EMI 1: Missione di carta L’editrice Missionaria Italiana compie 40 anni

Questo dossier, oltre a ricordarci la storia della Emi, ci presenta uno
spaccato del mondo missionario in Italia – che la Emi stessa ha contribuito a
formare -, sui rapporti di tale mondo con la cultura, e ci porta la voce di uno
degli autori più popolari della Emi degli ultimi anni, Francesco Gesualdi.

40 ANNI BEN PORTATI

Unica nel panorama mondiale, la Emi, Editrice
missionaria italiana, nasce dall’intuizione e dalla caparbietà di alcuni
religiosi di quattro istituti missionari agli inizi degli anni ‘70. L’unione di
quattro case editrici è una sperimentazione che si rivela vincente.

L’editrice mette su carta storie missionarie, ma anche
diritti umani, idee innovative, nuovi stili di vita per un mondo più giusto,
equo ed eco compatibile. Senza trascurare i titoli di geopolitica riguardanti
paesi più o meno sconosciuti del mondo e crisi inteazionali. E tutto con un
angolo visuale molto particolare, dettato anche da una conoscenza approfondita
del terreno e delle problematiche.

La Emi diventa ben presto strumento di comunicazione e
di produzione di «cultura missionaria» in Italia. E non solo di cultura
missionaria, in quanto molto importante è il sodalizio con associazioni e
movimenti della società civile italiana, che trovano nella Emi un valido
alleato.

La Emi resiste alle crisi, e oggi
compie 40 anni di attività.

Per questo motivo, insieme alle
riviste «Mondo e Missione», «Missione Oggi» e «Nigrizia», «Missioni Consolata»
ha deciso di dedicare all’evento un piccolo spazio di riflessione. Nasce così
questo dossier, che oltre a ricordarci la storia della Emi, ci presenta uno
spaccato del mondo missionario in Italia – che la Emi stessa ha contribuito a
formare -, sui rapporti di tale mondo con la cultura, e ci porta la voce di uno
degli autori più popolari della Emi degli ultimi anni, Francesco Gesualdi.

Terminiamo con un augurio di altri 40 anni sempre sulla «cresta
dell’onda».

Marco Bello

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Marco Bello




EMI 2: Pagine “missionarie”

1973 – 2013: storia di una
piccola-grande casa editrice

Era il 1973. All’inizio furono in
quattro. Oggi gli istituti missionari che sostengono la Emi sono 15. Grazie ad
alcune intuizioni precise, la casa editrice seppe riempire uno spazio culturale
prima vuoto. L’attuale crisi dell’editoria la scuote, ma l’Emi sa rinnovarsi.
Parlano i testimoni di ieri e di oggi.

Ha fatto conoscere al pubblico i
volti dei grandi protagonisti della chiesa, del mondo missionario, delle
religioni. Ha anticipato l’attenzione di massa su temi caldi come la giustizia
e la pace, la salvaguardia del creato, i nuovi stili di vita, il dialogo tra le
fedi. Di più: negli scritti dei pionieri e anticipatori della sua avventura,
per prima diede voce ai popoli di quello che allora veniva chiamato «il terzo
mondo», e riuscì a focalizzare i riflettori mediatici su di esso, sulle sue
emergenze – la fame, l’anelito all’indipendenza – e soprattutto sulle sue
ricchezze, a cominciare dalla rivendicazione del proprio protagonismo. L’Emi, Editrice missionaria italiana, ne ha fatta di strada negli
ultimi quarant’anni.

L’unione fa la forza

Ad aprile questa vitale espressione
degli istituti ad gentes italiani festeggerà l’anniversario di
quell’esperimento che – era il 1973 – vide in prima fila Comboniani, Missionari
della Consolata, Pime e Saveriani.

L’idea era ridare slancio a una
proposta culturale avviata negli anni Cinquanta da alcuni membri dei quattro
istituti, le cui case editrici avevano cominciato a curare insieme una collana
di teologia della missione e una per la conoscenza dei popoli. «In quegli anni
si viveva un entusiasmo missionario oggi inimmaginabile», ricorda padre Piero
Gheddo, del Pime, tra i promotori di quella primissima iniziativa insieme al
saveriano Walter Gardini. «In quel clima, favorito da tre encicliche, la Evangelii
praeconese,
la Fideidonum di Pio XII e la Princeps pastorum
di Giovanni XXIII, nacquero anche la Federazione della stampa missionaria
italiana (Fesmi), i primi congressi del laicato missionario italiano, l’équipe
di visitatori missionari dei seminari italiani – continua padre Gheddo – e,
ancora, assistemmo alla partenza dei primi sacerdoti fidei donum, nel
1957, o alla nascita delle “Settimane di studi missionari” dell’università
Cattolica, nel 1960».

A metà degli anni Sessanta,
tuttavia, le pubblicazioni unitarie degli istituti missionari cominciarono, per
varie ragioni, a languire. L’entusiasmo originario si era affievolito, forse
anche per la sensazione di un diminuito interesse del pubblico. Fu allora che
entrò in gioco un giovane comboniano, padre Ottavio Raimondo, che nel ’67 era
stato assegnato dai suoi superiori alla casa editrice Nigrizia.

Padre Raimondo riuscì a vincere lo
scetticismo degli altri missionari coinvolti nell’edizione delle due collane
comuni, per fare un tentativo nuovo: «Nel 1973 i quattro istituti maschili
decisero di congelare per quattro anni le rispettive editrici, per farle
confluire tutte nell’Emi, senza però che ancora avesse una personalità
giuridica», racconta padre Ottavio, che sarebbe poi diventato il direttore «storico»
dell’editrice missionaria, guidandola per 21 anni.

«Ci dicemmo: “Vediamo se funziona,
altrimenti toeremo ognuno alle nostre attività”». Invece, indietro non si
toò più. I primi anni di attività diedero subito frutti positivi, e il 17
novembre 1977 nacque la cornoperativa Sermis (Servizio missionario), con lo scopo
di dare autonomia giuridica all’Emi, la cui sede fu fissata a Bologna, e tenere
aperta la porta ad altre iniziative in campo culturale (come sarebbe successo
nel 1997, con la nascita dell’agenzia di stampa Misna).

Ben presto, ai quattro soci
fondatori si aggiunsero altri istituti, maschili e femminili, fino a
raggiungere il numero attuale di quindici: Società Delle Missioni Africane, Missionarie
di Nostra Signora degli Apostoli, Missionarie Comboniane, Padri Bianchi
(Missionari d’Africa), Verbiti, Missionarie della Consolata, segretariato
unitario per le missioni dei Cappuccini, Missionarie Secolari Comboniane, Comunità
Redemptorhominis, Missionarie dell’Immacolata e Saveriane.

Le intuizioni

«Le nostre intuizioni più
importanti, in origine, furono due», spiega padre Ottavio facendo un bilancio
di questi decenni. «Da una parte, gli istituti si resero conto che per incidere
nella realtà italiana, portando sul territorio l’idea della missione, dell’alterità, della diversità, era necessario unirsi,
sia per ottimizzare le energie sia per ovviare a una certa auto referenzialità
di ognuno. Dall’altra, l’Emi diede spazio alle voci delle giovani chiese del Sud del mondo, di cui, negli anni del
dopo Concilio, si sentiva il bisogno di conoscere la grande vitalità e
ricchezza.

Traducevamo i documenti delle
Conferenze episcopali. Ricordo che pubblicammo gli atti della Conferenza
dell’Episcopato latinoamericano di Puebla, nel ’79, prima ancora che uscissero
localmente!».

Negli anni seguenti, secondo padre
Ottavio, furono altre due le intuizioni che fecero dell’editrice dei missionari
una ricchezza per l’intera società italiana: «Si tratta della dimensione dell’interculturalità, che approfondimmo dagli anni
Ottanta, soprattutto grazie all’impulso del Centro saveriano di animazione
missionaria
e del suo Centro di educazione alla mondialità, e del
tema dei nuovi stili di
vita, che
sviluppammo negli anni Novanta, in particolare con l’apporto del Centro
nuovo modello di sviluppo
, cornordinato da Francesco Gesualdi (vedi articolo)».

Quando padre Ottavio riprese la
guida dell’Emi al rientro dalla lunga parentesi missionaria in Messico, dal ‘79
al ’93, era stata data alle stampe la prima edizione della «Guida al consumo
critico», destinata a diventare un bestseller da 200 mila copie. Fu
quello il periodo in cui l’Emi divenne catalizzatrice di un’attenzione che
cominciava a esprimersi in alcuni settori della società su temi appunto come
stili di vita alternativi al modello consumistico, finanza etica, problematiche
ecologiche: un’attenzione che solo più tardi sarebbe stata fatta propria anche
dai grandi editori.

Molti dei titoli di questo filone,
con il loro successo di vendite, aprirono all’editrice missionaria anche le
porte delle grandi librerie laiche e dei circuiti legati alle manifestazioni
dell’associazionismo, alle fiere, alle botteghe del mondo.

Un altro fronte che portò ottimi
risultati fu quello dei libri di testo per l’insegnamento della religione
cattolica. Il trend positivo continuò fino alla metà degli anni Duemila.
Ma lo spettro della crisi economica cominciava ad aleggiare.

Arriva la crisi

«Arrivai alla direzione dell’Emi in
un momento di passaggio non solo della nostra struttura, bensì globale»,
racconta padre Giovanni Munari, comboniano, che dopo trent’anni di missione in
Brasile prese le redini della casa editrice nel 2008. «La crisi ebbe degli
effetti pesanti su di noi, in modo diretto ma anche indiretto, visto che negli
ultimi anni avevamo lavorato molto con il mondo dell’associazionismo e vari
temi al centro dei nuovi titoli erano espressione della riflessione e delle
proposte provenienti proprio da quel mondo». Linfa di cui, negli ultimissimi
anni, i problemi economici hanno bruscamente interrotto il flusso.

«Ci siamo resi conto così che dovevamo
cercare di ritagliarci uno spazio nel mercato editoriale, che oggi è fortemente
competitivo, attraverso una serie di riforme, dagli aspetti grafici a quelli
contenutistici fino alla fisionomia delle collane», continua Munari. Una sfida
affrontata con successo, se è vero che la neo – quarantenne editrice è riuscita
a sopravvivere all’emergenza senza aiuti estei e continua ad aggiungere tra i
50 e i 60 libri ogni anno al suo catalogo, che oggi comprende oltre ottocento
titoli (dai volumi per l’infanzia alla recente collana di narrazioni).

Ora, però, è necessario guardare
avanti. Ma nell’attuale panorama editoriale e mediatico può esserci ancora
spazio per un’editrice missionaria? Il nuovo direttore dell’Emi Lorenzo
Fazzini, primo laico a occupare questo posto, è convinto di sì. «La narrazione
della missione, le tematiche dei nuovi stili di vita, il lavoro costante
sull’educazione, la prospettiva interculturale e interreligiosa sulle grandi
questioni contemporanee sono le peculiarità dell’Emi che si rafforzano oggi,
nell’epoca in cui la globalizzazione è un dato accertato, che non va subìto
passivamente, soprattutto dal punto di vista culturale e tanto più ecclesiale»,
afferma Fazzini. Certo serve «un surplus di fantasia, innovazione,
creatività, nella convinzione che la prospettiva missionaria, che tiene conto
del punto di vista dell’altro, che è costantemente in dialogo, che vive alla
frontiera dell’annuncio cristiano, è un arricchimento ineguagliabile per la
Chiesa ma anche per la società stessa».

La sfida è «rintracciare nuove
strade e intuire i luoghi della cultura di frontiera e di fecondità
significativa per l’annuncio missionario». Per farlo, l’intenzione è tornare a
puntare l’obiettivo sulla ricchezza – in termini di nuove prospettive di
indagine, riflessione e azione – che può venire dai paesi di missione. Fazzini
cita, tra l’altro, un personaggio come l’ex primo cittadino di Bogotà Ananas
Mockus, «esempio virtuoso di “anti politica” e di un civismo amministrativo
tutto da scoprire», la cui storia è raccontata dal volume di Sandro Bozzolo, «Un
sindaco fuori del comune», ma anche il neo cardinale di Manila Luis Antonio
Tagle, di cui Emi sta per pubblicare il primo libro in italiano, «Gente di
Pasqua». «Personalità e questioni “periferiche”, se affrontate con qualità,
possono diventare vincenti in quanto esemplificative di una cultura non
omologata». La missione, insomma, ha ancora pagine da scrivere.

Chiara Zappa

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Chiara Zappa




EMI 3: L’Immagine del Missionario

Tre intellettuali «leggono» la missione in italia
Una società che cambia. Un ruolo e un’immagine quelli
dei missionari, che attraversano i secoli. Ma cosa sono oggi i missionari
nell’immaginario collettivo italiano? Lo abbiamo chiesto a personaggi «non
sospetti».

Come sta cambiando, nel nostro paese, l’immagine dei
missionari e della missione? Vale a dire: a mezzo secolo dal documento
conciliare Ad gentes e dalla definitiva decolonizzazione, a oltre venti
dalla fine dell’utopia comunista e oltre dieci dall’11 settembre 2001, nel
contesto di un mondo in fuga (T. Giddens) e sempre più globalizzato. E mentre
la storia sembra al di fuori del nostro controllo, e noi non sappiamo dove
stiamo andando.

Le prime grandi missioni delle chiese cristiane fuori
dall’Europa – dopo la stagione pionieristica del primo millennio d.C. – erano
intrecciate al colonialismo, dal sedicesimo al ventesimo secolo: spagnoli e
portoghesi portavano con sé i loro frati mendicanti, così come olandesi e
inglesi i loro missionari protestanti.

I missionari potevano, di volta in volta, sostenere o
criticare i conquistatori, ma avevano in comune il senso di dove la storia si
stava dirigendo: verso il dominio occidentale del mondo. Verso la civiltà
cristiana. Un dato che, in ogni caso e al di là della buona fede dei singoli,
determinò il panorama della scena missionaria.

Nella seconda metà del secolo scorso, la missione si è
venuta a trovare in un nuovo contesto: il conflitto tra i due blocchi di
potenze, quello orientale e quello occidentale, tra il comunismo e il
capitalismo. Alcuni missionari possono aver pregato per il trionfo del
proletariato e altri per la sconfitta del comunismo ateo, ma tale conflitto
rappresentava il palcoscenico inevitabile dell’opera missionaria.

Ora, i missionari non vengono più
mandati per nave verso paesi sconosciuti e, quasi ovunque, non sono più lontani
che un giorno di viaggio. In un quadro così frastagliato, quanto e com’è mutato
l’immaginario collettivo sul missionario e la missione in Italia (un paese che
sta vivendo la stagione di passaggio dalla religione unica degli italiani
all’Italia delle religioni)? Abbiamo cercato di capirlo interrogando alcune
personalità illustri della cultura laica nazionale: Salvatore Natoli, Annamaria
Rivera e Giuliano Vigini.

L’esperto e il filosofo

Per Giuliano Vigini, uno dei nomi più noti
dell’editoria, dalla vasta attività critica e bibliografica, l’impegno
missionario di religiosi e laici che operano in Italia ha un duplice effetto: «Da
un lato, quello di essere sempre uniti, in una tensione costante di fede e
carità, a tutti coloro che in tanti paesi offrono la loro vita per la
predicazione e la testimonianza al vangelo: orizzonte e paradigma di ogni
attività ecclesiale, come ha ribadito anche di recente Benedetto XVI». In tal
senso, «tutti coloro che, con la preghiera, il sostegno economico e l’impegno
diretto, cornoperano alla missione e insieme contribuiscono in Italia alla
formazione di una coscienza missionaria, sono come dei costruttori di ponti che
collegano e avvicinano mondi lontani, facendoli sentire parte integrante della
vocazione e della vita della Chiesa».

Dall’altro lato, si tratta di «essere attivamente
impegnati in questa terra di missione che – come tanti altri paesi di antiche
radici cristiane – è diventata l’Italia, anch’essa dunque da rievangelizzare
per essere restituita alla fede viva del vangelo». Peraltro, «in questa società
sempre più crocevia di fedi, lingue e culture, il missionario è chiamato anche
a nuovi compiti: l’ascolto e il dialogo religioso e interculturale, la
partecipazione ai problemi e alle sofferenze della gente, la solidarietà sempre
più generosa verso i più poveri, antichi e nuovi».

A parere di Salvatore Natoli, docente di filosofia
teoretica presso l’Università di Milano Bicocca, un pensatore dichiaratamente
laico eppure aperto al confronto con le istanze cristiane, per cogliere
l’immagine del missionario occorre evidenziare due aspetti, complessivamente in
sintonia con quanto sostiene Vigini: «Prima di tutto, visto il sempre più
profondo processo di secolarizzazione, egli è colui che s’impegna per la nuova
evangelizzazione, dato che viviamo ormai in una terra pagana. In secondo luogo,
il missionario è poi colui che si propone di fornire delle risposte sensate ai
nuovi bisogni, cercando di porre un freno alla dilagante miseria, di carattere morale
e materiale, impegnandosi dunque in un’opera di misericordia morale o corporale».

Riguardo all’interrogativo su quale immagine dei
missionari abbiano i nostri connazionali, Vigini ammette che, non conoscendo
indagini o sondaggi in tal senso, gli è possibile semplicemente esprimere una
sensazione personale: «Gli italiani, orientati in questo senso anche da tante
trasmissioni e immagini televisive, vedono prevalentemente il missionario
impegnato in attività filantropiche e sociali. Costruiscono case, ospedali,
scuole; si curano della miseria, delle malattie e delle necessità di tante
persone che, senza la loro presenza e il loro lavoro, sarebbero abbandonate a
se stesse. Per questo loro impegno, i missionari sono certamente apprezzati e
aiutati dagli italiani». Tuttavia, egli conclude che «tutto questo rischia di
mettere un po’ in ombra, nell’opinione corrente, l’obiettivo religioso primario
della loro vocazione».

Secondo Natoli, presso gli italiani la figura del
missionario – non dandosi oggi, in realtà, una riflessione significativa al
riguardo – risulta molto più sfumata, rispetto al passato: «Peraltro, ho
l’impressione che si conceda loro una larga fiducia, particolarmente sotto il
profilo di esercitare un’assistenza alle popolazioni coinvolte». Per questo,
alla fine, il loro giudizio pare a Natoli comunque positivo.

Infine, ma non da ultimo per importanza, è lecito
domandarsi quanto l’azione dei missionari in vari ambiti (lotta alla fame nel
mondo, nuovi stili di vita, beni comuni, mondialità, dialogo interreligioso,
lotta al razzismo…), raccontati anche attraverso la Emi, sia servita per
diffondere sia tali temi sia la loro voce in Italia. Secondo Vigini, è
innegabile che tale azione sia servita, e non poco: «Quanto i missionari fanno
in molti campi è servito in particolare a radicare negli italiani due
convincimenti: che pochi come loro si spendono per il bene degli altri e che ci
si può fidare di loro, perché sono testimoni credibili». Mentre «sarebbe anche
importante far capire la radice e lo spirito del servizio che i missionari
svolgono per il bene della chiesa e dell’uomo».

Più articolata la riflessione di Natoli in proposito: «Il
missionario ci permette di fare un’opera di transfert: piuttosto di
impegnarmi in prima persona in un cambiamento individuale, è più semplice fare
l’offerta al missionario, cosa che ci fornisce sollievo pur non producendo una
trasformazione interiore». Alla fine, il rischio è di procurarsi un alibi,
perché «monetizzare la carità è facile, in quanto ci evita di entrare in
contatto diretto con la sofferenza».

L’antropologa

Intriganti sono poi le considerazioni di Annamaria
Rivera, antropologa, saggista, scrittrice, docente di etnologia e di
antropologia sociale presso l’Università di Bari, editorialista per i quotidiani
Il Manifesto e Liberazione, che, interrogata in merito, afferma: «Fino
ad alcuni anni fa i missionari erano per me principalmente quelli di cui si
parla nella letteratura antropologica. Ciò che sapevo di loro riguardava,
dunque, lo straordinario contributo alla conoscenza delle lingue locali, il
patrimonio d’informazioni e conoscenze sulle più varie popolazioni e culture
esotiche, accumulato nel corso dei secoli, la redazione delle prime monografie
etnografiche, quindi il contributo implicito alla nascita dell’antropologia: la
disciplina che ho insegnato per alcuni decenni nell’università e che pratico
nel lavoro di ricerca.

Sapevo anche del loro rapporto complesso con
l’espansione coloniale: dapprima strenui oppositori del sistema schiavistico e
appassionati difensori dei diritti delle popolazioni indigene, poi – in epoca
contemporanea, quando si generalizzarono i movimenti per l’indipendenza dei
popoli colonizzati compromessi talvolta con il colonialismo. E tuttavia la loro
vocazione universalista, mutuata dal cristianesimo, il più delle volte li mise
al riparo dai miti nazionalisti e dalle loro conseguenze nefaste».

Nel 2006, ad Annamaria capita di trovarsi a tenere una
conferenza durante un convegno organizzato da un mensile missionario, sia pure sui
generis
: «Dei missionari avevo dunque un’esperienza per lo più indiretta e
libresca nonché scarsamente aggiornata al tempo presente. Finché fui invitata
come relatrice in uno dei convegni del Cem Mondialità, a Viterbo. Fu
un’esperienza inaspettata ed entusiasmante poiché vi trovai molto di ciò che
credevo irrevocabilmente perduto con la fine degli anni ’70 e del quale
conservavo acuto rimpianto: la capacità di rendersi comunità – almeno per
alcuni giorni – condividendo convivialità e calore umano, ma anche competenza,
spirito critico, non conformismo, insieme con il senso della ricerca e
dell’impegno, dell’ironia e del gioco. Vi trovai soprattutto un’attitudine che
sembra ormai perduta nella nostra società (intendo dire nei più vari ambienti
professionali, sociali e politici dell’Italia dei nostri giorni): l’interesse
verso l’altro/a e la tendenza a valorizzarlo/a e a valorizzarsi reciprocamente.

Fu in quella occasione che conobbi un saveriano, padre
Domenico Milani. Ne fui colpita: il gran vecchio, sagace e dolce, con un gran
senso dell’umorismo, sapeva raccontare in un modo che non poteva essere più
accattivante. Narrava dei suoi incontri con donne e uomini africani,
soprattutto congolesi, con una leggerezza pari alla drammaticità della loro
condizione. Più tardi, prendendo a pretesto una visita alla preziosa collezione
etnografica conservata nel rifugio silenzioso e solenne dei saveriani di Parma,
riuscii a incontrarlo e a salutarlo per l’ultima volta».

Gli hippies della missione

Non fu, quello, peraltro, l’unico suo rapporto con il
mondo missionario: «In seguito ho avuto altre occasioni per partecipare alle
iniziative ispirate dai saveriani: un articolo per Missione oggi e
ancora altri appuntamenti di Cem Mondialità. Fino al più recente, il 17
marzo 2012, dedicato ai Nuovi spazi dell’intercultura, quando fui
invitata a parlare delle nuove forme di razzismo in Italia e dei possibili modi
per contrastarlo e superarlo, fra i quali le pratiche interculturali. Come
sempre, il convegno fu arricchito da momenti conviviali e da una performance
teatrale interattiva. Anche quest’ultima all’insegna dell’imprevedibile, del
non convenzionale, perfino dello spiazzante.

Fu mia figlia, che avevo coinvolto nella performance, a
offrirmi una chiave possibile per definire quello stile – al tempo stesso laico
e spirituale, impegnato e lieve, inteazionalista e comunitario – di leggere e
vivere la realtà. Con una battuta ironica e folgorante: “Sono dei veri hippie
e non hanno bisogno di droghe!”». Fino a concludere: «A pensarci bene, in fondo
quella di mia figlia non era solo una boutade. A caratterizzare il
movimento hippie, infatti, furono il pacifismo integrale, il senso
comunitario, l’esaltazione dell’amore e della fratellanza, l’ideologia mite e
non dottrinaria, la matrice spirituale attinta al pensiero di Gesù Cristo,
Buddha, Francesco d’Assisi, Gandhi…; nonché la controcultura che privilegiava
la performance, il teatro di strada, la musica popolare».

Ecco. Senza pretese di esaustività, ovviamente, qualche
idea in più ce la siamo fatta. Anche se il mosaico è lungi dall’esser esaurito,
e le sfaccettature della figura del missionario di oggi, sospeso tra una società
di fatto postcristiana e un Dio che sta cambiando indirizzo, posizionandosi
sempre più spesso a Sud dell’Equatore, sono – ammettiamolo – ben difficili da
afferrare pienamente.

Brunetto Salvarani

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Brunetto Salvarani




EMI 4: Consumo, da critico a responsabile

Incontro con Francesco Gesualdi
Parla il
curatore del best seller della Emi, la
Guida al consumo critico
. Realizzata la prima volta nel 1996 dal Centro
nuovo modello di sviluppo, riscuote subito un grande successo. Arriva alla
sesta edizione in dodici anni. Ma che attualità c’è nel suo messaggio?

«Ci chiamiamo Centro nuovo
modello di sviluppo
(Cnms), ma siamo tre famiglie. Viviamo insieme da venti
anni, ma non siamo una comunità. Naturalmente crediamo nel valore della vita in
comune, ma non siamo pronti per questa scelta. Del resto, quando siamo partiti,
alla fine degli anni ’70, eravamo animati essenzialmente da ragioni di
efficacia sociale e politica». È questo l’incipit della presentazione
del noto Centro di Vecchiano, in provincia di Pisa. Il Cnms cornordinato da
Francesco Gesualdi, uno dei fondatori, ha iniziato le sue attività nel 1985 ed è,
negli anni, diventato una voce autorevole, riconosciuta per la sua serietà e
l’accuratezza delle informazioni.

Da subito il gruppo è cosciente
della «necessità della politica per rimuovere le cause profonde che generano
disagio ed emarginazione». Poi l’intuizione che caratterizzerà il lavoro del
Centro: «Così abbiamo capito l’importanza strategica del consumo e abbiamo
cominciato a chiederci come potevamo trasformarlo da strumento di complicità
con gli oppressori a strumento di liberazione per gli oppressi». Nasce il
concetto di «consumo critico».

Il Centro e la Emi

Dopo i primi anni di studio
iniziano le pubblicazioni del Centro, che hanno larga diffusione tra i
movimenti della società civile e ambientalisti. In questa fase il sodalizio con
la Emi è fondamentale.

Molti sono i titoli. Tra i più
famosi: Nord-Sud: predatori, predati e opportunisti (1997), Geografia
del supermercato mondiale
(1997), Lettera ad un consumatore del Nord
(1998) e tanti altri.

Ma il cavallo di battaglia del
Centro è senza dubbio la Guida al consumo critico, un compendio unico di
istruzioni pratiche e indicazioni per consumare criticamente e in modo equo. La
prima edizione è pubblicata dalla Emi nel 1996, per arrivare alla sesta nel
2011.

«Bisogna passare dal consumo
critico al consumo responsabile dove la sobrietà fa da sfondo a ogni scelta».
Si legge nella presentazione dell’ultima edizione.

Il concetto portante è: «La
politica si fa ogni momento della vita: al supermercato, in banca, sul posto di
lavoro, all’edicola, in cucina, nel tempo libero, quando ci si sposa.
Scegliendo cosa leggere, come, cosa e quanto consumare, da chi comprare, come
viaggiare, a chi affidare i nostri risparmi, rafforziamo un modello economico
sostenibile o di saccheggio, sosteniamo imprese responsabili o vampiresche,
contribuiamo a costruire la democrazia o a demolirla, sosteniamo un’economia
solidale e dei diritti o un’economia animalesca di sopraffazione reciproca».


Incontro con l’autore

Ci siamo intrattenuti con
Francesco Gesualdi, prolifico autore della Emi, per avere la sua visione del
momento attuale e delle prospettive per l’editoria missionaria.

La collaborazione tra il Centro e
la Emi, partita a metà degli anni ’90, si è subito rivelata vincente. Ma oggi
ci si chiede che futuro abbia l’editoria che tratta questi temi. «La piccola
editoria continua a impegnarsi per le idee innovative, quelle che si impegnano
sempre meno sono le grandi case editrici che si orientano ormai verso una
logica da supermercato: bisogna fare cassa e per questo ci dirigiamo verso gli
autori affermati, anche se perfino loro non riescono a stare sulla bancarella
per più di 15 giorni. È la novità che deve dominare e se riesco a cambiare il
prodotto invito a comprare con una maggiore frequenza. La grande editoria sta
cambiando in peggio, ha bisogno di ricambio continuo per acquisti veloci. La
piccola editoria continua a provarci, ma ha mille difficoltà, non ultima quella
di arrivare in libreria, e di non affogare in tutto ciò che si pubblica: si
parla di oltre 100 nuovi titoli al giorno in Italia.

Ogni tanto mi dico che è meglio
non pubblicare niente, altrimenti ingolfiamo l’editoria!».

Francesco Gesualdi osserva che non
è lui che può dare consigli, e continua: «Mi rendo conto che è difficile.
Sarebbero meglio pochi prodotti, ma buoni. Quindi selezionare molto bene quello
che si pubblica.

Noi come Centro continuiamo a
produrre, il nostro obiettivo non sono i soldi, ma fare circolare le idee. Le
guide al consumo critico, sono raccolte di dati che invecchiano rapidamente,
per questo sarebbe molto più agevole la via informatica che la carta stampata.
Si potrebbe aggioare con più agilità e con costi molto minori. Attualmente
non ci riusciamo, perché non abbiamo forze sufficienti».

Passiamo ad affrontare con
Gesualdi i temi «caldi» del momento.

La crisi

«La crisi che stiamo vivendo poteva
essere l’occasione per cambiare, per ridurre il peso della finanza, che sta
alla base di questa situazione. Perché è stato l’uso della finanza in maniera
totalmente avida, fino ad arrivare alle scorrettezze, a portarci fin qui.

Chi gestiva e produceva titoli
tossici, lo faceva con consapevolezza, sapeva di proporre prodotti che non
erano basati su cose sicure e chi avrebbe comprato si sarebbe poi trovato nei
guai». Ci racconta Francesco Gesualdi, che da anni si occupa di modelli
economici alternativi.

Poteva essere l’occasione buona per
mettere dei freni alla finanza, e regolamentae fortemente il ruolo. In
particolare per creare una divisione tra banche commerciali e banche di
investimento, in modo che i clienti risparmiatori normali non venissero più
messi a rischio. Porre fine alle attività rischiose delle banche e riportarle
al loro mestiere: fare credito per l’economia reale. «Si poteva impedire la
speculazione su fondi di interesse comune (i debiti sovrani) e sarebbe stata
l’occasione per mettere in discussione lo scippo della sovranità monetaria agli
stati in Europa. Questi ultimi non riescono più a giocare il ruolo sovrano
proprio di un sistema democratico perché sono in balia del mercato», continua
Gesualdi.

Negli Usa è stata varata la legge Dodd
– Frank Act
(gennaio 2010), un tentativo di mettere regole alla finanza. Ma
quando si è trattato di scrivere i regolamenti attuativi, ci sono state fortissime
pressioni affinché tutto finisse in una bolla di sapone.

«In Europa, invece, tutte le scelte
si sono fatte con l’attenzione a non pestare i piedi alle banche o agli altri
fondi della finanza. Non si è tenuto in conto l’interesse collettivo. Peggio:
ci dicono che occorre assecondare le ricette speculative dei mercati, perché
questi sono così potenti che se per caso osiamo metterci contro di loro ci
puniranno. La grande ipocrisia: farci credere che più serviamo i mercati, più
facciamo i nostri interessi, perché evitiamo il peggio. È una politica
chiaramente contro la collettività che pone tutte le premesse per andare sempre
più a fondo».

Una «conversione culturale»

Ma la crisi potrebbe anche avere
effetti positivi, come quelli di indurre la gente a consumare meno e meglio.
Secondo Gesualdi: «Questa situazione sta facendo pagare le famiglie, ma senza
che queste abbiano fatto un percorso di crescita interiore. Sarebbe positivo se
ci fosse una consapevolezza, una conversione culturale. Ma se questa è vissuta
soltanto come un’imposizione estea, una maledizione, allora c’è il rischio
che si alimenti il populismo più gretto che promette l’impossibile. Oggi invece
bisogna avere il coraggio di sfidare i mercati. Chi non lo fa (i politici, ndr)
e propone solo riduzione di tasse o si butta nel taglio delle spese dei
servizi, che quindi saranno poi pagati, ancora una volta, dalle famiglie, ci
sta prendendo in giro».

Ma il Cnms ha delle sue proposte
per contrastare i mercati?

«Primo: mettere regole che
impediscano la speculazione sul debito pubblico. Secondo: quando un popolo è in
difficoltà per diverse ragioni, non deve pagare soltanto la gente, rinunciando
ai propri diritti, ma anche i creditori, tanto più che molti di loro hanno già
lucrato sul debito pubblico. Terzo: arrivare più in là e riformare la Bce
(Banca centrale europea), facendo tornare la sovranità monetaria sotto governi
e parlamenti, affinché la moneta sia gestita per la piena occupazione e per
garantire la stabilità del sistema economico. Bisogna uscire dalla logica, su
cui è improntata oggi la Ue, per cui la moneta è gestita per permettere alle
banche di arricchirsi».

Si è visto che con un meccanismo di
decrescita i primi a rimetterci sono i lavoratori meno tutelati, che perdono il
posto di lavoro.

«Questo discorso vale se il quadro
di riferimento continua a essere questo sistema, basato sugli interessi delle
imprese e messo al loro servizio: è ovvio che i primi a rimetterci sono i più
deboli.

Non è possibile parlare di decrescita
senza mettere mano all’impostazione del sistema economico, con ristrutturazione
forte del ruolo del mercato, dell’economia pubblica e della moneta.

Occorre progettare un sistema
economico che funzioni secondo altri criteri. E non basta orientarsi verso una
vita più sobria, più eco compatibile a livello di singola famiglia. Dobbiamo
ripartire dalla domanda: qual è la funzione dell’economia? Se l’obiettivo è
vivere tutti in maniera dignitosa, sappiamo di dover rispettare una serie di
limiti che ci impongono il pianeta e gli impoveriti della terra. Loro hanno
diritto di accrescere il proprio consumo e la propria produzione, ma potranno
farlo soltanto se noi accettiamo di sottoporci a una cura dimagrante».

Lavoro ed economia pubblica

Secondo il fondatore del Cnms
occorre introdurre dei cambiamenti di carattere culturale, a partire dal
lavoro.

Si chiede: qual è la funzione del
lavoro? Se l’unica strada per soddisfare i nostri bisogni è il mercato, la
funzione del lavoro è guadagnare un salario, perché per entrare nel mercato
abbiamo bisogno di denaro. Allora dobbiamo vendere il nostro tempo.

«Per ribaltare questa logica diremo
che la funzione del lavoro non è guadagnare un salario ma garantire i nostri
bisogni. Altre possibilità si realizzano attraverso il «fai da te», ma anche la
solidarietà collettiva. Un luogo dove non si compra nulla, ma si ottiene
qualcosa grazie a un patto di solidarietà che abbiamo fatto al nostro interno»
sostiene Gesualdi.

«È il principio dell’economia
pubblica. La domanda nuova è come farla funzionare senza che essa dipenda  dalla crescita generale dell’economia.

Io dico che bisogna eliminare la
dipendenza dell’economia pubblica dal denaro, perché è questo che la tiene
legata al resto dell’economia.

Ci vuole un altro modo di concepire
la partecipazione, che non si fermi a eleggere i nostri rappresentanti nelle
istituzioni, ma si spinga fino al coinvolgimento nei servizi. Questo richiede
che ci sia una certa organizzazione, un apparato di apprendimento.

Ma il problema più serio è la
nostra chiusura mentale: noi non accettiamo che ci possa essere una dimensione
collettiva alla quale dedicare parte del nostro tempo. È così fuori dal nostro
immaginario che la viviamo come un’oppressione infinita».

Idee queste sperimentate in
piccolo, in comunità e gruppi circoscritti di persone, molto difficili da
estendere a livello paese. Dice Gesualdi: «Dobbiamo ricostituire le comunità.
Poi il livello organizzativo dipende dal tipo di servizio considerato. Ci sono
dei servizi che partono dal condominio. Ad esempio gli anziani: si può dare una
risposta a livello condominiale, se gli abitanti sono disposti a farsi carico
delle situazioni di bisogno degli anziani che vivono nel palazzo. Ci sono
alcuni che necessitano di assistenza specializzata, altri hanno bisogno che si
faccia loro la spesa, o che si tenga loro la cucina pulita.

Possiamo immaginare di risolvere il
problema degli anziani con un esercito di assistenti domiciliari pagati? Non lo
può fare neanche la ricchissima Svezia. O ci inventiamo un altro tipo di
coinvolgimento oppure andremo verso il degrado sociale più spaventoso. I
livelli organizzativi vanno adattati a quella che è la peculiarità del servizio
da garantire. Tanti servizi vanno riportati al livello micro del territorio,
compreso quello sanitario. Parlando di cura, molte malattie sono banali e si
possono curare nel piccolo centro, con pochi posti letto. Oggi questa logica
non è pensabile perché ci scontriamo con la questione dei costi: l’aspetto
monetario diventa ostacolo. Con strutture che diano servizi gratuiti, e nel
contempo godano anche di lavoro gratuito, il problema monetario non ci sarebbe
più.

Penso a migliaia di microstrutture
a livello di comunità che replicano lo stesso servizio e soddisfano quindi i
bisogni».

Marco Bello

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Marco Bello




EMI 5: La Missione fa Cultura

Come la stampa missionaria è considerata nei secoli.
Precursori degli antropologi, che ne apprezzano e
utilizzano il lavoro. I missionari fanno «cultura» sulle pagine dell’editoria
laica già a fine Ottocento. E oggi i temi missionari spesso «bucano» le vetrine
imponendosi nella grande editoria.

«Sul piano scientifico, i missionari hanno veramente
raccolto tutto ciò che valeva la pena di essere conservato». L’attestazione,
tanto insospettabile quanto autorevole, è di Claude Lévi-Strauss, «mostro sacro»
dell’antropologia, scienza sociale di studio dell’uomo sorta nell’Ottocento con
un intendimento prettamente «laico», se non laicista. Nel suo capolavoro Tristi
tropici
(1955, Il Saggiatore) Lévi-Strauss riconosce che per quegli
antropologi che si recavano (e si recano) in paesi lontani per scoprire la vera
natura dell’uomo, l’apporto dei missionari è determinante. Attestazione di
stima che però non ha trovato molto riscontro nel corso dei decenni successivi
dell’antropologia culturale.

Ma al di là di questo specifico caso controverso, è
indubbio che il rapporto tra cultura, editoria e mondo missionario è una pagina
significativa delle vicende di quanti hanno dedicato la vita all’annuncio del
vangelo «fino ai confini della terra».

Già nei tempi passati la figura del missionario restava
eloquente e comunque apprezzata in contesti culturali diversi da quelli del
perimetro ecclesiale. Ciò avveniva ad esempio nell’Ottocento, quando intorno al
missionario era sorta una specie di «aura d’avventuriero», per cui chi
affrontava fatiche e sacrifici per portare la «Buona novella» in posti e presso
popolazioni sconosciuti all’Occidente affascinava e conquistava anche quanti
con la chiesa nulla avevano a che fare. Questa «buona stampa» degli
evangelizzatori ad gentes permane anche oggigiorno, in un periodo in cui
la chiesa istituzionale (per diverse ragioni come i casi di pedofilia tra il
clero oppure i vari Vatileaks) soffre di un deficit di credibilità che
pare scuoterla quasi nelle sue fondamenta.

Da Salgari agli antropologi

Gli esempi non mancano. Uno scrittore di successo dei
decenni passati come Emilio Salgari, «uomo d’avventura mancato», secondo il suo
biografo Silvino Gonzato (autore di La tempestosa vita del capitan Salgari,
Neri Pozza), «pur non avendo nessun afflato religioso, ammirava molto i
missionari: ogni volta che i religiosi del don Mazza (il maestro di Daniele
Comboni, ndr) tornavano dalle spedizioni in Sudan, lui li intervistava
per il quotidiano per cui lavorava, L’Arena. A suo parere – prosegue
Gonzato – i missionari erano veri uomini di avventura: ne elogiava lo spirito
di sacrificio, la disponibilità ad affrontare fatiche e rischi, li considerava
dei veri e propri esploratori». Per capirlo basta leggere l’incipit del
colloquio, pubblicato nel 1885, in cui Salgari dialogava con don Luigi Bonomi,
uno dei preti mazziani rimasti prigionieri del Mahdi in Sudan: «Alto di
statura, scao alquanto, deve possedere muscoli d’acciaio ritemprati sotto i
terribili soli equatoriali. Si riconosce in lui l’uomo energico, risoluto e
forte – tre elementi indispensabili per chi sfida i pericoli, i cocenti calori
e le terribili privazioni del Continente Nero».

Se in Salgari si ritrova una laicissima e umanissima
ammirazione per l’impeto dei missionari, la storica Lucetta Scaraffia, docente
all’università La Sapienza di Roma, rintraccia invece una certa avversione
dell’ambiente accademico, almeno a cavallo tra Otto e Novecento, verso il
panorama missionario.

Scaraffia evidenzia una sorta di predisposta e
volontaria ignoranza degli antropologi di professione verso il lavoro etnologico
dei missionari: «Gli antropologi vedono nei missionari dei nemici potenziali
perché cercano di trasformare le società indigene in società cristiane,
distruggendo usi e tradizioni preziose agli occhi degli studiosi». La realtà,
evidenzia con una certa vis polemica la storica piemontese, è ben
diversa. E va a tutto vantaggio della caratura culturale degli annunciatori del
vangelo: gli eredi di Lévi-Strauss «preferiscono dimenticare che i missionari
sono venuti per primi in contatto con i popoli indigeni e che hanno imparato le
lingue dei nativi e studiato i loro costumi, tenendo diari e scrivendo
relazioni. […] Questi testi hanno costituito la base – soprattutto linguistica
– con cui poi gli antropologi hanno studiato le stesse popolazioni».

Storie di edizioni missionarie

In epoca più recente è soprattutto la presentazione dei
problemi, delle vicende, di un racconto di prima mano del Sud del mondo, ciò
che ha costituito il quid per il quale i missionari hanno trovato spesso
ascolto e riscontro nell’ambito della cultura (e dell’editoria).  A tal riguardo è poi interessante scoprire la
genesi di uno dei best seller missionari in campo editoriale (diverse
decine di migliaia di copie), Korogocho. Alla scuola dei poveri, di
padre Alex Zanotelli, edito da Feltrinelli. «Verso la fine del 2001, lavoravo a
quel tempo a Nigrizia, – afferma Pier Maria Mazzola, oggi direttore
editoriale dell’Emi -, ricevetti una telefonata direttamente da Carlo
Feltrinelli che mi disse: “Ci piacerebbe molto pubblicare un libro autobiografico
di padre Alex. Riuscite a convincerlo?”. In effetti, dal ritorno dalla sua
esperienza decennale di Korogocho, in Kenya, noi di Nigrizia
sollecitavamo Zanotelli a scrivere un libro sulla sua esperienza prima che
qualcuno lo facesse “a sua insaputa”. E quel libro funzionò davvero». Di Korogocho
uscirono diverse edizioni: il passaparola e la vendita nelle affollatissime
conferenze che padre Alex teneva in giro per l’Italia testimoniano la
significatività di una vicenda che ha raggiunto il grande pubblico.

Quell’ampia platea che ha potuto conoscere suor Eugenia
Bonetti, missionaria della Consolata, dal palco della manifestazione di Se
non ora, quando?
dedicata al riscatto sociale della donna – oggetto. Suor
Bonetti, responsabile del servizio anti tratta umana dell’Unione delle
superiori maggiori d’Italia (Usmi), è un’instancabile voce di difesa delle
donne sfruttate nel mercato del sesso delle nostre strade. Proprio in questa
veste è stata pubblicamente lodata dall’ex premier inglese Tony Blair in un editoriale
sul Corriere della sera e ha ricevuto premi e riconoscimenti.

In campo editoriale è singolare che, sebbene avesse già
scritto nel 2010 per San Paolo un libro sul problema cui si dedica da ormai
diversi anni (Spezzare le catene), già nel 2011 la laica Rizzoli chiese
a suor Bonetti (proprio all’indomani della sua partecipazione alla
manifestazione «rosa») di condensare la sua esperienza in un libro.

Un’altra missionaria, Chiara Castellani, è riuscita
negli ultimi anni a «bucare» le vetrine dei libri «laici»: questa laica
impegnata nella Repubblica del Congo, già protagonista di un lungo reportage di
Giovanni Porzio su Panorama (per la quale si dovette anche in un certo modo
difendere per essersi fatta raccontare da un mensile berlusconiano), ha raccolto
la sua vicenda in un libro ben accolto da Mondadori, Una lampadina per
Kimbau
, in cui narra le sue incredibili vicende mediche e umane illuminate
da un’incrollabile fede cristiana.

«Personalmente, quando ho avuto a che fare con editori
laici, ho trovato delle “praterie” davanti a me». Lo conferma, in maniera
significativa, padre Giulio Albanese, fondatore della Misna, autore per
Feltrinelli di Soldatini di piombo e Il mondo capovolto (Einaudi)
sul rapporto informazione – missionari: circa 10 mila copie ciascuno. «Non ho
mai trovato resistenze negli ambienti editoriali non cattolici alla
presentazione dei nostri temi, ovvero il racconto di un’umanità dolente, il Sud
del mondo, … – racconta il direttore delle riviste missionarie della Cei -. E
poi la mia sorpresa di vedere questi libri nelle grandi librerie degli
aeroporti o delle stazioni ferroviarie! Non posso contare i gruppi, università,
centri culturali anche lontanissimi dalla nostra sensibilità che mi hanno
invitato a incontri o conferenze. E non pensiamo solo ad ambienti “di sinistra”
o “progressisti”: anche i giovani di Confindustria mi hanno chiesto di
intervenire a un loro convegno proprio per avermi “scoperto” grazie a quei
libri. Spesso noi cattolici pensiamo al mondo laico come a un monolite: e invece
non è così. Ma per noi resta davvero un reale campo di missione». Di carta,
pagine e copertine, certo. Ma comunque sempre missione.

Lorenzo Fazzini 

Hanno contribuito a questo
dossier

Lorenzo Fazzini, direttore della Editrice
missionaria italiana (Emi).
Pier Maria Mazzola,direttore editoriale della
Editrice missionaria italiana (Emi).
Brunetto Salvarani,direttore di «Cem mondialità»
e della rivista «Qol»
.
Chiara Zappa,redattrice di «Mondo e
Missione».
Coordinamento editoriale: Marco Bello, redattore di MC.
Questo dossier è nato dalla
collaborazione tra le testate «Mondo e Missione», «Missione Oggi» e «Missioni
Consolata» e la Editrice missionaria italiana.
 

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Lorenzo Fazzini




FRATELLI MUSULMANI, FRATELLI DI POTERE

Le cosiddette «Primavere arabe» si sono trasformate in
«Autunni» o addirittura in «Invei» (come dimostrano le proteste egiziane di
fine 2012). I veri vincitori non sono le masse giovanili, ma i movimenti
organizzati attorno alla «Fratellanza musulmana» e ai «neosalafiti». Con alcuni
protagonisti più o meno occulti: Arabia Saudita, Qatar, Turchia, Israele e
Stati Uniti. E una serie di rivolte «non accreditate» (Bahrain, Arabia Saudita,
Yemen) né dalla comunità internazionale, né dai media.

72

Le «Primavere arabe», definizione sentimentale, e poco
realista, hanno deluso le aspettative dei loro stessi promotori, i giovani, e
si sono presto trasformate in «Autunni» o, peggio, in «Invei». Esse sono nate
dalle spontanee ribellioni di masse giovanili esasperate da corruzione,
clientelismo, dispotismi di presidenti a vita (sostenuti dall’Occidente) e di
caste arabe dure a morire: un’onda tendenzialmente sovvertitrice di un «sistema
tribale» (malattia endemica del mondo arabo), partita dalla Tunisia e con
effetto domino arrivata fino in Bahrain e Arabia Saudita. Tuttavia, prive di
un’ideologia e di una strategia politica tali da permettere loro di essere
definite «rivoluzioni» e di un sostegno economico capace di farle competere, in
campagna elettorale, con i potenti mezzi dei movimenti islamici, le «Primavere»
sono state sopraffatte da questi ultimi. In queste pagine, proveremo a
ripercorrere e interpretare i fatti e le situazioni (tutte le fonti a termine di questo articolo).

LE RIVOLTE NON SONO TUTTE EGUALI

Ogni rivolta ha dinamiche ed esiti differenti: quelle in
Tunisia ed Egitto, autentiche sollevazioni popolari di massa, non sono
paragonabili alla libica. Per questa si è infatti trattato di un golpe pilotato
dalla Nato in collaborazione con gruppi di oppositori al regime di Muammar
Gheddafi residenti all’estero, con mercenari al servizio degli Usa e jihadisti
e qaedisti al soldo dell’Arabia Saudita.

Per la Siria, con maggiori difficoltà di riuscita, almeno
finora, la strada che si sta seguendo è la stessa della Libia. Sebbene nata
come opposizione non-violenta di una parte della popolazione al lungo regime
degli Assad, la rivolta si è presto trasformata in uno scontro armato e cruento
tra l’esercito regolare governativo e un insieme di forze variegate (oppositori
locali, mercenari, jihadisti di professione assoldati da forze straniere)
pronte a tutto. Un’altra storia sono, infine, le ribellioni in Bahrain e Arabia
Saudita, volutamente dimenticate dai media, perché contro regimi «amici» e
finanziatori delle altre «Primavere», e quella nello Yemen.

DITTATORI, ISLAMOFOBIA, ALLEANZE

Proprio osservando gli sviluppi di ciascuna protesta
popolare araba, ci si sta accorgendo di come il vento del cambiamento abbia
fatto veleggiare speditamente una nave con a bordo islamisti (Fratelli
musulmani e «neosalafiti»), Stati Uniti, Israele, Qatar e Arabia Saudita. Tutti
e quattro, questi ultimi, sostenitori a vario livello del fondamentalismo
islamico, in quanto strumentale ai loro progetti di destabilizzazione e
ridefinizione del Vicino e Medio Oriente.

Sebbene l’Occidente in generale, e in particolare gli Stati
Uniti, siano stati colti di sorpresa dalle rivolte arabe, poiché non previste
in tempi così brevi, esse sono state presto utilizzate all’interno di un piano
di «Nuovo ordine del Medio Oriente».

Stiamo parlando della seconda fase del progetto iniziato a
fine anni ’90 e passato attraverso la tragedia delle Torri Gemelle e delle
guerre in Afghanistan e Iraq, e ora, appunto, attraverso il dirottamento e la
manipolazione delle «Primavere». Gli Usa non potevano, infatti, continuare a
dominare il Mediterraneo e la regione mediorientale usando solo l’arma
dell’islamofobia, come avevano fatto nel decennio precedente: l’amministrazione
Obama, definita «islamofila» dai suoi avversari repubblicani e neo-con (si
ricordi il discorso del neo-eletto presidente americano al Cairo, il 4 giugno
del 2009: reperibile su YouTube), aveva ora bisogno di cornoptare le leadership
dei movimenti islamici (dati per vincenti nelle elezioni dei vari paesi) e i
dirigenti musulmani in Europa. Incontri ufficiosi, poi divenuti ufficiali, con
la Fratellanza musulmana erano in corso già da tempo, e si sono infittiti
durante le rivolte. Per quanto riguarda, invece, le diverse organizzazioni del
neosalafismo, dalla creazione di al-Qaida (durante la guerra fredda con
l’Unione Sovietica) in poi, esse sono sempre state funzionali alle politiche
statunitensi nel mondo islamico.

Nella Libia devastata dal colpo di stato contro il dittatore
Gheddafi e dalla guerra tra bande attualmente in atto, il caos politico e la
mancanza di una leadership riconosciuta, nel bene o nel male, da tutta la
popolazione, sono le orde qaediste, cioè quell’accozzaglia di jihadisti di
mestiere, ad aver davvero guadagnato: esse sono state sdoganate e ora
scorrazzano felici (prima c’erano, ma erano meno liete, in quanto contenute e
spesso perseguitate) in varie regioni africane (si veda in Mali, come ben
spiegato nel dossier MC di novembre 2012), seminando distruzione, aggredendo
cristiani e minoranze religiose islamiche (sufi e sciiti, ad esempio) e
radicando fobie ignoranti. L’amministrazione statunitense, con i suoi tanti
think tank ed esperti, ha saputo cogliere l’onda di cambiamento delle piazze
arabe e ha scaricato i vecchi amici, i dittatori tunisino e egiziano, ormai
impresentabili e troppo compromessi, e ha stretto alleanze tattiche con la
Fratellanza musulmana e i suoi alleati/concorrenti salafiti.

In Egitto, all’inizio della rivolta, i Fratelli erano
rimasti in disparte, a osservare i giovani e le forze politiche laiche, di
sinistra e liberali, manifestare nelle piazze contro Mubarak e il suo sistema
corrotto. Solo in un momento successivo si sono uniti alla lotta popolare,
sapendo di avere le carte giuste per ascendere al potere, dopo anni di
persecuzioni.

I salafiti, invece, avevano avversato le ribellioni, in
quanto «sovvertitrici di un ordine costituito», per poi cavalcarle, come gli
altri, fino a godee i frutti politici e parlamentari.

NEOLIBERISMO IN SALSA ISLAMICA

L’Occidente neoliberista ha intravisto nei movimenti
islamisti (collocati nella «lista nera») degli alleati tattici per ridisegnare
il Mediterraneo e il Medio Oriente. Con i nuovi interlocutori c’è, infatti, una
comunanza di vedute a livello religioso fondamentalista ed economico: i
Fratelli musulmani apprezzano la dottrina economica del capitalismo
neo-liberista, rappresentando gli interessi di una potente borghesia
medio-alta, costituita da industriali, professionisti e commercianti. Infatti,
uno dei primi passi pubblici del milionario Khairat alShater, capo dell’ufficio
economico dei Fm e tra i fondatori del partito «Giustizia e Libertà» arrivato
al potere in Egitto, è stato di rassicurare Usa ed Europa sulla loro agenda
economica neo-capitalista e di libero mercato, in quanto «unico modello» per
garantire una veloce crescita del paese. Dunque, non si tratta di
rivoluzionari, come ritiene la vulgata.

Seppur nati come movimento di riforma religiosa e sociale,
molto attento ai bisogni dei ceti più deboli, che hanno sempre sostenuto
attraverso politiche di assistenza sociale radicata capillarmente sul
territorio (sia in Egitto sia in Palestina sia in altre nazioni), i Fratelli
hanno consolidato, negli ultimi decenni, la loro base politica tra la ricca
borghesia religiosa conservatrice. Distribuendo servizi fondamentali –
scolastici, assistenziali, sanitari, alimentari – e catechesi islamica, a una
massa di poveri senza speranza, hanno ottenuto negli anni un appoggio politico
ed elettorale rilevante.

CHI VUOLE LA GUERRA ALL’IRAN

La nuova fase della politica statunitense verso il mondo
musulmano non deve, però, trarre in inganno: l’alleanza tra Usa e islamismo è
solo tattica. C’è una strumentalizzazione reciproca e consapevole. I movimenti
islamisti, a partire dalle rivolte arabe, e soprattutto con le guerre in Libia
e Siria, stanno usando la forza militare occidentale (Stati Uniti, Nato,
squadroni e commando addestrati dalla Cia, ecc.) per raggiungere i loro
obiettivi di conquista del potere e rovesciamento selettivo (non tutti, cioè)
di regimi dispotici loro avversi, laddove, appunto, sanno che non ci
riuscirebbero dal «basso», con le sole rivolte di piazza, non-violente e
idealiste, o come in Marocco vincendo le elezioni (anche qui, come in Turchia,
il partito «Giustizia e Sviluppo») senza ribellioni o scontri.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, invece, l’islamofobia è
sempre in agguato, e il pessimo e squallido video artigianale sulla vita del
profeta Muhammad, «L’innocenza dei musulmani», diffuso su YouTube a settembre
del 2012, ne è una delle tante prove. Esso aveva l’obiettivo di provocare l’ira
dei musulmani, feriti dalle gratuite offese al profeta dell’Islam, adducendo
nuovi pretesti per lo «scontro di civiltà» e per la guerra contro l’Iran, che
una parte delle amministrazioni statunitense e israeliana vorrebbero scatenare.
Proprio su quest’ultimo conflitto e sulle politiche da adottare verso l’Islam e
il mondo arabo, la dirigenza americana, e quella d’Israele, sono in conflitto interno
tra «falchi» e «colombe». Coerentemente con le strategie belliche dei loro
predecessori (la famiglia Bush), i neocon Usa auspicano aggressioni e lo
scontro diretto per realizzare le loro politiche imperialiste. La fazione
obamiana, che ha dimostrato di amare la violenza e le guerre tanto quanto i
suoi rivali si pensi all’uso disinvolto dei droni in Afghanistan e Pakistan, ad
esempio, e il golpe Nato contro la Libia -, adotta semplicemente metodi e
strategie diverse: utilizza e manipola i musulmani, siano leader o popoli
arabi.

FAMIGLIA AL-SAUD E STRATEGIE

Nella sua lunga e dettagliata analisi sulle ragioni di quel
filmetto a basso costo, Mahdi Darius Nazemroaya, ricercatore di geopolitica
presso il canadese «Centro di ricerca sulla globalizzazione», spiega: «La
tempistica dell’uscita su YouTube del trailer de “L’innocenza dei musulmani”,
un film di piccola produzione che insulta il profeta Muhammad, non è solo una
coincidenza. La data dell’11 settembre è stata scelta appositamente per
l’associazione simbolica con i musulmani che viene fatta in maniera sbagliata e
assurda da coloro che percepiscono gli attacchi come un crimine collettivo di
tutti i praticanti islamici. Lo scopo di questo film offensivo è di
incoraggiare l’odio e la divisione incrementando il divario tra i cosiddetti
mondi occidentale e musulmano.

«L’uscita del film oltre ad aspirare alla divisione del
mondo è anche legata alla propaganda anti-Iran e al conflitto interno nella
politica estera statunitense. Israele ha un ruolo fondamentale nella divisione
intea tra le élite statunitensi e nell’antagonismo contro Teheran. L’analisi
del ruolo israeliano non dovrebbe essere svolta solo su una base nazionale che
vede Israele e Usa separatamente, ma anche dal punto di vista internazionale,
in cui riconoscere l’esistenza di alleanze tra gruppi diversi di élite
nazionali che vanno oltre i confini dei singoli stati».

«Non è certo per caso che una massiccia campagna
pubblicitaria islamofoba, legata ai sostenitori dell’occupazione del suolo
palestinese e della guerra Usa-Israele contro l’Iran, sia stata intrapresa e
intensificata in concomitanza con l’uscita del video su YouTube. Si tratta di
un costante assedio all’immagine dei musulmani. In breve queste campagne mirano
a rimodellare il Medio Oriente».

Come è ormai noto, le grandi manifestazioni musulmane
organizzate nelle piazze di molte capitali mondiali sono state orchestrate,
almeno in fase iniziale, dal clan della famiglia Al-Saud (la dinastia al potere
in Arabia Saudita) a Washington. Famiglia che, anche questo è risaputo,
sostiene economicamente i gruppi neo-salafiti in Egitto, Libia, Siria e in
altre regioni asiatiche e africane, che stanno collaborando con Stati Uniti,
Qatar e Israele, con il benestare di una parte della leadership della Fratellanza,
a creare un nuovo assetto si legga «destabilizzazione» del Mediterraneo e del
Medio Oriente, dopo aver infiltrato, manipolato e dirottato le primavere arabe.

ERDOGAN, IL NEO-OTTOMANO

Lo scenario geopolitico mediterraneo e mediorientale si sta
dunque configurando su nuove guerre di rapina delle risorse da parte
dell’Occidente, e di potere e conquista politico-religiosa da parte degli
alleati tattici arabi e musulmani (sunniti).

Questi ultimi sembrano avere un progetto di neo-califfato
che va dal Nordafrica, con appendici subsahariane, al Vicino e Medio Oriente.
Gli attori che si spartiscono la scena, come abbiamo accennato sopra, sono la
Fratellanza musulmana e la variegata e discussa galassia del neo-salafismo.

Tuttavia, uno dei co-protagonisti è anche la prospera Turchia,
che sotto la direzione del partito «Giustizia e Sviluppo» del presidente Recep
Tayyip Erdogan, emanazione anch’esso della Fratellanza, ha fatto passi da
gigante, dal punto di vista economico e sociale, e ha offerto al mondo islamico
una via di sviluppo da seguire.

Il cambiamento della propria politica estera, rispetto al
lungo periodo laico kemalista, la vede impegnata maggiormente nelle aree che
storicamente facevano parte dell’Impero Ottomano; tale aspirazione neo-ottomana
la porta a una rivalità geopolitica con un’altra antica e illustre nazione
mediorientale: la Persia, anch’essa musulmana non araba, e altrettanto
interessata al ruolo di guida del risveglio islamico in corso.

Le ambizioni regionali da una parte e la partecipazione alla
Nato dall’altra, fanno sì che il Paese anatolico prenda parte, a livello
militare e strategico, al war-game statunitense-israeliano, e salafita, e trascini i già più che convinti leader sunniti nella
conflittualità contro la Siria e, per ora, nelle schermaglie contro l’Iran.

SUNNITI CONTRO SCIITI

Osservando gli eventi in corso sembra che il mondo islamico
sunnita (almeno una parte di esso) stia andando alla «guerra», in senso
politico, e religioso (questo fattore non deve essere dimenticato, in quanto è
altrettanto determinante), contro la fazione minoritaria, lo sciismo. Lo si
nota negli articoli che  appaiono nei
media arabi, nei social network, nei discorsi dei politici, dove spesso
emergono attacchi, critiche, denunce, a vario livello, contro la corrente
storicamente rivale e considerata «eretica» e contro l’Iran.

Nelle chiacchierate informali con leader o rappresentanti
locali sunniti, in Europa come nel mondo arabo, emerge la loro contrapposizione
agli «altri», gli sciiti, ritenuti «infidi», «dal doppio discorso», in quanto
«fuori dall’ortodossia». Ecco dunque che il piano religioso irrompe con
prepotenza e interseca, giustificandolo, quello politico-strategico e bellico:
per un fondamentalista sunnita, infatti, uno sciita è più «kāfir» (miscredente)
di un ebreo, di un cristiano o di un buddista, in quanto reo di «deviare» dalla
sunna, la tradizione musulmana.

Per un neosalafita jihadista o un qaedista egli è degno di
morte: fare la guerra quindi contro coloro che deviano dall’ortodossia è lecito
e incoraggiato. Di qui, la motivazione politico-religiosa per la presenza di
al-Qaida in Siria (gli Assad sono alawiti) e per l’animosità contro l’Iran.

Paradossalmente, dunque, in quest’epoca di «scontro di
civiltà», i nemici della corrente maggioritaria dell’Islam non sono le
politiche di conquista americane e israeliane, sempre più sottili e incisive,
che stanno mettendo sottosopra il Vicino e Medio Oriente e la Palestina, o la
deriva neosalafita che proietta indietro di secoli il mondo musulmano, ma i
loro fratelli/antagonisti «eretici».

Della fitna (prova, litigio, scontro, fino al significato di
guerra civile) contemporanea, scaturita all’interno del mondo islamico, fanno
parte il conflitto mediatico, politico e militare, in corso contro il regime
siriano e quello ipotizzato contro l’Iran. Questa risistemazione di alleanze
tattiche e strategiche include la decisione dell’ottobre 2012 dell’Ufficio
politico di Hamas, la cui sede era a Damasco fino a pochi mesi prima, di
schierarsi ufficialmente contro il governo di Assad, attirandosi molte
critiche. Non è estraneo certamente a tale scelta radicale del movimento di
resistenza islamica il fatto che ora sia ospite del ricco e potente (e
interferente) Qatar.

Che in Siria ci sia bisogno di risolvere urgentemente la
crisi in corso ormai da un anno e mezzo, e con strumenti interni e non estei,
è evidente, ma che la strategia «atlantica» scelta da Hamas sia vincente è
tutto da vedere.

La lacerazione intra-islamica è stata (momentaneamente)
ricucita durante l’operazione di guerra israeliana contro la Striscia di Gaza
(14-21 novembre 2012), che ha visto gran parte del mondo arabo e musulmano
unito a sostegno dei palestinesi bombardati del regime di Tel Aviv. Dal punto
di vista concreto, da parte araba c’è stato ben poco, ma le prese di posizione
e il vortice di riunioni, incontri e pressioni hanno indubbiamente giocato a
favore di una tregua.

LA POSTA IN GIOCO

In tutto questo complicato, contraddittorio e nebuloso risiko,
dove le ribellioni accreditate ufficialmente sono quelle mediterranee e
vicino-orientali (con altre, altrettanto importanti, lasciate in disparte o
misconosciute, come quelle in Bahrain, Arabia Saudita, Yemen), la posta in
gioco sono la Palestina, la Siria e l’Iran. Tutte e tre strategicamente
fondamentali per le politiche neo-imperialiste e per le aspirazioni turche.
Siria e Iran probabilmente riusciranno a non soccombere per capacità intee,
potenza militare e politica, e per il sostegno di Russia e Cina, contrarie a
ogni intervento militare. A perdere saranno le popolazioni arabe, i giovani,
soprattutto, che non vedranno le primavere cui avevano diritto e per cui
avevano lottato morendo in tanti nelle piazze delle rivolte. E sarà la
Palestina l’altra grande sconfitta. Non ci sarà uno Stato palestinese degno di
questo nome: la Cisgiordania e Gerusalemme stanno perdendo terra in modo
esponenziale, anche grazie alla grande distrazione di massa offerta dalle
rivolte arabe, che distolgono l’attenzione da Israele che sta spingendo
l’acceleratore sulla colonizzazione della Palestina storica. La Striscia di
Gaza non sta affatto meglio ora che in Egitto ci sono i Fratelli, che non hanno
aperto il valico di Rafah, limitandosi a promesse, affettuosi abbracci e molta
retorica.

A meno che tale traballante e pericolosa situazione non
nasconda un asso nella manica dei giocatori arabi nel grande scacchiere
geopolitico: il progetto di «neo-califfato», da stabilire una volta che i
Fratelli musulmani si saranno insediati, insieme ai salafiti wahhabiti e
jihadisti, in tutto il Nordafrica e il Medio Oriente. Un califfato che
scatenerebbe una «guerra santa» contro Israele e si rivolterebbe contro
l’alleato del momento, gli Usa.

Tuttavia, in una prospettiva globale e futura, bisognerà
capire quale direzione prenderanno i paesi arabi e se vorranno portare avanti
la fitna intra-islamica tra sunniti e sciiti, incoraggiata da Stati Uniti,
Israele e petro-monarchie del Golfo, e quanto spazio prenderanno i salafiti. Se
i giochi di alleanze e conflitti in corso andranno avanti senza soluzioni
pacifiche, ciò potrebbe portare a una vasta guerra regionale. A quel punto,
addio al califfato e alla Palestina. E lunga vita al fondamentalismo. 

72

Scheda ____________________________

I FRATELLI MUSULMANI (AL
POTERE) 
(*)

EGITTO: Ḥizb al-ḥurriyya wa l-ʿadāla, partito Libertà e Giustizia (Fratelli
musulmani), attualmente al potere e già fortemente contestati a fine 2012.

TUNISIA: Ḥarakat an-Nahḍah, Movimento
della Tendenza islamica (en-Nahda), attualmente al potere. PALESTINA:

Jihad islamico; Hamas,
attualmente al potere nella Striscia di Gaza.

MAROCCO: Hizb al-adāla wa
at-tanmia, partito Giustizia e Sviluppo, attualmente alla presidenza del
Parlamento.

TURCHIA: Adalet ve Kalkınma
Partisi -Akp (Giustizia e Sviluppo), attualmente al potere.

GIORDANIA: Fronte di azione
islamico, che ha una rappresentanza in Parlamento (pur non essendo al governo).

I SALAFITI (ALL’OPPOSIZIONE)

Esistono più di un
centinaio di gruppi salafiti nel mondo. Precursori dei salafiti jihadisti
furono i mujahidin dell’AFGHANISTAN, al tempo della lotta contro l’Unione
Sovietica.

ALGERIA: Gia («Gruppo
islamico armato») e Movimento islamico 
armato sono il braccio armato del Fis, «Fronte islamico  di salvezza». Il Gia è oggi disciolto.

ALGERIA E MAROCCO: Gruppo
salafita per la predicazione e il combattimento, ora al-Qaida nel Maghreb
islamico.

MAROCCO: Gruppo
islamico  combattente marocchino; Assirat
al-Mustaqim (La retta via).

TUNISIA: vari gruppi
salafiti.

EGITTO: al-Jihād
al-Islāmī; al-jamāʻah
al-islāmīyah; Jund Allāh (I soldati di Dio); al-Takfīr wa l-Hijra; Ansār
al-Islām. YEMEN: Esercito islamico  Aden
Abyan.

LIBIA: Gruppo combattente
islamico  libico. IRAQ: al-Qaida; Ansār
al-Islām.

GIORDANIA: Esercito di
Muhammad.

SIRIA: dopo l’inizio
della rivolta  contro il regime della
famiglia al-Assad, sono presenti al-Qaida, gruppi jihadisti vari, finanziati da
Qatar e Arabia Saudita.

ARABIA SAUDITA: è la
patria del salafismo wahhabita, di al-Qaida e di molte organizzazioni
terroristiche. Paradossalmente, questo paese oscurantista e dittatoriale è
alleato dell’Occidente nella lotta al «terrorismo islamico» che esso stesso
alleva e finanzia.

(*) Per le voci in lingua
 araba: sulla rivista si è usata la
traslitterazione ufficiale, che può non apparire totalmente corretta in queste
pagine web per questione di fonti.

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }
__________________________________

FONTI:

Le Monde Diplomatique (2011-2012), Al-Hiwar (Centro
Peirone, Torino), Asia News, Nigrizia, i saggi citati in bibliografia e altri
testi di geopolitica, italiani e stranieri. Mentre questo Dossier viene chiuso
(30 novembre 2012, il giorno seguente all’accettazione della Palestina come
«stato osservatore» all’Onu), sono in corso dinamiche complesse e
contraddittorie (si vedano le proteste egiziane di fine novembre 2012 contro il
presidente Mursi e i Fratelli musulmani) che rendono difficile tracciare delle linee
nette nelle alleanze e nei conflitti in atto
.

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Angela Lano




LIBANO: LA POSIZIONE DI HEZBOLLAH

NÉ PAESI STRANIERI, NÉ TERRORISTI
(foto IRIN)

72

Ali Fayyad è parlamentare libanese e membro della direzione
di Hezbollah. Con lui abbiamo parlato di «Primavere arabe», questione
palestinese, conflitto siriano e Iran. Opinioni molto diverse da quelle
divulgate dai media tradizionali.

Qual è la sua opinione sulle Primavere arabe e sugli attuali
scenari mediorientali?

«Credo che il popolo arabo sia veramente il protagonista
delle Primavere, e non gli Usa o altri paesi stranieri. Nel mondo arabo stavamo
aspettando questo momento da anni. Quando gli arabi hanno potuto esprimersi e
decidere liberamente lo hanno fatto. Tuttavia, gli Usa sono entrati in questi
sviluppi regionali per aggiustarli, indirizzarli secondo i loro interessi. Noi
riteniamo positive le rivoluzioni arabe e chiediamo di rispettare le volontà
popolari. È possibile che ci siano stati degli errori qua e là, ma il contesto
strategico è positivo.

Noi crediamo che quella attuale sia un’era di transizione.
Il risultato che vediamo oggi non è quello definitivo. Dobbiamo aspettare. Nel
medio termine ci sono molte richieste in campo, tra cui libertà e democrazia.
Nel lungo termine ci sono questioni basilari come quella palestinese. Ora, il
popolo sta affrontando i dittatori arabi, e lo fanno per molte ragioni, tra cui
la strategia politica di queste dittature (notoriamente vicine agli Usa e
sostenitrici di Israele) riguardo alla Palestina. Gli arabi si vergognano di
ciò. Forse qualche movimento arabo ha tattiche speciali: non stanno parlando e
non si stanno comportando in modo franco, forse perché questo è un periodo di
transizione, ma non si può sfuggire dall’affrontare la questione palestinese.
Il movimento islamico presto si troverà a scontrarsi con gli Usa proprio sulla
causa palestinese».

La questione siriana
si sta rivelando sempre di più come un punto di svolta, e di rottura, nel mondo
arabo e islamico. Cosa ne pensa?

«Crediamo che quella siriana sia differente dalle altre
Primavere arabe. Bashar el-Assad non è Mubarak o altri dittatori. Lui
rappresenta la maggior parte della popolazione siriana. Ed è il principale
sostenitore della resistenza libanese e palestinese. La Siria ha la posizione
più importante sulla questione israelo-palestinese. Noi, come Hezbollah, sosteniamo
la necessità di portare avanti delle riforme, ma in modo pacifico. Tali riforme
non dovranno creare divisione in Siria, ma stabilità e unità. Noi cerchiamo
anche di salvaguardare la resistenza siriana contro Israele».

Quali sono le riforme da attuare e con quali modalità?

«Il popolo siriano deve scegliere la propria leadership
attraverso elezioni trasparenti e democratiche, che si svolgeranno nel 2014, e
non per mezzo dell’intervento di paesi stranieri».

E chi monitorerà la trasparenza di queste elezioni?

«Il popolo siriano sarà responsabile di monitorarle».
L’opposizione siriana ha tendenze e risposte diverse rispetto all’attuale
crisi…

«Non c’è una sola opposizione siriana. Ci sono centinaia di
gruppi. I più pericolosi sono i combattenti stranieri, che sono migliaia:
salafiti, takfiriti (espressione estrema e razzista del wahhabismo che
considera gli sciiti i peggiori nemici contro i quali lottare, ndr), al-Qaida,
ecc., che arrivano dall’Iraq, dall’Afghanistan, dalla Libia, dal Golfo. Questi
stanno assassinando le minoranze, su basi settarie, e ciò sta portando alla
divisione della Siria e alla discriminazione. Israele sta agendo per dividere
la Siria: è il suo obiettivo. Gli Usa stanno lavorando per creare questo
scenario: mantenere instabile la situazione in Siria per indebolire il regime e
renderlo incapace di confrontarsi con Israele e di sostenere la resistenza
palestinese e libanese. Essi non vogliono una guerra propriamente detta, con
bombardamenti, come è avvenuto in Libia. Stanno dicendo che è difficile fare
una guerra, perché l’esercito siriano è forte. E anche la creazione di una
No-fly-zone è troppo complicata. Dunque, Israele e Stati Uniti vogliono
indebolire il governo di Damasco, ma senza far collassare lo stato. Gli Usa
temono infatti che, facendo crollare le istituzioni statali, gli islamisti
salafiti possano prendere il potere. La Siria è diventata il punto di
attrazione di salafiti provenienti dalle altre regioni mediorientali».

Come lo spiega?

«Hanno un progetto settario e sono sostenuti da diversi
paesi arabi del Golfo. Essi vogliono cambiare il regime siriano per creare un
califfato su Mediterraneo e Medio Oriente. Ci sono decine di migliaia di loro.
Il supporto logistico ed economico arriva dal Golfo. È un fenomeno molto
pericoloso che distrugge l’unità sociale dei nostri paesi e spinge indietro le
società».

Che cosa proponete per contrastare questa visione arretrata
e pericolosa?

«Non abbiamo altra scelta che salvaguardare l’unità islamica
tra sunniti e sciiti, e tra musulmani e cristiani, e promuovere la democrazia».

Ritiene possibile  una
guerra contro l’Iran?

«Se dovesse esserci una guerra contro l’Iran, per Israele
sarebbe un disastro, e così pure in tutta la regione. L’Iran ha il pieno
diritto di difendersi e di proteggere la propria sovranità contro attacchi
estei. Gli Usa hanno più volte avvisato Israele di evitare e prevenire una
guerra contro l’Iran. Leon Panetta, segretario della Difesa statunitense, di
recente ha dichiarato che Israele non ha la possibilità logistica di attaccare
l’Iran. È una chiara risposta sulla posizione Usa riguardo a questa questione».

Quali scenari regionali vede per il prossimo futuro?

«Avremo un decennio d’instabilità. Ci sono cambiamenti
strategici che necessitano di tempo. La maggiore sfida è quella di
salvaguardare l’unità dei paesi arabi e islamici e sostenere la resistenza
palestinese. La questione siriana è un tentativo di distrarre l’attenzione
dalle politiche israeliane e di creare contrapposizione e conflittualità nel
mondo islamico tra le varie etnie e correnti religiose».

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Angela Lano




TUNISIA: UNA DIFFICILE TRANSIZIONE

DAL CARCERE AL POTERE
Ajmi Lourimi, filosofo e
attivista dei diritti umani, è stato in carcere durante la dittatura di Ben
Ali. Membro di en-Nahda, Lourimi spiega e difende l’azione del nuovo governo.

72

Cos’è cambiato in Tunisia
dopo la rivolta che ha rovesciato il regime di Ben Ali?

«Prima della rivoluzione,
la vita politica del paese era nulla, quella sociale era disastrosa; e i membri
dei movimenti islamici erano in carcere. Il nuovo governo sta ricostruendo
dalle ceneri: si tratta di un processo lungo. La disoccupazione è altissima:
800mila persone, cioè il 18% della popolazione lavorativa. Ben Ali ha lasciato
un paese distrutto, con un divario tra poveri e ricchi molto forte. Le zone
intee della Tunisia erano state dimenticate dal regime, ed è da lì che è
iniziata la rivoluzione.

La rivoluzione tunisina
non era né ideologica né politica e non era guidata da un
partito particolare. È iniziata improvvisamente e vi hanno partecipato tutti,
diversi strati sociali e culturali. C’erano anche i sindacati e le
associazioni, uniti sotto la bandiera della nazione. Lo scopo comune era di
mandare via il dittatore. Non è stata una rivoluzione della “fame”, anche se
c’era gente affamata. Era una rivoluzione della dignità, iniziata con la
protesta di un disoccupato: per i tunisini essere senza lavoro equivale a
essere senza dignità. Quando la popolazione ha capito che la situazione
tunisina era causata dagli errori, dalla corruzione del governo, ha deciso che
per cambiare era necessario mandare via Ben Ali, così è iniziata la rivoluzione
che in 23 giorni è riuscita a rimuoverlo.

Il prezzo in termini di
morti in Tunisia è stato molto ridotto, rispetto ad altre rivoluzioni. La
nostra è stata un esempio e una spinta per l’Egitto, la Libia, lo Yemen… Dai
primi giorni dopo la fuga del presidente, ci siamo trovati in una situazione
nuova. È stato deciso di chiudere con il passato e costruire una nuova
politica. La popolazione ha chiesto di sciogliere il parlamento e di creare un
comitato per riformare la costituzione, per la transizione e per andare alle
elezioni».

In Tunisia c’è stato un
cambiamento anche all’interno del sistema. L’esercito ha sostenuto la
popolazione in rivolta…

«L’esercito è stato dalla
parte del popolo, a differenza della polizia. È stato il garante della
protezione della rivoluzione tunisina: dopo la fuga di Ben Ali s’è creato un
vuoto nella sicurezza, che i militari avrebbero potuto riempire, ma si sono
rifiutati e hanno lasciato la gestione del potere alla parte civile. L’esercito
ha voluto le elezioni e il 23 ottobre 2011 ha protetto la gente che andava a
votare. L’affluenza alle ue è stata massiccia, e ha dato la vittoria al
movimento en-Nahda, vietato sotto Ben Ali (i suoi militanti erano o in carcere o
all’estero, esuli). La vittoria elettorale è stata del popolo, prima che di un
partito».

Tuttavia ci sono ancora
malcontenti e manifestazioni di piazza…

«I tunisini chiedono una
seconda rivoluzione, ma abbiamo bisogno di unità e non di opposizione. Siamo
d’accordo di indire nuove elezioni per la prossima primavera. I media francesi
hanno iniziato ad attaccare il governo con articoli in cui dicevano che la
Tunisia è diventata islamica, che le minoranze cristiane ed ebree sono sparite,
e che il paese è tornato indietro, che il turismo è sparito. Essi passano
l’immagine di un governo sotto il giogo del salafismo. Ciò non corrisponde al
vero. Oggi in Tunisia ci sono 125 partiti politici».

Rivolta spontanea,
pilotata o preparata da un’élite?

«Il 14 dicembre 2010
tutte le forze ribelli si sono incontrate insieme. La rivoluzione non è stata
preparata in laboratorio, scientificamente, ma è stata spontanea».

Quali sono i
problemi che deve affrontare il governo post-rivoluzione?

«Siamo alle prese con
grandi problemi. Le nostre élite intellettuali purtroppo non avevano elaborato
un’ideologia o un pensiero sulla modeità. Non c’è unanimità sul concetto di
“democrazia” e neanche sullo stesso processo democratico. Non abbiamo un
retroterra culturale come è stato per le vecchie rivoluzioni europee. Abbiamo
avuto migliaia di attivisti, di tutte le provenienze politiche e ideologiche
islamici, nazionalisti, marxisti, ecc. che tuttavia non hanno avuto egemonia
rivoluzionaria sul popolo. Durante la rivoluzione, infatti, la gente, le masse,
hanno scavalcato le avanguardie. Dopo i tragici fatti di Sidi Bouzid, nel
dicembre del 2010, la popolazione è scesa in piazza.

L’élite araba non è più
democratica dei despoti contro cui combatte. Faccio due esempi: il nazionalismo
arabo baathismo e nasserismo ha represso la democrazia; i movimenti islamici
hanno fatto lo stesso imponendo la shari’a, la legge islamica. Noi, come
en-Nahda, non riteniamo che sia una priorità l’islamizzazione della società,
quanto piuttosto la sua democratizzazione. Non abbiamo dubbi: dobbiamo
difendere le libertà e i diritti.

Ma sappiamo che il
processo democratico può durare molti anni. Per noi non c’è libertà senza
democrazia, non c’è futuro senza democrazia, non c’è islam senza democrazia.
Ciò che ci distingue dai modeisti è il fatto che loro subordinano la
democrazia alle libertà, e dai salafiti è che loro subordinano la democrazia
all’Islam. Noi riteniamo che la via democratica sia quella più breve e meno
costosa, ma non intendiamo la democrazia greca che escludeva le donne e gli
schiavi. Non ci piace la democrazia del capitale o quella della maggioranza cui
il resto della popolazione deve essere subordinato. Vogliamo una democrazia
dell’alternanza, che tenga conto di tutta la società».

Come reagisce il governo
tunisino nei confronti degli attacchi perpetrati da estremisti salafiti ai
danni di minoranze religiose?

«Nel nostro paese non
abbiamo problemi tra sunniti e sciiti: questo è un conflitto importato
dall’Oriente arabo. Dal momento che viviamo nello stesso spazio, quello che
succede in Medio Oriente ha ripercussione su di noi e viceversa. Dopo la
rivoluzione tutte le componenti della società tunisina, compresi i salafiti,
hanno avuto il diritto di esprimersi. Come movimento en-Nahda al governo, li
incoraggiamo a uscire dalla clandestinità, ma, allo stesso tempo, a rifiutare
la violenza e a rispettare i diritti degli altri. I salafiti considerano lo
sciismo un pericolo per l’unità nazionale e la sicurezza del paese, ma ciò
rappresenta un’esagerazione. La società tunisina è omogenea e la differenza di
punti di vista e di ideologia non minaccia affatto l’unità, mentre la violenza
è ben più grave del pluralismo ideologico e politico. Dobbiamo dunque essere
uniti contro la violenza da qualunque parte provenga».

Qual è il peso del
salafismo in Tunisia?

«Non ci sono elementi
estei in Tunisia. I salafiti ricevono appoggio politico da parte di alcune
associazioni o personalità del Medio Oriente e del Golfo. Sono i media e le
prediche degli ulema salafiti del Golfo a influenzare una parte della gioventù
tunisina, perché nell’era di Ben Ali l’islamismo era escluso dalla vita
politica e questo ha creato un vuoto che è stato riempito da un discorso
religioso e ideologico che non si combina con la realtà tunisina. Durante il
regime, non c’era rispetto per le libertà religiose e i discorsi religiosi
erano poco credibili e a favore del potere politico. Erano parte della
propaganda politica ufficiale, mentre le persone volevano sentire la verità e
lo spirito della religione musulmana trasmessi da gente degna.

Quello che succede ora è
il frutto di anni di regime di Ben Ali. Oggi c’è una libertà illimitata in
Tunisia e quindi tanti gruppi, salafiti compresi, pensano di fare ciò che
vogliono, anche imporre la loro visione e legge a detrimento degli altri. Il
governo vuole prima di tutto garantire la libertà di tutti, dato che è una
conquista della rivoluzione, e allo stesso tempo salvaguardare il Paese
dall’anarchia, trovando un equilibrio tra rispetto della legge e garanzie di libertà».

Veniamo ora all’articolo
28 della Costituzione e alla questione della «complementarietà» tra uomo e
donna che ha suscitato tanto scalpore in Europa. Di cosa si tratta?

«La polemica
sull’articolo 28 è nata dai media. Non è vero che esso riguarda i diritti delle
donne. Fa riferimento al diritto di famiglia, all’interno del quale viene
riconosciuto il ruolo complementare della donna e dell’uomo. Gli articoli 21 e
22 parlano invece dell’uguaglianza tra i due sessi. L’art. 21 spiega che tutti
i cittadini sono uguali e condanna la violenza contro le donne e la
discriminazione. En-Nahda difende il codice del diritto della persona stabilito
nel 1959 durante il regime di Bourguiba. La Tunisia non può tornare indietro,
ma solo andare avanti».

Qual è la posizione delle
donne nel nuovo governo?

«Penso che il problema
della donna in Tunisia non sia legislativo, ma culturale e sociale: esso ha a
che fare con la mentalità. Molte conquiste sono state realizzate a favore della
donna e non sono un regalo di nessuno, ma un risultato della lotta della donna
tunisina per essere uguale all’uomo e per preservare i suoi diritti. In Tunisia
c’è sempre una volontà politica per conservare tali conquiste, ma nessuno può
rimpiazzare la donna nella difesa dei propri diritti. Gli intellettuali
tunisini devono combattere la mentalità che ritiene che la donna non sia uguale
all’uomo o che lei sia la responsabile di problemi sociali come la
disoccupazione. La partecipazione della donna alla vita politica ed economica è
sostanziale. Possiamo dire che sia aumentata, ma non è ancora al livello delle
aspirazioni delle donne. Quindi c’è molto lavoro da fare. Nell’ambito
dell’assemblea costituente ci sono 49 donne e 42 sono di en-Nahda. Come
movimento abbiamo l’onore e l’onere di essere difensori e avvocati della donna
tunisina che ha partecipato alla rivoluzione, e non solo dell’intellettuale ma
anche di quella rurale che combatte ogni giorno per migliorare le condizioni di
vita sue e della sua famiglia».

Qual è la sua opinione
sulla guerra civile in Siria e sulla richiesta di una parte dei ribelli di far
intervenire la Nato?

«En-Nahda è contro ogni
intervento esterno nei paesi arabi, ma siamo a favore del popolo siriano che si
rivolta contro il regime di Assad. Sappiamo che sulla Siria convergono enormi
interessi geo-politici. È nostro dovere morale ed etico sostenere le
rivendicazioni della popolazione siriana».

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Angela Lano




USARE I SALAFITI, UN GIOCO PERICOLOSO

Talal Khrais è un
giornalista italo-libanese. Che racconta il conflitto siriano partendo da una
prospettiva diversa da quella occidentale.

72 La situazione in Siria è
drammatica ormai da molto tempo. Che prospettive ci sono?

«Lo scenario è cambiato.
Ci sono forti dichiarazioni della Cina contro la guerra alla Siria. E anche
della Russia, che oggi è decisamente più forte di quando cadde il Muro, nel
1989. È un paese ricco il primo produttore di gas a livello internazionale -,
grande e con un popolo che sostiene il risveglio del nazionalismo. Allora,
perché dovrebbe lasciare fare all’Occidente ciò che vuole? Un Occidente in
caduta libera, oltretutto, ed esportatore di terrorismo islamico, in quanto,
dalla Guerra fredda in poi, gli Usa hanno utilizzato il fondamentalismo
islamico jihadista come strumento per indebolire o sconfiggere il nemico – si
ricordino al-Qaida e i taliban nell’Afghanistan occupato dalle truppe
sovietiche; e si pensi ai recenti casi di Libia e Siria, dove hanno operato o
operano attualmente “ribelli” locali, forze occidentali e jihadisti. In Siria
la presenza del terrorismo è nota. Hanno aperto le porte ai jihadisti
provenienti da tutte le parti. L’Occidente può essere accusato di aver alimentato
il terrorismo islamico che ha fatto morti ovunque».

La Siria e Israele, non solo Alture del Golan…

«Il grande problema
d’Israele è che nel 2006 è cambiata la situazione militare: Hezbollah ha
utilizzato sistemi di difesa e dissuasione. Il governo di Tel Aviv aveva due
giornielli: i merkawa (famosi carrarmati di produzione israeliana, ndr) e
l’aviazione. Ma essi servono se si hanno davanti sistemi potenti. Hezbollah ha
usato razzi anti-carro: qui è iniziata la crisi israeliana, di cui ha accusato
la Siria. Erano razzi modificati in Siria. Allora, molti leader di Hamas,
Hezbollah e militari siriani sono stati uccisi negli anni successivi.
L’interesse di Israele è di privare la Siria della sua potenza, ma il suo
arsenale bellico è ancora in piedi. Washington e Tel Aviv vogliono indebolire
il regime siriano, non farlo cadere. La sua caduta creerebbe il caos».

Che relazione vede tra i
fatti di Bengazi dell’11 settembre 2012, in cui è rimasto ucciso l’ambasciatore
Usa e altre persone dello staff consolare, e la situazione in Medio Oriente?

«A mio avviso,
l’attentato di Bengazi è stata una risposta al tentativo americano di ritirarsi
dal fronte siriano, in quanto la guerra s’è trasformata in jihadista e di
scontro con la Cina».

Regime o opposizione, chi
vincerà?

«L’opposizione non ha
testa e non ha un programma. Il regime è ancora molto popolare. L’opposizione
all’estero ha poche relazioni con quella intea. A combattere sul terreno sono
i jihadisti. Ci sono zone rurali arretrate, dove si sono introdotti i salafiti
attraverso la propaganda fondamentalista e l’assistenzialismo. Nelle città,
invece, il sostegno va all’esercito.

Le zone dove si muovono
le bande armate è il confine turco-siriano. Mafie libanesi e turche si occupano
del flusso di armi e uomini. Assicurano le partenze dei jihadisti dallo Yemen,
dalla Libia, dall’Afghanistan, ecc., e li fanno entrare insieme ai profughi».

I ribelli ammazzano e
compiono atti efferati, ma l’esercito regolare bombarda…

«L’esercito usa tattiche
di assedio, per far uscire la popolazione, poi bombarda per liberare le aree
dove ci sono le bande armate dei ribelli (rimane però alto il numero delle
vittime civili, ndr). La cosa più pericolosa è la presenza dei cecchini. La
caduta del regime significherebbe islamizzazione e persecuzioni dei cristiani e
delle minoranze. Tuttavia, per far cadere il regime siriano ci sarebbe voluta
una No-flyzone, che era ciò che avevano chiesto i ribelli, senza ottenerla.

Questa situazione di
conflitto può durare anni. I cristiani sono i maggiori difensori del governo
Assad. In Siria l’appartenenza alla nazione è molto forte, e i cristiani sono
la più antica comunità. Inoltre, la borghesia cristiana teme l’islamizzazione.
Purtroppo, si sta ripetendo lo stesso scenario dell’Afghanistan: anche lì, come
detto prima, l’Occidente usò i salafiti.

Quella volta fu contro
l’Urss. Ora contro altri. Ma i salafiti sono un giocattolo pericoloso: prendono
il controllo e sfuggono di mano».

Parliamo di un altro
possibile  teatro di guerra occidentale-qatariota-saudita: l’Iran. Quale scenario
intravede nel caso di un attacco?

«Da tempo Israele
minaccia seriamente di attaccare l’Iran. Tali minacce sono accompagnate da una
politica arrogante da parte dell’Occidente. Malgrado non esista alcuna prova
della produzione nucleare iraniana, gli Usa stanno portando avanti una
strategia che si riflette negativamente sulla vita del Paese. L’Iran non ha mai
mosso le proprie truppe fuori, né è andata ad occupare altri territori né
attaccherà Israele, ma nel caso questo colpisse l’Iran si aprirebbero le porte
dell’inferno. Perché oggi la supremazia non è più l’aeronautica, ma la parte
missilistica. L’Iran lancerebbe migliaia di missili come reazione contro
Israele, e contro le basi Usa se questi dovessero collaborare con lo Stato
sionista nel mondo arabo».

Quindi l’Europa, secondo
lei, non verrebbe colpita?

«Perché colpire l’Europa
se ci sono il Qatar, l’Arabia Saudita e la Turchia come basi americane?
L’Europa sarebbe toccata a livello economico: i prezzi della benzina e delle
assicurazioni salirebbero alle stelle.

Poi ci si chiede perché
l’Europa è così aggressiva con l’Iran che non ha le bombe atomiche e non fa
nulla contro Israele che ne ha tante. Nella guerra contro l’Iraq, gli iraniani
ebbero un milione di morti: altri di più verrebbero sacrificati contro Israele
e Usa, in caso di un conflitto. Israele è disposto ad avere tanti morti?». Come
vede l’attuale situazione egiziana, dopo la vittoria della Fratellanza
musulmana?

«C’è una contraddizione
forte nella leadership egiziana. Il presidente Mohammed Mursi deve fare i conti
con i Fratelli musulmani e con la base salafita all’interno della Fratellanza.
Da una parte, deve tenere in considerazione questa realtà, che è anti-Usa, e
dall’altra deve guardare a Russia, Cina e Iran, ma non può farlo senza
scontrarsi con i salafiti, per i quali quei tre paesi sono grandi nemici. Come
riuscirà, allora, a gestire i rapporti con gli Stati Uniti che, tra l’altro,
sono partner di Israele?».

SIRIA – scheda 1

Normal 0 14 false false false IT JA X-NONE

LA GUERRA E LA
REALTÀ VIRTUALE

Haytham Manna, presidente
all’estero del Coordinamento per il cambiamento democratico (Cnccd, meglio noto
come «National Coordination Body», Ncb),

ha dichiarato: «La
rivolta siriana è da considerarsi come parte delle sollevazioni arabe. Con una
differenza rappresentata dal ruolo del paese come bastione delle resistenze
antimperialiste. Le posizioni del Cnccd sono incentrate sul “no” all’intervento
straniero nella crisi. Una posizione diametralmente opposta a quella assunta
invece dal Consiglio nazionale siriano (Cns) favorevole all’intervento».

Per Haytham Manna la
guerra civile è il frutto sia dell’intransigenza del regime sia dell’intervento
dei salafiti nel conflitto. L’8 agosto 2011, ha ricordato, ci fu il passaggio
dalla rivolta pacifica a quella violenta: il primo ingresso dei salafiti sulla
scena politica siriana. E fu un attacco alla posizione del Cnccd (quella dei
«tre no»: all’intervento straniero, alla guerra civile, al settarismo
religioso).

I salafiti dissero che i
«tre no» sostenevano il regime di Assad e dovevano essere sostituiti da tre sì:
all’intervento esterno, alla lotta armata, alla lotta contro le minoranze,
contro i «kuffār» (i miscredenti) e quindi guerra settaria e fitna. Ma la cosa
ancora più significativa è che ai tre sì si aggiungeva la volontà di
«riconciliazione» tra l’Islam e l’Occidente. Per i salafiti lo slogan era: «Il
sangue dei sunniti è uno». Si trattava di un gruppo minoritario, cui è stato
dato molto risalto dai media arabi del Golfo, e ciò ha favorito la loro
espansione nel mondo arabo.

Manna ha anche ricordato
il complesso mosaico siriano, costituito da 26 componenti religiose, nazionali
ed etniche e che oggi lo scontro è più un conflitto internazionale che interno,
visto il peso delle interferenze straniere. Egli ha denunciato il ruolo delle
emittenti del Golfo («al Jazeera» e «al Arabiya») nel presentare la rivolta
come esclusivamente sunnita.

Secondo Manna, nessuno
dei mezzi di informazione del Golfo parla di ciò che il Coordinamento fa per
aiutare il popolo siriano e del fatto che all’interno dell’opposizione ci sono
sunniti, alawiti, sciiti, cristiani, ismailiti. E ha ricordato che lui è il
presidente del Cnccd all’estero e che ha tre vice (uno curdo, uno sciita e un
druso), mentre nella direzione ci

sono tre cristiani.
Invece le emittenti del Golfo vogliono segnalare che la rivolta è soprattutto
sunnita, istigando la guerra settaria, omettendo di spiegare che sono
rappresentate tutte le etnie e le minoranze del paese. Questa propaganda, ha
sottolineato, favorisce la guerra e impedisce ogni tipo di soluzione politica
del conflitto, perché lo pone come settario.

«Abbiamo tre
rappresentazioni della Siria: virtuale (la Rete), formata da 200 persone che
fanno credere di guidare la rivolta; mediatica, media pro-governativi e
anti-governativi (del Golfo) che non danno un’immagine esatta della realtà; e
reale: la realtà vera e propria. Quando abbiamo lanciato una proposta di
cessate il fuoco, tutte le parti hanno rifiutato».

Per Manna la natura
fondamentale della rivolta non è di tipo confessionale: «Se le milizie salafite
fossero davvero così forti, come dicono, perché fanno arrivare combattenti
dall’esterno?». A suo avviso la percezione comune dei siriani è: o si riuscirà a
vivere insieme o si perirà tutti insieme. A questo proposito ha citato il caso
di Aleppo, dove la popolazione della città non ha accolto con favore né le
milizie né l’esercito di Assad.

«Bisogna distinguere tra
lo stato (al cui interno vi sono tante persone oneste) e il regime. Una
distinzione che non fanno i Fratelli musulmani, che rappresentano la
maggioranza del Cns. Un’incapacità di distinguere che deriva anche dal fatto
che i dirigenti della Fratellanza vivono tutti all’estero dopo la forte repressione
che li colpì negli anni ’80. La transizione dovrà implicare necessariamente una
qualche forma di continuità con lo stato, non con il regime. Estremisti ciechi
nell’opposizione stanno cercando di fermare ogni relazione con gli apparati
dello stato, cercano la distruzione. Sono loro che con le loro posizioni
estremiste fanno sprofondare la Siria in una guerra civile».

Secondo Manna, il
negoziato e il compromesso sono l’unica soluzione. Dialogo, dunque, con tutte
le forze, ad eccezione di quelle che rispondono a potenze estee alla Siria. •

/* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin-top:0cm; mso-para-margin-right:0cm; mso-para-margin-bottom:10.0pt; mso-para-margin-left:0cm; line-height:115%; mso-pagination:none; font-size:11.0pt; mso-ascii- mso-ascii-theme- mso-hansi- mso-hansi-theme- mso-ansi-language:EN-US; mso-fareast-language:EN-US;}
Normal 0 14 false false false IT JA X-NONE

SIRIA Scheda  2:

I CRISTIANI, MINACCIATI ESPULSI E UCCISI

Fino alla scoppio della
rivolta in Siria, le relazioni tra la storica minoranza cristiana circa il 10%
della popolazione e la comunità musulmana erano ottime, «esemplari» le definì
il Papa nel 2011. I cristiani occupavano posti importanti nella vita politica,
istituzionale, accademica, giuridica, culturale, ecc., del paese. Erano spesso
un «ponte», in molte città e villaggi, tra sunniti, sciiti, alawiti, drusi,
curdi, avendo buoni rapporti con tutti.

Attualmente, invece, i
cristiani sono minacciati, uccisi, espulsi. Da sempre protetti dalla famiglia
Assad, a partire dall’insurrezione violenta dell’opposizione al regime di
Damasco, essi hanno dovuto affrontare persecuzioni e massacri in quanto
ritenuti «sostenitori» di Bashar el-Assad, e per questo da eliminare o da sradicare.
A migliaia sono stati costretti a lasciare le proprie case per fuggire da
violenze e discriminazioni perpetrate da gruppi salafiti e qaedisti, presenti
nella variegata e frammentata opposizione sostenuta da Stati Uniti, Gran
Bretagna, Francia, Qatar e Arabia Saudita. Secondo l’agenzia del Vaticano,
«Fides», i ribelli assaltano e occupano chiese, distruggono case e fanno
pulizia etnica di tutti i cristiani dai territori da loro controllati.

Scrive Thierry Meyssan su
«Voltaire Net» (www.voltairenet.org): «La guerra contro la Siria, pianificata
da Stati Uniti, Francia e Regno Unito per metà novembre 2011, è stata bloc-

cata in extremis dai veti
di Russia e Cina, al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Secondo Nicolas Sarkozy,
che aveva informato della questione il Patriarca maronita durante un burrascoso
incontro all’Eliseo il 5 settembre 2011, il piano prevede l’esclusione dei
cristiani mediorientali da parte delle potenze occidentali. In questo contesto,
in Europa ha preso il via una campagna mediatica che accusa i cristiani
d’Oriente di collusione con le dittature».

Secondo questa lettura
della crisi, l’Occidente avrebbe creato una contrapposizione politica e
religiosa tra la Cristianità occidentale (inserita in un contesto imperialista,
neo-liberista e anti-arabo) e la Cristianità orientale, vittima dei piani
neo-coloniali degli Stati Uniti, di Israele e delle petromonarchie del Golfo, e
dei loro ascari qaedisti e salafiti.

Il timore che la Siria
divenga un «secondo Iraq» per i cristiani, con chiese, abitazioni attaccate,
cittadini rapiti, ammazzati, violentati, e espulsi, è sempre più reale, grazie,
anche qui, alle gang criminali della galassia salafita-qaedista. Sono tre le
città siriane dove i cristiani hanno subito persecuzioni e pulizia etnica e sono
stati spinti all’esodo.

A QUSAYR  migliaia cristiani sono stati costretti ad
andarsene. L’area è controllata da gruppi sunniti salafiti che considerano
nemici i cristiani e altre minoranze, come sciiti e alawiti.

A HOMS, che ha sempre
ospitato una delle maggiori comunità cristiane siriane, ormai quasi tutti i
cristiani sono fuggiti: secondo diversi report giornalistici, le loro case sono
state assaltate e sequestrate da bande di «al-Qaeda»; molti sono stati uccisi.
Contemporaneamente, il governo ha bombardato la città, per liberarla dagli
insorti, provocando altri morti e altre fughe.

Ad ALEPPO e in altre
città, i cristiani sono stati oggetto di attacchi terroristici.

Scrive Franco Trad su
«al-Hiwar» (Il Dialogo) di maggio-giugno 2012: «La rivoluzione, nata pacifica
ed innocente, con richieste giuste e condivise, è stata in parte usurpata da
chi l’ha trasformata in rivolta armata che distrugge i beni del popolo siriano,
che fa pulizia etnica, che violenta le donne, uccide i bambini e sequestra le
persone per avere un riscatto». •

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Angela Lano




IL SALAFISMO: NASCITA, STORIA, IDEE

Salafismo o salafiyya è
una scuola di pensiero dell’Islam sunnita che si rifà ai «Salaf al-ṣaliḥīn» («Pii
antenati», «Predecessori»), ovvero le prime tre generazioni di musulmani
(VII-VIII secolo): i «Sahābi» (i «Compagni» di Muhammad; i «Tābiʿūn» (i
«Seguaci»), la generazione successiva a quella del Profeta; i «Tābiʿ al-Tābiʿiyyīn»
(«Coloro che vengono dopo i seguaci»), la terza generazione. Dai seguaci della
dottrina salafita, queste tre generazioni vengono considerate «modelli» da
seguire.

Normal 0 14 false false false IT JA X-NONE

Salafismo o salafiyya è
una scuola di pensiero dell’Islam sunnita che si rifà ai «Salaf al-ṣaliḥīn» («Pii
antenati», «Predecessori»), ovvero le prime tre generazioni di musulmani
(VII-VIII secolo): i «Sahābi» (i «Compagni» di Muhammad; i «Tābiʿūn» (i
«Seguaci»), la generazione successiva a quella del Profeta; i «Tābiʿ al-Tābiʿiyyīn»
(«Coloro che vengono dopo i seguaci»), la terza generazione. Dai seguaci della
dottrina salafita, queste tre generazioni vengono considerate «modelli» da
seguire.

Il salafismo originario
era un movimento autenticamente religioso, che ricercava un’antica purezza
dell’Islam, ripulita da sovrastrutture createsi nei secoli, e proponeva una
lettura né troppo letteralista né troppo allegorica o spirituale-esoterica del
Corano.

Figure storiche
fondamentali per i salafiti sono Ahmad ibn Hanbal (780-855), Ibn Taymiyya
(1263-1328) introdusse il concetto di «ǧihād», che
ebbe grande influenza sul radicalismo islamico moderno, e Muhammad ibn Abd
al-Wahhab (1703-1792).

Il significato moderno
del termine è collegato a un movimento di rinascita dell’Islam, avviato nel
1800 e proseguito nei primi decenni del 1900, in Egitto e in altri paesi arabi,
in reazione relazione al colonialismo occidentale, attraverso i testi e il
lavoro di grandi studiosi musulmani: Jamal ad-Din al-Afghani (1838-1897),
Muhammad ‘Abduh (1849-1905), fondatori del movimento culturale e politico
conosciuto come «Iṣlāḥ», riformismo islamico, e Rashid Rida (1865-1935).
È con Rida, nel 1900, in Egitto, che il movimento riformista assume
caratteristiche di maggior contrapposizione con l’Europa, e intende far
rinascere l’Islam dell’epoca del profeta Muhammad e dei suoi compagni, i pii antenati,
Salaf al-ṣaliḥīn, appunto. Da qui deriverà l’uso del termine
«Salafita».

Il salafismo si
trasformerà, negli anni successivi, sempre di più da movimento riformista,
intellettuale, aperto e tollerante, a fondamentalista. Nascerà la
«neosalafiyya», o neosalafismo, con la creazione delle organizzazioni dei
giovani musulmani («Jam‘iyyat al-Shubban al-muslimin») e la Fratellanza
musulmana o Fratelli musulmani («Jamāʿat alIkhwān al-muslimīn»), fondata al Cairo nel
1928 da Hasan al-Banna, politico e religioso egiziano, iniziato al sufismo e
allievo di Muhammad ‘Abduh.

Attraverso la «da‘wa»,
richiamo all’Islam, il neo-salafismo diventerà un’ideologia rivolta alle masse
arabe diseredate, e non più solo a élite colte e intellettuali: in totale
contrapposizione al salafismo delle origini e di quello degli illuminati
al-Afghani e ‘Abduh, si trasformerà dunque in movimento «anti-intellettuale» e
conservatore. Esso diventerà espressione delle forme radicali del
fondamentalismo islamico, fino alle sue estreme conseguenze del «qaedismo» e «jihadismo»
attuali, passando per i gruppi violenti del salafismo algerino degli anni ’90.

Con il passare degli
anni, il «salafismo» è andato a delineare una galassia di gruppi e movimenti
identificantisi con il wahhabismo, fondato nel 1700 da Muhammad ibn Abd
al-Wahhab, teologo arabo della scuola giuridica hanba- analisi politica e
geo-politica del mondo arabo-islamico e globale, da un ridotto sviluppo
istituzionale, da un anti-intellettualismo, dall’indifferenza per la cultura e
da un’attenzione accentuata verso gli aspetti giuridici, materiali, e
scarsamente spirituali della fede e della vita umana.

/* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin-top:0cm; mso-para-margin-right:0cm; mso-para-margin-bottom:10.0pt; mso-para-margin-left:0cm; line-height:115%; mso-pagination:none; font-size:11.0pt; mso-ascii- mso-ascii-theme- mso-hansi- mso-hansi-theme- mso-ansi-language:EN-US; mso-fareast-language:EN-US;}

Angela Lano