenti, benefattori e l’animazione, sono in grado di aiutare la gente, anche senza milioni di dollari!».
Allora due sono le cose o i missionari, avendo la corsia preferenziale di dialogo con Lui, riescono a moltiplicare i soldi, come Qualcuno moltiplicava i pesci, o sono angeli straordinari prestati a noi comuni mortali per insegnarci a vivere.
E l’interrogativo dominante: «Ma come mai, sono decenni che mandiamo, mandiamo e rimandiamo soldi attraverso queste grandi associazioni e la situazione è degenerata in un’emorragia acuta? Il dato certo è che se ne sono sentite tante. E la gente non si fida più o, se si fida, è perché la comunicazione di quella associazione è stata fatta seguendo le teorie e le tecniche migliori della comunicazione di massa.
Una comunicazione che ha screditato e criticato in maniera velata ma fin troppo efficace, per anni, la cooperazione religiosa di congregazioni presenti da decenni che dopo sessanta, settanta, cento anni ora sembrano non essere più in grado di insegnare, curare e aiutare. Io da conoscitrice del mondo giornalistico la spiegherei attraverso due fattori.
Primo fattore: sono religiosi. E in Italia sappiamo che qualsiasi persona sia religiosa o legata alla chiesa, da sempre sinonimo di sfarzo e di eccesso, non va più di moda. Pensateci!
È vero che ci sono tanti laici che hanno una fede profonda, ma se siamo arrivati alla società attuale, sarà colpa dell’economia che non va, dei nostri governanti che non sanno fare il loro lavoro, dei media che attraverso la pubblicità presentano modelli sbagliati…, ma sarà anche colpa nostra, che abbiamo perso di vista i valori fondamentali di dignità, onestà e serietà e li abbiamo sostituiti con la corsa frenetica al raggiungimento del denaro.
Una carissima amica missionaria, di una saggezza stravolgente, mi disse un giorno: «Voi andate avanti seguendo la regola delle tre S: sesso, successo e soldi». Noi giovani, usciti da poco dalle università, non possiamo che confermare che il fine delle lauree è guadagnare, guadagnare per permettersi tutto.
Il secondo fattore per cui attualmente i missionari non hanno più il successo di una volta è che non sono dottori. Sono poche le vocazioni. Poche le missionarie dottoresse e i missionari dottori laureati. In un dispensario in capo al mondo, in una zona dove non c’è luce, acqua, ma solo povertà e malattia ci sono suore missionarie settantenni, solo infermiere, che lavorano 15-18 ore al giorno, insegnando e formando praticamente Clinical Officer, capaci di sostituirle un domani, ma per i nostri dottorini e dottori delle Ong, non vanno più bene. «Non sono preparate. Sono superficiali» mi sono sentita ripetere.
Dove finiscono gli aiuti?
Potrei fare un elenco delle strutture inteazionali e associazioni che operano in Tanzania con metodologie e scopi diversi dai missionari. Ma non è il mio obiettivo.
Con il mio reportage non ho affatto intenzione di osannare solo le missionarie della Consolata, poiché ho incontrato tante congregazioni cattoliche; mi ha molto colpito, per esempio, la realtà delle missionarie della Carità, le suore di Madre Teresa, che accolgono orfani anche con gravi handicap e anziani. Anche i protestanti anglicani e luterani, le associazioni di laici missionari o volontari fanno tanto e bene.
Mi ha lasciato molto perplessa invece, il fatto che in uno stato dove il 10% della popolazione nasce con handicap fisici e mentali, nonostante la massiccia presenza delle Ong e associazioni di aiuto, non ci sia in tutto il Tanzania una struttura di ricovero per bambini, ragazzi e adulti che abbiano forti handicap mentali e fisici, una sorta di Cottolengo.
Anzi le suore del Cottolengo ci sono in Tanzania, ma anziché mantenere il carisma che hanno in Italia, con il lavoro straordinario che portano avanti, in Tanzania si occupano della pastorale… forse anche il carisma oltre oceano subisce un cambiamento climatico, fisico!
Ma non posso, inoltre, non sottolineare la diffidenza motivata delle persone quando si parla di offerte, donazioni e aiuti economici a istituti religiosi che magari sembrano sconosciuti o inaccessibili materialmente, perché talmente impegnati sul campo che sono fuori dalla comunicazione on-line, telefonica satellitare e per principi propri, fuori dalla pubblicità capillare.
Mai nessun missionario della Consolata manderà cartoline, foto di bambini tristi e malati, a tutti gli italiani, augurando loro buon natale, buona pasqua, buona festa della mamma e del papà… per colpire il cuore e le menti degli italiani, popolo statisticamente tra i più sentimentali e sensibili al mondo in materia di aiuto, nonostante il materialismo dominante, direbbe qualcuno! 
Non sarò certo la prima a fare scornop o a dichiarare che istituzioni mondiali come l’Unicef, spendono l’85% delle loro entrate tra pubblicità e stipendi, lo stesso vale per la Croce Rossa e una miriade di associazioni, grandi e piccole, che ci mandano bollettini, cartoline, e-mail… chiedendo offerte.
Con ciò non voglio dire che queste grandi realtà non abbiano fatto nulla di concreto negli anni, anzi! Il punto è però un altro: se si hanno a disposizione dieci, venti, cento milioni di dollari e l’85% viene investito non nell’istruzione, nella lotta all’Aids e alla malaria (che, non dimentichiamo, in Africa provoca la morte di un bambino ogni 5 minuti, ma piuttosto in stipendi, pubblicità, trasporti e tutto ciò che riguarda la gestione dell’istituzione, è evidente che non riusciremo a fermare un bel niente, a cambiare nulla.
Ci saranno solo progetti che partiranno e avranno un iter di due anni, cinque anni, fino al momento in cui ci saranno i soldi decisi e stanziati. Il progetto non sarà rifinanziato e il dottore di tuo a capo, andrà via e tutto toerà come prima. Secondo lo stesso Mario Battocletti: «Il problema è la non cooperazione tra le realtà private in primo luogo tra loro, e poi con quelle statali. Non c’è una programmazione di governo, ma è pur vero che sempre più spesso ogni Ong tende a fare autonomamente e quindi c’è una dispersione di aiuti».
Un approccio diverso
Altra cosa che mi ha fatto riflettere e decidere di farmi portavoce dei missionari e in particolare delle missionarie della Consolata, attraverso un reportage che fosse una missione di sensibilizzazione e informazione sulla realtà troppo scomoda delle grandi strutture di cooperazione, è la vita stessa e le strutture dei missionari rispetto alle altre. A livello igienico, sanitario, lavorativo ho visto e fotografato dispensari e centri gestiti da missionari, in villaggi senza acqua e luce, che non hanno nessuna carenza rispetto alle strutture delle Ong. Certo minor personale, ben pagato, logicamente non come quello delle «grandi», ma di gran lunga superiore alla paga stabilita dal governo.
I ritmi sono diversi. In un dispensario non c’è orario. A Mbagala, periferia di Dar Es Salaam, il dispensario delle missionarie della Consolata visita quotidianamente dalle 500 alle 600 persone. Non ho mai visto suor Franca Lidia Cochis, la suora che lo gestisce, mandar via qualcuno. Ho sentito invece dalle due di notte, passi silenziosi di mamme che si mettevano in fila, dopo aver percorso 20-30 km per far vedere i loro bambini alla sister, perché l’umanità è diversa. L’approccio e la cura sono diversi. Lo staff professionalmente competente visita, prescrive, fa iniezioni e dà le stesse medicine a prezzi inferiori.
Suor Franca Lidia, con un immaginabile sforzo, gira tutta Dar Es Salaam per comprare le medicine a prezzi inferiori dai Medical Store. Perché lo fa? Non ha uno stipendio. Non è più giovanissima. È guidata solo dalla fede e dalla scelta che ha fatto cinquant’anni fa, quando ha deciso di diventare una suora missionaria della Consolata.
Cambiare: si può e si deve
Non ho visto uffici e centri delle Ong nei villaggi di periferia delle grandi città, degradati e difficili per motivi di ordine non solo sociale e sanitario ma anche religioso, fatta eccezione per la zona di Iringa, realtà in cui c’è una maggiore concentrazione di strutture di cooperazione e sviluppo. Una consistente presenza di tali uffici l’ho vista, invece, nella parte ricca di Dar Es Salaam, davanti all’Oceano Indiano, dove la vita è altissima rispetto alla media della popolazione e il mare è un incanto. Ma questa scelta sarà stata solo una coincidenza!
In una delle proiezioni del documentario con il quale sto girando l’Italia, con lo stesso scopo di sensibilizzare sulla realtà anche difficile e traumatica nella quale operano i missionari, perché è giusto non far vedere sempre e solo il bambino con la mosca negli occhi, ma in troppi pensano che la vita del missionario sia affascinante, in posti bellissimi, con ritmi di vita molto più tranquilli dei nostri, con meno preoccupazioni; allora il mio obiettivo è anche scuotere la gente, dicevo che mi ha colpito un commento di un padre. «Siamo tutti missionari. Dal momento del battesimo, siamo tutti missionari».
Io non pretendo e non posso dare risposte e soluzioni ai problemi riguardanti il bisogno di fondi economici per la cura antiretrovirale o per le strutture dei missionari, ma mi chiedo e vi chiedo: nel momento in cui scegliamo di lavorare nell’ambito della cooperazione è perché abbiamo interesse e obiettivi a realizzare qualcosa che sia di aiuto a quello stato e alla sua gente perché in difficoltà.
Quindi possiamo anche declinare l’invito a lavorare seguendo le norme e gli standard mondiali di marketing e pubblicità. Proviamo a fare i missionari! Abbiamo famiglie, figli da mantenere, non possiamo lavorare gratuitamente perché la vita è altissima, è chiaro e noto a tutti. Non dico di fare solo i volontari, ma anziché andare in una parte del mondo per fare carriera o ridurre gli anni che ci avvicinano alla pensione o per guadagnare quattromila, settemila euro al mese, con progetti destinati a salvare la vita di esseri umani, grandi e piccoli, fermiamoci a un guadagno di mille, mille e cinquecento euro e il resto investiamolo nella totalità del progetto.
Per molti sarà un’utopia. La certezza è che continuando così non aiuteremo nessuno ma continueremo solo a riempirci la bocca di Africa, aids, malaria e morte, alimentando il binomio Africa=morte e a disperdere i fondi.
Un esempio…
Ho conosciuto una coppia di italiani a Dar Es Salaam che mi ha colpito particolarmente: un medico italiano, fisioterapista, Augusto Zambaldo, che dirige il reparto di riabilitazione dell’ospedale Ccbrt (Comprehensive Comunity Based Rehabilitation, Centro riabilitativo su base comunitaria del Tanzania) che lavora nell’ospedale specializzato per problemi alle ossa (Ccbrt, Comprehensive Community Based Rehabilitation Tanzania), costruito da una Ong tedesca, ottimo dal profilo medico, e sua moglie Laura, una graziosissima insegnante.
Augusto Zambaldo vive da più di 20 anni in Tanzania con la sua famiglia. Ha lavorato per anni prima in Kenya e poi in Tanzania in strutture ospedaliere anche di missionari, preferendo vivere con uno stipendio molto più basso rispetto alla media dei suoi colleghi, con ritmi di vita altrettanto massacranti, animato solo dalla voglia di aiutare e sapeva di essee in grado.
Le figlie sono nate in Kenya, hanno studiato in Tanzania e ora una frequenta l’università in Italia. Augusto e Laura hanno scelto la strada più difficile. Non sono diventati mai ricchi, materialmente, ma credo che le emozioni che hanno vissuto in questi decenni sono state un’immensa ricchezza. Le difficoltà non sono state e non sono poche soprattutto per l’equilibrio familiare.
Mi raccontavano che una delle figlie voleva tornare in Italia, perché la scelta di vivere in Tanzania aiutando gli altri, non era la sua, ma la loro, gli ripeteva. È normale che una ragazza giovanissima, nata e cresciuta in Africa, una volta arrivata in Italia, dove tutto sembra possibile e realizzabile con minor sforzo, voglia vivere nel bel paese!
Augusto e Laura erano in crisi perché significava separarsi, dopo una vita vissuta sempre l’uno al fianco dell’altro. Augusto non concepiva l’idea di lasciare tutto e tornare, ma non poteva nemmeno dire di no a sua figlia. Il lavoro di un medico in quei posti è una missione. E per Augusto lo è.
Laura aveva deciso di tornare in Italia per stare vicina alla figlia, ma Augusto sapeva che un figlio ha bisogno di entrambi i genitori. Non so cosa ha poi deciso Augusto, ma qualsiasi sia stata la sua scelta credo proprio che non sia stato semplice.

Di Romina Remigio

Romina Remigio