Da guerriglieri a parlamentari (e ministri)

T come «tupamaros»

I tupamaros erano un’organizzazione guerrigliera. Oggi il loro partito – il «Movimento di partecipazione popolare» – è entrato in parlamento con il 30 per cento dei suffragi. E due di loro, entrambi in carcere per 13 anni durante la dittatura, sono diventati ministri nel governo di Tabaré Vázquez: José Mujica ed Eduardo Bonomi.

Un paese con poco meno di tre milioni di abitanti, senza risorse naturali, ma con la grande ricchezza dell’allevamento del bestiame, era concentrato nelle mani di pochi latifondisti agrari. Questi, a loro volta, esprimevano una classe politica che paga dell’abbondanza del periodo delle vacche grasse, non aveva mai investito nello sviluppo industriale del paese. Fino al termine della Seconda guerra mondiale e della guerra di Corea, l’Uruguay riuscì a piazzare tutta la produzione di carne in campo internazionale, ma una volta terminati i conflitti le nazioni europee, gli Stati Uniti, ecc., investirono in campo agricolo e nell’allevamento. Per l’Uruguay iniziò allora il periodo delle vacche magre. Non potendo reperire valuta pregiata, necessaria per far fronte al pagamento dei debiti, per l’impossibilità di esportare i propri prodotti, il paese entrò in una crisi inflazionistica che, come un perverso gioco del domino, si abbatté su tutti i settori del paese.
La «Convención nazional de trabajadores», l’unica centrale sindacale del paese, cercò di canalizzare la protesta dei lavoratori e della classe media (vera ossatura del paese) verso forme di protesta (scioperi, manifestazioni, ecc.) contemplate negli ordinamenti costituzionali. Ma le condizioni di vita dei campesinos (soprattutto dei coltivatori di canna da zucchero, i cosiddetti «cañeros» del nord del paese) si erano ridotte a livelli tanto subumani da generare un malcontento incontenibile. Questo si concretizzò in una marcia di protesta che, raccogliendo migliaia di lavoratori, attraversò tutto l’Uruguay arrivando fino al palazzo legislativo di Montevideo. Questi lavoratori, sfruttati ed umiliati nella loro dignità, erano capeggiati da Raul Sendic, un procuratore legale che aveva fatto della difesa di questa povera gente la ragion d’essere della sua vita.

A fronte di una palese ottusità da parte sia della classe politica come di chi gestiva il potere economico ed agrario del paese, ci fu – quasi come conseguenza speculare – una spaccatura all’interno dei lavoratori, tra chi accettò il difficile cammino del confronto con una classe dirigente che sempre più si avviava verso l’imposizione di una dittatura e chi invece optò per una lotta di resistenza che suscitasse un cambiamento all’interno della società uruguayana. La svolta avvenne il 22 dicembre del 1966, quando in uno scontro con la polizia venne ucciso un giovane studente. La reazione fu pesante. Manifestazioni di protesta che coinvolgevano operai e studenti si succedettero a catena e dall’altra parte si cominciò ad arrestare, imprigionare e purtroppo a torturare. Fu in quel frangente che si decise di optare per una lotta armata portata avanti nella clandestinità: nacque il «Movimiento de liberación nacional tupamaros» (Mlnt), che si rifaceva all’ideale rivoluzionario di Tupac Amarú, il leggendario eroe indigeno peruviano che si era ribellato secoli prima allo strapotere dei conquistadores spagnoli.
L’organizzazione seppe muoversi con abilità senza compiere atti di inutile efferatezza nei confronti dei militari. Anzi, alcuni gesti eclatanti come la presa della città di Pando, dove riuscirono a tenere in scacco l’esercito per diversi giorni, il sequestro di camion di generi alimentari distribuiti alla popolazione dei «cantegriles» (le favelas di Montevideo) e una spettacolare evasione dal carcere di massima sicurezza di Punta Carretas di oltre un centinaio di tupamaros detenuti, attirarono su questo movimento rivoluzionario parecchie simpatie tra la popolazione uruguayana.

La conquista della scena internazionale la ottennero con il sequestro di un anonimo funzionario dell’ambasciata statunitense: Dan Mitrione, che risultò essere un istruttore di tecniche di tortura per l’esercito uruguayano al soldo della Cia. Tale fu il successo di questa azione straordinaria (raccontata magistralmente nel film «L’Amerikano» di Costa-Gavras, interpretato da Yves Montand e Renato Salvatori) che il governo dittatoriale non potè permettersi il lusso di digerire il rospo senza reagire e la reazione fu tremenda. Si cominciò ad arrestare indiscriminatamente i processi divennero sempre più sommari e le torture nelle carceri, sempre più brutali. A quel punto molti abbandonarono la lotta armata e si rifugiarono all’estero e un’intera generazione di giovani prese la strada dell’esilio. Un paese che si era formato grazie all’apporto di emigranti giunti da ogni parte del mondo, in pochi anni si spopolò perdendo buona parte della sua forza lavoro.
Raul Sendic e i membri del direttivo dei tupamaros vennero quasi tutti catturati e incarcerati. Il governo dittatoriale li dichiarò: «rehenes» cioè «ostaggi», dichiarando nel contempo che se fossero state compiute in qualunque parte del paese delle azioni di rivolta armata, i capi dell’Mlnt in «ostaggio«  sarebbero stati giustiziati in carcere. Fu un momento terribile per la nazione intera, certamente gli anni più oscuri di tutta la storia dell’Uruguay. Con il ritorno alla democrazia, il neoeletto Parlamento approvò una legge di amnistia generale, grazie alla quale uscirono dal carcere tutti i prigionieri politici. Nel 1985 il movimento tupamaros, in un congresso a cui parteciparono i vecchi militanti e i molti simpatizzanti, ratificò il rifiuto alla lotta armata e l’accettazione delle regole democratiche della vita partitica e politica. Successivamente confluirono, come gruppo autonomo denominato «Movimento de partecipacion popular», nel «Frente amplio», ottenendo un notevole successo elettorale.
Alle ultime elezioni (ottobre 2004), il politico più votato in assoluto tra i deputati dell’Assemblea nazionale, è risultato essere José Mujica, detto «El Pepe», un militante della prima ora. Mujica è stato ministro ed è un possibile candidato per la successione a Tabaré Vázquez.
Superati gli anni perversi della dittatura, avviatosi l’Uruguay verso il pieno ristabilimento del gioco democratico, i tupamaros sono diventati protagonisti a tutti gli effetti della scena politica del paese con i quali tutte le altre formazioni partitiche, oltre ai vari soggetti istituzionali, devono dialetticamente confrontarsi.

di Mario Bandera

 

Mario Bandera




LA «IGLESIA CHICA»

C come Chiesa

Nell’Ottocento, la diffusione in Uruguay del pensiero illuminista e massonico favorì l’affermazione del laicismo. Nel 1915, la separazione tra stato e chiesa venne formalizzata da José Batlle y Ordóñez, presidente tra i più apprezzati della storia uruguayana. In questo contesto, la chiesa…

Misi piede in Uruguay per la prima volta nel lontano gennaio del 1977, dopo un viaggio in nave di un paio di settimane: a quel tempo l’epoca dei viaggi transoceanici via mare stava concludendo il suo onorato servizio dopo quasi cinque secoli di spola tra le due sponde dell’Atlantico. Da allora il mio legame con il «paysito» (come affettuosamente gli uruguayani chiamano la loro terra) è cresciuto di anno in anno condividendo in gran parte dolori e sofferenze, giornie e speranze della sua gente: i primi legati al triste e buio periodo della  dittatura militare, le seconde intrecciate con il faticoso cammino intrapreso per riacquistare la libertà. Avendo vissuto un’esperienza credo unica ed irripetibile, quella cioè di completare i miei studi di teologia presso l’«Istituto teologico uruguayano “Mariano Soler”» ho avuto modo di passare diversi anni accanto ad una generazione di sacerdoti formatori e giovani seminaristi del luogo, partecipi fino in fondo ai drammi del loro paese, ma dotati di una fede incrollabile nella speranza di un futuro migliore. Alcuni di loro avevano sperimentato sulla propria pelle il carcere, altri avevano qualche familiare detenuto per motivi politici nelle orribili prigioni della dittatura militare, una delle più ottuse di quel periodo. Conservo nitido nella mia mente tutto quanto ho vissuto in quegli anni, anche se dopo tanto tempo, forse è più facile rielaborare con distacco quanto successe nel piccolo paese situato sul lato orientale del Rio de la Plata.

Consolidatosi sul piano culturale grazie all’influsso dell’illuminismo – imperante a quel tempo negli ambienti rivoluzionari del Sud America – ed influenzato da correnti di pensiero della massoneria europea (notoriamente anticlericale), l’Uruguay sin dall’inizio si caratterizzò come una repubblica laica che teneva a una certa distanza la chiesa cattolica. A sua volta la Santa sede, lontana ed avulsa agli avvenimenti del tempo e non percependo i cambiamenti che si andavano operando, mantenne i territori legati a Montevideo soggetti all’arcidiocesi di Buenos Aires, creando molte difficoltà tra i cattolici che, dal punto di vista politico obbedivano alle leggi della nuova nazione repubblicana, mentre dal punto di vista religioso dovevano obbedienza ad un vescovo «straniero». Solo dopo quasi quarant’anni dall’indipendenza, venne costituita, il 13 luglio del 1878, la diocesi di Montevideo, che comprendeva allora tutto il territorio nazionale e che fu affidata alle cure pastorali di mons. Jacinto Vera, primo vescovo nativo dell’Uruguay, uno zelante pastore ricordato ancora oggi come «el Obispo gaucho».
Nel 1915, il presidente José Batlle y Ordóñez separò la chiesa dallo stato e cambiò i nomi delle feste religiose del calendario. Ancora oggi in Uruguay la Settimana santa è denominata «Semana del turismo», così come l’8 dicembre, festa dell’Immacolata, è definito «El dia de la playa» (il giorno della spiaggia) e il Natale «El dia de la familia» e via dicendo. La chiesa uruguayana, la «iglesia chica» (la chiesa piccola), come viene definita, è stata sempre una chiesa povera ma dignitosa, con un suo originale pensiero teologico e una ancora più originale prassi pastorale, dovuti al fatto di confrontarsi con una realtà politica e sociale tanto diversa rispetto al resto dei paesi sudamericani.
Pur connotandosi sin dal suo inizio come uno stato molto secolarizzato, l’influenza di una visione religiosa nella vita sociale e comunitaria, si colse già durante il processo di indipendenza, basti pensare che il segretario dell’eroe nazionale José Artigas, ispiratore di gran parte dei suoi scritti, era un frate francescano, mentre uno degli estensori della prima Costituzione fu il presbitero Antonio Damaso Larrañaga, straordinaria figura di scienziato e letterato, fondatore tra l’altro dell’Università e della Biblioteca nazionale, a tutt’oggi onore e vanto del piccolo Uruguay in campo accademico. Artigas stesso si era formato nei collegi francescani del paese, conservando per tutta la sua esistenza uno spirito di servizio improntato agli ideali di vita del Santo di Assisi. Non a caso tutti i suoi scritti sono molto diversi dal linguaggio retorico e roboante dei grandi Libertadores del suo tempo.

Creata la gerarchia cattolica con la nomina di mons. Jacinto Vera a vescovo di Montevideo, nel paese ben presto si formò una generazione di pastori, che si qualificarono come le menti più acute e brillanti in campo ecclesiale, capaci di opporsi e contrastare l’anticlericalismo e il laicismo che contagiava la classe dominante, sia a livello culturale che politico.
Non a caso quando Leone XIII, nel 1899, convocò a Roma il primo Concilio latinoamericano, la relazione di apertura fu affidata a mons. Mariano Soler, arcivescovo di Montevideo. Inoltre con l’arrivo di schiere di emigranti europei, approdarono in Uruguay, diverse congregazioni religiose maschili e femminili che affiancandosi agli ordini «storici» presenti (gesuiti e francescani) diedero il meglio del loro carisma, lasciando un’impronta notevole nella vita del paese, soprattutto nel campo dell’educazione dei giovani. Va detto inoltre che fin dall’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, precorrendo di molto l’enciclica «Fidei donum» di Pio XII, diversi sacerdoti diocesani, soprattutto italiani e spagnoli, arrivarono in Uruguay e iniziarono «ante litteram» un’originale cooperazione tra le chiese, tra Europa ed America Latina. Questi Fidei donum hanno scritto pagine importanti nel libro delle missioni e dell’Uruguay. Ma forse la pagina più bella fu quella scritta durante la dittatura militare quando questa chiesa, «piccola», povera di mezzi ma ricca di dignità, divenne la voce di chi non aveva voce, trasformandosi nella coscienza critica di un’intera nazione vilipesa e calpestata.
Le figure carismatiche di mons. Carlos Parteli, arcivescovo di Montevideo, che negli anni ’70 non indietreggiò di un millimetro di fronte alla protervia dei militari, e di mons. Marcelo Mendiharat, vescovo di Salto, esiliato per lunghi anni dalla Giunta militare, influenzarono enormemente la chiesa uruguayana. La loro azione pastorale, unita alla testimonianza cristallina, forse più anonima, di militanti laici, suore, comunità di base e sacerdoti permise di aprire cammini di giustizia e pace che portarono alla ricomposizione ed al recupero della vita democratica.
A tutt’oggi, la realtà uruguayana, pur essendo segnata da una profonda (ma sana) laicità, guarda con ammirazione e simpatia a questa «iglesia chica», più che mai sale e lievito della sua storia.
di Mario Bandera

Don MURGIONI, «TUPAMARO» PER FORZA

Storia di un sacerdote italiano ingiustamente incarcerato (e torturato) per 5 anni dai militari golpisti uruguayani (addestrati dall’onnipresente Cia). 

Il 2 novembre del 1993 stroncato da un male incurabile, concludeva a soli 51anni d’età la sua vita mortale don Pierluigi Murgioni, sacerdote Fidei donum della Diocesi di Brescia.
Don Pierluigi era arrivato in Uruguay nel 1968 nel contesto della cooperazione tra le chiese che, sotto il poderoso impulso datogli dal Concilio, aveva incrementato notevolmente il numero dei sacerdoti diocesani italiani impegnati nei vari paesi latinoamericani. In Uruguay, in particolare, approdarono Fidei donum delle diocesi di Novara, Bergamo, Brescia e Verona. Una perfetta miscela piemontese-lombardo-veneta che, se pur dispersa negli angoli più reconditi del piccolo paese del Rio della Plata, si ricompattava periodicamente attraverso degli incontri memorabili, capaci di risollevare lo spirito ed il morale ad ogni missionario italiano anche nei momenti più duri, tale era l’amicizia, l’affetto e l’unione reciproca che stava alla base di questo legame. Di questi incontri, don Pierluigi era un po’ l’anima, purtroppo un amaro destino aveva riservato per lui un’esperienza missionaria del tutto particolare.

Durante un’incursione nottua nella sua parrocchia (compiuta dai militari che avevano preso il potere tramite un golpe in cui avevano sospeso ogni garanzia costituzionale), venne arrestato nel maggio del ‘72, con l’accusa di appartenere al «Movimento di liberazioe nazionale tupamaros» e senza nessuna spiegazione, tradotto ed incarcerato in un luogo sconosciuto. A suo carico non fu mai esibito lo straccio di una prova per aver infranto la legge uruguayana, però era tale l’astio dei golpisti nei confronti della chiesa schierata apertamente e decisamente dalla parte degli oppressi, che si volle, attraverso lui, dare un esempio a tutti gli altri sacerdoti, al fine di raffreddae lo slancio evangelico e solidaristico con chi era coinvolto nei cammini di liberazione sociali, civili e politici.
Fu torturato sistematicamente con il solo piacere sadico di infierire su un ministro del culto cattolico che aveva manifestato solamente carità e solidarietà cristiana nei confronti degli appartenenti ai «tupamaros» (cosa ben diversa dal condividere ideali e strategie di lotta), fu privato della possibilità di celebrare l’eucarestia in carcere e gli vennero tolti sia la bibbia come il breviario. Rapato a zero, con la casacca color kaki di tela grezza sulla quale era cucito il numero che era diventato per imposizione un suo secondo nome; venne fatto scendere nel «calabozo» (prigione sotterranea) dove, insieme ad altri ragazzi appartenenti alla miglior gioventù uruguayana, passò 5 lunghissimi anni della sua vita. Gli cambiarono cella e compagni diverse volte e sistematicamente, ogni 2-3 mesi. Veniva fatto vestire con abiti civili, facendogli balenare la possibilità che «di lì a poco sarebbe stato spedito in Italia»: una tragica farsa studiata dagli specialisti della Cia, che stavano dietro le quinte dei golpisti uruguayani, per fiaccarne l’animo e lo spirito. Ma don Pierluigi fu forte, resistette ad ogni tortura e condizionamento; i suoi compagni di sventura lo ricordano come colui che sosteneva la speranza di tutti, era un riferimento preciso nella disgrazia collettiva del carcere.
Quando fu rilasciato, il 12 ottobre 1978, all’aeroporto di Montevideo, diversi furono i missionari italiani venuti a salutarlo e a ringraziarlo per la sua incrollabile testimonianza di fede offerta nei lunghi anni di detenzione. Il lungo abbraccio che ci scambiammo prima che lui salisse sull’aereo resta uno dei ricordi indelebili che tutt’ora mi porto nel cuore.
di Mario Bandera

Mario Bandera




Poche stelle,  molto cuore

B come «barrio»: visita a Barrio Sur

A Barrio Sur, la maggioranza degli abitanti sono neri. Al quartiere non mancano i problemi – disoccupazione e droga, in primis -, ma neppure le idee e la volontà di riscatto dei suoi abitanti. Ecco cosa ci hanno raccontato Ivonne, Carmen e Cristina…

Montevideo. Barrio Sur sembra un quartiere molto tranquillo: pochissime auto, le strade a disposizione dei bambini. A parte una serie di condomini che guardano verso il mare, le abitazioni sono basse, un piano o due.
Barrio Sur, quartiere abitato da afrouruguayani, è la culla del Caevale di Montevideo, famoso non soltanto per la sua lunghezza, ma soprattutto per la sua musica di origine africana (candombe), per i suoi balli al suono dei tamburi, per le sue rappresentazioni nelle strade che ogni anno richiamano migliaia di persone.
L’appuntamento è al 993 di Calle Michelini, alla «Casa del Vecino», un’associazione comunitaria deputata ad ascoltare e farsi carico degli interessi e delle richieste della comunità di Barrio Sur, quartiere dove certo non mancano i problemi. L’associazione è ospitata al piano terreno di un’abitazione, vecchia ma a suo modo elegante. Le pareti estee sono variopinte e ricche di disegni dal sapore naif: fiori, cuori, stelle, soli.
Anche la stanza intea ha colori pastello, caldi ed accoglienti. Alle pareti sono appese molte fotografie del quartiere, mentre le mensole ospitano i modellini in legno e cartone di alcuni edifici storici. Ci sono anche manifesti e drappi e, nell’angolo in fondo, alcuni tamburi.
La prima cosa che salta agli occhi è che nella stanza dell’associazione ci sono soltanto donne. Cristian Brisacani, cornoperante di Icei e nostra guida, fa le presentazioni. C’è Ivonne, c’è Carmen, c’è Cristina.
Assieme alla gente di Barrio Sur, Icei e Retos al Sur, il partner locale della Ong italiana, stanno cercando di organizzare un itinerario di turismo sostenibile e comunitario. Secondo questo concetto, il luogo turistico, con le sue caratteristiche fisiche ed umane, non è un oggetto come nel turismo tradizionale, ma un soggetto, un protagonista attivo e partecipe.
Le prove generali di questo modo diverso di fare turismo sono state effettuate in occasione del «Gioo del patrimonio» (Día del patrimonio). In Uruguay, questa è una ricorrenza annuale durante la quale il ministero di educazione e cultura incentiva le visite a luoghi e monumenti di rilevanza storica e culturale. A Barrio Sur il Gioo del patrimonio è organizzato dalla comunità. Una comunità di cui Carmen, Ivonne e Cristina sono ad un tempo rappresentanti, difensori e spirito critico.

Carmen Martirena ha vissuto per alcuni anni in Italia. Minuta, capelli corti, occhialetti da vista, Carmen è la più vecchia del gruppo, ma sprizza energia e voglia di fare.
«Il problema più importante del Barrio Sur è la droga. Qui ci sono las bocas, i punti di smercio della droga, soprattutto della pasta base, la peggiore, che viene venduta a prezzi molto bassi. Molti ragazzi del posto si sono fatti prendere nella rete». Quanti sono?, chiediamo. «Abbastanza. La questione è che il problema riguarda non soltanto i consumatori, ma anche i familiari e i conoscenti di questi. Fa male vedere come questi si stanno uccidendo e come stanno uccidendo le proprie famiglie».
Cosa si può fare? «Abbiamo fatto di tutto, ma è impossibile perché le organizzazioni sono potenti. E poi se non fanno nulla le autorità (che sanno tutto) perché dobbiamo farlo noi? A pochi passi da qui, proprio all’angolo, ci sono ragazzi di 15, 16, 17 anni che aspettano per giorni…».
La mancanza di un lavoro influisce sulla situazione?, domandiamo a Carmen. «Ovvio, che influisce», risponde lei. «Sì – ribadisce Ivonne – la mancanza di lavoro influisce molto. Se questi ragazzi avessero qualcosa da fare, non sarebbero in queste condizioni». Ivonne Quegles Martirena, figlia di Carmen, è consigliera di Barrio Sur. È stata eletta già due volte.
«La pasta base non è porro (marijuana, ndr), ma una droga con additivi chimici e altre porcherie. Non è corretto chiamarla la “droga dei poveri”! Perché il suo effetto dura talmente poco – dai 3 ai 5 minuti -, che hai subito necessità di consumae un’altra dose. E per avere quella dose aggiuntiva sei disposto a tutto. In realtà, per me la pasta base è droga più cara».
È vero che le autorità non fanno nulla per contrastare il fenomeno? «Ogni tanto fanno delle retate. L’altro giorno hanno fermato anche me. Mi hanno fatto salire su un furgone per perquisirmi. Non ho protestato. Ma è stato brutto e spiacevole».
Cristina Caiero è una donna forte, ma dal suo viso traspare il dolore quando parla della droga, che è entrata nella sua famiglia.
«Mio figlio ha iniziato con il porro, poi è passato a quest’altra, la pasta base. Una droga che ti arriva subito al cervello e che crea dipendenza. È una situazione che danneggia lui, ma anche la famiglia. In casa ha rubato per poter comprare la droga. Senza dire, della violenza che ingenera la sua assunzione. Tutti i giorni è una discussione continua, che ti stanca».
«Un cammino di speranza per i ragazzi è il lavoro, ma non si può lavorare se non si sa fare nulla. Per questo sono utili i talleres (laboratori di apprendimento, ndr), dove gente competente insegni a questi giovani una professione».
Ci mostra alcuni prodotti fatti in loco: portamonete in cuoio, bottigliette dipinte a mano, portachiavi con materiali riciclati. «Ecco, nel momento in cui arrivasse un turista offrendo questo si dovrebbe spiegare che esso è parte della nostra cultura».
Cristina, che parla di cornoperative, di socialismo e di rivoluzione, ha qualche parola anche per la situazione politica: «Adesso che siamo in prossimità delle elezioni, si critica questo governo per ciò che non ha fatto. Ma non è giusto, perché in 5 anni non si può fare quanto non si è fatto nei precedenti 150».

Eravamo venuti a visitare Barrio Sur, il quartiere afro di Montevideo, per parlare di turismo comunitario.
Abbiamo conosciuto un gruppo di donne coraggiose, disposte ad impegnarsi per dare nuove opportunità ad un quartiere del quale ci si ricorda soltanto nel periodo del carnevale. Donne che conoscono i problemi perché li vedono quotidianamente attorno a loro. Donne che, da sole, senza l’aiuto delle autorità competenti, combattono contro la piaga della droga che si porta via i giovani del luogo.
Donne su cui vale la pena di puntare. 

Di Paolo Moiola

QUELLI dalle magliette celesti

Vittorie incredibili e giocatori portentosi: i «miracoli» calcistici di un paese con appena 3 milioni di abitanti
Due volte campioni del mondo (1930-1950), due titoli olimpici (1924-1928), 14 vittorie in campo continentale tra Coppa americana e toei per nazioni sudamericane, 1 Coppa de oro (Mundialito 1980) conquistata battendo tutte le nazionali campioni del mondo: il palmares della nazionale di calcio dell’Uruguay è ricco ed abbondante. Ma soprattutto è sorprendente, se si considera che tutti questi titoli in campo calcistico sono stati ottenuti da una nazione di tre milioni di abitanti. Forse vale la pena ricordare che la prima edizione dei Campionati del mondo di calcio fu assegnata dalla Fifa proprio all’Uruguay, che nel 1930 celebrava i cent’anni della Costituzione repubblicana. Per l’occasione, la capitale Montevideo si tirò a lucido e costruì un imponente e maestoso stadio denominato appunto «Estadio Centenario». In finale giunsero (manco a farlo apposta) le nazionali dei paesi che si affacciano sulle due sponde del Rio de la Plata: Uruguay e Argentina. In quella prima finale mondiale l’Uruguay sconfisse l’Argentina per 4 a 2. Raccontano le cronache dell’epoca che l’arbitro belga, prima di entrare in campo, pretese ed ottenne per sé e per la sua famiglia un’assicurazione sulla vita e una nave diretta in Europa in partenza qualche ora dopo la finale  del Campionato del mondo. La vittoria  della nazionale «Charrua» sui cugini argentini rasentò quasi l’interruzione dei rapporti diplomatici per la tensione che si venne a creare.
Ancor più memorabile fu la vittoria nella finale del 1950 nello stadio del Maracanà di Rio de Janeiro. Il Brasile, in quel toeo giocato in casa, sostenuto da un pubblico incandescente aveva fatto un sol boccone di Svezia e Spagna, battendoli rispettivamente per 7 a 1 e 6 a 1 e si preparava a fare altrettanto col «pollicino Uruguay». Questi invece, nonostante i padroni di casa avessero segnato il primo gol con l’attaccante Friaça , ribaltarono il risultato grazie a due prodezze di Schiaffino e Ghiggia, raffinati talenti del calcio creolo rioplatense dell’epoca, mandando in visibilio via radio il minuscolo Uruguay e portando  alla disperazione il grande Brasile, che già si preparava a festeggiare con fantasia carioca e fuochi d’artificio la conquista del titolo. Da quel giorno in entrambi i paesi entrò nel lessico popolare un neologismo: «el maracanazo» in spagnolo e «o maracanaço» in portoghese, sinonimi nel primo caso di un’impresa straordinaria, nel secondo di un disastro nazionale.

Sin da quando il gioco del calcio approdò a Montevideo, grazie alle partite che i marinai inglesi giocavano nell’attesa che le loro navi venissero stivate di carne salata, affumicata o in scatola da portare in Europa, i creoli uruguayos se ne appropriarono inventando una originale variabile del gioco del calcio, che univa la fantasia sudamericana all’agonismo europeo. Nel 1917, l’Uruguay vinse il primo Campionato interamericano di calcio e alle Olimpiadi del 1924 a Parigi la nazionale celeste mandò in delirio il pubblico francese grazie alle prodezze di Josè Leandro Andrade, un nero che si massaggiava le caviglie col grasso di lucertola (così diceva lui), dandole agilità nella corsa e precisione nel tiro. Fu chiamato la «meraviglia nera» e, anticipando i tempi della nazionale brasiliana, riscattò secoli di umiliazioni della sua razza attraverso squisite e delicate giocate calcistiche. Sulla scia di questi straordinari giocatori e di una nazionale di calcio che incantava in qualunque parte del mondo giocava, l’Uruguay continuò a mietere allori in campo interamericano, ma anche ad esportare giocatori in diverse nazioni del mondo. Purtroppo, l’abilità che i giocatori avevano nelle gambe non sempre si trasformò in abilità manageriale dei propri successi. Tanto per fare un esempio, Andrade terminò facendo lo strillone di giornali e Ghiggia morì povero e dimenticato da tutti.
Resta il fatto che il gioco del calcio per gli uruguayani rimane tutt’ora un fenomeno in cui si intrecciano e si mescolano le speranze degli emigranti europei, approdati sul Rio de la Plata alla ricerca di un posto al sole, la giorniosità di neri e meticci e la fantasia creola. Questa stupefacente sintesi di genio e sregolatezza continua a sorprendere gli appassionati del pallone di ogni parte del globo, che non riescono a spiegarsi come un piccolo paese sia riuscito a scrivere pagine così gloriose nella storia dello sport più popolare al mondo.

Mario Bandera


La bevanda guaraní
(BEVUTA ANCHE DAL «CHE»)

Gli uruguayani sono i più grandi consumatori di questa bevanda, inventata dagli indios guaraní e molto diffusa anche
in Argentina, Brasile e Paraguay.

In Uruguay, è difficile sottrarsi al rito del «mate», l’aromatico thè del Cono Sur dell’America Latina. La «yerba mate», nome scientifico Ilex paraguaiensis o Ilex curutibensis, è la naturale compagna della giornata di ogni uruguayano che si rispetti. Ma la stessa cosa si potrebbe dire dei paraguayani, degli argentini e dei brasiliani del sud, in quanto tutti loro ne fanno uso abbondante, a volte eccessivo. Bevanda tipica delle tribù guaranì, non appena entrarono in contatto con gli europei, questi ne furono conquistati e, grazie all’azione dei gesuiti, trasformarono l’anonimo infuso di una sconosciuta etnia sudamericana in un rito suggestivo dai risvolti quasi liturgici.
Si può dire che in questi paesi il mate accompagna tutte le riunioni e gli appuntamenti che si tengono lungo la giornata, dal semplice incontro tra vicini di casa, alle riunioni studentesche o di lavoro, su su fino agli incontri di governo. Resta famosa una foto del «Che», che sorseggia tranquillamente il suo mate: da buon argentino non venne mai meno alla tradizione «matera» della sua gente e sia a Cuba come sugli altopiani della Bolivia, dove concluse tragicamente la sua vita, portava sempre con sé tutto il necessario per prepararsi un buon mate.

I brasiliani lo prendono utilizzando recipienti (porongo o chimarrão) molto capienti, mentre gli argentini lo gustano con variazioni aromatiche e a volte aggiungendo dello zucchero (mate dulce); i paraguayani, invece, a causa del clima subtropicale della loro terra, lo prendono freddo e lo chiamano «tereré».
Gli uruguayani, forse i più forti consumatori di mate, lo bevono amaro e caliente (mate amargo). Non è raro vedere gente nei parchi o più semplicemente seduti fuori casa, che conversando amabilmente si scambiano il recipiente contenente la bevanda che viene succhiata dalla stessa cannuccia (in spagnolo «bombilla») di metallo che ha dei piccoli fori all’estremità in cui è immersa nella yerba mate, onde evitare di succhiare le foglie sminuzzate e tostate della profumata bevanda.
Per molte famiglie povere, il mate aiuta ad attenuare i morsi della fame e consumato verso sera, con l’immancabile «torta frita» (una sorta di ciambella fatta con farina, acqua e sale, fritta nello strutto animale), si trasforma in una cena frugale che sfama intere famiglie.

Qualcuno ha detto che, se il Signore fosse nato in America Latina, certamente il mate avrebbe assunto una valenza sacramentale, tanto è il senso di condivisione della bevanda che viene bevuta sempre comunitariamente, quasi mai da soli. Anzi, proprio il «tomar mate juntos» (prender mate insieme) è una delle caratteristiche della convivialità creola e quello che agli stranieri può in un primo momento creare qualche imbarazzo, cioè bere tutti dalla stessa cannuccia, in realtà è un gesto di estrema familiarità, come darsi un bacio. Difficile esprimere a parole le sensazioni che si provano attraverso il senso del gusto, resta il fatto che il mate è il vero banco di prova del grado d’inculturazione raggiunta. Chi si trasferisce nei paesi del Cono Sur (per lavoro o per servizio pastorale) e fatica a condividere il mate con altri, avrà sempre qualche difficoltà nel capire mentalità e gusti della gente. Mentre coloro che, avendolo gustato e assaporato per anni, una volta rientrati nei luoghi di origine, avranno sempre bisogno di un sorso di mate per continuare a sognare quei tramonti del Rio de la Plata che solo avendo un thermos sotto il braccio, un porongo tra le mani e sorseggiando lentamente un «buen mate», si possono rivivere con immutata nostalgia.

Mario Bandera

Paolo Moiola




Banche e persone: il diverso peso dei diritti

D ccome diritti: incontro con lelsur

Com’è cambiata la percezione dei diritti umani in un paese che ha conosciuto la dittatura? Nei diritti sono compresi anche i diritti economici, sociali e culturali o soltanto quelli politici? Il diritto alla sicurezza va salvaguardato anche calpestando gli altrui diritti? È giusto salvare le banche private con soldi pubblici? Di tutto ciò siamo andati a parlare nella sede dell’«Istituto di studi legali e sociali dell’Uruguay» (Ielsur).

Montevideo. Dall’alto dell’ottavo piano il panorama sulla Plaza Independencia è molto attraente. Siamo nella sede dell’«Istituto di studi legali e sociali dell’Uruguay» (Instituto de estudios legales y sociales del Uruguay, Ielsur), un’organizzazione di difesa dei diritti umani sorta nel luglio 1984, immediatamente dopo la fine della dittatura.
Un gruppo di avvocati si unì per presentare denuncie di lesa umanità contro i responsabili della dittatura. Questo fu l’inizio: la lotta contro l’impunità, che ancora oggi rimane un tema importante in Uruguay, dato che in 20 anni nessuna persona è stata incarcerata per quel delitto. Questo è stato il tema storico, ma poi Ielsur ha iniziato a diversificare la sua tematica.
Oggi l’organizzazione si occupa di diritti umani in varie aree: dalle carceri ai minori, dalla libertà di espressione ai diritti economici, sociali e culturali.

Luis Pedeera è uno dei membri dell’associazione. Dopo aver raccontato di aver conosciuto Barrio Sur e i problemi legati al traffico della droga, gli domandiamo se Montevideo sia una capitale violenta.
«Secondo me, no – risponde -. Per lo meno non nella misura in cui appare da certi settori politici e da certa stampa. Di norma, l’uruguayano è una persona amabile, che si preoccupa del vicino, ma il sistema penale rompe per definizione i vincoli comunitari». Negli anni Novanta, i governi di destra hanno attuato una politica repressiva. Con l’approvazione, ad esempio, della «Legge di sicurezza cittadina» (Ley de seguridad ciudadana, 1995). Come sta accadendo in molti paesi del mondo, dall’insicurezza e dalla paura della gente hanno creato il loro consenso. Così le carceri dell’Uruguay si sono riempite oltre ogni limite.
Il problema non ha trovato una soluzione neppure con il governo di centrosinistra, con il quale Ielsur ha avuto qualche incomprensione, a dimostrazione dell’indipendenza della Ong. In particolare, non sono state gradite le critiche sulle condizioni all’interno delle carceri.
«Non ci hanno guardato – spiega Luis – con la mente aperta che dovrebbero avere i progressisti. Non hanno capito che noi siamo un’organizzazione indipendente che agisce soltanto per la difesa dei diritti umani. La sinistra non ha saputo rimuovere quella cultura che fa del prigioniero l’ultimo schiavo della società, dimenticandosi che anche lui è una persona».

Luis è specializzato in diritti umani dei minori. Ed è durissimo nella sua denuncia. «In Uruguay, la povertà si concentra nei bambini. Il 50 per cento dei bambini da 0 a 5 anni nasce in luoghi poveri. Sono loro i più colpiti dalle conseguenze della politica di sicurezza cittadina. E nelle carceri dove sono rinchiusi sono maltrattati, riempiti di psicofarmaci, torturati».
«Se un poliziotto incontra qui sotto, nel centro di Montevideo, un ragazzo con “cara de expedientes” – sporco o con vestiti logori, per esempio -, può portalo in carcere. Il centro è zona turistica…».
Domandiamo a Luis se la gente uruguayana sostiene questo comportamento della polizia. «Sì, lo sostiene. Proprio per questo chiediamo alla sinistra che non copi le dinamiche della destra, la quale concepisce la soluzione dei conflitti sociali attraverso una maggiore repressione».

Luis non ha risparmiato critiche al comportamento della sinistra al governo rispetto alle problematiche delle carceri. Ma c’è anche una legge all’avanguardia, chiamata «Legge di umanizzazione carceraria» (Ley de humanización carcelaria), approvata da questo governo. Essa prevede attività di lavoro ed educazione per i carcerati con sconti di pena per chi svolge queste attività. È un modo anche per decongestionare le carceri, che sono sovraffollate: ci sono luoghi di detenzione che ospitano 3.000 persone invece che 900 (1). 
La legge di umanizzazione prevede un sistema di premi. «Per ogni 2 giorni di lavoro e studio è un giorno in meno di carcere», spiega Luis. Ma la legge stenta a trovare applicazione, per questo Ielsur è intervenuta con una denuncia, suscitando un acceso dibattito. «Erano gli stessi detenuti a spingere per avere lavoro ed educazione. Rompendo con la loro richiesta molti pregiudizi».

Anche in Uruguay sta arrivando la crisi globale. Chiediamo a Luis se essa influirà sui diritti umani. «Terribilmente», risponde sicuro Luis. Che è durissimo contro le politiche pubbliche che mirano a salvare le banche (2) e non i settori sfavoriti, che pagano sempre.
«Perché – protesta con vigore  – i delitti delle banche non sono perseguiti come quelli dei minori? Mediamente un delitto di un adolescente vale 100 dollari ed è compiuto senza armi da fuoco nell’98 per cento dei casi. Il danno compiuto dai banchieri è molto maggiore, perché per salvare gli istituti lo stato sottrae soldi pubblici ai settori sociali. A me non interessa salvare le banche, ma la gente, le vite umane».
«Se non si pensa che il problema principale è di ridistribuire la ricchezza (che sta sempre nelle stesse mani), il sistema rimarrà sempre lo stesso, i ricchi e le banche si salveranno sempre e le crisi saranno pagate dai soliti».
Ielsur è membro della «Rete internazionale per i diritti economici, sociali e culturali» (Red inteacional para los derechos económicos, sociales y culturales, Red Desc). A dicembre 2008, Luis è andato a Nairobi per partecipare al convegno della Rete. Ed è rimasto impressionato dalla città kenyana e dall’enormità dei suoi problemi.
«Mi sono reso conto che Nairobi ha tanti abitanti quanti l’intero Uruguay e che un qualsiasi barrio povero di quella città ha 300 mila abitanti, dove qui ne abbiamo 1.000 o 2.000».
 
Ad ogni domanda, Luis Pedeera risponde con passione e partecipazione: si vede che crede fermamente in quello che dice e che ama il proprio lavoro con Ielsur. Per concludere la nostra conversazione, gli chiediamo se vede una via d’uscita all’attuale crisi globale. Lui sorride.
«Secondo me, la soluzione è quella comunitaria, anche se in società sempre più complesse è diventato molto difficile. Ma proprio in questo consiste la sfida di oggi. A meno che non si voglia vivere e morire nelle condizioni dettate da questo sistema». Un sistema nel quale le banche valgono più delle persone. 

di Paolo Moiola

(1) Alla fine di marzo 2009, il collasso delle carceri uruguayane è stato confermato dal relatore Onu Manfred Nowak.
(2) Il 2 aprile 2009, l’Ocse ha incluso l’Uruguay nella lista nera dei paradisi fiscali, assieme a Costa Rica, Malesia e Filippine.

Paolo Moiola




Viva la cooperazione (se è buona)

C come cooperazione: Cristian Brisacani

L’«Istituto di cooperazione economica internazionale» (Icei), una Ong italiana, lavora a Montevideo nei campi del turismo comunitario, delle piante medicinali, dei saperi tradizionali e dei diritti umani.

Montevideo. Sulla soleggiata terrazza della Posada al Sur, nel cuore della vecchia Montevideo, a pochi passi dal porto, Cristian si gusta il mate, del quale – dopo anni trascorsi tra Buenos Aires e Montevideo – non può fare più a meno. Cristian Brisacani lavora nella capitale uruguayana per l’«Istituto di cooperazione economica internazionale» (Icei), una Ong italiana che ha molti progetti in America Latina.

In Uruguay c’è stata una consistente emigrazione italiana. Tuttavia, difficilmente un italiano saprebbe trovare di prim’acchito questo paese sul mappamondo. Cristian, come lo descriveresti in poche parole?
«L’Uruguay è un paese dell’America Latina con 3 milioni e mezzo di abitanti. La sua popolazione è molto concentrata nella capitale, dove risiede circa la metà degli uruguayani. Paese relativamente piccolo a confronto con gli altri paesi latinoamericani, l’Uruguay è schiacciato dai due giganti che gli stanno ai lati: il Brasile e l’Argentina. E lo stesso processo di formazione nazionale fu una decisione presa a tavolino dal Brasile e l’Argentina che, per evitare altri conflitti e violenze, decisero di formare uno stato cuscinetto, lo stato uruguayano. È un paese in cui l’apparato statale, unico fornitore di servizi, è il maggiore datore di lavoro. È soprattutto un paese agricolo e di allevamento, che però sta diventando interessante anche dal punto di vista turistico. Soprattutto turismo costiero e stagionale».

A parte i periodi della dittatura, la politica dell’Uruguay è sempre stata dominata da due partiti conservatori, il partito dei Blancos e quello dei Colorados. Dal 2005 è però al potere una coalizione di centrosinistra, guidata dall’oncologo Tabaré Vázquez. Puoi raccontarci come sta procedendo questa esperienza di governo?
«Il governo del Frente amplio (Fronte ampio, in italiano) è stata una svolta storica per questo paese. Dopo 150 anni di governi istituzionali o di periodi di dittatura, un insieme di partiti dalle anime diverse è riuscito a compattarsi in un unico movimento di opposizione. Ripeto: è stata una svolta molto grande per questo stato. Con l’avvento del Frente amplio ci sono stati cambiamenti sociali e culturali; ci sono stati investimenti importanti in settori che in precedenza venivano considerati marginali e secondari rispetto ad altri. C’è stata la lotta all’indigenza, alla povertà estrema, ma probabilmente 5 anni sono pochi per fare una considerazione generale sull’impatto della politica del Frente amplio. Sicuramente il Fronte ampio come molti altri partiti progressisti in America Latina hanno ancora una sfida da affrontare e vincere: la lotta alla povertà e alla distribuzione iniqua delle risorse economiche».

Vuoi dire che neppure il piccolo Uruguay è esente dalle piaghe latinoamericane della povertà e dell’ingiusta distribuzione delle risorse?
«È così. Anche in Uruguay c’è un problema di povertà, anche se forse ha una dimensione diversa rispetto agli altri paesi: qui riguarda il 20-25% della popolazione. Spesso i poveri non sono persone senza lavoro: buona parte di questi poveri hanno un lavoro, magari precario e molto duro, ma percepiscono uno stipendio che non garantisce la soddisfazione delle necessità primarie. L’Uruguay non ha risorse strategiche. Deve importare tutto: prodotti industriali, tecnologia, prodotti tipici e questo fa sì che il costo dei prodotti sia alto e gli stipendi non siano sufficienti. Insomma, le condizioni di vita di un uruguayano medio non sono ottimali».

Una delle sorprese di questa città è stata quella di trovare quartieri afro… 
«Il 10% della popolazione montevideana è di origine africana. E storicamente Barrio Sur e Palermo sono i quartieri della comunità afro-uruguayana. Hanno caratteristiche molto interessanti, ma anche storie di dolore e violenza. Per esempio, i simboli della comunità afro-uruguayana a Barrio Sur e Palermo sono due edifici popolari, dove vivevano famiglie afro-uruguayane che furono espulse, cacciate violentemente, durante gli anni della dittatura militare».

Nel quartiere di Barrio Sur, Icei porta avanti un progetto interessante. Puoi parlarcene?
«Noi lavoriamo con la comunità, che ha tutta una serie di realtà e organizzazioni artistiche, sociali, educative, cornoperative. Con il nostro progetto turistico vogliamo evidenziare l’elemento comunitario, la presenza della comunità come protagonista nella gestione dell’offerta turistica. Immaginando un viaggio ideale, unico che è quello della conoscenza della cultura afro-uruguayana che normalmente non appare. Perché la comunità africana di Montevideo ha sviluppato una musica, una tradizione musicale che è propria di questo territorio».

Ti riferisci al cosiddetto «candombe»…
«Sì, il candombe l’espressione massima della musica tradizionale afro-uruguayana. E il momento migliore per ascoltarlo è quello del carnevale, uno dei più lunghi del mondo. Il carnevale di Montevideo è quello delle “chiamate” (llamadas) al ritmo contagioso dei tamburi (tambores) e delle rappresentazioni teatral-musicali nello scenario dei quartieri (murgas)».

Ieri, mentre visitavamo Barrio Sur, abbiamo avuto un fuori programma, diciamo così. Vuoi raccontarlo brevemente?
«Sì. Abbiamo assistito ad una breve sparatoria e all’intervento della polizia su un piccolo gruppo di drogati. Uno dei motivi per il quale interveniamo nel barrio è proprio per cercare di sconfiggere la diffusione di questa droga che si chiama pasta base e che è molto deleteria».

Che contributo può dare il turismo contro la droga?
«Potrebbe diventare un fattore di limitazione alla diffusione del fenomeno. In generale, sosteniamo il turismo comunitario come strategia di lotta contro il degrado, la marginalità e la povertà. Attraverso di esso vogliamo favorire la riappropriazione da parte della comunità di un territorio e la rivalorizzazione della sua identità culturale. Il turismo si chiama “comunitario”, perché la comunità diventa la protagonista della realizzazione e della gestione dell’offerta turistica. La quale, pertanto, viene difesa, protetta, preservata. Il turismo, lo vedevamo ieri, può essere una fonte di lavoro molto importante. Uno dei motivi della diffusione della droga è proprio dovuto alla mancanza di possibilità lavorative o educative».

A proposito della visita di ieri a Barrio Sur… Ancora una volta abbiamo constatato che, nelle situazioni difficili, le donne sono quelle che lavorano di più per uscire dai problemi, per trovare soluzioni.
«Sì, è un fenomeno tipico delle crisi economiche latinoamericane degli ultimi anni. Il ruolo da protagonista assunto dalle donne nella definizione, ma anche nella attuazione delle strategie di sopravvivenza e di sviluppo. In sostanza, la crisi economica in Argentina e Uruguay è anche la crisi della figura maschile. L’uomo che perde il lavoro e che non riesce ad accettare questa situazione di emarginazione. Con delle ripercussioni psicologiche importanti, legate ad un aspetto fondamentale della cultura maschile: il lavoro fa dell’uomo un uomo. Dopo la crisi l’uomo resta a casa. La donna invece, con la crisi deve darsi da fare e cercare di trovare strategie alternative per la propria famiglia. Questo fenomeno socio-culturale è molto presente come testimonia il fatto che nei movimenti sociali e nelle organizzazioni comunitarie la presenza delle donne è molto forte. Mi spiegava Ivonne, la rappresentante comunitaria di Barrio Sur, che la difficoltà di articolazione con le altre organizzazioni del quartiere nasce anche dalla circostanza che la Casa del Vecino è una organizzazione composta di donne».

Siamo a due passi dal porto, nella parte vecchia della città di Montevideo. Poco fa abbiamo visto passare un transatlantico, una nave crociera, puoi dirci la tua opinione su questa ambivalenza del fenomeno turistico: da una parte il turismo dei grandi numeri e dei tanti soldi, dall’altra il turismo responsabile, sostenibile, comunitario…
«L’Uruguay riceve molte navi da crociera per la sua posizione strategica: il porto di Montevideo è molto più vicino al mare che non il porto di Buenos Aires. Effettivamente è un turismo dai grandi numeri (3.600 persone per barca) e un turismo che muove tanti soldi. Però, l’impatto che produce questo turismo sulla realtà economica e sulla società dell’Uruguay è molto limitato. Il turismo produce ricchezza: in molti paesi è una delle principali fonti di entrate dello stato. Tuttavia, molto raramente questo tipo di turismo produce redistribuzione di ricchezza. La ricchezza si concentra infatti nelle mani di soggetti transnazionali e non ha un impatto positivo sulla qualità di vita della popolazione locale. Le crociere rientrano pienamente in questa tipologia. Come d’altra parte avviene per Colonia, dove il turista va e torna in un giorno. Colonia è una città al di là del Rio de la Plata, molto più vicina a Buenos Aires che a Montevideo, una città storica, una colonia portoghese, patrimonio dell’Unesco, molto carina. C’è un transito impressionante di turisti che, in un giorno, visitano la città e poi tornano a Buenos Aires».

Abbiamo parlato di crociere. Abbiamo parlato di Montevideo e di Colonia. Però non abbiamo accennato a Punta dell’Este…
«Quello di Punta dell’Este è però un turismo d’élite. Ci sono europei che fanno 13 mila Km per passare le prime due settimane di gennaio qui. È un fenomeno molto ridotto, stagionale, che non produce un impatto economico positivo sulla popolazione, che non è fonte di sviluppo e di crescita».

Toiamo allora alla vostra idea di turismo.
«Preso atto che l’Uruguay ha potenzialità turistiche inesplorate, noi vogliamo sviluppare un turismo che si avvicini alle comunità di un paese attraverso i racconti, la storia, le leggende, i suoni, la cultura delle persone che di quelle comunità sono parte. Tutto quello che abbiamo visto visitando Barrio Sur: la musica, i colori, i suoni, le parole degli abitanti  e non di persone estee. Chi beneficia di questo approccio diverso non è soltanto la comunità, ma anche il visitatore: è uno scambio, che arricchisce entrambi. Perché quando il turista toerà a casa, si ricorderà non soltanto i luoghi, ma anche e soprattutto i volti e i racconti delle persone».

Il mondo sta vivendo una crisi generalizzata. Questa si sta riflettendo o si rifletterà su un paese come l’Uruguay?
«Questo è un momento di crisi molto acuta. In Uruguay, essa riguarda soprattutto il mondo agricolo. Per ragioni naturali, congiunturali, intee, inteazionali. La produzione agricola è distrutta, dato che non piove da diversi mesi. I prezzi dei prodotti alimentari sono saliti alle stelle. Gli animali (l’allevamento è un settore fondamentale di questo paese) stanno morendo. Ci saranno dei costi molto alti per i produttori e la popolazione. Il problema è che l’attuale modello economico agricolo non prende in considerazione quelli che sono gli elementi per una crescita duratura e per una strategia di sviluppo. Ad esempio: gli elementi di sostenibilità, l’impatto ambientale, il cambio climatico (che ormai non può essere dimenticato nelle strategie di sviluppo di un paese). Ed ancora, le risorse idriche e la loro gestione. La siccità non è un evento di questo anno, ma un fenomeno con cui ci si dovrà confrontare anche negli anni futuri».

Icei, la vostra organizzazione, lavora anche nel campo agricolo con alcuni progetti. In cosa consistono?
«In Uruguay, noi lavoriamo nel campo dell’agricoltura familiare. In particolare, siamo attivi con un progetto sulle piante medicinali, finanziato dal ministero degli affari esteri italiano. È un progetto sull’uso di piante come prodotto terapeutico. Anzi, devo dirlo meglio: è un progetto sull’uso popolare delle piante come medicina. Il progetto si chiama “dialogo tra saperi”, perché l’obiettivo è il reciproco riconoscimento dei diversi saperi: il sapere accademico, il sapere scientifico, il sapere popolare… Noi stiamo lavorando quasi esclusivamente con donne rurali, che sono depositarie di un sapere popolare sulla coltivazione, la raccolta, l’uso delle piante come medicina in zone dove l’accesso alla salute può essere un problema».

Cristian, per me l’Uruguay è il paese di Eduardo Galeano. Tutti i suoi libri vengono tradotti in italiano. Però, tu hai un altro nome da proporci…
«È un autore con un nome tutto italiano: Mario Benedetti. È un autore latinoamericano, che associo alla letteratura italiana di inizio secolo scorso: Svevo, Pirandello… È un autore con molta attenzione nei confronti della società. Galeano forse è più politico, mentre Benedetti è uno scrittore più sociale, che si interessa delle piccole grandi tragedie dell’umanità, descrive l’uruguayano per quello che è. È scrittore, drammaturgo, poeta…
Accanto a questi scrittori importanti, ci sono anche cantautori, che hanno saputo raccontare la cultura uruguayana… Uno dei sogni che avevo quando venni in America Latina era di poter ascoltare dal vivo Daniel Viglietti. Finalmente, ci sono riuscito e l’ho anche conosciuto di persona. È un cantautore, un artista dal forte impegno politico.
Insomma, la cultura uruguayana è molto ricca. Non va dimenticato che questo è uno dei paesi più colti delle Americhe, con il tasso di alfabetizzazione più alto dopo Cuba».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Un mondo altro, diverso, nuovo: da «possibile» a «necessario»

B come Bélem

A Belém, nell’Amazzonia brasiliana, si è tenuta la nona edizione del «Forum sociale mondiale». Ora che il mondo attraversa una crisi epocale, per gli «altermondisti», un tempo ridicolizzati (soprattutto dai media e dai politici), è il momento delle rivincite. Ma anche di sfide. Impegnative.

In meno di un decennio è diventato l’incontro per antonomasia dei movimenti sociali del mondo. Per la sua nona edizione, il «Forum sociale mondiale» è tornato in Brasile, da dove nel 2001 era partito. All’epoca, la città ospitante fu Porto Alegre, nello stato di Rio Grande do Sul. Quest’anno invece il Forum si è spostato a Belém, nel nord-est del paese latinoamericano.  
Volendo trovare una frase che descriva la capitale del Pará, potremmo dire che a Belém non mancano né l’acqua né i manghi. Gli alberi di mango sono ovunque, anche lungo le vie del centro, tanto che frequentemente i grossi frutti cadono sulle auto e sui passanti. Quanto all’acqua, il clima equatoriale porta abbondanti piogge quotidiane quasi tutto l’anno. Ma soprattutto Belém è inserita in un sistema fluviale unico e maestoso. La città è bagnata dal Rio Guamá e si affaccia sulla Baia do Guajará. A sua volta, l’intera zona è parte della vastissima area occupata dalle foci del Rio delle Amazzoni (Rio Amazonas), il più grande fiume del mondo.
Data la sua posizione geografica, Belém è la porta d’entrata per l’Amazzonia, considerata il principale ecosistema del pianeta, ma anche il più minacciato. Proprio l’Amazzonia e i suoi popoli indigeni sono stati tra  i principali protagonisti di questa edizione del Forum, svoltasi in coincidenza con una crisi – finanziaria ed economica, ma anche ambientale, energetica, alimentare e sociale -, che sta scompaginando il mondo e quelli che, soltanto fino a ieri, erano considerati i suoi capisaldi ideologici: il libero mercato e la globalizzazione.

Ufpa o Ufra? Non è uno scioglilingua o un gioco di parole, ma la sigla delle due università di Belém, che hanno ospitato il nono Forum sociale mondiale:  Ufpa sta per «Universidade Federal do Pará», Ufra per «Universidade Federal Rural da Amazonia». Le due università sono strutturate come campus, sono cioè cittadelle autonome, con strutture ad hoc, grandi spazi, negozi, proprie strade intee e addirittura due porticcioli, da cui in 15-20 minuti si può passare dall’una all’altra con barche che solcano il Rio Guamá.
«Vai alla Ufpa o alla Ufra?», è stata dunque una frase d’obbligo nelle giornate del Forum, perché gli eventi – convegni, seminari, dibattiti, laboratori, feste – erano distribuiti sui due campus universitari, molto estesi e distanti qualche chilometro l’uno dall’altro, costringendo pertanto i partecipanti a scegliere in anticipo dove andare.

È vero che i numeri non sempre sono significativi, ma qualche indicazione la danno. A Belém sono arrivate 133.000 persone, provenienti da 142 paesi. Sono giunti i rappresentanti di 5.808 organizzazioni, delle quali 4.193 dell’America Latina, 489 dell’Africa, 491 dell’Europa, 334 dell’America Centrale, 155 dell’America del Nord e 27 dall’Oceania. Per questo variegato pubblico sono stati organizzati ben 2.600 laboratori e seminari (probabilmente troppi, è stato da più parti osservato).
Insomma, numeri importanti che hanno fatto scrivere ad Alejandro Kirk dell’Agenzia Ips: «Screditato tante volte dai mezzi di comunicazione come un carnevale di sinistra fatto di sogni, sesso e marijuana, politicamente impotente, il Forum pare essere vivo e combattivo».

Le due cittadine universitarie che hanno ospitato il Forum sono cresciute al confine con Terra Firme, un quartiere di 100.000 abitanti, povero e con problemi di violenza. Per il Forum il bairro (barrio, in spagnolo) è stato ripulito, le strade principali riparate, l’acqua fatta arrivare nelle case, la polizia triplicata. Contraddizioni del Brasile, metafora delle contraddizioni del pianeta, dove più mondi, molto anzi troppo diversi tra loro (a dispetto della tanto reclamizzata globalizzazione), convivono con sempre maggiore precarietà. Il mondo dei ricchi, il nostro mondo, per difendere il proprio (indifendibile) stile di vita e modello di sviluppo, ha alzato barriere (fisiche, legislative, mediatiche), che però non resistono alle spinte estee, sempre più forti. Oggi il crollo della filosofia neoliberista e del sistema da questa costruito ha messo a nudo tutte quelle contraddizioni – economiche, sociali, ambientali, politiche – che fin dalla loro nascita, nel 2001, i Forum sociali avevano evidenziato, spingendo e lavorando per la costruzione di qualcosa di diverso sotto lo slogan «un altro mondo è possibile», tanto deriso dai media mondiali.
Ebbene, ora quel mondo altro, diverso, nuovo più che possibile è diventato necessario. Sul come arrivarvi la discussione è aperta. Il Forum di Belém, come tutti i forum che lo hanno preceduto, ha dato il suo contributo. Con la differenza che questa volta, forse, le indicazioni provenienti dai movimenti della società civile e dai popoli indigeni saranno ascoltate più che negli anni passati. Forse.   

Di Paolo Moiola    

Gli obiettivi del Forum

DIECI PASSI VERSO IL «BUEN VIVIR»

         Questi sono gli obiettivi attorno ai quali si sono sviluppati gli incontri, i dibattiti e i laboratori del «Forum sociale mondiale» di Belém:

1. «Per la costruzione di un mondo di pace, giustizia, etica e rispetto verso le spiritualità diverse; per un mondo libero da armi, specialmente quelle nucleari.
2. Per la liberazione del mondo dal dominio del capitalismo, delle multinazionali, della dominazione imperialista, patriarcale, coloniale e neocoloniale e dei sistemi diseguali di commercio, attraverso la cancellazione del debito estero dei paesi più sfavoriti.

3. Per l’accesso universale e sostenibile ai beni comuni dell’umanità e della natura; per la salvaguardia del nostro pianeta e delle sue risorse, con speciale riguardo per l’acqua, i boschi e le risorse energetiche rinnovabili.

4. Per la democratizzazione e l’indipendenza della conoscenza, della cultura e della comunicazione; per la creazione di un sistema comune di conoscenza e abilità attraverso lo smantellamento dei diritti di proprietà intellettuale.
5. Per la dignità, diversità e garanzia della eguaglianza di genere, razza, etnia, generazione, orientamento sessuale e per la eliminazione di tutte le forme di discriminazione e di casta (discriminazione basata sulla discendenza).
6. Per la garanzia dei diritti economici, sociali, umani, culturali ed ambientali, specialmente dei diritti all’alimentazione, alla salute, all’istruzione, alla casa, ad un impiego e un lavoro degni, alla comunicazione, alla sicurezza alimentare e alla sovranità.
7. Per la costruzione di un ordine mondiale la sovranità, l’autodeterminazione e i diritti dei popoli, includendo le minoranze e gli immigrati.
8. Per la costruzione di un’economia democratica, di emancipazione, sostenibile e solidale, centrata sui popoli e basata su un commercio giusto ed etico.
9. Per la costruzione e l’ampliamento delle strutture e delle istituzioni politiche, economiche e democratiche a livello locale, nazionale e globale, con la partecipazione del popolo alle decisioni e il controllo degli affari pubblici e delle risorse pubbliche.
10.Per la difesa dell’ambiente (l’Amazzonia e tutti gli altri ecosistemi) come fonte di vita del pianeta terra e per le popolazioni ancestrali del mondo (indigeni, afrodiscendenti, tribali e fluviali), che esigono i loro propri territori, idiomi, culture ed identità, giustizia ambientale, spiritualità e diritto alla vita».

A leggere questi obiettivi, certamente si può evidenziare che si tratta di un elenco molto generico, a volte ripetitivo e superficiale, spesso utopico. Ma è innegabile che, al tempo stesso, esso contenga molte verità incontestabili. Da queste alternative e da queste proposte potrà svilupparsi quel «buen vivir» per tutte e tutti che, alla fine, è il grande augurio del «Forum social mundial» di Belém.

Pa.Mo.


Cronistornira del Forum sociale mondiale

Le 9 volte del Forum:

– primo Forum:
25-30 gennaio 2001, a Porto Alegre (Brasile)
– secondo Forum:
31 gennaio-5 febbraio 2002, a Porto Alegre (Brasile)
– terzo Forum:
23-28 gennaio 2003, a Porto Alegre (Brasile)
– quarto Forum:
16-21 gennaio 2004, a Mumbai (India)
– quinto Forum:
26-31 gennaio 2005, a Porto Alegre (Brasile)
– sesto / settimo Forum:
gennaio 2006, a Caracas (Venezuela) e Bamako (Mali)
– ottavo Forum:
gennaio 2007, a Nairobi (Kenya)
– nono Forum:
27 gennaio -1 febbraio 2009, a Belém (Pará, Brasile)

Paolo Moiola




Terra, terra delle mie brame

l’Amazzonia, la terra e il protagonismo degli ultimi

A Belém, per una volta, gli ultimi (alcuni tra gli ultimi) sono diventati protagonisti: i popoli indigeni e i Sem terra. Diversi, ma entrambi legati ad un unico destino: la terra. I primi per difendere i propri territori ancestrali dalle mire dei molteplici usurpatori; i secondi per riuscire (finalmente) ad avere un pezzo di terra con cui vivere. Intanto, nel paese degli immensi latifondi e delle incredibili ingiustizie, il «Forum per la riforma agraria» sostiene una campagna scandalosamente rivoluzionaria: limitare la proprietà privata della terra.  

Nel campus dell’Università agraria di Belém c’era una delle tende – «tende tematiche» sono state chiamate – più frequentate: la «Tenda dos povos indigenas», la tenda dei popoli indigeni.
Al Forum sono arrivati i rappresentanti di 120 etnie indigene, in maggioranza dell’Amazzonia. Si aggiravano in piccoli gruppi per le strade del campus. Si lasciavano fotografare volentieri, perché non erano una mera attrazione (antropologica, turistica, estetica), ma protagonisti, alla pari degli altri partecipanti. E, alla pari degli altri, anche loro fotografavano e filmavano.  
In America Latina vivono circa 44 milioni di indigeni, rappresentando il 10 per cento della popolazione totale della regione. In Amazzonia, un territorio di oltre 6 milioni di chilometri quadrati diviso tra 9 paesi (Brasile, Bolivia, Colombia, Ecuador, Perù, Venezuela, Suriname, Guyana francese e Guyana), le terre indigene rappresentano circa il 27 per cento del totale.
Per gli indigeni, il Forum sociale è stata l’occasione per parlare del loro modo di vedere il mondo (cosmovisione), dei loro problemi e dei diritti negati. Ma anche l’occasione per parlare dell’Amazzonia, il più importante ecosistema del mondo (per la foresta vergine, la biodiversità, l’acqua dolce), la cui sopravvivenza è in grave pericolo. Secondo gli esperti, negli ultimi 40 anni  è stato distrutto il 17 per cento delle foreste amazzoniche e un altro 17 per cento è molto degradato (1).

ABelém erano presenti sia i rappresentanti dei popoli indigeni che quelli dei Sem terra. Che cosa accomuna questi soggetti, altrimenti tanto diversi? Un comune destino: la terra. I primi – soprattutto i popoli dell’Amazzonia –  si trovano a lottare per la difesa delle proprie terre ancestrali dall’occupazione da parte di usurpatori (tagliatori di alberi, allevatori, coltivatori di riso o soia, minatori, ma anche multinazionali dell’agrobusiness e della farmaceutica) e per il loro riconoscimento giuridico (demarcazione e titolazione legale); i secondi, invece, lottano per avere un pezzo di terra con cui vivere.
In Brasile, paese ricchissimo di risorse agricole, domina il latifondo: il 2,8% dei proprietari terrieri possiede il 56,7% delle terre coltivabili. Questo si traduce in un modello di agricoltura capitalista, fondata sulla monocoltura e sull’esportazione, un modello incapace di soddisfare le esigenze alimentari di tutta la popolazione brasiliana, oltre che foriero di pesanti conseguenze sul piano sociale.
Per questo il Forum nazionale per la riforma agraria e la giustizia nel campo (Forum nacional pela reforma agraria e justiça no campo, Fnra), che raggruppa 48 organizzazioni, ha promosso una campagna per limitare la proprietà privata della terra.
Perché – si legge nel sito – è illegittima e ingiusta «la concentrazione di immense aree nelle mani di poche persone e gruppi, quando la maggioranza della popolazione si trova esclusa» (2). Dal punto di vista pratico, i promotori propongono l’introduzione nella Costituzione federale di un comma (articolo 186, comma V) in cui alla proprietà privata della terra si stabilisca un limite di 35 «moduli fiscali» (3). L’emendamento costituzionale inciderebbe solamente su poco più di 50 mila proprietari di terra, ma produrrebbe conseguenze rilevanti. Si creerebbe infatti una disponibilità di oltre 200 milioni di ettari di terra per le famiglie accampate, senza spendere risorse pubbliche per l’indennizzo dei proprietari.

Anche la chiesa cattolica brasiliana partecipa attivamente alla Campagna con alcune sue organizzazioni: il Consiglio indigenista missionario (Conselho indigenista missionario, Cimi), la Commissione pastorale della terra (Comissão pastoral da terra, Cpt) e la Caritas brasiliana. Dom Tomas Balduino, vescovo emerito di Goiás, consigliere della Cpt e figura storica delle lotte per la terra in Brasile, non è tenero con il governo del presidente Lula, perché si è allineato sulle posizioni dell’agrobusiness, che è contrario agli interessi dei Sem terra e degli indigeni.
Il religioso cattolico non usa eufemismi per spiegare il dramma del latifondo: «Alla base vi è il vecchio e nefasto concetto della proprietà come un diritto assoluto. Così esso è insegnato dogmaticamente nella maggior parte delle scuole di diritto e, purtroppo, risiede nella testa di un gran numero di giudici».

Nella «Campagna per la limitazione alla proprietà della terra» si parla di lavoratori rurali senza terra e di comunità tradizionali (ovvero afrodiscendenti di schiavi liberati (4), popolazioni rivierasche e popoli indigeni propriamente detti). L’«unità nella diversità» è stata richiesta anche nelle dichiarazioni finali dei popoli indigeni (5), redatte dopo la conclusione del Forum di Belém. Un auspicio che, però, non trova ancora concretizzazione nella realtà.
«È – spiega l’antropologa Silvia Zaccaria – un nostro vizio mettere insieme lotte sociali come sono quelle dei Sem terra e lotte culturali-cosmologiche (nel senso di diversi modi di vedere il mondo) com’è per i popoli indigeni. La verità è che tra Sem terra e popoli indigeni manca un progetto strategico e politico condiviso. Per il momento, unire le due realtà è più una speranza e un desiderio della chiesa cattolica che una effettiva realtà». 
Un problema non da poco, considerando la consistenza degli avversari e della sfida. Perché la storia insegna che i potenti hanno sempre saputo approfittare delle divisioni tra poveri, scatenando conflitti in cui, alla fine, ad uscire vincitori sono sempre i soliti.

Di Paolo Moiola  

(1) Si legga il rapporto 2009 dell’United Nations Enviroment Programme (Unep/Pnuma) dal titolo: «GeoAmazzonia». Il rapporto è scaricabile gratuitamente dal sito: www.unep.org.
(2) Il sito della «Campagna per il limite alla proprietà della terra»: www.limitedapropriedadedaterra.org.br.
(3) Il «modulo fiscale» è una misura di riferimento stabilita dall’Istituto nazionale di colonizzazione e riforma agraria (Incra), che definisce l’area minima sufficiente per fornire il sostentamento a una famiglia di lavoratori e lavoratrici rurali. Esso varia da regione a regione ed è definito per ogni municipio a partire da vari parametri, come per esempio la situazione geografica, la qualità del suolo e le condizioni di accesso al territorio.
(4) Il termine brasiliano è: «quilombolas».
(5) Le dichiarazioni sono leggibili sul sito della Coiab («Coordenação das Organizações Indígenas da Amazônia Brasileira»), il Coordinamento delle organizzazioni indigene dell’Amazzonia brasiliana (www.coiab.com.br) e su quello della Coica («Coordinadora de las Organizaciones Indígenas de la Cuenca Amazónica»), il Coordinamento delle Organizzazioni indigene della conca amazzonica (www.coica.org.ec).

Paolo Moiola




«CAMBIARE LA LOGICA DEL SISTEMA»

François Houtart:

Belém, 29 gennaio 2009. Sono sul palco, uno accanto all’altro: Evo Morales, l’indio, presidente della Bolivia; Feando Lugo, il vescovo, presidente del Paraguay; Rafael Correa, l’economista, presidente dell’Ecuador; Hugo Chávez, il militare, presidente del Venezuela. All’inizio della conferenza, Chávez saluta con parole di stima ed affetto François Houtart, seduto in platea. Alla fine della giornata, il prete belga, classe 1925, membro del consiglio internazionale del Forum, sale sul palco ad abbracciare il presidente venezuelano. Magari qualcuno si sarà domandato, attonito e probabilmente inorridito: «Ma come fa quest’uomo di chiesa a stimare questo “dittatore”?». In attesa di trovare una risposta al mistero, scambiamo alcune battute con il professor Houtart, alias padre François, sempre sorridente e disponibile (1).

Padre Houtart, lei è uno dei fondatori del Forum. Come è cambiata in questi anni questa manifestazione?
«È cambiata nel senso che il Forum ha potuto costruire una coscienza collettiva, sempre più universale. È fondamentale continuare su questa strada: formare una coscienza universale. Soprattutto in questo periodo di crisi del capitalismo, che è una crisi senza lotta di classe. Il problema è come alimentare una lotta popolare e sociale per trasformare la logica del sistema».  

Lei è rappresentante personale di Miguel D’Escoto (2) nella Commissione dell’Onu, incaricata di studiare la crisi…
«Sono membro della Commissione delle Nazioni Unite diretta da Joseph Stiglitz. È chiaro, però, che questa Commissione propone una regolazione del sistema e non una sua trasformazione, un cambiamento».

Come sta avvenendo anche nel Forum di Davos, contemporaneo a questo…
«Non tutto il mondo è cosciente della necessità fondamentale di cambiare la logica del sistema capitalista. La crisi è finanziaria, energetica, alimentare, climatica, sociale. Questa è una crisi totale».

Forum di Belém e Forum di Davos. Anche lei riscontra una diversità di trattamento da parte dei media?
«Sì. I media folclorizzano il Forum sociale mondiale. Per loro soltanto il Forum di Davos è serio. Il fatto è che noi non abbiamo potere nei media».

I responsabili della crisi ora chiedono aiuto a quegli stessi stati nazionali che prima tenevano lontani come la peste. Non è una palese contraddizione?
«No! È la logica del sistema. Lo stato deve intervenire soltanto per salvare il capitalismo. Lo stato capitalista è al servizio del capitalismo. Pertanto, il problema è come costruire un altro stato che abbia una base popolare e obiettivi alternativi agli attuali. Le alternative esistono».

Lei è un prete. Come si sta comportando la chiesa davanti ai problemi che solleva la crisi. Sta facendo abbastanza?
«No, non sta facendo abbastanza! Le dichiarazioni ufficiali, quando ci sono, sono deboli e superficiali, molto superficiali. E comunque rimangono nel solco della regolarizzazione del sistema».

Questa speranza di un cambio può trasformarsi in realtà concreta e tangibile?
«È una speranza realista. Come arrivarvi? Occorre mobilizzare la coscienza collettiva, altrimenti il sistema si riproducerà fino alla propria distruzione. Se si arriverà alla coscientizzazione, allora il cambio sarà possibile».

Ma quando? Domani o in tempi biblici?
«Ci sono tempi diversi. Un tempo immediato e un tempo più lontano. L’importante è mantenere la coerenza» (3).

di Paolo Moiola

(1) François Houtart è un ospite fisso di MC. Sue interviste sono state pubblicate nell’aprile 2002 (a cura di Paolo Moiola) e nel luglio 2006 (a cura di Marco Bello).
(2) Miguel D’Escoto, nicaraguense, prete, sandinista, è presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite dal settembre 2008.
(3) Il 31 ottobre 2008, Francois Houtart aveva presentato una relazione sulla crisi – «Le monde a besoin d’alternatives et pas seulement de régulations» – davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Paolo Moiola




«Partendo dal piccolo, partendo da noi»

Antonio Feandes

Icoroasí (Belém). Portoghese, missionario della Consolata, Antonio Manuel de Jesus Feandes è il responsabile dell’istituto per l’America Latina. Ai Forum di Belém è riuscito a portare un folto gruppo di persone: missionari, missionarie, ma anche laici, giornalisti ed operatori televisivi.  

Padre Antonio, brevemente una sua opinione sui forum, che si sono svolti nella città amazzonica.
«Già il fatto che le persone si radunino per scambiarsi opinioni e per condividere esperienze, è una cosa molto positiva. Abbiamo bisogno di scambio. Anche le piccole esperienze sono grandi, perché fanno processo. In secondo luogo, è confortante il fatto di sapere che non siamo soli al mondo a voler costruire qualcosa di diverso, che non siamo gli unici matti che la pensano così. Il terzo punto che voglio sottolineare è che ci sono esperienze molto valide dal punto di vista ideologico, del pensiero e sociale da parte dei popoli indigeni. Nel piccolo, nella chiesa e in tutti gli ambiti si può costruire e si può cambiare».

Incontro, scambio di idee… tutto bene. Ma, dal punto di vista pratico, come piccole comunità indigene, movimenti alternativi, Ong possono intervenire per cambiare la direzione del mondo. Se questa direzione va cambiata.
«Certo, questa è una utopia. Ma sono cose in cui non dobbiamo mai smettere di credere. Considerando la mia esperienza, credo che nel piccolo è possibile cambiare. Io ho l’esperienza con il popolo indigeno e ho visto che si può cambiare, magari non dal punto di vista teologico, ma si può cambiare. Per riassumere, non si può aspettare che cambino le strutture…».

Per «piccolo» intende anche la singola persona?
«Sì, il singolo è al primo posto. Al secondo, ci sono le piccole comunità, dalla famiglia al condominio, dal sindacato agli organismi religiosi, dai partiti politici alle Ong. Tutti devono essere coinvolti, per fare una rete tra piccolo e grande negli spazi in cui una persona vive e lavora ogni giorno. Poi c’è l’ambito internazionale, importantissimo, per la costruzione di ambiti collettivi e alternativi. Questo per me è un terzo passo da fare. Però se non si fa il primo, tutti gli altri non hanno senso. La casa si comincia a costruire dalle fondamenta: la chiesa, le Ong sono il tetto visibile, ma le fondamenta cominciano dalla singola persona, cominciano da te».

Gli indios sono stati i grandi protagonisti di questo Forum svoltosi quasi in casa loro, considerando che Belém è una città amazzonica. Secondo lei, la loro presenza è stata qualificante o è mancato qualcosa?
«Io credo che manchi sempre qualcosa. Per esempio, una cosa che manca sempre agli indigeni è di vederli nella loro interezza. Noi li vediamo o dal punto di vista folclorico o nella lotta per la conquista della terra, dimenticando tutta la loro parte spirituale, la parte di organizzazione comunitaria, i loro legami. Gli indios non possono essere visti in aspetti frammentati. Anche nel forum non siamo riusciti a cogliere la loro ricchezza e complessità, evidenziando sempre singoli aspetti. Perdendo l’identità complessiva dell’indigeno, con la sua religiosità e spiritualità».

Lei ha lavorato per anni in Brasile. Come lo ha trovato?
«Ho trovato solo una parte del Brasile, Belém».

Obiezione giusta. Questo non è un paese, ma un continente. Però lei ha vissuto qui e può fare una comparazione con gli anni precedenti, quando alla guida non c’era un presidente come Lula.
«Dal punto di vista degli occhi, fa sempre bene guardare il Brasile: c’è la natura, c’è l’Amazzonia, ci sono le bellezze fisiche delle donne, c’è molto con cui appagare la vista. Ma, a parte questo giudizio estetico, a me è sembrato che il popolo brasiliano dal punto di vista politico non sia cresciuto. Il governo Lula non ha aiutato la gente. Credo che questo benessere apparente che sembra ci sia nel paese, non ha portato la gente a crescere».

La sua è una critica severa. Possiamo tradurre con «troppo assistenzialismo e patealismo»?
«Credo di sì. Penso che continua a vivere  con questo enorme problema. La coscienza politica delle comunità di base è svanita. Lo vedo in molte cose come, ad esempio, per quanto riguarda l’ecologia.
Una città come Belém doveva essere molto più pulita con tutta questa natura. In generale, c’è poca coscienza ecologica e gli stessi partiti politici hanno perso coscienza civile».

Lei è un uomo di chiesa. Come vede la sua istituzione ovvero, fuor di metafora, «un’altra chiesa è possibile»?
«Lo ha detto anche Evo Morales, no?».

Morales ha detto «possibile», ma anche «necessaria», avendo in mente la situazione della sua Bolivia, dove la chiesa ufficiale non lo ha mai appoggiato molto…
«La chiesa dovrebbe essere più vicina alla gente. Le nostre strutture di governo, oggi, non si avvicinano o non vogliono avvicinarsi ai problemi reali delle persone. Abbiamo delle belle teorie, ma nella pratica forse non ci crediamo o non abbiamo le possibilità, anche perché la struttura della chiesa è molto chiusa. Ad esempio, dovrebbero avere il loro spazio le donne, le donne indigene, il popolo della città, come quello della campagna. Questo vale non soltanto per i vertici, ma anche per la base della chiesa: non siamo abbastanza attenti alla realtà, alle sofferenze per andare in Vaticano a reclamare più attenzione per le diversità».

Guardare di più alle diversità quindi…
«Sì, quanto più la chiesa è diversa tanto più si avvicina alle persone».

In base a questa sua ultima risposta, un commento sul Forum teologico e della liberazione, che si è svolto prima del Forum sociale.
«Il Forum teologico e della liberazione è sempre uno spazio importante, perché ci apre al confronto. Però, manca sempre la teologia fatta dalle basi. Mancano le persone che fanno teologia. Manca il coinvolgimento di tutta la gente, della città e della campagna. Credo che dare spazio a queste realtà sia fondamentale. In un forum teologico c’è bisogno di ampliare gli spazi di rappresentanza».

Quindi, per riassumere: meno Boff e meno professori universitari e più gente comune?
«Boff certamente, ma anche teologie che si applicano quotidianamente tra la gente semplice, che è necessario ascoltare».

di Paolo Moiola

Paolo Moiola




LA FORZA DELL’ENTUSIASMO

Ignacio Ramonet

Belém, 29 gennaio 2009. Gioalista di fama mondiale, tra i fondatori del mensile internazionale Le Monde Diplomatique, amato-odiato per le sue idee progressiste, Ignacio Ramonet è stato fin dall’inizio un sostenitore del Forum social mundial. Lo avviciniamo a conclusione dell’incontro pubblico tra Evo Morales, Feando Lugo, Rafael Correa e Hugo Chávez.  

Inacio Ramonet, oggi si sono incontrati 4 presidenti latinoamericani diversi da tutti gli altri. Che significa?
«Questa è una data fondamentale nella storia del Forum. Qui comincia una nuova tappa. Fino ad oggi il Forum aveva avuto una certa reticenza verso la partecipazione dei dirigenti politici. Prima aveva partecipato solamente Chávez, però a lato della manifestazione. E Lula, nella stessa maniera. Oggi però, invitati dalle organizzazioni sociali, sono intervenuti quattro presidenti latinoamericani, che hanno risposto alle domande dei movimenti. Questo dialogo è molto importante, perché i presidenti hanno riconosciuto il debito intellettuale nei confronti del Forum. Hanno ammesso di aver appreso e di essere tornati nei loro paesi con le idee assorbite qui. Se il Forum non ha oggi l’importanza che aveva nel 2001, possiamo però dire che esso si prolunga quotidianamente in Venezuela, in Ecuador, in Bolivia, in Paraguay, in Brasile. In tutti questi paesi i movimenti sociali oggi sanno come relazionarsi con i governi che stanno trasformando le società».

In Europa, i media più importanti hanno parlato più di Davos che di Belém…
«In verità, io ho osservato che una parte della grande stampa europea (certamente non la stampa italiana, vedere articolo a lato, ndr) ha parlato più di Belém che di Davos. E ha detto due cose. In Belém esiste entusiasmo, dialogo e la convinzione che da qui possono nascere idee per affrontare la crisi. Inoltre, per la prima volta in Davos esiste un pessimismo che non era mai esistito prima. Senza contare che nella città svizzera sono andati soltanto due presidenti latinoamericani – il messicano Felipe Calderón e il colombiano Alvaro Uribe – contro i cinque che sono venuti a Belém. Comunque, a causa della crisi è normale che in Europa si parli di Davos. La differenza è che qui si stanno proponendo soluzioni, mentre nel Forum economico c’è la consapevolezza che qualcosa non ha funzionato nel proprio sistema.  
Altra osservazione: a Davos non è andato alcun rappresentante dell’aministrazione statunitense. Per la prima volta nella storia. Insomma, non è da Davos che usciranno soluzioni per questa crisi».  

di Paolo Moiola

(L’audio di questa intervista è disponibile sul sito)

Paolo Moiola