L’universo visto dal Cern

Visita al Centro di ricerca di Ginevra.



Nei laboratori del Ce.


Scienza e religione in conflitto?

 
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Il Ce è probabilmente il più prestigioso laboratorio di
fisica delle particelle al mondo. È un’istituzione in cui la ricerca raggiunge
i più alti livelli, ma anche un luogo dove scienziati di tutto il mondo
lavorano in cooperazione. Lo abbiamo visitato in occasione del suo 60.mo
compleanno cercando risposte a una domanda antica e controversa: scienza e
religione sono in conflitto? Al Ce la risposta (unanime) è stata «no». Ma
fuori dai laboratori non tutti concordano.

Il 2015 sarà un anno importante per
la fisica almeno per due motivi: il primo è la celebrazione dell’«Anno
internazionale della luce» indetto dall’Unesco; il secondo riguarderà il Ce,
l’«Organizzazione europea per la ricerca nucleare», il centro di ricerca sulle
particelle che ha sede poco lontano da Ginevra e che nel 2014 ha compiuto 60
anni. Qui, dopo tre anni di manutenzione, ripartirà l’Lhc, il Large Hadron
Collider
(«Grande collisore adronico»), il ciclopico anello dalla
circonferenza di 27 chilometri in cui protoni e ioni pesanti collidono per
dividersi nelle loro particelle elementari: i quark (riquadri a pagg. 42-43).

Sono stati gli esperimenti
effettuati all’Lhc che hanno permesso di verificare nel 2012 l’esistenza di ciò
che i fisici teorici avevano solo ipotizzato sin dagli anni Sessanta: il «bosone
di Higgs» (quella che dai media è stata ribattezzata «la particella di Dio»).

I prossimi anni saranno dedicati
alla ricerca di aspetti della materia che, se confermati dalle sperimentazioni,
rivoluzioneranno totalmente il Modello standard, lo schema matematico che
descrive le particelle fondamentali con le loro interazioni e, quindi, la
nostra visione del mondo.

«L’idea di tutti gli esperimenti
che vengono effettuati dai laboratori dell’Lhc, Alice, Atlas, Cms e Lhcb è
quella di ricercare segnali di fisica che non siano previsti dall’attuale
Modello standard» afferma Monica Pepe-Altarelli, fisica che lavora
all’esperimento Lhcb del Ce.

I fisici, specialmente quelli
teorici, oltre ad essere dei grandi conoscitori della materia, sono anche un
po’ burloni, poeti, filosofi e la caccia a queste particelle ha scatenato la
fervida fantasia dei ricercatori i quali hanno chiamato i corpuscoli con nomi
bizzarri: materia oscura, energia oscura o, ancora, Susy (dalle iniziali di Super
Symmetry
), proprio come una sirenetta a cui piaccia nascondersi tra i
flutti del mare cosmico. 

La scienza, la fede e l’originedell’universo

Frequentare il Ce e i suoi
laboratori è come essere sul set di Guerre Stellari, con la grande differenza
che qui la fantascienza non esiste e la battaglia che si combatte non è quella
per la sopravvivenza, ma per la conoscenza.

«Il Ce è molto più che un luogo
di semplice ricerca. È un centro per l’educazione e la formazione di studenti e
di insegnanti» ribadisce Monica Pepe-Altarelli. «Qui, a differenza di altre
istituzioni, si comunica. E parlo di comunicazione non solo tecnologica, ma
anche culturale e umana. Il Ce è un retaggio di cooperazione pacifica ed
efficiente tra popoli e paesi».

Con il potenziamento dell’Lhc i
ricercatori sperano di riprodurre lo stato di materia che si formò 10-35 secondi1 dopo il Big Bang, il momento in
cui l’universo cominciò ad essere visibile anche ad un ipotetico uomo che lo
avesse potuto guardare, dato che raggiunse la grandezza di una mela, pur
mantenendo una temperatura di 1030 gradi centigradi2. Fu, quella, l’Era dell’inflazione, quando la forza
elettronucleare si separò in due componenti, la forza elettrodebole e la forza
forte dando origine alle coppie di particelle e antiparticelle che si
annichilirono a vicenda.

L’umanità, quindi, farà un
ulteriore passo in avanti (o, se vogliamo, indietro, visto che il nastro degli
accadimenti verrà riavvolto verso l’inizio di tutto), giungendo molto vicina a
quella che fu la nostra nascita galattica, il Big Bang appunto.

«Sarà un viaggio incredibilmente
affascinante che ci permetterà di scoprire nuove frontiere restando comodamente
seduti davanti ai nostri computer» afferma Giulio Aielli, dell’Università di
Tor Vergata di Roma e ricercatore al detector Atlas, uno dei due laboratori del
Ce (l’altro è il Cms) in cui è stata dimostrata l’esistenza del bosone di
Higgs.

In questa Atene della Fisica (non
la sola al mondo) è inevitabile che si concentrino le attenzioni di numerose
istituzioni non solo scientifiche, ma anche umanistiche e, soprattutto,
religiose.

Lo studio dell’imperscrutabile e
dell’essenza di ciò che siamo è, da sempre, stato campo di scontro tra scienza
e teologia. Ma se dalla parte della fisica (il campo di cui ci stiamo
occupando) si riscontra una maggiore apertura verso il dialogo, in alcuni
ambienti teologici sussiste un atteggiamento di diffidenza (se non addirittura
di ostilità) verso la scienza.

Sergio Bertolucci, direttore della
ricerca e calcolo scientifico al Ce di Ginevra (cfr. intervista a pagg.
46-49
) smussa i toni affermando che «Il conflitto tra scienza e religione
non esiste più nella cultura occidentale da almeno trecento anni, dal momento
in cui la gente ha deciso che la fisica ha a che fare con lo spazio e il tempo
e la religione ha a che fare con quello che esiste al di fuori dallo spazio e
dal tempo. Ci sono ambiti come la medicina, in cui questa disputa è ancora
presente perché i confini sono meno separati gli uni dagli altri, ma nel caso
della fisica l’etica non viene modificata».

Eppure ancora oggi c’è chi contesta
questa distinzione: la laicità del Ce è stata oggetto di speculazioni e di
critiche da parte di chi vorrebbe la scienza asservita ai dogmi religiosi.
Durante un recente convegno di creazionisti evangelici americani, un oratore ha
contestato il fatto che al centro di ricerca europeo vi sia solo un simbolo
religioso, per di più non cristiano. Si tratta della statua di Shiva Nataraja,
il Signore della Danza, donata dal governo indiano nel 2004, che simboleggia la
danza della creazione e della distruzione cosmica di Shiva.

«Personalmente avrei preferito un
luogo meno pubblico, più appartato, ma non vi è stata alcuna polemica tra i
fisici per la scelta fatta. La fede è un problema personale, la scienza è un
problema all’interno di una costruzione della conoscenza. Il mio rapporto con
Dio è un problema personale perché nella conoscenza questo rapporto non esiste
dato che non lo posso verificare: o ci credo o non ci credo» spiega ancora
Sergio Bertolucci.


Alla ricerca del «tempo zero»

Per lefebvriani, creazionisti,
Testimoni di Geova e alcuni (per fortuna pochi) ambienti cattolici
integralisti, l’interpretazione della Bibbia viene fatta in modo letterale
dimenticando che è un libro scritto a più mani e redatto in funzione di una
riflessione teologica. Il versetto «Sapienza è riflesso della luce perenne, uno
specchio senza macchia dell’attività di Dio» (Sap 7, 26) viene così
interpretato in modo fondamentalista accettando solo quel tipo di ricerca della
conoscenza che viene fatta in nome di un fine teologico. Tutto quanto viene
proposto in alternativa a questa visione è visto come fumo negli occhi. Una
tesi molto diversa da quella formulata da agostiniani e francescani ancora nel
XIV secolo, che attribuisce una doppia proprietà alla luce parlando di luce
divina (lux divina) e luce contratta (lux contracta) considerano
la prima come la firma permanente di Dio del cosmo e la seconda come
partecipazione limitata della conoscenza di quello stesso Dio tramite la
ricerca scientifica. La luce sarebbe l’entità fisica mediatrice tra uomo e Dio,
secondo la tesi di Nicola Cusano, teologo e scienziato del XV secolo.

L’uomo riuscirà mai a raggiungere
il fatidico «Tempo zero», l’istante esatto da cui tutto ha avuto inizio? «Per
essere pragmatici stiamo parlando di qualcosa che difficilmente potrà accadere
nei prossimi milioni di anni» chiarisce Michelangelo Mangano (la sua
intervista sarà in un prossimo numero di MC, ndr
), uno dei massimi fisici
teorici che ha dedicato la sua vita allo studio delle particelle derivanti
dalle collisioni che avvengono all’interno dell’Lhc. «L’ umanità potrebbe anche
non avere tempo di raggiungere un tale traguardo: la comprensione di cosa sia
successo a T=0 (il punto esatto in cui si è manifestato il Big Bang, ndr);
qualora anche potesse raggiungere questo punto, non vedo uno scenario in cui la
scienza possa dimostrare che non vi sia alcun intervento divino».

In altre parole il versetto biblico
«La tua scienza ricoprì la terra, riempiendola di sentenze difficili» (Sir
47,15) mette alla prova scienziati e ricercatori a cui spetta il compito di «intuire»
queste sentenze difficili. 

Da Einstein a Pierre Teilhard de Chardin

Proprio come affermava Albert
Einstein, Dio, a differenza dell’uomo, non gioca a dadi, perché tutto è
prestabilito e fissato. Paradossalmente è stato proprio questo sottile
ragionamento a far rifiutare al grande scienziato ebreo il modello proposto dal
Big Bang di un universo in continua evoluzione e lo stesso «principio di
indeterminazione» di Heisenberg, secondo cui ogni oggetto è sia particella che
onda e, dunque, non è possibile determinare al tempo stesso posizione e velocità.

Einstein rifiutava l’idea che possa
esistere qualcosa di indeterminato nell’universo: Dio non può aver creato
qualcosa di cui neppure lui può determinare con assoluta certezza tutte le
caratteristiche. «Non posso credere nemmeno per un attimo che Dio giochi a dadi»
scriveva Einstein. «Piantala di dire a Dio che cosa deve fare con i suoi dadi»
gli rispondeva Niels Bohr, altra mente eccelsa della fisica modea.

Paradossalmente, però, è stata
proprio la meccanica quantistica a creare uno squarcio nel materialismo,
ridando vigore a chi crede nell’esistenza di Dio. Eugene Wigner, premio Nobel
per la fisica, ha detto che il materialismo non è una dottrina che regge dopo
l’introduzione della meccanica quantistica e la sua dottrina probabilistica.

«Il mondo, lungi dall’essere originato
dal caos, somiglia a un libro ordinato. Nonostante elementi irrazionali,
caotici e distruttivi intervenuti nel corso della sua trasformazione, resta
leggibile alla mente umana» ha specificato papa Benedetto XVI in un convegno
tenutosi nel 2008. È stato per merito di questo papa, fine teologo e scienziato
della mente umana, il cui pontificato è stato ingiustamente poco apprezzato,
che scienza e fede si sono riavvicinate scatenando le ire di chi si ostina a
vedere la scienza come eterno nemico della fede sino ad arrivare a negare anche
lo stesso Big Bang adducendo questioni puramente ideologiche o dogmatiche.

Una bella svolta rispetto all’Humani
generis
di Pio XII, che nel 1950 criticava la «temerarietà [di coloro che]
sostengono l’ipotesi monistica e panteistica dell’universo soggetto a continua
evoluzione».

Era, quello, un attacco neppure
troppo velato verso il gesuita e scienziato Pierre Teilhard de Chardin, che
qualche anno prima aveva cercato di conciliare scienza e religione con la
teoria di una Coscienza suprema, il Punto Omega, che vedeva unire le coscienze
attraverso l’evoluzione. Il Punto Omega altri non è che Cristo («Dio è dunque
l’esito finale dell’evoluzione») che, tramite una forza attrattiva (metafora
della forza gravitazionale), curva le pulsioni dell’uomo (spazio-tempo) sino a
farle convergere in se stesso. Una sorta di Big Crunch
teologico-scientifico.

La Noosfera di Teilhard è il luogo
in cui l’uomo condivide i sentimenti e i desideri con tutto il creato, il
vertice piramidale verso cui convergono tutte le strutture dell’universo. Una
sorta di Dna del cosmo in cui ogni atomo, ogni cellula, è consapevole del
proprio insieme e del Tutto. Teilhard afferma che «spostare un oggetto
all’indietro nel passato equivale a ridurlo nei suoi elementi più semplici. (…)
le ultime fibre del composto umano si confondono con la stoffa stessa
dell’universo».

La stoffa dell’universo sono le
particelle elementari. Insomma, il gesuita fu un precursore degli scienziati
del Ce.


Il dibattito sul Big Bang:


Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Lemaître

«La conoscenza della fisica
progredisce in maniera talmente immensa che, se guardiamo alla scienza di soli
cento anni fa, essa oggi ci sembra primitiva» ricorda Michelangelo Mangano, il
quale continua: «Questo non è vero per la religione. Il sistema religioso può
essere più o meno affinato e raffinato nella maniera in cui si descrivono e si
pongono i concetti. Però i concetti base sono rimasti sempre quelli: non c’è
all’interno del pensiero religioso uno spazio epistemologico. Se, fra qualche
miliardo di anni la scienza avrà fatto dei progressi tali da potersi porre un
problema di questo tipo, non vedo perché questa conoscenza debba, o non debba,
riflettere il concetto di Dio o entità superiore».

Naturalmente la ricerca
scientifica, in quanto ricerca, deve possedere quella che Sergio Bertolucci
definisce «onestà intellettuale, che non è solo prerogativa del Ce, ma deve
essere comune a tutta la scienza. Onestà intellettuale significa che bisogna
evitare i pregiudizi, le scorciatornie, riconoscere costantemente la propria
inadeguatezza nel fatto che non si capisce, ma al tempo stesso non bisogna
perdere l’ottimismo. Se un esperimento non procede nel verso previsto, non
bisogna desistere».

È un concetto, questo, che può essere
espresso con chiarezza dalle parole di papa Giovanni Paolo II al congresso di
cosmologia avvenuto in Vaticano nel 1981 e a cui era stato invitato anche lo
scienziato Stephen Hawking. Durante quel convegno il papa ribadì che la scienza
poteva indagare su quello che era successo dopo il Bing Bang, ma quello che era
successo prima apparteneva a Dio.

Stephen Hawking aveva invece
formulato una teoria per cui il tempo si muoveva in maniera circolare
escludendo, dunque, la necessità di un Dio. Il concetto, poi, è stato ribadito
nel libro Il grande disegno: «Poiché esiste la legge di gravità,
l’universo può crearsi e si crea dal nulla. La creazione spontanea è il motivo
per cui c’è qualcosa anziché nulla, per cui l’universo esiste, per cui noi
esistiamo! Non è necessario invocare Dio».

Questa diversità di vedute non ha
impedito alla Pontificia Accademia delle Scienze di nominare Hawking proprio
membro nel 1986. Una dimostrazione in più, se vogliamo, dei tentativi di
conciliazione post-galileana da parte della Chiesa cattolica.

Ne è passata di acqua dopo il
Concilio e se la religiosa Radio Vaticana, in piena contestazione studentesca
mandava in onda canzoni come Dio è morto di Guccini o Il Testamento
di Tit
o di Fabrizio De André censurate invece dalla vecchia Rai,
altrettanta strada è stata fatta in campo scientifico.

È stato ancora papa Benedetto XVI a
riabilitare Theilhard de Chardin, facendo propria la «visione che poi ha avuto
anche Theilhard de Chardin: alla fine avremo una vera liturgia cosmica, dove il
cosmo diventi ostia vivente».

Naturalmente questa visione è
duramente confutata dai creazionisti, la cui popolarità negli Stati Uniti è
approdata anche nelle serie televisive. In The Big Bang Theory, Sheldon
contesta alla madre, fervente religiosa e creazionista che «L’evoluzione non è
mai stata una opinione, ma un dato di fatto», per poi sentirsi rispondere dalla
stessa madre: «E questa è esclusivamente una tua opinione».

Eppure le prime speculazioni sul
Big Bang sono state sviluppate da due rappresentanti di istituzioni dalle idee
opposte tra loro: un fisico sovietico, Aleksandr Aleksandrovi Friedman
(1888-1925) e da uno scienziato cattolico belga, il gesuita Georges Edouard
Lemaître (1894-1966). Entrambe, sebbene in termini diversi ed in modo
indipendente l’uno dall’altro, elaborarono una teoria rivoluzionaria:
l’universo non è statico e immutabile, bensì in continua evoluzione. Il
sovietico Friedman, pur non arrivando alla conclusione che l’universo fosse in
continua espansione, scrisse che nel tempo passato tutto ebbe inizio da un
singolarità di volume pari a zero. Il gesuita Lemaître invece, basandosi sulla
legge di gravità di Einstein pubblicata nel 1915, postulò l’idea di un universo
in evoluzione che si dilatava in tutte le direzioni con una velocità di recessione
direttamente proporzionale alla distanza delle galassie.

Le congetture di Friedman e Lemaître
vennero considerate con scetticismo dal mondo scientifico fino a quando Edwin
Hubble, nel 1929, all’osservatorio astronomico del Monte Wilson in Califoia,
dimostrò che le galassie si allontanano le une dalle altre ad altissima velocità,
confermando l’ipotesi che Lemaître aveva fatto due anni prima.

Il gesuita, confortato dalla
scoperta di Hubble, si spinse a proporre un modello di creazione dell’universo
veramente rivoluzionario: se le galassie si allontanano, allora riavvolgendone
il corso temporale è possibile risalire ad un punto di inizio in cui tutta la
massa dell’universo attuale era concentrata in un unico atomo, che chiamò atomo
primigenio, o atomo primitivo, contenente tutta la materia di cui è composto
l’intero universo.

Fu questa visione di Lemaître,
espressa il 9 maggio 1931 in un articolo su Nature, che Einstein rigettò.
In seguito lo scienziato ebreo si ravvide definendo questo rifiuto come uno dei
più grandi errori della sua vita.

L’idea dell’uovo cosmico, metafora
attribuita, forse erroneamente, allo stesso Lemaître piuttosto che dell’atomo,
si avvicinava meglio al postulato del prete belga: l’esplosione sarebbe
avvenuta non partendo da una singolarità, come aveva scritto Friedman, ma da un
punto leggermente spostato in avanti nel tempo. In questo modo l’abate
rispettava anche il principio di San Tommaso d’Aquino, dottore della Chiesa,
che nella Summa Teologica affermava che l’inizio del mondo è
esclusivamente oggetto di fede e nessuna dimostrazione scientifica potrà mai
arrivare a tanto.

Ma Lemaître si spinse oltre: espose
il concetto che l’intero universo fosse permeato da una radiazione di fondo
generata dall’esplosione primordiale. Se si fosse dimostrata l’esistenza di
quella radiazione, si sarebbe avuta la conferma definitiva della creazione da
un unico punto.

Fino agli anni Sessanta Lemaître si
riferiva al suo modello chiamandolo, a seconda dei casi, modello dell’atomo
primitivo o modello dei fuochi artificiali, una metafora che rende
comprensibile, anche a chi è a digiuno di fisica e di astronomia, la nascita
improvvisa ed espansiva dell’universo.

Un universo eterno e immutabile

In alternativa all’archetipo del gesuita
belga, nel 1948 gli scienziati Fred Hoyle, Hermann Bondi e Thomas Gold
proposero la teoria dello stato stazionario.

La legge da cui i tre ricercatori
partivano per confermare i loro assunti, era il Principio cosmologico perfetto
secondo cui l’universo è immutabile e identico in ogni punto e in ogni epoca. A
prima vista l’idea di un mondo invariato avrebbe potuto far pensare a un
rimando dogmatico di stampo religioso (ed è per questo che venne accolta con
favore dagli ambienti conservatori cristiani), ma essa era proprio la tesi che
i tre scienziati volevano confutare. Secondo loro l’idea di Lemaître collimava
troppo con la creazione biblica e occorreva riportare la scienza nel suo alveo
neutrale.

La teoria dello stato stazionario
andava a conciliarsi con la Legge di Hubble grazie all’idea di una continua
creazione di materia. In questo modo la densità energetica totale si sarebbe
mantenuta costante. Considerando la grandezza dell’universo e la sua espansione
secondo la costante di Hubble, la creazione di materia necessaria a compensare
la perdita di densità sarebbe stata bassissima: un atomo di idrogeno per ogni
metro cubo di spazio in un miliardo di anni.

Fu durante questa iniziale
controversia che il 28 marzo del 1949 Fred Hoyle, durante un programma
radiofonico alla BBC contestò «l’ipotesi che tutta la materia dell’universo sia
stata creata durante un big bang in un tempo preciso del passato remoto».
L’idea di un improvviso big bang fu talmente efficace che il neologismo,
originariamente creato per screditare il modello di Lemaître, venne adottato
dal mondo scientifico e non. Nel 1993 la rivista astronomica Sky and
Telescope
avviò un concorso mondiale per trovare un nuovo nome alla teoria
del Big Bang. La giuria composta da astronomi, presentatori televisivi e
scrittori di fama mondiale decise che nessuna delle 13.099 proposte pervenute
fosse migliore di Big Bang.

Il modello di Lemaître non
spiegava, però, cosa fosse in realtà l’atomo primigenio, limitandosi a dire che
in quella limitata sfera era racchiusa tutta la massa che avrebbe poi composto
l’universo così come oggi lo vediamo.

Nel 1948 fu Ralph Alpher il primo a
suggerire l’idea di un «brodo primordiale» di fotoni e particelle nucleari da
cui si sarebbe evoluto l’universo. Il 24 aprile 1948 Science News Letter
pubblicò un articolo in cui, parlando della bomba atomica, citò un passo di una
relazione di Alpher, secondo cui «All’inizio di tutto, l’universo aveva densità
infinita concentrata in un singolo punto zero. Poi, appena 300 secondi – cinque
minuti – dopo l’inizio di tutto, ci fu una rapida espansione e raffreddamento
della materia primordiale. I neutroni – le particelle che innescano la bomba
atomica – iniziarono a decadere in protoni costruendo i mattoni per gli
elementi più pesanti (…) Questo atto di creazione degli elementi chimici durò
un tempo sorprendentemente corto, appena un’ora». La Bibbia indica in circa 6
giorni l’atto della creazione.

Teorie e dibattiti

La teoria del Big Bang fu
contrastata dall’Unione Sovietica, che la considerava troppo legata alla
religione e al mito biblico della creazione. Nel 1948 gli scienziati sovietici
si riunirono a Leningrado per cercare una soluzione alternativa e più
materialistica al redshift, o spostamento verso il rosso, il fenomeno
secondo cui la velocità di allontanamento delle galassie comporta uno
spostamento della luce da loro emessa verso il rosso cosa che dimostra la
veridicità della Legge di Hubble.

Nel 1951, durante la Conferenza di
Cosmogonia, il rifiuto del Big Bang si fece più determinato, ma non si
trovarono alternative sufficientemente supportate dalla scienza per contrastare
l’idea dell’origine dell’universo. Solo dopo la morte di Stalin la cosmologia,
l’astrofisica e l’astronomia sovietica cominciarono ufficialmente ad accettare
l’idea del Big Bang. La questione scientifica tenne banco fino al 1965 quando
Ao Penzias e Robert Wilson scoprirono che le loro ricerche erano
continuamente disturbate da un «rumore» di fondo. Da tre anni i due astronomi
avevano notato che un segnale uniforme inquinava il segnale captato dal loro
telescopio. Escludendo un difetto tecnico, interferenze urbane o
extraterrestri, scoprirono che la radiazione si manteneva costante anche
durante le stagioni, eliminando dunque anche la possibilità che fosse originata
da qualche sorgente del sistema solare.

La loro scoperta fu associata al
Big Bang da Robert Dicke e James Peebles dell’Università di Princeton, i quali,
nell’Astrophysical Joual del luglio 1965 scrissero che la «palla di
fuoco primordiale» in cui la materia cessò di essere in equilibrio termico (i
due scienziati non parlarono né di Big Bang, né di creazione o di origine
dell’universo) aveva ora la conferma scientifica preconizzata da Georges
Edouard Lemaître: la radiazione di fondo.

Il Vaticano appoggiò con estrema
cautela la tesi del Big Bang sin dall’inizio, anche se, proprio come diceva
Lemaître, non è una conferma biblica perché, nelle parole di padre José Funes,
direttore della Specola Vaticana «Il Big Bang è, sino ad oggi, la migliore
spiegazione che abbiamo sulla nascita dell’universo: è comprovata
scientificamente da numerose osservazioni e non è in contrasto con la fede. La
Bibbia non è una spiegazione scientifica del mondo: è stata scritta da uomini
ispirati da Dio, migliaia di anni fa».

«La vita ha un orologio?»

L’interesse per il dialogo tra
religione e scienza è aumentato negli ultimi decenni con gran soddisfazione
anche delle case editrici, che hanno visto moltiplicare le vendite di libri che
trattano, direttamente o indirettamente, temi metafisici come Il Codice da
Vinci, Harry Potter, Angeli e Demoni
, quest’ultimo parzialmente ambientato
al Ce, ma come afferma Sergio Bertolucci «anche se la prima parte del film è
sostanzialmente inserita al Ce, non un singolo fotogramma è stato girato al centro
di ricerca».

E quando l’argomento trattato è
troppo specifico e professionale per essere dato in pasto al grande pubblico,
ecco che si trovano furbescamente soprannomi fuorvianti, il cui unico scopo è
quello di fare immediata presa sui mass media e pubblicizzare un prodotto
altrimenti troppo di nicchia. La vicenda del bosone di Higgs – il cui
appellativo è stato cambiato dalla casa editrice Houghton Mifflin Company di
Boston dall’originale Goddam Particle («la particella dannata) a God
Particle
(«la particella di Dio») – è un classico esempio di una maldestra
manipolazione della ricerca scientifica che rischia di increspare ulteriormente
le acque tra scienza e religione.

Come ha giustamente scritto il
fisico Vivek Sharma, uno dei protagonisti della ricerca del bosone di Higgs: «Detesto
il nome “particella di Dio”. Non sono particolarmente religioso, ma trovo il
termine offensivo verso coloro che lo sono. Io sperimento la fisica, non Dio».

Ma mettere d’accordo profitto e
verità, si sa, è un po’ come ritirarsi in Texas a insegnare evoluzionismo ai
creazionisti, come si era provocatoriamente prefisso di fare Sheldon Cooper il
protagonista della serie The Big Bang Theory.

Il Ce resta comunque una preziosa
testimonianza di convivenza pacifica tra i vari popoli e, anche chi non è
particolarmente interessato alla fisica, rimane colpito dalla varietà di
culture, lingue, religioni, stili di vita che si intrecciano quotidianamente al
centro.

Si può affermare, in questo caso,
che la scienza è riuscita a compiere ciò che la religione non ha mai fatto:
unire le persone di così tante e varie culture. È pur vero che si parla di
persone particolarmente mature dal punto di vista culturale e motivate
professionalmente, ma le differenze culturali, religiose, politiche se le
portano comunque appresso ed il fatto che vengano smussate è un traguardo
comunque notevole.

«Questo perché la scienza non si
basa sulla fede acquisita, ma su dati di fatto concreti sui quali si è chiamati
a confrontarsi e su cui tutti convergono». spiega Michelangelo Mangano. «Un
esempio sono gli studenti palestinesi che lavorano al Ce, i quali sono pagati
da borse di studio di fondazioni israeliane. Inoltre ai vari esperimenti
lavorano assieme americani e iraniani, musulmani e ebrei, cattolici e ortodossi».

Un centro non solo di fisica,
quindi, ma anche di sviluppo di cultura umana per cercare di rispondere
all’eterna domanda senza risposta: che cosa è la vita? Una risposta l’ha
tentata la poetessa Raquel Lanseros una dei sei poeti dell’Accademia mondiale
di poesia invitati al Ce per comporre opere ispirate all’infinitamente
piccolo e all’infinitamente grande: «Un giorno nel futuro, in un posto
qualsiasi, un uomo solitario guarderà verso i cieli. Proprio come migliaia e
milioni di anni prima (se “prima” e “dopo” esistono veramente). La vita ha un
orologio? O è la vita il motore dell’orologio?».

Piergiorgio
Pescali


Piergiorgio Pescali




E fu subito insicurezza (Do/Rd Congo 1)

Scegliere l’Africa e ritrovarsi in Congo


Lasciata la Spagna dove faceva una tranquilla vita da animatore
missionario, nel 1991 padre Rinaldo Do arriva a Kinshasa, la capitale dello
Zaire, futura Repubblica Democratica del Congo (Congo RD). Mobutu è ancora al
potere. Sono tempi turbolenti di violenze, disordini e saccheggi. Un
eccezionale battesimo alla vita missionaria. In questa lunga chiacchierata
padre Rinaldo ci rende partecipi di oltre venti anni di emozioni, fatiche,
giornie e speranza. Un’avventura che non è ancora finita.

Era
il 1986 quando sono andato in Congo per la prima volta. Si chiamava ancora
Zaire. È stato un contentino. Ero animatore missionario in Spagna, e mi hanno
permesso di fare un viaggio di tre mesi, per caricarmi.

Ho due ricordi di quel viaggio. Uno negativo: mi ero
messo a fare fotografie nell’aeroporto di Kinshasa dove era proibitissimo.
Quasi mi facevo cacciare ancora prima di entrare! L’altro ricordo è invece
bellissimo: la gioia, la festa delle messe, i canti e le danze, gli incontri
con i confratelli, lo splendido lavoro che stavano facendo a Doruma e a Wamba,
il cantiere per la costruzione della parrocchia di San Mukasa a Kinshasa. Il
Congo mi aveva preso il cuore.

Ma la vera partenza è stata nel 1991. Nell’86 avevo
visitato le missioni. Avevo avuto la possibilità di conoscere un po’ un paese
di missione, una Chiesa giovane. Poi finalmente nel 1991 mi hanno lasciato
partire. Avevo chiesto «Africa» in generale e mi hanno mandato proprio in Zaire
dove mi hanno accolto veramente bene.

Gli anni di Kinshasa

Sono arrivato con l’idea di andare
verso il Nord Est, in mezzo alla foresta, là dove i nostri missionari sono più
isolati. Invece il superiore mi ha proposto di diventare viceparroco a
Kinshasa, proprio nella parrocchia di San Mukasa che avevo visto in costruzione
nell’86. è sembrato un sogno
infranto, invece l’obbedienza si è rivelata una benedizione. Fino allora avevo
vissuto un’esperienza di animazione missionaria senza una responsabilità
diretta in una comunità e l’entrare nella pastorale (comunità di base, gruppi,
giovani, catechesi, scuole…) mi è servito molto. Kinshasa è una diocesi ben
organizzata, dove la presenza dei laici è veramente l’anima della Chiesa. La
forza della nostra enorme parrocchia (che qualche anno dopo è stata consegnata
alla diocesi) erano i laici e padre Santino Zanchetta, che era il parroco,
lavorava molto bene. Sono rimasto là dal ’91 al ’98.

San Mukasa è in un quartiere di
periferia della grande città di Kinshasa che ha oltre dieci milioni di
abitanti. Il quartiere non aveva strade vere e proprie e quella che conduceva
alla parrocchia era orribile, soprattutto durante le piogge. Spesso, come
comunità cristiana, abbiamo cercato di ripararla. Oltre la strada mancavano
l’elettricità, l’acqua potabile, le scuole e i servizi medici e sanitari. La
zona, però, non era il classico slum o bidonville, con case poste
una sull’altra, senza verde e senza ordine. Era una tipica zona di periferia,
con tanto verde, dove ogni famiglia aveva la sua «parcel», un pezzo di terreno
regolarmente assegnato, con la sua casetta. Case e non baracche, frutto del
boom degli anni ’70. Però molte erano incompiute o semi abbandonate perché poi
era arrivata la crisi. La dittatura di Mobutu era in declino e nel ’91, quando
sono arrivato, c’era stata una Conferenza nazionale per cercare di fare una
revisione di tutti quegli anni e prospettare un cammino di democrazia per il
paese.


Tra paura e saccheggi

È stato un periodo duro e turbolento, di saccheggi e
ladri in casa. Ci han preso la macchina e siamo stati fortunati a recuperarla,
dato che per noi era essenziale. La gente faceva la fame perché c’era poco
lavoro, e quello che c’era era poco remunerato. Migliaia erano i disoccupati.
In parrocchia, con l’aiuto di un organismo della Comunità europea, avevamo
trovato un canale per comprare mais e arachidi da rivendere a un prezzo
accessibile e nello stesso tempo sufficiente per darci un piccolo guadagno da
usare in aiuto ai più poveri delle varie comunità di base. La macchina ci
permetteva di rifoirci di cibo, di andare a cercare medicine, di fare tanti
servizi importanti per tutti. Per ben due volte siamo stati attaccati in casa
da gente armata, forse militari, forse no, pericolosi comunque. Grazie a Dio è
andata sempre bene. Tanta paura, certo…

Questo è stato il mio battesimo alla vita missionaria.
Sono arrivato a giugno del ’91 e a settembre c’è stato il grande saccheggio di
Kinshasa che ha lasciato la città in rovina. Non è stato un colpo di stato. A
proposito ci sono diverse teorie. Una dice che i militari non pagati si sono
rivoltati e hanno cominciato a saccheggiare negozi, fabbriche, banche, case di
ricchi e, dietro i militari, naturalmente, c’era anche il popolino, la gente
affamata. È durato per due o tre giorni. Poi Mobutu ha mandato la sua guardia
presidenziale e tutto è finito, come per dire: «Vedete, se c’è qualcuno che può
tenere calmo e sotto controllo lo Zaire, quello sono io». Un’altra teoria dice
che sia stato lo stesso Mobutu a dire ai militari: «Di soldi per pagarvi non ce
ne sono, trovateveli». Ma cambiando i fattori, il risultato è lo stesso. Ho
visto la città distrutta. I nostri ambasciatori avevano messo a disposizione
gli aerei, e chi voleva poteva andare via. Però noi missionari abbiamo deciso
di rimanere. Abbiamo firmato e siamo rimasti per ben due volte.

Rimanere: una presenza che conta

Mi ricordo che era il ’93 quando c’è
stato il secondo saccheggio. L’ambasciatore italiano mi ha detto: «Perché non
andate in altri paesi dove lo stato vi aiuta, dove se dovete costruire una
scuola vi dà un pezzo di terreno, dove non vi mette delle tasse? Qui non solo
non vi aiutano, ma vi rubano e vi saccheggiano». Io ho risposto: «Guardi, sig.
ambasciatore, se fossimo degli impresari come gli altri stranieri che sono
andati via, lei avrebbe perfettamente ragione, perché non conviene investire in
un paese dove non c’è sicurezza. Ma il fatto è che il nostro Capo (e gli facevo
il segno in su!) non la pensa così». Dove c’è miseria, sofferenza, difficoltà,
guerra, e dove la gente soffre, lì il missionario è presente.

E in quegli anni la nostra presenza
era proprio «solo presenza». Come missionari non avevamo grosse possibilità,
non essendo uno di quegli organismi che possono fare grandi cose perché
ricevono sostanziosi aiuti da governi o dall’Onu. Negli anni della guerra, a
Kinshasa o nel ’98 quando ero a Doruma, quel che contava era la presenza: le
persone vedevano che il missionario, il loro sacerdote, il loro prete era in
mezzo a loro. Il semplice fatto di non essere scappati, di restare con la
gente, dava tanta serenità e coraggio.

Tags: Rd Congo, missionari, evangelizzazione, vita missionaria, guerra, decolonizzazione, Kabila, Zaire, Mobutu

Tre giorni di fuoco

Il 2 agosto 1998 cominciò l’offensiva. La gente del
quartiere era terrorizzata e non sapeva cosa fare. Gli uomini erano fuggiti per
paura di essere presi dai soldati. Donne e bambini, rimasti soli, si
rifugiarono nella nostra casa. Condividemmo quel po’ di riso e quant’altro
rimaneva delle scorte del seminario. Un gesto di solidarietà che è stato
ampiamente ripagato: in seguito la gente ci ha aiutato, soprattutto vigilando
sulla nostra casa, affinché non diventasse oggetto di rapine e saccheggi.

Per tre giorni, tappati in casa, sentivamo le pallottole
fischiare senza interruzione e senza sapere cosa capitasse fuori. Nessuno
fiatava. La notte, poi, senza luce elettrica, tensione e paura diventavano
palpabili. Quando si sparse la notizia
che i soldati di Kabila avrebbero bombardato Mont Ngafula, la gente cominciò a
fuggire all’impazzata verso il fondovalle. Una fiumana di persone scendeva la
collina, ciascuno tirandosi dietro i bambini, una pentola, due stracci, in una
fuga frenetica e disordinata, per arrestarsi di fronte ai blocchi militari.

Ad ogni barriera mi sentivo nell’occhio del ciclone: fui
minacciato e molestato più degli altri. […] A uno di quei blocchi non ricordo
cosa sia successo: mi trovai inginocchiato per terra, con un mitra puntato alla
testa. Un soldato urlava contro i bianchi, colpevoli di avere alloggiato i
ribelli. Col mitra puntato alle tempie, dapprima rimasi muto per l’incredulità;
poi stordito e pieno di paura; infine chiusi gli occhi e mi sentii pervaso da
una grande pace. Non so quanto tempo restai in quella posizione: un minuto o
un’eternità. Ricordo solo che, quando riaprii gli occhi, non vidi più nessuno
attorno a me. Mi alzai di scatto e rincorsi la gente, sentendomi risuscitato.

Rimasi nel fondovalle per tre giorni. Avrei potuto
raggiungere il seminario teologico verso il centro città, ma preferii restare
con la gente, accampata sulla strada, senza acqua né cibo, con i bambini che
piangevano.

I cannoni sparavano contro la collina. […] La
domenica, cessato il bombardamento, sperimentai uno dei momenti più commoventi
della vita. La gente mi circondò per dirmi: «Grazie, padre, perché sei rimasto
con noi» e tante parole piene di amicizia e solidarietà. Poi arrivarono i
confratelli che in quei giorni mi avevano cercato, pieni di apprensione per la
mia sorte. È stato bellissimo riabbracciarsi.

 

Padre Stefano
Camerlengo

(Da MC febbraio 2000, pag.
22-23)

Rinaldo Do e Gigi Anataloni




Da Zaire a RD Congo  Cronostoria (Do/Rd Congo 2)

1960, 30 giugno. La colonia Congo Belga diventa Congo, nazione
indipendente. Ne è presidente Kasavubu, primo ministro Patrice Lumumba e capo
di stato maggiore Joseph Désiré Mobutu. L’11 luglio Moise Tshombe dichiara la
secessione del Katanga.

1961, 18 gennaio. Assassinio di Lumumba. Due anni dopo, le forze delle
Nazioni Unite sconfiggono i secessionisti della ricca regione del Katanga, che
si chiamerà Shaba.

1964, gennaio. I guerrieri simba di Mulele occupano il Nordest
del paese; fra i militanti c’è Laurent Désiré Kabila. Ma l’avventura fallisce:
Mulele è fucilato e Kabila fugge.

1966, 6 gennaio. Deposto con un golpe Kasavubu, Mobutu assume pieni
poteri, e nel 1967 instaura un regime a partito unico (Movimento popolare
rivoluzionario). Il 30 ottobre 1970 Mobutu, unico candidato in lizza, diventa
presidente.

1971, 21 ottobre. Il Congo diventa Zaire. Sull’onda dell’«autenticità»,
Mobutu rinnega il proprio nome cristiano, sostituendolo con Sese Seko.

1975-1990. Tempo di corruzione, mentre il presidente dittatore si
arricchisce. Sono pure anni di guerra e repressione: nel 1977 scoppia il
conflitto dello Shaba, nel quale intervengono Francia e Marocco; nel 1978 un massacro
di europei nello Shaba richiama i parà francesi; l’11 maggio 1990 a Lubumbashi
cadono decine di universitari.

1991, 7 agosto. Mobutu, costretto al multipartitismo, subisce la
Conferenza nazionale, presieduta dal vescovo Laurent Monsengwo, deputata a
scrivere una nuova Costituzione. Il 2 ottobre Etienne Tshisekedi, capo
dell’opposizione, è primo ministro; il giorno 10 viene destituito. Belgi e
francesi, vista la resistenza di Mobutu alla democrazia, interrompono (a
parole) la cooperazione militare e civile.

1992, 15 agosto. La Conferenza nazionale nomina Tshisekedi primo ministro
di un governo unitario «ombra». Il 6 dicembre nasce il Consiglio della
repubblica, sempre per redigere la Costituzione; lo presiede mons. Monsengwo.

1993-95.
Saccheggi di militari non pagati, diatribe fra Mobutu e Tshisekedi. È disastro
economico. La gente ha esaurito ogni sopportazione. Intanto, nel luglio 1994,
circa due milioni di profughi rwandesi si accampano nello Zaire.

>  1996, Febbraio. Poiché lo Zaire è allo sfascio, il «leopardo» (Mobutu) è
costretto a promettere libere elezioni. Ma in ottobre l’Alleanza delle forze
democratiche, capitanate da Kabila e sostenute da Rwanda, Burundi, Uganda,
Stati Uniti e da mercenari vari, inizia da Uvira la conquista militare della
nazione. Sono i Banyamulenge, ossia Tutsi del Rwanda e del Burundi
presenti nel paese da due secoli.

1997, 6 gennaio. Mobutu sfida i ribelli: l’integrità territoriale del
paese non si discute. Però i soldati di Kabila avanzano, trovando scarsa
resistenza nelle Forze armate zairesi di Mobutu. Contemporaneamente circa 300
mila profughi hutu ritornano in Rwanda fra indicibili sofferenze.
17 maggio. Dopo aver percorso a piedi centinaia di chilometri, le
truppe dell’Alleanza entrano vittoriose a Kinshasa. Kabila si autoproclama capo
dello stato. Dallo Zaire si passa alla Repubblica democratica del Congo.
Vietate le attività dei partiti.
16 giugno.
Organismi umanitari sostengono che i soldati di Kabila, durante la conquista
del paese, abbiano sistematicamente massacrato numerosi profughi rwandesi.
7 settembre. Mobutu,
con un cancro alla prostata, muore in Marocco: lascia ai famigliari
(all’estero) un’eredità di 6 miliardi di dollari. Ha tenuto in pugno lo Zaire
per 32 anni, indebitandolo per 14 miliardi di dollari. Kabila sarà migliore?

1998, 27 luglio. Kabila, dopo aver ringraziato Uganda e Rwanda, li invita
a lasciare il paese. Ma gli ex alleati dichiarano la seconda guerra in Congo
(la prima fu contro Mobutu). Kabila resiste, sostenuto da Zimbabwe, Angola e
Namibia. I paesi stranieri, presenti in Congo, mirano alle sue risorse agricole
e minerarie.

1999, luglio. A Lusaka (Zambia) le parti coinvolte nel conflitto in
Congo firmano un accordo di pace che prevede: ritiro delle truppe straniere dal
paese, rispetto della sua integrità nazionale, instaurazione della democrazia.
Il «cessate il fuoco» non regge. Intanto gli Stati Uniti simpatizzano per
l’Uganda e il Rwanda (che però si combattono), mentre la Francia ammicca a
Kabila. Gruppi di ribelli congolesi fanno sapere che, se il paese verrà diviso
(come si dice), sceglieranno la strada della guerriglia.

2000, 14 aprile. Ancora un «cessate il fuoco»,
firmato a Kampala (Uganda) da tutti i contendenti. Però il 5 maggio, alla
periferia di Kisangani, soldati rwandesi e ugandesi si danno battaglia. I
combattimenti proseguono nelle settimane successive; viene colpita anche la
cattedrale: mille morti, migliaia di feriti e numerosi abitanti senza tetto in
balia della fame e delle epidemie.
17 giugno. Il
Consiglio di sicurezza dell’Onu intima l’ennesimo «stop» ai due belligeranti e
il ritiro di tutte le forze. Ma l’anarchia politico-militare continua.

2001, gennaio. Il presidente Laurent-Désiré Kabila, 62 anni, è
assassinato da una delle sue guardie del corpo (secondo la versione ufficiale).
Dieci giorni dopo, Joseph Kabila, non ancora trentenne, succede al padre. Febbraio:
Joseph Kabila incontra il presidente rwandese Paul Kagame a Washington (Uganda,
Rwanda e le forze ribelli accettano di ritirare le loro truppe dalla linea del
fronte). Maggio: l’agenzia Onu per i rifugiati dice che la guerra, dal
1998, ha ucciso 2,5 milioni di persone. Ottobre: inizia ad Addis Abeba
(Etiopia) il dialogo intercongolese; l’Onu dispiega i primi caschi blu (Monuc).

2002, gennaio. Un’eruzione del vulcano Nyiaragono devasta gran parte
della città di Goma (nell’Est del paese). Dopo due pre-accordi, nei colloqui di
pace in Sudafrica (aprile e luglio) si stabilisce che gli eserciti di Rwanda e
Uganda si ritirino dal territorio congolese; si decide anche il disimpegno
delle truppe di Zimbabwe e Angola. Settembre-ottobre: Uganda e Rwanda
dichiarano di aver ritirato gran parte delle loro truppe dal paese. Dicembre:
a Pretoria è firmato un accordo globale e inclusivo, che prevede due anni di
transizione alla democrazia e, alla fine, elezioni presidenziali e legislative.
Continuano i combattimenti nella regione di Uvira tra i guerriglieri Mayi-Mayi
e le truppe ruandesi. La Monuc schiera 8.700 caschi blu.

2003, aprile. Prende il via il processo di transizione con governo
(presieduto da Kabila con 4 vicepresidenti) e parlamento; è creato un Comitato
internazionale di accompagnamento alla transizione (Ciat); inizia il processo
di disarmo, smobilitazione e reinserimento nella vita dei combattenti (i morti
della guerra sono saliti a oltre 3 milioni, in gran parte civili). Maggio:
le ultime truppe ugandesi lasciano il Congo. Luglio: gli effettivi della
Monuc sono 10.800; i leader dei principali ex gruppi ribelli giurano come
vicepresidenti del paese. Agosto: inaugurato il parlamento ad interim. Fine
anno
: i donatori inteazionali, riuniti a Parigi, promettono 3,9 miliardi
di dollari per la ricostruzione.

2004, gennaio-giugno. Inizia la formazione della prima brigata dell’esercito
nazionale integrato. Marzo: fallisce un colpo di stato attribuito a
mobutisti. Giugno: uomini della guardia presidenziale tentano di
rovesciare Kabila; militari Banyamulenge, con il supporto di truppe di
Laurent Nkunda (generale tutsi congolese), occupano la città di Bukavu per una
settimana; la Monuc (16.000 uomini) è contestata per non aver saputo difendere
Bukavu; un rapporto Onu afferma che «il Rwanda destabilizza l’Rd Congo», ma
Kigali rigetta l’accusa.

2005, maggio. Il parlamento adotta la nuova Costituzione. Settembre:
l’Uganda afferma che potrebbe rientrare nell’Rd Congo per inseguire i ribelli
dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra), gruppo ribelle guidato da Joseph
Kony. Dicembre: la nuova Costituzione, già approvata dal parlamento,
supera la prova del referendum.

2006, febbraio. La nuova Costituzione entra in vigore; è adottata una
nuova bandiera; decine di migliaia di donne e ragazze vengono stuprate
dall’esercito e dalle milizie. Luglio: dalle elezioni politiche e
presidenziali (le prime libere in 40 anni) non esce alcun chiaro vincitore:
Joseph Kabila e il candidato dell’opposizione Jean-Pierre Bemba si contendono
il secondo tuo a fine ottobre; forze leali ai due candidati si scontrano
nella capitale. Novembre: Kabila è dichiarato vincitore del secondo
tuo. Dicembre: le forze del generale Laurent Nkunda si scontrano con
l’esercito regolare (sostenuto dalle forze dell’Onu) nel Nord Kivu (50mila
persone costrette a fuggire).

2007, marzo. Nuovi scontri a Kinshasa tra truppe governative e
soldati leali a Bemba. Aprile: Rd Congo, Rwanda e Burundi rilanciano la
Comunità economica delle nazioni dei Grandi Laghi (nell’acronimo francese:
Cepgl); Bemba parte per il Portogallo, dopo essersi rifugiato per tre settimane
nell’ambasciata sudafricana; Serge Maheshe, giornalista della Radio Okapi, è
assassinato (è il terzo giornalista ucciso nell’Rd Congo dal 2005). Agosto:
Uganda e Rd Congo dicono di volere allentare le tensioni dovute a una disputa
sui confini; aumenta il numero dei rifugiati e sfollati nel Nord Kivu, a causa
della instabilità dovuta alle operazioni del generale dissidente Nkunda. Settembre:
scoppia un’epidemia di ebola.

2008, gennaio. Il governo e le milizie dei ribelli firmano un patto per
porre fine al conflitto nell’Est del paese. Aprile: scontri tra
l’esercito regolare e le milizie hutu (rwandesi). Agosto: nuovi scontri
tra esercito e soldati di Nkunda. Ottobre: le truppe ribelli catturano
la base di Rumangabo; gli scontri si intensificano; l’avanzare delle forze di
Nkunda crea il caos a Goma; le forze dell’Onu ingaggiano scontri diretti con le
forze ribelli, a sostegno dell’esercito regolare. Novembre: nuovo
attacco dei ribelli di Laurent Nkunda; il Consiglio di sicurezza dell’Onu
approva l’aumento temporaneo delle truppe Monuc. Dicembre: operazione
congiunta di Uganda, Sud Sudan e Rd Congo contro le basi dell’Lra nel Nordest
del paese, centinaia di civili uccisi durante gli scontri.

2009, gennaio. Offensiva congiunta (Rd Congo e Rwanda) contro le forze
di Nkunda; Nkunda è arrestato in Rwanda e rimpiazzato da Bosco Ntaganda. Aprile:
riemergono le milizie hutu nell’Est, causando la fuga di decine di migliaia di
persone. Maggio: Kabila concede l’amnistia ai vari gruppi armati, come
tentativo di terminare la guerra. Giugno: la Corte penale internazionale
cita in tribunale l’ex vicepresidente Jean-Pierre Bemba per crimini di guerra;
ammutinamenti di truppe regolari nell’Est per mancanza di paga. Luglio:
una corte svizzera restituisce i conti bancari (congelati) di Mobutu Sese Seko
alla famiglia. Dicembre: l’Onu estende il mandato della Monuc di 5 mesi.

2010, maggio. Il governo preme per il ritiro delle forze dell’Onu. Giugno:
il Consiglio di sicurezza modifica il mandato della Monuc e, avviando una
riduzione del personale, lo proroga fino al 30 giugno 2011. 30 giugno:
celebrazioni per il 50° anniversario dell’indipendenza. Luglio:
offensiva anti-ribelli dell’esercito nel Kivu; creata la nuova commissione
elettorale per preparare le elezioni del 2011; «Operazione Rwenzori» contro i
ribelli filo-ugandesi nel Nord Kivu. Novembre: stupri sistematici
durante le espulsioni in massa di immigrati illegali dall’Angola verso l’Rd
Congo; l’ex vicepresidente dell’Rd Congo, Jean-Pierre Bemba è condotto davanti
alla Corte internazionale dell’Aia; il Club di Parigi cancella metà del debito
estero dell’Rd Congo.

2011, gennaio. Viene cambiata la costituzione. Febbraio: una
corte condanna il colonnello Kibibi Mutware a 20 anni di carcere per stupri di
massa nelle zone orientali del paese. Maggio: il ribelle hutu Ignace
Murwanashyaka è portato davanti a un tribunale in Germania. Luglio: il
colonnello Nyiragire Kulimushi, accusato di aver ordinato stupri di massa
nell’Est del paese, si consegna alle autorità. Settembre: il leader
delle milizie Mai Mai, Gideon Muanga, fugge dalla prigione con 1.000 detenuti. Novembre:
elezioni presidenziali, Kabila ottiene un nuovo mandato.

2012, maggio. Le Nazioni Unite accusano il Rwanda di addestrare
ribelli nell’Est dell’Rd Congo. Luglio: il «signore della guerra» Thomas
Lubanga è condannato dalla Corte penale internazionale. Ottobre: il
Consiglio di sicurezza dell’Onu annuncia l’intenzione di imporre sanzioni
contro i leader del Movimento ribelle 23 Marzo (M23) e contro i violatori
dell’embargo delle armi contro l’Rd Congo; una commissione Onu rivela che
Rwanda e Uganda foiscono l’M23 di armi e supporto logistico.

>  2013, febbraio. In Etiopia firmato un accordo per porre fine al
conflitto nell’Rd Congo; il gruppo ribelle M23 dichiara il cessate il fuoco
alla vigilia dell’accordo. Marzo: il supposto fondatore di M23, Bosco
Ntaganda, si arrende all’ambasciata rwandese ed è trasferito alla Corte penale
internazionale dell’Aia. Agosto: le forze dell’Onu liberano 82 bambini
soldato, arruolati a forza dalla milizia Mai-Mai Bakata-Katanga; intensi
scontri armati tra l’esercito e le milizie del M23. Settembre: oltre 550
bambini lasciano le file dei gruppi armati in Katanga, liberati dalle forze
dell’Onu.

(fonte: MC e
Nigrizia)

 
 
 
tags: Rd Congo, guerra, instabilità, decolonizzazione, Kabila, Zaire, Mobutu, M23, Rwanda, Uganda, Lumumba
 
 
 
 
RD Congo

Superficie:
2.345.409 kmq. Capitale: Kinshasa.
Abitanti
: 72
milioni.
Speranza di vita
:
52 anni.
Adulti alfabetizzati
:
67%.
Crescita demografica
:
3%.
Lingua
: francese
(ufficiale); inoltre: swahili, lingala, chiluba, kikongo.
Ordinamento dello
stato
: repubblica semipresidenziale con Joseph Kabila presidente, al
secondo mandato (novembre 2011).

Risorse economiche:
ingenti sia nel settore agricolo (mais, manioca, patate, arachidi, riso, caffè,
ecc.) sia in quello minerario (rame, stagno, petrolio, argento, diamanti,
ecc.). Ma le infrastrutture (specie le strade) sono quasi tutte in stato di
collasso. Cospicue risorse sono sfruttate da compagnie straniere: Lonrho,
Anglo-American e De Beers (sudafricane), Cluff Resources (inglese), American
Mineral Fields (statunitense), Barrick Gold e Lundin Group (canadesi), ecc.

Religione:
cattolici 48%, protestanti 29%. Seguono le religioni tradizionali e l’islam
(1,4%).

Tags: Rd Congo, guerra, decolonizzazione, Kabila, Zaire, Mobutu, Uganda, Rwanda, Lumumba, M23, sfruttamento minerario, violenze, massacri

MC e Nigrizia




Solo la «Parola» (Do/Rd Congo 3)

Al Centro dell’Africa:


Nel
1998 il desiderio di andare nelle più difficili missioni dell’Alto Uele, su al
Nord, ai confini con Uganda, Sudan e Centrafrica, si realizza. Oltre ogni
aspettativa.

Nel
’98 finalmente mi hanno mandato al Nord, nel centro dell’Africa. Mi è piaciuto
moltissimo. Sono andato a Doruma, vicino al Sudan (vedi MC 4/2014, pag. 57).
Doruma è stata la nostra prima missione nel 1972, insieme a Wamba. Era sede di
diocesi, ma poi, per ragioni di sicurezza e di maggior facilità di
comunicazione, il vescovo ha spostato la sua sede a Dungu. Era una parrocchia
con 75 cappelle disseminate nella foresta, in mezzo agli Azande, un popolo
sparso in tre stati – Centrafrica, Sudan e Congo – dalle spartizioni coloniali
del tempo del congresso di Berlino, quando le potenze hanno diviso l’Africa
senza tener conto dei popoli che ci vivevano.

Mi trovavo finalmente nella missione che avevo sempre
sognato: nella foresta, lontano da tutto, dedito solo ad annunciare il Vangelo.
Invece… in quello stesso anno gli eserciti stranieri che avevano aiutato
Kabila ad arrivare al potere, quando hanno visto che non c’era stata né la
ripartizione di potere né la ricompensa economica che si aspettavano, hanno
ripreso la guerra. Una cosa sporca, in cui erano coinvolte diverse nazioni
africane e, ovviamente, i grandi poteri economici. Kabila ha avuto la meglio.
Ritirandosi verso le loro basi, i militari della Spla (Sudan People
Liberation Army
), ex alleati di Kabila, si sono rifatti saccheggiando anche
tutte le missioni che hanno trovato sulla loro strada.

La foresta, la bicicletta e la Parola

Quando hanno assalito Doruma, non ce lo aspettavamo. Poi
approfittando della loro disattenzione, siamo scappati in foresta con l’aiuto
dei nostri cristiani. Nella giungla, malgrado la paura, siamo stati abbastanza
tranquilli perché i catechisti e giovani vigilavano sulla nostra capanna, una
di quelle che loro usano quando vanno a coltivare nella foresta. Ci siamo stati
un mese. A 7-8 chilometri erano nascoste le suore (agostiniane) che si erano
organizzate meglio di noi uomini e ci hanno mandato dei materassi.

È stata un’esperienza molto bella. Non avevamo niente
perché abbiamo dovuto scappare in fretta e furia. Avevo un paio di ciabatte, i
vestiti che indossavo e la veste bianca che mi ero messo la mattina quando i
sudanesi erano arrivati e mi avevano obbligato ad andare a recuperare nella
foresta dei fusti di benzina che avevamo nascosto. Mi ero messo la veste per
suscitare in loro un po’ di timor di Dio. Anzi, nel tragitto, quando ho
scoperto che erano cattolici, li ho fatti pregare. Ma non è servito a niente,
perché se la preghiera non nasce dal cuore sono solo parole vuote. Infatti poi
hanno saccheggiato e distrutto tutto, portando via ogni cosa. E volevano
portare via anche noi. La gente locale era scappata, ma i guerriglieri hanno
preso i rifugiati sudanesi e, dopo aver bruciato i due campi delle Nazioni
Unite, li hanno forzati a portare il bottino e a rientrare in Sudan. Giunti
alla frontiera hanno obbligato i giovani ad arruolarsi nelle loro file.

Noi siamo ritornati in missione solo dopo un mese. Era
la festa di Tutti i Santi, una domenica. Sono arrivato dalla foresta, nessuno
sapeva del nostro ritorno eccetto qualche catechista. Il paese portava i segni
evidenti del saccheggio fatto dai «fratelli» sudanesi, appartenenti alla stessa
tribù. Ho celebrato la messa. È stata una messa lunga. E ho pianto nel vedere
la gente che, avendo sentito la campana, era venuta fuori dai rifugi nella
foresta e nei campi per riprendere una vita normale.

L’esperienza più bella in quei giorni è stata quella di
girare in bicicletta per visitare le oltre settanta cappelle. Prima, con la
macchina, viaggiavamo sempre con quadei, medicine e merce varia da dare o da
vendere nei villaggi. No, non eravamo commercianti e neppure approfittavamo
della miseria della gente, ma avendo una catena di rifoimento organizzata dai
nostri confratelli di Isiro, riuscivano a procurare provvigioni essenziali
altrimenti introvabili.

Mi sono sentito prete davvero perché con la bicicletta
giravo solo con la Parola di Dio, il pane e il vino per l’eucarestia (si erano
salvati perché i sudanesi non avevano saccheggiato la chiesa), e la gente era
contenta di accogliermi. Mi fermavo due o tre giorni in un villaggio, vivevo in
mezzo a loro, mangiavo come loro, condividevo la loro insicurezza e la gente mi
vedeva proprio per quello che noi dovremmo sempre davvero essere: uomini di
Dio. Non avevo niente, eppure portavo quel che davvero conta: speranza in mezzo
a tanta desolazione, vicinanza a chi è abbandonato da tutti e dimenticato. La
consapevolezza che la Chiesa è lì, con loro. Questo è importante.

Abbiamo ricominciato. Ma a febbraio del ’99 sono tornati
a saccheggiare. La nostra vita là era diventata troppo rischiosa. Bastava che
qualcuno ci facesse avere qualche rifoimento, che un mezzo qualsiasi
arrivasse da Isiro, che subito eravamo assaliti. Così, d’accordo col vescovo,
abbiamo consegnato quella missione alla diocesi e ce ne siamo andati per
sempre, dopo quasi trent’anni di presenza.

Povertà,
forza della missione

Certo quell’esperienza mi ha fatto riflettere. Per una
volta non ero il missionario bianco pieno di soldi cui si può chiedere tutto.
Ero solo un missionario, uomo di Dio, e basta. Probabilmente questa situazione,
unita alla crisi internazionale, fa bene alla missione. In più, le nostre
comunità missionarie sono diventate inteazionali, multietniche e
multiculturali, e i nostri cristiani del Congo vedono che abbiamo già
sacerdoti, fratelli e seminaristi africani e quindi pian piano si sta
abbandonando l’idea che il missionario è solo il bianco e  che essere bianco significa avere potere e
soldi. I nostri cristiani stanno cominciando a capire che devono aiutare i
sacerdoti e prendersi carico di loro. È vero, noi missionari dobbiamo
ringraziare i benefattori e l’istituto, che non ci abbandonano mai. Però il
fatto di non avere più la disponibilità economica di un tempo, aiuta anche la
gente a capire e a crescere nella propria responsabilità.

Certo va anche detto che molti dei progetti di sviluppo
che la Chiesa ha fatto in Congo, li ha dovuti fare perché lo stato era assente,
perché se ci fosse uno stato che fa scuole, ospedali, centri di salute, non ci
fossero ribellioni, ci fosse una vita normale, chiaramente come missionari
saremmo più dedicati alla Parola di Dio, alla comunità, alla formazione, alla
pastorale diretta. Invece il missionario ancora oggi, almeno qui in Congo, deve
continuare a pensare alla scuola, all’ospedale, al pozzo, all’acqua, alla
strada, al ponte perché le autorità locali non si muovono.

Missione e soldi, che fatica

A volte provo frustrazione al pensiero di essere
prigioniero di un meccanismo perverso di «missione – povertà – soldi», di «missionario
– soldi e soluzione a tutti i problemi». Tante volte è difficile far capire
alla nostra gente che se siamo lì insieme dobbiamo camminare insieme, senza
delegare tutto al missionario, restando degli eterni bambini. Però,
onestamente, ci sono delle situazioni di fronte alle quali non puoi stare con
le mani in mano. Per esempio, i nostri giovani che devono andare all’università,
alle volte mancano loro quei 200 o 300 dollari per finire di pagare le tasse;
oppure per l’ospedale: quando non hanno i soldi per pagare le cure e le
medicine e non c’è alcuna assistenza sanitaria, che fai? Li lasci morire così?

Tutti sanno che il Congo è ricchissimo e potrebbe essere
una nazione prospera. Ma tutti rubano; a tutti fa comodo un paese fuori
controllo. Basta guardare la situazione dei Grandi Laghi (*). Chi approfitta
del caos per rapinare le risorse? E così noi missionari continuiamo a chiedere
alla nostra Chiesa d’Europa di aiutarci per portare avanti tanti programmi di
pastorale, educazione, sanità e sviluppo. Veramente ho un po’ di rabbia e di
vergogna nel cuore. Però devo accettare anche questo, perché so bene che quel
che sto chiedendo non è per me, è per la nostra gente, è per aiutare i nostri
giovani che vogliono uscire dall’ignoranza, dalla dipendenza, dalla spirale
della violenza e della povertà per essere, un giorno, responsabili della loro
vita e del loro paese, il Congo.

 (*) A questo proposito è
sempre valido il numero monografico di MC, «Le mani sul Congo»,
pubblicato nell’ottobre-novembre 2004.

tags: Rd Congo, guerra, decolonizzazione, Kabila, violenze, massacri, Spla, profughi, saccheggi, missione, povertà, annuncio

Rinaldo do e Gigi Anataloni




Eroi per scelta (Do/Rd Congo 4) 

L’epoca
Mobutu è finita. Kabila ha ufficialmente inaugurato un paese che si dice
democratico. Ma la pace è ancora un sogno e tutta la regione dei Grandi Laghi,
alla cui periferia è l’Alto Uele dove ci sono i missionari della Consolata, è
i di milizie, ribelli, ladroni, sfruttatori vari.


Missionari in guerra: eroi per scelta

Ritorniamo a Doruma. L’avventura è
durata fino al 1999, a febbraio. Io sono stato per undici mesi l’ultimo parroco
della Consolata, e poi abbiamo dovuto chiudere, come ho già raccontato. Siamo
andati allora a Isiro, la capitale dell’Alto Uele, dove noi missionari abbiamo
il nostro centro. La guerra continuava, non c’era più comunicazione con
Kinshasa, il paese era diviso. Noi eravamo sotto gli ugandesi e ruandesi, a
Kinshasa erano sotto Kabila. Per questo abbiamo dovuto dividerci in due gruppi
indipendenti. I missionari della Consolatanella capitale avevano padre Stefano
Camerlengo come superiore e io sono stato eletto superiore del gruppo del
Nordest, e avevo la mia base a Isiro. Ho fatto questo servizio per sei anni.

A Isiro non c’era pace. Un giorno arrivava un gruppo di
ribelli che prendeva il controllo della città, poi arrivavano nuovi ribelli
contro quelli di prima, tutti contro Kabila, ma in lotta tra loro per avere il
controllo della città e soprattutto del suo aeroporto. I ribelli venivano
sempre in casa a chiedere la macchina, la moto… dovevamo sempre avere pronto
qualcosa per tenerli buoni. Nonostante la guerra ci sono stati degli italiani
che sono venuti a trovarci (via Uganda) per realizzare dei pozzi a Bayenga (MC
dicembre 2002, pag. 17
). Mentre erano là è scoppiata la guerra tra due
gruppi di ribelli e loro sono stati presi in mezzo. Sono andato a liberarli ed è
stata tutta un’avventura … veramente il Signore ci ha protetto.

Consolazione

In quel caos come missionari della Consolata abbiamo
fatto la scelta più ovvia: essere presenza di consolazione. Consolare
significava cercare di portare avanti le scuole, l’ospedale di Neisu, il centro
nutrizionale per bambini malnutriti, la pastorale degli studenti. «Prima o poi
la guerra finirà, ci siamo detti, cerchiamo quindi di aiutare i nostri giovani
a proseguire negli studi».

Stato disastroso della scuola

La scuola è stata una delle nostre priorità. Anche se
eravamo in guerra i responsabili della scuola e del ministero dell’educazione
continuavano a esserci. Il potere ugandese pensava solo al controllo e di
sfruttamento delle ricchezze, però tutto quello che era la vita normale: sanità,
scuola, burocrazia, continuavano a modo loro. Chiaramente dovevano dipendere
dal capo dei ribelli, a volte appoggiato dall’Uganda, altre volte dal Ruanda.
Le convenzioni tra Chiese e stato per la scuola erano sempre valide e quindi il
responsabile designato dal vescovo per l’educazione doveva far continuare le
nostre scuole elementari, medie e superiori.

Il finanziamento era un problema. Lì la scuola è sulle
spalle dei genitori da tanto tempo. Noi abbiamo puntato molto sulle adozioni a
distanza per far studiare bambini e giovani. E continuiamo ancora. Lo stato, da
quando è tornata la pace, ha cominciato a pagare alcuni maestri e professori
che sono stati riconosciuti. Però oggi come oggi a Isiro è ancora la famiglia
che paga la maggior parte dei maestri.

Uno dei problemi più gravi era la mancanza di testi. Il
maestro insegnava basandosi sugli appunti che lui aveva preso da studente. Li
scriveva sulla lavagna e i ragazzi li copiavano sui loro quadei.
I quadei arrivano in bicicletta dall’Uganda o dal Sudan. Questo ha creato una
situazione disastrosa. Da anni i maestri si passano gli appunti ricevuti dai
loro maestri, con una moltiplicazione di errori e imprecisioni. La situazione è
così, purtroppo. A Kinshasa so che il governo sta distribuendo dei libri grazie
agli aiuti inteazionali, ma al Nord è difficile vedere libri nelle scuole.
Noi abbiamo fatto dei progetti specifici, come a Neisu e Bayenga: se non un
libro per bambino, almeno uno per maestro, e libri nella biblioteca, così che i
ragazzi siano stimolati a studiare e conoscere. Durante la guerra era quasi
impossibile avere libri. Adesso che i rapporti con Kinshasa sono riaperti va
meglio, ma rimane il problema del costo. Da Kinshasa arriva tutto per aereo a
costi molto alti e questo rende i libri una merce rara e costosa.

Questo era ed è lo stato della scuola. Meglio non
parlare della sanità.

Evangelizzazione e/o sviluppo

Nel Nord del Congo abbiamo ancora quindici missionari in
quattro comunità (Isiro, Bayenga, Neisu e Somana). Anche se la situazione
sociale e politica è molto complicata e gran parte delle nostre energie sono
assorbite nell’affrontare problemi materiali, il centro della nostra azione
rimane l’annuncio del Vangelo. Costruire una scuola, mettere a posto un ponte,
una fontana, una strada sono tutte attività che si fanno insieme alle comunità
di base, al villaggio che si riunisce anzitutto nella chiesa, nella preghiera,
nella messa. L’impegno per migliorare la vita trova la sua radice dall’annuncio
del Vangelo. La nostra presenza è valida. Non siamo semplici operatori di una
Ong. Avessimo più personale… I vescovi ci chiedono di aprire altre missioni in
zone dove non ci sono ancora preti, ma non abbiamo personale. Mancano
missionari che vengano in Congo. È un problema. A dispetto delle difficoltà
economiche e strutturali, lo scopo della nostra presenza è essere in mezzo alla
gente, annunciare il Vangelo, celebrare l’eucarestia, far crescere le comunità
pian piano: questo è il nostro mandato, il nostro essere missionari.

Chiesa è
speranza

Una delle realtà belle di questi anni è stata la
crescita della Chiesa congolese, che – come laici, preti, suore, vescovo – è
stata davvero un’ancora di speranza per il nostro popolo. E continua a esserlo,
una chiesa impegnata nella società civile. Là dove c’è la Chiesa c’è ancora una
speranza.

Quando siamo arrivati nel ’72 non c’erano molti
sacerdoti locali. Adesso tutte le diocesi hanno i loro sacerdoti, e ci sono i
catechisti e le piccole comunità di base. Però è così esteso questo nostro
Congo, che ha ancora bisogno di missionari che collaborino con la chiesa
locale. Di fatto non facciamo più tutto noi da soli come un tempo. Oggi si
collabora strettamente col clero locale, coi vescovi, i catechisti, i laici.
Per questo la formazione dei laici è una delle nostre priorità.

Si pensi solo a un fatto. Quando ci sono state le prime
elezioni democratiche, chi era che arrivava nei paesini a spiegare perché e
come votare? Erano i nostri animatori di base, i nostri cristiani. Le comunità
di base, i catechisti, gli animatori sono la nostra forza. Ma anche le nostre
diocesi sono una forza che dà speranza alla nostra gente. Guai se non ci fosse
la Chiesa. Nonostante le difficoltà, malgrado le deficienze. Però il fatto che
i cristiani siano lì, che i sacerdoti siano lì, che i religiosi siano lì e noi
missionari della Consolata siamo ancora lì, è un segno della presenza del
Signore tra tanta miseria.

Quale futuro

Noi speriamo in un futuro. Il
problema è questa guerra che non finisce mai. Penso solo alla diocesi di Dungu:
c’è stata la presenza dell’Lra, ribelli che venivano dall’Uganda. Adesso non so
quanti gruppi di ribelli ci sono. Ogni tanto ne nasce uno nuovo. Per dominare e
sfruttare. Non hanno interesse per il popolo. Vogliono dominare e avere soldi.
Spesso sono militari mal pagati nell’esercito che disertano con le armi in
mano, diventano ribelli di un gruppo con un capo forte che controlla la
situazione. Ma sono più organizzazioni di ladri e banditi che gruppi politici.
Rubano i minerali (oro, diamanti, coltan) ma anche i raccolti della nostra
gente. E causano migliaia e migliaia di sfollati. Basta ricordare quel che
succede a Goma e Bukavu.

Noi, a Isiro, siamo abbastanza tranquilli. Abbiamo avuto
un po’ paura prima di Pasqua del 2013 perché abbiamo sentito che un gruppo di
ribelli era a circa 200 km, ma poi non sono arrivati. Purtroppo quando arrivano
è dura: applicano tasse, spillano soldi, controllano il commercio,
saccheggiano. Nelle zone di Isiro ci sono delle aree di diamanti e oro. I
nostri giovani, attratti da questo, abbandonano le loro case, il loro lavoro in
campagna e la scuola e vanno in quelle aree, ma non è che tornino poi con dei
soldi, perché chi guadagna non è il povero Cristo, il giovane o ragazzo che va
nelle gallerie o nell’acqua a scavare, sono solo i capi che incamerano tutto.

Il futuro della nostra zona non è nei minerali. Se
vogliamo dar futuro al Nordest del Congo occorrono strade per dare sbocco ai
prodotti agricoli, ché il terreno è fertile. Poi, avendo coltivazioni,
potrebebro anche venire delle fabbriche che diano lavoro… nel futuro. Si
coltiva riso, fagioli, banane, arachidi, olio di palma. Caffè e cotone
purtroppo sono stati completamente abbandonati per la solita cronica mancanza
di strade che ne impedisce il commercio. Una volta c’erano fiorenti piantagioni
di caffè, ora è un degrado completo, a cominciare ancora dai tempi di Mobutu,
quando ha voluto nazionalizzate tutto, comprese le piantagioni di caffè e di
olio di palma.

Avessero ascoltato anche solo il 50%

La Chiesa, come conferenza
episcopale, si raduna due o tre volte l’anno e prende sempre posizione sui
problemi del paese. Quante volte la Chiesa ha parlato contro questa guerra che
vuol balcanizzare il Congo, che è una guerra d’interessi contrapposti
maneggiati da fuori. Anche nel 2012 ad agosto si era fatta una grande
manifestazione in tutta la nazione contro la guerra che è scoppiata con l’M23
che intendeva separare le zone ricche, dividendo il paese.

La Chiesa si fa sentire a tutti i
livelli e con forza. Se i governanti avessero ascoltato anche solo il 50% di
quello che è scritto nei documenti della Chiesa! Perché se c’è una forza locale
che sa leggere la situazione dal punto di vista economico, sociale e politico,
questa è la Chiesa. Dal ’91 la Chiesa ha sempre denunciato questa situazione.
Ma chi l’ascolta?

Il jolly, missionario tappabuchi

Dall’agosto 2008 allo stesso mese del 2011 mi han
chiesto di fare il superiore di tutte le comunità, risiedevo a Kinshasa, ma ero
sempre in movimento anche per seguire il nostro gruppo di Isiro. Finito il mio
compito, ho passato tre anni, fino all’agosto 2013, a fare il tappabuchi.
Avendo esperienza sia del Nord che dell’Est, mi hanno fatto fare il jolly: ho
sostituito i confratelli che andavano in vacanza o avevano problemi di salute a
Kinshasa e a Isiro. Ultimamente ero a Somana, un quartiere popolosissimo di
Isiro che presto sarà parrocchia. È una comunità di periferia con qualche
cappella in piena campagna e nella foresta. Il mio lavoro è stato il solito:
scuola, salute, giovani e in più anche quello degli anziani.

Sì, questa degli anziani è una cosa che devo dire.
Quando studiavo da giovane missionario mi insegnavano che l’anziano africano è
rispettato e riverito. Purtroppo non è più così. Abbiamo tanti, tanti anziani
(a 60 anni sei già vecchio in Africa) che sono abbandonati da tutti, non nei
villaggi dove la vita tradizionale tiene ancora, ma nelle periferie dellà città.
Kinshasa è enorme, ma anche Isiro ha oltre duecentomila abitanti. Ci sono figli
che abbandonano i genitori anziani o li accusano di malocchio e stregoneria, e
questi sono costretti a vivere da soli, senza risorse. Non solo i bambini sono
accusati di stregoneria, ma anche gli anziani. E quindi sono abbandonati. E
quando li incontri, vedi il dolore di questi padri, di queste madri che hanno
allevato cinque o sei figli e si ritrovano lasciati a se stessi in solitudine.

Un missionario contento

Io sono contento di essere missionario in Congo, ormai
sono vent’anni. Rifarei tutto. E ho un sogno: che i nostri ragazzi possano
crescere, andare a una scuola normale, che i padri di famiglia possano lavorare
e possano avere una vita dignitosa. Non chiedo grandi cose: desidero solo la
normalità che invece non c’è. Il sogno che questo paese, così ricco in umanità,
in agricoltura, in foreste, in minerali sia della sua gente, sia un paese dove
si possa lavorare, avere una vita degna, umana. Invece si soffre. Siamo sotto
la soglia del livello di povertà, uno degli ultimi paesi nella graduatoria
mondiale. Eppure è un paese che potrebbe far vivere bene tutti e dae anche
agli altri, con tutte le ricchezze che ci sono. Ho il sogno della quotidianità
più normale dove la nostra gente possa lavorare, guadagnare, vivere con le cose
fondamentali: salute, acqua, lavoro, libertà, mezzi di comunicazione e
trasporto, strade. La quotidianità della pace.

Ai lettori di Missioni Consolata

Leggete Missioni Consolata perché è una porta aperta sul
mondo che ci fa sentire più universali. Il leggere cosa capita nel mondo aiuta
il cristiano italiano a essere più cristiano qui in Italia. Essere cristiani e
aiutare i missionari non è solo mandare dei soldi o pregare per noi, il che è
molto bello e di cui vi ringrazio, ma anche impegnarsi ad accogliere, a
conoscere, a salutare, a non aver paura dello straniero. Accogliere colui che
viene. Perché i nostri fratelli che vengono dall’Africa, dall’Asia o
dall’America Latina, eccetto qualcuno che viene per turismo o opportunismo, per
la gran parte arriva seguendo il sogno di una vita dignitosa. Io capisco i
giovani del Congo che scappano. Pensano di avere in Italia o in Europa un
futuro.

Ai giovani lettori di MC dico
siate contenti di essere lettori di MC e sappiate che l’annuncio del Vangelo
richiede ancora dei giovani capaci di dare tutto. Noi lavoriamo con dei laici,
ed è bellissimo, però abbiamo ancora bisogno di gente capace di lasciare tutto
per il Vangelo. Abbiamo ancora bisogno dei missionari e di missionari della
Consolata con cuore grande che sappiano amare in questo mondo pieno di miseria,
guerre e divisioni, e credere che il bene è sempre più grande. Sono convinto
che anche in Congo, malgrado la situazione, faccia più rumore un albero che
cade, le nostre guerre e la nostra sofferenza, che i mille alberi che stanno
crescendo.

Epilogo

Dopo questa lunga chiacchierata che risale al maggio
2013, padre Rinaldo Do è rientrato in Congo. Dopo alcuni mesi passati come
viceparroco nella parrocchia Mater Dei di Mont Ngafula a Kinshasa, dal marzo
2014 è parroco di Neisu, nel Nordest, dove c’è il grande ospedale fondato da
padre Oscar Goapper, che là è sepolto.

___________________________

MC ha pubblicato molto
sul Rd Congo. Leggendo questo articolo su www.rivistamissioniconsolata.it
trovate i collegamenti a molti degli articoli pubblicati dal 2000 in avanti.
Eccone alcuni:

E sul muro una scatola vuota
A scuola con una bottiglia d’olio
NEISU (CONGO, RD): QUASI UN DIARIO «IO SONO LUCA»
CONGO – L’amore grande di Anghele
CONGO – Dopo cena, sotto la “pailotte” e altrove
CONGO, RD – Con le mani nel fango
BAYENGA (R.D. CONGO): storia di ordinaria insicurezza
NEISU (R.D. Congo): emozioni di un viaggio attesa
NEISU (R.D. Congo): storica assemblea su una questione
scottante
Futuro… in costruzione
Piccoli uomini, grandi inquietudini
Congo-Rwanda: guerra infinita
Scomparsi due milioni di voti
Voci dal Congo

Il folle dell’Africa centrale
Nel cuore dell’Africa

Tags: Rd Congo, missionari, evangelizzazione, vita missionaria, guerra,
instabilità, decolonizzazione, Kabila, Doruma, povertà, rifugiati, Chiesa, scuola, educazione, riconciliazione, pace

Rinaldo do e Gigi Anataloni




Malindi paradise! Per Chi? (1)

Turismo: l’ultima spiaggia dell’eterna giovinezza
In collaborazione tra la redazione di Out of Italy e di MC – Foto  Stefano Labate


«Out of
Italy» – Gli Italiani in Kenya

In Kenya vive una numerosa comunità italiana.
Probabilmente più di tremila persone, visto che tale è il numero necessario per
costituire i Comites (Comitati per gli Italiani residenti all’estero). La comunità è variegata. Oltre a missionari e
missionarie (oltre 500 fino a pochi anni fa), ci sono gli Italiani nati in
Africa (Etiopia, Eritrea e Somalia) che si stabilirono nel paese dopo la
guerra; tra di essi diversi ex soldati che, finita la prigionia, trovarono
lavoro nelle fattorie o iniziarono attività in proprio. Il numero dei «vecchi»
italiani, un tempo così alto da avere una propria parrocchia italiana con sede
a Nairobi sotto la responsabilità dei missionari della Consolata, oggi è molto
ridotto anche per semplici ragioni anagrafiche. Ci sono poi quelli arrivati con
le grandi compagnie industriali italiane come Agip, Alitalia, Impresit e altre,
e si sono stabiliti nel paese impegnandosi nell’industria, nell’edilizia e nei
servizi. E c’è il personale dell’ambasciata e dei vari organismi
inteazionali, essendo Nairobi anche sede dell’agenzia delle Nazioni Unite per
l’Ambiente. Questo personale è in continuo cambiamento e movimento. Non mancano
dei pensionati che si ritirano in Kenya per passare gli ultimi anni della loro
vita in un clima mite come quello dell’altopiano di Nairobi. C’è anche,
purtroppo, un piccolo gruppo di persone fuggite dalla giustizia italiana e
discretamente mimetizzate nel vasto mondo degli espatriati. Con loro prosperano
anche i cacciatori di fortuna, gli amanti dell’avventura, gli impresari senza
scrupoli, gli approfittatori, i mafiosi…

A Malindi e sulla costa da Lamu a Mombasa vive una
nutrita comunità di espatriati italiani. Accanto ai residenti di lungo corso,
ci sono i nuovi arrivati, come quelli che decidono di provare a investire nel
paese, a ragion veduta o ammaliato da ingannevoli passaparola. Ci sono poi i
turisti: quelli che vanno a Malindi regolarmente, magari ospiti di amici
residenti, quelli che vanno nei villaggi vacanze coi viaggi organizzati che
promettono mare e avventure nei favolosi parchi naturali, e quelli che sbarcano
alla ricerca della vacanza esotica e magari trasgressiva. Una comunità
variegata.

Alcuni residenti storici della costa, che mal soffrono
la presenza di mafiosi e investitori senza scrupoli, hanno fondato una decina
di anni fa il periodico «Out of Italy, la voce italiana dall’Africa»,
una rivista di 48 pagine a colori che viene pubblicata senza una cadenza troppo
fissa.

Il suo direttore è Franco Nofori, un italiano ormai
ultrasessantenne, vivace, schietto, un po’ vecchia maniera e attaccato ai
valori di un tempo, con un buon senso dell’humor e dell’autornironia. Da alcuni
anni è un attivo membro del Comites (eletto dagli iscritti all’Aire, il
registro degli italiani residenti all’estero) e collabora col consolato di
Malindi per risolvere i problemi di tanti connazionali, turisti e non.

In questo dossier a molte mani, riprendiamo, e
integriamo, alcuni articoli di «Out of Italy» che stigmatizzano uno dei tratti
più negativi della presenza europea sulla costa del Kenya: il turismo sessuale.
In un italiano colloquiale, qualche volta anche irriverente, con un po’ in
autocelebrazione e qualche generalizzazione, forse nell’ansia di strizzare
l’occhio ai propri lettori e di distanziarsi da quegli «altri» italiani che
umiliano il nome del nostro paese, gli autori mettono a nudo una triste realtà.
Pur non condividendo tutto quello che scrivono, riteniamo interessante leggere
come essi stessi vedono quel pezzo di Kenya.

Redazione MC


La voce degli onesti


Non solo faccendieri (sulla
costa est)


Chi
sono gli «altri» italiani di Malindi? E in che modo si parla di loro? Un
vecchio italiano ci presenta il suo punto di vista, appassionato e anche
orgoglioso. La voce di uno che vive sulla costa keniana da oltre 30 anni e ha
forse perso un po’ il contatto con la realtà di corruzione e degrado che
attanaglia anche il nostro paese.

Sono tanti eppure si notano poco. Non affollano bar e
discoteche, né si acconciano come i grotteschi simulacri di stagioni
irrimediabilmente perdute e irripetibili. Non denunciano i connazionali. Non
ingrassano gli avvocati locali con liti esasperanti tra loro, conflitti da cui
i contendenti escono sempre ammaccati e comunque sconfitti. Non annoverano nei
loro libri paga poliziotti e giudici corrotti.

Sono la linfa vitale che alimenta Malindi dando lavoro a
migliaia di persone e alle loro famiglie. Sono loro che aiutano, senza
ostentazione, la popolazione locale alla quale mettono a disposizione
opportunità, scuole, ospedali, orfanotrofi.

Non sono venuti a depredare il Kenya, né a tirare bidoni
a connazionali sprovveduti. Hanno investito qui il proprio denaro e i propri
risparmi o, più semplicemente, sono venuti a vivere la stagione del meritato
riposo dopo una vita di lavoro in Italia. Tutti loro, in diversa misura e con
varie modalità, contribuiscono al fiorire di questa cittadina che ha ormai
assunto un carattere squisitamente italiano.

Questi ambasciatori d’Italia in Kenya, non portano
vergogna al nostro paese, ma ci fanno sentire orgogliosi per l’intraprendenza,
per la fantasia, e per l’eclettismo che ci sono da sempre peculiari.


Cosa sarebbe Malindi senza di loro? La più diretta
risposta la riceviamo dalla popolazione locale: «No Italians, no Malindi».
Ed è una semplice verità.

Quando il dovere di cronaca ci costringe a dare notizia
di altri comportamenti che offendono la nostra dignità nazionale, siamo ben
consapevoli che le prime vittime di queste immagini deleterie e sventurate sono
proprio loro: i nostri connazionali della Malindi sana che devono subire
impotenti e incolpevoli il biasimo che ne deriva.

Ma chi vuole andare oltre la superficialità dei giudizi
approssimativi – spesso anche indebitamente malevoli – sa bene che nell’Italia
malindina convivono due universi rigorosamente separati: quello dei faccendieri
senza scrupoli, litigiosi, amorali e spesso anche grotteschi; e quello degli
italiani onesti che hanno il solo torto di non fare notizia.

Ma quanto valgono l’onestà e l’etica? Un giusto criterio di misurazione non può prescindere
dalle condizioni dell’ambiente in cui questi valori si esprimono. È certamente
meno difficile esprimerli in un paese retto dalla legalità e dal civismo che in
un altro in cui la trasgressione è all’ordine del giorno e molto spesso
addirittura gratificata.

Qui la forza di conservare i propri principi raggiunge
il vero eroismo.

Franco
Nofori



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Out of Italy e MC




Malindi padadise! Per chi? (2)

Incontri ravvicinati con
ragazze locali
Vivere l’ultima giovinezza
Sono
forse i racconti più comuni che si sentono sui turisti italiani a Malindi. Il
direttore di «Out of Italy» cerca di capire le cause intime del fenomeno del
turismo sessuale praticato da uomini e donne anziani per dargli una
spiegazione. Immedesimandosi nel loro punto di vista, mettendo in evidenza i
rischi, senza condannare troppo esplicitamente, senza dare voce alle condizioni
di sfruttamento delle «studentesse» coinvolte, ma suggerendo una presa di
distanza attraverso uno stile ironico e a volte sarcastico.

Ha dovuto, per l’ennesima volta,
recarsi al bagno perché la sua prostata ingrossata richiede continue attenzioni,
e ora ritorna al tavolo con il passo un po’ rigido di chi è costretto a
convivere con l’artrite e tutta una lunga serie di altri acciacchi acquisiti
nel corso delle molte primavere.

Il bicchiere di Tusker lo
aspetta (la miglior birra kenyana, premiata in tutto il mondo, ndr), in
barba alle limitazioni che gli imporrebbero la pressione alta e il diabete, ma
che importa? Lui sta vivendo l’ultima giovinezza e per nessuna ragione è
disposto a sciuparla.

Al tavolo c’è una splendida e
giovane fanciulla nera: pelle lucente, candido bagliore di denti e sguardi
ammiccanti carichi di prorompente sensualità.

C’è anche un giovane rasta
con le treccine non proprio pulite, ma sicuramente appariscenti. Questi ha il
merito di aver organizzato l’incontro tra la bella «studentessa» africana e
l’anziano muzungu (uomo bianco, in kiswahili; va notato che questa è una
traduzione di comodo, perché in realtà il termine non si riferisce al colore,
ma al fatto che la persona in questione «viaggia, va in giro e fa il turista», ndr).

Si può non essergli riconoscenti?

Siamo onesti. Chi di noi
ultrasessantenni può attirare lo sguardo di una bella studentessa italiana
mentre incrocia la nostra strada? Se non fosse per la regola fisica
dell’impenetrabilità dei corpi, potrebbe passarci attraverso senza neppure
accorgersi che esistiamo.

È triste, lo so. Soprattutto quando
si è ancora estimatori del bello e alcune pulsioni romantico sessuali fanno la
loro comparsa tra i desideri. Ma guai a manifestarli nella terra di Dante,
l’epiteto più grazioso che si potrebbe ricevere sarebbe un sonoro: «Guarda
questo vecchio porco!».

Lui, l’anziano, non ha neanche la
possibilità di sfogarsi confidandosi con le persone che gli sono care. Certo
non con la propria moglie, men che meno con la propria figliola. Allora al
poveretto non resta che rifugiarsi tra i propri coetanei – almeno tra quelli
che soffrono della stessa patologia – e lì, tra loro, sfogarsi a dovere
liberandosi del magone che lo opprime. Attenzione, però, che non sentano i più
giovani, perché trafiggerebbero il gruppo con sguardi disgustati, prorompendo
nuovamente in un velenoso: «Ma senti che schifezze si raccontano questi
vecchietti!».

È vero. Tutto ciò è profondamente ingiusto. Non è colpa
nostra se una natura birbante, irrispettosa e anche un po’ sadica, lascia che
in un corpo malandato sopravvivano gli stessi identici desideri di un corpo e
di un cuore giovani. E allora che si fa? Semplice: si emigra in Kenya, dove
l’età non è un ostacolo e dove le belle «studentesse» non ci passano attraverso
ma, anzi, ci arpionano con graziosi ammiccamenti.

Certo,
lo spettacolo che foiamo non è dei più edificanti, ma in fin dei conti, chi
se ne frega? Riscoprirsi giovani e ancora capaci di provare emozioni così
intense, val bene il costo di qualche malevolo pettegolezzo. Così si emigra in
Kenya. E si viene qui con un forte desiderio di rivincita perché, sì, siamo un
po’ più anziani, ma pur sempre uomini. Forse ancor più sensibili di un tempo ai
piaceri del vivere, alle emozioni, ai sentimenti. Non siamo degli illusi, non
pretendiamo travolgenti passioni, tutto ciò che cerchiamo è un po’ di
tenerezza, e se questo ci costa qualche spicciolo, va bene lo stesso.

Se la bella «studentessa» nera non cade in totale
deliquio per noi, pazienza, purché ci dia solo un grammo d’affetto, anche se
intriso di una certa dose di finzione.

C’è davvero del male in questo? Dobbiamo proprio auto
condannarci, come forse vorrebbero i molti benpensanti, a spegnerci nelle
panchine dei parchi pubblici, tediati dalle insopportabili storie nostre e dei
nostri coetanei ripetute all’infinito? Oppure assoggettarci alle litigate
catarrose sui terrapieni delle bocciofile, sui tappeti verdi delle partite a
scopa e dei «bingo» parrocchiali?

No. Sarebbe un tramonto grigio che non meritiamo da
questo mondo frettoloso e indifferente. Quel mondo l’abbiamo costruito noi con
fatica e sacrificio e oggi per quelli che l’hanno ereditato non siamo altro che
ingombranti, inutili fardelli.

Allora veniamo in Kenya. Ci rinnoviamo nel fisico e nello
spirito. Andiamo a ballare, pescare, nuotare e se qualche bella «studentessa»
ci offre la sua compagnia, l’accettiamo senza troppe remore. Abbiamo una sola
vita da vivere, viviamocela tutta, e al meglio.

Smettiamo ora i panni dell’anziano turista, e torniamo in
noi: tutto questo è umanamente comprensibile, ma ciò non toglie che comporti
non pochi rischi. Guardiamo intanto alla nostra situazione familiare: siamo
rimasti soli al mondo? Siamo certi che la «studentessa» non sia sfruttata o
spinta tra le nostre braccia dall’indigenza più che dall’amore per noi? Allora
non ci sono problemi, salvo quelli che possiamo auto infliggerci con
comportamenti maldestri; ma se, ad esempio, abbiamo una famiglia e dei figli,
le cose cambiano radicalmente. Abbiamo delle responsabilità e se è vero che il
nostro diritto alla felicità (o a ciò che ci sembra tale) è indiscutibile, lo
stesso vale per le persone che hanno con noi sinceri rapporti affettivi. Il
nostro dovere è di non ferirli con comportamenti dissennati ed egoistici.

Se della bella «studentessa» ci innamoriamo sul serio,
abbiamo già fatto un passo ad alto rischio, ma se ci convinciamo che anche lei
si è innamorata perdutamente di noi, allora abbiamo scatenato un vero disastro.
Per non perdere questo amore presunto accetteremo tutto, anche di fare forfait
della nostra dignità, del rispetto di noi stessi, del nostro buon senso che la
stagione dell’età d’oro avrebbe dovuto invece consolidare. Non avremo più un
carattere, un’identità, una nostra determinazione. Come drogati, diverremo
schiavi delle nostre illusioni, faremo scempio degli affetti più cari, quelli
veri, quelli che hanno accompagnato per decenni il nostro vivere e dato un
senso alla nostra personalità di genitori e di mariti. Ci abbruttiremo nella
vergogna, nell’isolamento, spesso anche nella miseria, ultima condizione che
spegnerà il bagliore delle nostre illusioni rispetto a quel mondo effimero che
credevamo di aver costruito. E allora sì, ci ritroveremo davvero, e
disperatamente, soli.

Dico questo perché vivo in Kenya da quasi 30 anni. Gli
ultimi 10 dei quali come direttore del periodico Out of Italy e come
consigliere del comitato degli italiani all’estero (Comites). Ho visto troppi
epiloghi drammatici in cui queste effimere infatuazioni sono sfociate. Ho visto
uomini maturi, rispettati e ritenuti saggi, perdere totalmente il senno e
cacciarsi in situazioni di indicibile sofferenza. Alcuni hanno totalmente
dilapidato il proprio patrimonio, perso l’affetto dei loro cari, qualche volta
anche la libertà e la stessa vita.

Parlo di uomini in senso lato, perché questo perverso
fenomeno riguarda anche molte donne. Madri di famiglia, fedeli e responsabili,
sulle quali nessuno poteva permettersi neppure la più piccola critica. Le ho
viste franare nella più nera indigenza, ridursi a vivere in catapecchie dove,
anni prima, non avrebbero neppure ospitato i propri cani. Le ho viste
insultate, picchiate, brutalizzate dai loro «innamorati» locali, quelli
dell’amore a prima vista esploso sui bagnasciuga, quelli con cui pianificavano
di costruirsi una nuova, romantica esistenza.

Molti connazionali, donne e uomini, caduti in queste
irresistibili infatuazioni e nel tentativo di dare legittimità alla loro
permanenza in Kenya, hanno dato fondo ai propri risparmi, alle liquidazioni
maturate in una vita di lavoro, per «investire» in attività di cui non avevano
la minima conoscenza in un paese nel quale appare tutto più facile e in cui «con
pochi spiccioli si può fare tutto ciò che si vuole». Terribile errore!

Diligenti ex tecnici ed ex impiegati, si trasformano
d’incanto in imprenditori e naturalmente, per superare il problema della
lingua, chi può dirigere al meglio la nuova attività se non il loro compagno
(compagna) di cui hanno piena e incondizionata fiducia?

E così si va avanti, finché i quattrini scarseggiano e
la nuova attività produce montagne di debiti. A questo punto finisce, allora,
la stagione dell’amore. Il nostro, la nostra, partner comincia a mostrarsi
distante, indifferente, affatto disposto al sacrificio.

A queste latitudini l’amore, pur in apparenza
corrisposto, non si alimenta di belle frasi romantiche, ma di quattrini. E
quando essi finiscono, finisce tutto.

Ecco allora che queste tristi storie approdano sui tavoli
della nostra ambasciata, dei consolati, del Comites, nella vana ricerca di una
giustizia che giustizia non è, ma è soltanto l’umiliante ammissione della
propria dabbenaggine.

È vero, nessuno ha il diritto di giudicarci per le
nostre scelte, ma noi sì che l’abbiamo su noi stessi. Allora usiamo quel
briciolo di buon senso che ancora ci è rimasto e riscattiamoci.

Franco Nofori

 

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Franco Nofori




Malindi padadise! Per chi? (3) 

1. Turismo sessuale, mercato senza frontiere
2. Bei ragazzi sui bagnasciuga
di Malindi

3. La diocesi di Malindi contro prostituzione, pedofilia e traffico di persone
4. Per un sorriso: discriminazioni stradali

1. Turismo sessuale, mercato
senza frontiere


Wanja, le altre e gli altri

Il
turismo è una delle risorse principali del Kenya, contribuisce a circa il 25%
del Pil. Lo splendore della costa, la bellezza dei suoi parchi, il colore delle
tradizioni tribali attirano turisti da tutto il mondo. Richiamano grandi
investimenti, danno lavoro a migliaia di persone, ma nascondono diversi aspetti
negativi. Uno di questi, il più vistoso, è il turismo del sesso che prospera
nell’inerzia legislativa nazionale e internazionale e nella corruzione
alimentata dai facili guadagni. Coinvolgendo anche i minori, sia bambine che
bambini.

A differenza della maggior parte delle ragazze della sua
età, la ventiquattrenne Mary Wanja è fortunata ad avere un lavoro come
segretaria in una ditta privata. Ma come molte altre ragazze, durante i fine
settimana Mary va spesso nei club di Malindi con lo scopo di abbordare turisti
che cercano sesso e divertimento. Un numero sempre crescente di vacanzieri
visita il Kenya specificatamente per sesso, specialmente nelle città costiere
(Diani, Kilifi, Mombasa e, appunto, Malindi).

La maggior parte dei turisti sessuali ha un’età compresa
tra i 45 e 65 anni. Spesso sono divorziati o pensionati che cercano di
riaccendere le loro vite sessuali. Molti di essi hanno rapporti con
adolescenti, percepiti, tra l’altro, come «sicuri» da Hiv. Al riguardo, Ecpat –
l’organizzazione internazionale che lotta contro lo sfruttamento sessuale dei
minori – sfata anche alcuni luoghi comuni: soltanto una minima parte dei
turisti sessuali sono patologici, la maggior parte di essi è semplicemente in
cerca di nuove emozioni, approfittando delle situazioni.

Come in molti paesi asiatici e latinoamericani, anche in
Kenya il sesso con minori, sia bambine che bambini, è molto richiesto. Secondo
varie statistiche, sulla costa del paese africano oltre il 30% degli
adolescenti sono coinvolti in modo saltuario nel lavoro sessuale. Più del 10%
delle ragazze hanno relazioni sessuali prima dei 12 anni. Oltre il 35,5% degli
atti sessuali tra minori e turisti avviene senza l’utilizzo di preservativi.

Se i dati sono scarsi e spesso non verificabili, i fatti
sono però sotto gli occhi di tutti. Padre Kizito Sesana, noto missionario
comboniano, che ha avviato case per i bambini di strada a Nairobi, ha
raccontato: «Qualche tempo fa, con un amico, visitavo la costa nord di Mombasa,
normalmente soprannominata “la costa tedesca” a causa della forte presenza di
turisti da quel paese. Era marzo e non c’erano molti turisti. In un tardo
pomeriggio siamo entrati in un bar a prendere una birra fresca e siamo stati
colpiti dalle strane coppie sedute ai tavoli: uomini bianchi anziani con
ragazze molto giovani o ragazzi adolescenti; donne bianche anziane con ragazzi
che avrebbero potuto essere i loro figli o i loro nipoti. Nel giro di poco
tempo, siamo stati avvicinati dapprima da una serie di ragazze e poi di
ragazzi. Siamo andati via senza finire di bere».

Il turismo del sesso si è strutturato in una rete
complessa e variegata che include tour operators, hotel, affittacamere,
club, bar, sale di massaggio, parrucchieri.

Robert Nyagah, ex giornalista,
oggi operatore turistico, pone alcuni interrogativi: «Come differenziare i
turisti genuini da quelli che vengono semplicemente per sesso, e come
differenziare una ragazza giovane che sta cercando un compagno per la vita
(turista o no) da una prostituta?».

Eppure, il fascino del turismo del
sesso è reale e crescente. I soldi facili e la disoccupazione stanno portando
sempre più ragazze – anche sposate – sulla strada della prostituzione. Ci sono
casi in cui famiglie povere incoraggiano i loro bambini a uscire per strada «a
offrire ospitalità agli stranieri» per mettere cibo sulla tavola. A ciò va
aggiunto un problema culturale. Presso molte comunità una ragazza di 13 anni è
già in età da matrimonio. La gente locale non capisce quindi dove stia il
problema.

Il commercio non è limitato alle ragazze: anche i
ragazzi vanno alla ricerca di fortuna. Molti giovani (la maggior parte dei
quali ha interrotto la scuola primaria) hanno cambiato le loro vite stringendo
amicizia con donne di mezza età europee. Il litorale kenyano è conosciuto per
attrarre turiste divorziate o avanti con gli anni che cercano sesso,
principalmente dalla Germania. La maggior parte di loro sono guidate dal mito
della potenza sessuale del maschio africano e arrivano promettendo ai giovani
keniani matrimoni e viaggi nei loro paesi.

Accanto alla prostituzione volontaria, c’è anche una
prostituzione indotta con l’inganno e la violenza. Esistono persone che tentano
le ragazzine povere con la promessa di lavori, ma in realtà vogliono reclutarle
per l’industria del sesso. Queste sono rinchiuse in case-bordello e costrette ad
avere rapporti con clienti sotto la supervisione dei loro «datori di lavoro».

Mentre il governo di Nairobi a parole disapprova il
turismo sessuale e vieta quello infantile, le azioni di contrasto sono poche.
Troppi sono i soldi in gioco.

redazione MC

* Liberamente tratto dall’articolo «Turismo sessuale in
Kenya», pubblicato da www.promisland.it il 4 ottobre 2006, e da «Fight against
child sex tourism needs a boost», pubblicato da Irin news, 28 aprile 2011 e da
www.ecpat.net.

2. Bei ragazzi sui bagnasciuga
di Malindi


Ammaliatrici ammaliate

Storie
di amore vero, ma non troppo, dalle spiagge di Malindi. Donne di una certa età
in cerca di compagni più giovani. Il fenomeno è più esteso di quanto si
immagini, e coinvolge «signore» di diverse nazioni europee. La scrivente, pur
non facendo cenno al punto di vista della popolazione locale, biasima senza
mezzi termini le «turiste» in questione. L’«amara tenerezza» che prova per
quelle donne aguzzine e vittime, ci può far riflettere sulla grave solitudine
di tanti anziani, ingannati dalle false promesse di eterna giovinezza del
nostro mondo.

Ho lasciato il Kenya 13 anni fa eppure ogni volta che ci
too continuo a restare sorpresa dalle storie «d’amore» che vi si intrecciano
e da come questi travolgenti sentimenti – che lì sembrano travolgere più che
altrove – si manifestino in immagini concrete, non del tutto edificanti, né di
buon gusto.

È davvero possibile che ultrasettantenni si convincano
che i loro partner poco più che ventenni (maschi o femmine) si siano
perdutamente innamorati di loro? A guardarli negli atteggiamenti che assumono
si direbbe proprio di sì, ed è questa convinzione ad apparire del tutto sbalorditiva.

Come donna è ovvio che la mia curiosità si indirizzi in
particolare verso le appartenenti al mio stesso sesso. Signore eleganti, spesso
facoltose, che combattono contro l’implacabile devastazione inflitta loro dagli
anni e si attaccano con i denti e con le unghie a stagioni definitivamente
perdute. Sorde al senso del ridicolo, si agghindano ora come ragazzine ora come
donne fatali, come quelle che agli inizi del secolo scorso venivano definite «maliarde»:
spietate ammaliatrici che portavano uomini probi e teneramente ingenui alla
totale rovina.

Naturalmente quegli uomini più che ingenui erano deboli
e psicolabili. Incapaci di governare gli istinti e di ordinare con
responsabilità la scala dei propri valori di riferimento.

Oggi pare che un folto numero della versione odiea di
quelle antiche maliarde, sia approdato in Kenya. Ma i fattori si sono
curiosamente invertiti. Loro, oggi, non ammaliano più. Sono le maliarde a
essere ammaliate. E da chi? Dal classico pilota con gli occhi azzurri che impazzava
nei romanzi di Liala? Oppure dal virile, colto e generoso, dottore della
Cittadella di Cronin?

Macché! Il loro moderno ammaliatore è un beach boy,
rasta semianalfabeta che si esprime in un idioma raffazzonato, compendio di
diverse lingue europee spigolate con intuito istintivo e primordiale sul
bagnasciuga delle candide spiagge coralline.

Lui promette amore imperituro e le inonda di rancidi
effluvi, frutto dell’olio di cocco che gli fa risplendere pettorali e bicipiti
e di un’osservanza delle norme igieniche un po’ frettolosa e vanificata dal
caldo e dal sudore.

Dov’è finito il saggio e lungimirante intuito femminile?
Il rispetto della propria femminilità, della propria cultura? La donna matura,
la donna in età avanzata, è uno scrigno di preziosità che proprio il
trascorrere del tempo e l’esperienza di vita hanno via via valorizzato. Perché
giocarsi tutto nelle vigorose membra di un ragazzotto tracotante per un quarto
d’ora di spasimo professionalmente provocato?

È questo il vero «amore»? Quello che Dante definisce
come «l’unimento spirituale de l’anima e della persona amata»?

Sì, queste nonne che tentano di sfuggire dal ruolo che
una imperturbabile natura continua comunque ad assegnare loro, in fondo
suscitano una sorta di amara tenerezza.

Hanno frainteso il vento dei cambiamenti e
dell’emancipazione della donna. Hanno pensato che quell’emancipazione, oltre a
restituire loro i diritti per troppi secoli negati, avrebbe restituito anche la
gioventù perduta.

E questa è forse la più triste delle illusioni.
Monica

3. La diocesi di Malindi


Contro prostituzione,
pedofilia e traffico di persone

Pedofilia,
prostituzione e traffico di esseri umani sono problematiche presenti nella
diocesi di Malindi e difficili da trattare. Necessitano anche dell’intervento
del governo. Noi, come diocesi, abbiamo messo delle regole: ad esempio nessuno
straniero può visitare o fare delle foto nelle nostre scuole senza permesso.

Per il problema della pedofilia la diocesi ha un «Ufficio
per la protezione del bambino» che si interessa dei casi che ci vengono
segnalati. Vogliamo essere sicuri che giustizia sia fatta.

Più difficile è per la prostituzione, perché occorrerebbe
trovare un’alternativa appetibile per le persone coinvolte, al fine di
toglierle dalla strada. Molte prostitute arrivano dall’interno del paese
proprio per fare quello e guadagnare denaro alla svelta.

Ci scontriamo poi con la difficoltà di convincere i
bambini delle nostre scuole che l’educazione è importante per il loro futuro.
Loro vedono che quelli che sono andati a scuola hanno difficoltà a trovare un
lavoro, mentre quelli che hanno deciso di andare con uno straniero vivono vite
migliori.

A
livello operativo la diocesi di Malindi ha messo in campo programmi nei vari
settori: educazione, micro finanza, dialogo e azione, genere e gioventù. Il
settore educazione è fondamentale per inculcare nei ragazzi uno stile di vita
responsabile fin dalla tenera età. In particolare parliamo loro di
autoprotezione, sessualità, relazioni, droga, abuso di sostanze, Aids e altre
malattie.

Inoltre lavoriamo insieme con gli insegnati per un
approccio globale di protezione dell’infanzia.
Anche coltivare i temi spirituali di allievi e studenti è
importante.
Con il settore micro finanza si cerca di aiutare le
famiglie a prendersi cura dei figli, in modo da ridurre i rischi di
prostituzione.
Abbiamo anche un programma di sensibilizzazione per
mettere in guardia sui problemi del matrimonio precoce.
Sugli stessi temi cerchiamo di interessare non solo i
nostri studenti ma anche i giovani in generale con il nostro «Ufficio per la
gioventù».

padre Ambrose Muli
parroco della cattedrale di Malindi

4. Per un sorriso: discriminazioni stradali


Occhio al poliziotto

Il
Comitato degli italiani all’estero (Comites), organismo che assiste gli
italiani nel mondo, riceve molte proteste da parte di concittadini residenti
sulla costa del Kenya che lamentano una disparità di trattamento tra loro e gli
autoctoni per quanto attiene alle infrazioni, soprattutto a quelle conceenti
la circolazione su strada.

«Gli africani viaggiano senza casco in motocicletta,
senza cinture di sicurezza in auto, sorpassano in curva e sui dossi,
parcheggiano dove pare a loro, caricano i loro mezzi all’inverosimile… Tutto
sotto lo sguardo indifferente della polizia, ma se noi commettiamo anche la più
piccola di queste infrazioni, ecco che scattano l’arresto, le manette e le
estenuanti comparizioni in corte. Questa non si chiama discriminazione?».

Sì.
Dovremmo chiamarla proprio così e non si tratta di una gran rivelazione perché
l’esercizio di queste differenze è quotidianamente sotto gli occhi di tutti.

Basta guardare i piki-piki (motorette-taxi):
nessuno indossa il casco. Né i guidatori né i passeggeri che spesso sono due,
se non tre, spremuti come acciughe alle spalle del guidatore che e costretto a
condurre il mezzo con il manubrio premuto sull’ugola. Non è del tutto vero, però,
che la polizia se ne disinteressi totalmente. Qualche volta ferma anche loro e
applica una modesta tassa-informale (il kitu-kidogo) oggettivamente rapportata
alle loro tasche. È ovvio che, quando l’infrazione è commessa da un «viso
pallido», l’interesse dei solerti controllori del traffico diviene molto più
rigoroso, ma non direi che si tratta di vera e propria discriminazione basata
sul colore della pelle, piuttosto di un giudizio pratico commisurato al
portafoglio del trasgressore.

Come
possiamo difenderci? Dobbiamo pretendere che tutti i trasgressori, bianchi e
neri, incontrino gli stessi rigori della legge. Sarebbe giusto, ma anche
estremamente faticoso e alla fine la nostra pretesa si rivelerebbe più spesso
infruttuosa. Perché, allora, non fare la cosa più semplice e indolore:
rispettare le regole e non metterci dalla parte del torto?

Del resto, in nessuna parte del mondo, chi la fa franca
infrangendo la legge, autorizza gli altri a fare impunemente altrettanto.

Artemide
(un italiano in Kenya dagli anni Sessanta)

Redazione MC e Out of Italy




Malindi paradise! Per chi? (4)

In un groviglio di contraddizioni


Un altro turismo è possibile


Malindi
è una realtà dalle molte facce. Situata sul mare, con ampie spiagge coralline e
acqua limpida, si è lasciata alle spalle il suo passato di crocevia del
commercio degli schiavi, ed è diventata un rinomato centro turistico. Abitata
da una popolazione locale in prevalenza islamica, è ora una cittadina
cosmopolita, non solo perché turisti di tutto il mondo (soprattutto italiani e
tedeschi) vengono a godersi il suo mare, ma anche perché keniani di tutte le
tribù vi si sono radunati nella speranza di raccogliere qualche briciola della
grande torta.

Ricordo bene una statistica: ogni giorno-turista equivale
a un giorno-lavoro per un keniano. Più turisti ci sono, più gente lavora.
Niente turisti, niente lavoro. è
una realtà che diventa drammaticamente evidente ogni volta che il turismo
vacilla a causa di disordini, attentati terroristici o gravi eventi inteazionali.

Per questo il turismo è, in Kenya, al primo posto di
ogni programma governativo. Malindi, in tale contesto, offre incentivi di
prim’ordine: alle splendide spiagge associa, ad esempio, la vicinanza al Travo
Park con la sua natura incontaminata. Incentivi che hanno dato il via a
iniziative lodevoli, hotel e villaggi di prima qualità, e a una serie di
servizi del tutto legittimi. Compreso un turismo socialmente responsabile che,
appoggiandosi a Chiese e Ong locali e straniere, coinvolge i visitatori nel sostegno
a progetti di sviluppo in favore della parte più povera della popolazione
locale: scuole, dispensari, centri per bambini abbandonati e denutriti,
esperienze pilota con i disabili, e tanto altro.

Anima di questo turismo diverso spesso sono proprio i
nostri connazionali che vivono sulla costa da anni, facendone la loro seconda
patria.

Ma dove il denaro corre a fiumi, la tentazione di
travalicare, di corrompere, di prendere scorciatornie è sempre molto forte. Così
Malindi attrae solo persone di sani principi e provata onestà. Speculazione
edilizia, corruzione, gioco d’azzardo, pedofilia, prostituzione, escorts
e droga hanno trovato un terreno fertile. A guadagnarci sono sia i cosiddetti
investitori stranieri (si dice che la mafia ne abbia fatto un posto privilegiato
per il riciclo del denaro) che le autorità locali, rese partecipi dei facili
guadagni, nonostante ufficialmente sfoggino una probità a tutta prova.

Se gli espatriati comprano, investono, corrompono, gli
indigeni pensano a rifornire il mercato di «carne fresca». Salvo l’esplosione,
di tanto in tanto, di qualche campagna anticorruzione o moralizzatrice,
soprattutto nella vicinanza di elezioni.

Ricordo alcuni episodi, che qui assumono un valore
simbolico.

Un medico italiano gode della fresca compagnia di una
fanciulla locale per un mese pagando 100 dollari. Beneficiario della somma: il
padre della ragazza. Ma non è tutto: il secondo anno lo stesso padre offre la
seconda figlia, e in seguito la terza. Il tutto per la somma di 100 dollari per
ognuna. Quale uomo non se ne sarebbe vantato con gli amici?

Una bambina o un bambino di 10-12 anni con una
prestazione o due la settimana guadagna più di suo padre che sgobba dodici ore
al giorno in un cantiere, a pescare o a far da guardiano alle ville dei ricchi.
E la famiglia è «contenta» perché almeno così tutti mangiano.

Una maman ben vestita e piena di soldi, da aprile
in avanti va nei villaggi più remoti in cerca di fanciulle che hanno appena
saputo i risultati dell’ultimo anno di secondaria, e che non hanno la
possibilità di continuare gli studi, per offrire loro un «lavoro sicuro sulla
costa in hotel di rinomata fama». Risultato: pochi mesi dopo quelle giovani si
trovano costrette a propstituirsi perché prigioniere di un raffinato sistema di
sfruttamento, senza neppure la possibilità di dire la verità alle loro
famiglie.

Una studentessa universitaria, approfittando delle
vacanze, va a «fare la stagione» sulla costa per pagarsi gli studi: la famiglia
infatti si è «svenata» per pagare il primo semestre, ma ora non ha più mezzi
per gli altri sette e la tesi finale.

Un giovanotto di belle speranze di una tribù
dell’interno lascia il suo villaggio di campagna dove non ha prospettive e
sulla costa si trasforma in abile danzatore Maasai, mandando in visibilio il pubblico
con danze autenticamente tradizionali.

Una giovane ragazza corona il suo sogno di sposare uno mzungu
e finalmente emigra legalmente in un paese europeo dove viene venduta a un ring
di prostituzione.

Di questi «piccoli» fatti, di cui ho conoscenza diretta,
ne avrei ancora molti da raccontare, ma credo siano sufficienti quelli citati
per dire che quanto scritto nel dossier non è frutto di fantasia, ma un
problema reale e preoccupante sia a livello keniano che internazionale.

La Chiesa cattolica non sta a guardare. Le diocesi di
Malindi (vedi box pag. 44) e di Mombasa, l’Associazione nazionale delle suore e
diverse Ong, come Sol.Wo.Di (Solidarity with Women in Distress – vedi
box), hanno programmi specifici sia per prevenire che per curare e recuperare.

Non è nostra intenzione puntare il dito contro il
turismo in quanto tale. Desideriamo solo che coloro che vanno in vacanza in
Kenya, o sulle sue coste, non siano ciechi, ma prima di tutto si rendano conto
della situazione e vedano la realtà con occhi critici. Il turista non va in
vacanza per fare il missionario e vuole qualità corrispondente ai soldi che
paga. Più che giusto. Ma è anche giusto che sappia che moltissime delle persone
che lavorano per il suo benessere sono pagate noccioline, spesso meno di 80
euro al mese, e senza potersi ribellare, perché ci sono altre centinaia di
candidati pronti a prendere lo stesso posto. E non si stupisca il turista se è
consderato un ricco agli occhi degli indigeni. La maggior parte di loro non può
permetteri una vacanza, tantomeno in Europa.

Prostituzione, pedofilia, traffico di persone, droga,
gioco d’azzardo, corruzione… sono prodotti di importazione. Essi hanno
attecchito bene, certo, ma prosperano perché la domanda è alimentata da un
mondo in cui con i soldi si pensa di potere avere tutto, anche le persone.

Ma, ne siamo convinti, la maggior parte dei turisti
hanno, come noi, in orrore queste aberrazioni, e vogliono che il turismo faccia
del bene a tutti: a chi ospita e a chi è ospitato, nel rispetto reciproco.

Il Kenya è splendido, vale la spesa visitarlo. Con gli
occhi aperti e il cuore in mano.

Gigi
Anataloni

SolWoDi

Solidarity with Women in Distress:

Ong fondata a Mombasa nel 1985 dalla dottoressa
suor Lea Ackerman, missionaria d’Africa, opera soprattutto con ragazze ad alto
rischio tra i 6 e i 45 anni. Ha i suoi centri in Mombasa, Malindi, Kwale e
Kilifi.

Sol.Wo.Di crede che «ogni persona ha diritto ha una vita migliore.
Per questo l’organzazzione è impegnata ad aiutare le prostitute, i bambini
vittime di abusi sessuali e i sopravvissuti al traffico delle persone a
ritrovare la propria dignità, migliorare il loro stato legale e
socio-economico, e la loro salute per poter realizzare tutte le loro
potenzialità umane».

Aree di impegno: recupero e riabilitazione delle prostitute;
contrasto al traffico di persone; prevenzione e cura dell’Hiv/Aids; protezione
dei bambini; sostegno economico e football per ragazze.

Contatto: www.solwodi.co.ke

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Gigi Anataloni




La nuova via Birmana – 1

Reportage: Myanmar in transizione

Con passi incerti, ma in cammino

 

Sorridere non basta

La transizione birmana verso la democrazia non è facile, ma sembra procedere, garantita dal presidente Thein Sein. Della partita è ormai parte pure l’eroina birmana per eccellenza: Aung San Suu Kyi. Anche lei però non è rimasta immune da critiche, soprattutto rispetto agli scontri etnici e religiosi che, negli ultimi due anni, hanno avuto luogo in varie zone del Myanmar. Un paese che è un mosaico di ben 135 gruppi etnici differenti.

 

 

Sono trascorsi tre anni dal giorno in cui il Myanmar ha cominciato a intraprendere un nuovo corso politico, economico e sociale. Il cammino si è dimostrato più lineare e rapido di quanto ci si potesse immaginare, ma, come spesso accade, dopo i primi entusiasmi hanno cominciato ad affacciarsi anche le difficoltà e i primi ostacoli.

Accanto a radicati conflitti etnici e a intolleranze religiose che nel passato non si erano manifestate solo perché represse dalle autorità locali che agivano in stretta collaborazione con la polizia ed il Tatmadaw (l’esercito), ecco che sono insorte anche recriminazioni sociali ed economiche.

I primi decreti libertari, voluti dal nuovo governo civile di Thein Sein – con l’aiuto, bisogna dirlo con onestà, degli stessi militari che siedono al parlamento -, si sono dimostrati più audaci e rivoluzionari di ogni aspettativa. Ma, proprio per questo, hanno già bisogno di essere riveduti e corretti. I rinnovamenti sociali ed economici introdotti con le riforme, accolti con favore dalla popolazione birmana e dai governi democratici occidentali, hanno già reso desuete le leggi che li aveva promossi.

L’inesperienza dei politici, dovuta a decenni di isolamento internazionale e di rifiuto del confronto interno, ha anchilosato un sistema legislativo ed esecutivo che oggi fa fatica a tenere il passo con la richiesta di cambiamenti non solo politici, ma anche tecnologici.

La capacità di adattarsi con elasticità e immediatezza alle esigenze di una nazione e di un popolo in fase di repentino cambiamento, determinerà chi potrà essere la nuova classe dirigente birmana. Sarà questo il campo in cui i principali candidati alle elezioni presidenziali, in programma nel 2015, si confronteranno.

 

Gli scontri tra musulmani e buddisti

Tutto il corso del 2013 è stato caratterizzato da una recrudescenza degli scontri a sfondo religioso ed etnico (vedere mappa a pag. 39, ndr), che ha monopoliato quasi totalmente l’attenzione della comunità internazionale. Nel primo caso, i conflitti tra musulmani e buddisti – iniziati nel maggio del 2012 nello stato Rakhine – si sono estesi, a partire dai primi mesi del 2013, anche in altre regioni del paese. Nel conflitto etnico, invece, Kachin e governo centrale hanno continuato ad alternare negoziati al clamore delle armi.

In entrambe le situazioni le istituzioni governative, il presidente Thein Sein e la stessa Aung San Suu Kyi sono stati duramente criticati dalle organizzazioni inteazionali che si occupano del rispetto dei diritti umani per la pesante responsabilità avuta nelle cruenti vicende o, nel caso della leader dell’opposizione, per non aver criticato con sufficiente forza le violenze settarie. In un’intervista rilasciata durante il suo viaggio in Italia nell’ottobre 2013, Aung San Suu Kyi ha cercato di spiegare il suo atteggiamento: «Io condanno ogni tipo di violenza, ma se vuole che condanni solo la violenza dei buddisti contro i musulmani, allora non lo farò. Condannare una sola comunità serve solo a istigare altra violenza e se le mie parole fossero fraintese chi ne farebbe le spese sarebbe il popolo, non io che le ho pronunciate» (a pag. 47 del dossier, ndr).

Va comunque detto che le brutalità nel Rakhine e quelle nel Kachin, pur avendo punti in comune, sono espressioni di due malesseri differenti che vanno analizzati in modo opportunamente dettagliato visto che, proprio sulle questioni portate alla luce dai conflitti, si giocherà il futuro della convivenza civile in Myanmar.

Per quanto riguarda gli scontri tra musulmani e buddisti, l’espandersi dei pogrom ai danni delle comunità islamiche ha indotto diversi politici a prendere posizioni molte volte contraddittorie. In particolare, Thein Sein ha incolpato «opportunisti politici ed estremisti religiosi» di aver fomentato e manovrato le proteste, mentre il generale Hla Min ha ipotizzato che gli scontri siano stati voluti e diretti da gruppi contrari alle riforme in atto. Se, in entrambe le accuse, si intravedono elementi che possano giustificare tali dichiarazioni (ad esempio, la conservazione di uno status quo che, anche tramite la dittatura, aveva garantito una sorta di pace sociale), appare improbabile che la destabilizzazione del paese possa favorire una precisa corrente politica.

Da parte dell’opposizione, ancora una volta Aung San Suu Kyi ha rimandato la completa responsabilità al governo: «Per decenni i regimi militari birmani non hanno mai controllato il confine con il Bangladesh lasciando che questo diventasse estremamente poroso e permettendo a migliaia di persone di entrare illegalmente in Birmania. Ora, io chiedo che si rispetti la legge di cittadinanza: chi ha la facoltà di diventare cittadino birmano deve far valere questo diritto. Il governo, da parte sua, deve porre fine a questa immigrazione illegale».

L’United Nations High Commissioner for Refugees (Unhcr) stima che vi siano più di 808.000 Rohingya tra Myanmar e Bangladesh privi di cittadinanza e, quindi, dei diritti che questa comporta. Secondo la Legge di cittadinanza del 1982, il Myanmar concede il titolo ai residenti nel paese che possono dimostrare di aver avuto parenti stabilitisi in Birmania già prima dell’indipendenza, avvenuta nel 1948. In questo caso, però, la domanda deve essere presentata entro la terza generazione documentando la comprovata residenza della propria famiglia. Cosa, naturalmente, pressoché impossibile da dimostrare visto che la maggior parte dei Rohingya sono emigrati durante il periodo coloniale, quando sia Birmania che India erano sotto il dominio britannico e le documentazioni relative al trasferimento da un luogo all’altro della colonia sono difficili da reperire.

Lo stesso termine Rohingya è stato oggetto di aspra discussione: secondo il governo, infatti, non esisterebbe alcuna etnia che possa definirsi tale (e in effetti tra le 135 etnie riconosciute nel Myanmar non esiste nazione che si rifaccia a questo gruppo etnico musulmano). Le fonti ufficiali governative hanno sempre identificato le comunità islamiche del Rakhine come Bengalesi giunti clandestinamente dal Bengala e dal Bangladesh e che, come tali, sarebbero presenti in Myanmar in modo del tutto illegale.

 

Nonostante queste difficoltà, secondo un sondaggio compiuto nel maggio 2012, il 70% dei Rohingya potrebbe avere diritto alla cittadinanza birmana, rivoluzionando la demografia della regione e minacciando la supremazia economica, sociale e politica dei Rakhine buddisti. Il timore che il processo di democratizzazione del regime possa incoraggiare l’integrazione, ha contribuito ad alimentare gli attriti tra i due popoli.

I rapporti delle commissioni di inchiesta inteazionali sono giunti a conclusioni diametralmente opposte a quelle della commissione governativa, voluta dal presidente Thein Sein per investigare sulla situazione del Rakhine. Di essa facevano parte anche membri non simpatetici con il governo, come il comico satirico Zarganar e il leader di Generazione 88, Ko Ko Gyi. Ma nessun Rohingya è stato inserito nella lista.

Il rapporto finale dell’organismo birmano, dopo sette mesi di consulti e interviste sul luogo, individuava nel «rapido incremento della popolazione musulmana» uno dei principali fattori che avrebbe indotto la comunità Rakhine di fede buddista a reagire con violenza contro i Bengalesi (la parola Rohingya non è mai menzionata). La stessa commissione consigliava di implementare una politica di controllo delle nascite per la comunità islamica tenendo separati, nel frattempo, fedeli musulmani e buddisti per evitare che venissero in contatto tra loro.

La relazione è stata recepita positivamente dal governo che, il 25 maggio, ha approvato la legge che vieta ai Bengalesi di avere più di due figli. Inoltre, nel solo 2013, circa 75.000 Rohingya sono stati forzatamente allontanati dai loro villaggi e dislocati in campi e villaggi da cui non possono allontanarsi, a differenza di quanto accade per i Rakhine, senza un permesso speciale.

Di diverso avviso, invece, sono i resoconti delle organizzazioni inteazionali che hanno visitato lo stato Rakhine. Tutti concordano nell’affermare che i Rohingya sono le principali vittime di una politica inaugurata all’indomani dell’indipendenza birmana (quindi ben prima del colpo di stato militare del 1962) e perpetuata ancora oggi dal governo di Nay Pyi Taw. Le commissioni, cui è stato garantito l’accesso alle prigioni in cui sono detenuti gli attivisti musulmani, hanno parlato di condizioni inumane e di torture inflitte ai carcerati. Nei campi profughi le condizioni non sono migliori: Médecins San Frontières (Msf) ha parlato di emergenza umanitaria e di migliaia di persone prive di accesso alle più elementari cure mediche, mentre Human Rights Watch (Hrw) ha denunciato la stretta collaborazione tra i monaci buddisti, il partito politico Rakhine e le forze del regime birmano nel fomentare le violenze contro i Rohingya.

Queste commistioni hanno creato un senso d’insicurezza tra le comunità musulmane anche al di fuori dello stato Rakhine.

 

Per evitare di alimentare polemiche con i buddisti, i musulmani del Myanmar hanno deciso di cancellare, così come era già stato fatto nel 2012, le celebrazioni dell’Eid al-Adha, durante le quali è consuetudine macellare gli animali secondo l’usanza musulmana dello sgozzamento. Il gesto, apprezzato da alcuni esponenti religiosi buddisti è, però, passato inosservato per la maggioranza dei fedeli e non ha impedito che gli scontri si espandessero in gran parte delle province centrali e meridionali del paese.

Tutti gli episodi hanno seguito lo stesso copione, definito da Vijay Nambiar, consigliere speciale del segretario generale delle Nazioni Unite in Myanmar, di «brutale efficienza»: un incidente, che in condizioni normali sarebbe passato inosservato e che coinvolgeva componenti delle due comunità, innescava una violenta protesta di gruppi buddisti i quali, per vendicare il presunto affronto, attaccavano e incendiavano negozi e case di famiglie musulmane arrivando, a volte, a saccheggiare le moschee. In tutti i casi, la polizia, non è ancora chiaro se per complicità o per evitare ulteriori provocazioni, è rimasta impassibile.

L’attivismo religioso-politico dei gruppi buddisti è sfociato nel «Movimento 969», un’organizzazione fondata dal monaco U Wirathu all’inizio del 2013 e nelle cui file milita anche Wimala, un monaco molto popolare tra i fedeli del monastero Masoeyein di Mandalay. Prendendo il nome dalla numerologia astronomica associata ad alcuni attributi del Buddha storico e al suo dharma, il 969 si contrapporrebbe al numero 786, popolarmente associato ai musulmani perché da questi utilizzato per individuare le insegne dei negozi halal (dove si vende rispettando le norme islamiche, ndr).

Nelle sue focose prediche, U Wirathu, oltre ad incitare i fedeli a boicottare le attività commerciali condotte da islamici, ha più volte proposto alle autorità birmane un disegno di legge per vietare i matrimoni misti paventando lo spauracchio di un complotto jihadista per conquistare il potere nel Myanmar e trasformare la nazione in un avamposto islamico per la successiva avanzata religiosa nell’intera regione del Sudest Asiatico.

L’estremismo del Movimento 969 ha portato la sangha (la comunità buddista allargata, ndr) buddista birmana a dividersi nel suo interno: diversi monaci, avversi alla politica intollerante di U Wirathu, hanno, quindi, deciso di fondare un cornordinamento che contrastasse questa insofferenza, creando Pray for Myanmar.

 

Guerra e pace nello stato Kachin

Sugli altri fronti, il governo Thein Sein è riuscito, invece, a raggiungere apprezzabili traguardi, in particolare con i Kachin. Dopo una serie di sanguinose battaglie che hanno portato le truppe del Tatmadaw alla periferia di Laiza, dove ha sede il quartier generale della Kachin Independence Organization (Kio) con la conseguente fuga di migliaia di abitanti dalla città, la guerra si è fatta strada fin negli uffici del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che il 2 gennaio 2013 ha chiesto al regime birmano di «desistere da ogni azione» che avrebbe messo in pericolo la vita di civili. Alle preoccupazioni espresse dalle Nazioni Unite, si sono aggiunte quelle degli Stati Uniti, del Regno Unito e dell’Unione Europea. La Cina, direttamente coinvolta nel conflitto sia per la condivisione del confine con lo stato Kachin, sia perché alcuni colpi d’artiglieria erano caduti sul suo territorio, ha chiesto al governo birmano e al Kio di intervenire per evitare l’intensificarsi della guerra.

I negoziati, già difficili e complicati, sono stati resi più faticosi dalla riluttanza di Pechino a coinvolgere anche gli Stati Uniti e le organizzazioni di assistenza umanitaria. Persino la presenza di Ha Yawnghwe, in quanto direttore dell’Euro-Burma Office di Bruxelles (che la Cina considerava alla stregua di una organizzazione non governativa), è stata in forse fino all’ultimo. Solo l’insistenza del governo birmano è riuscita a convincere la delegazione di Pechino a togliere il veto alla sua partecipazione.

La riluttanza cinese nel condividere il tavolo delle discussioni con altri membri inteazionali, specie se legati ai governo occidentali, è dovuta principalmente a due fattori: la volontà di non entrare nel merito delle lotte etniche per non dare adito a velleità indipendentiste nel vicino Yunnan e gli enormi interessi economici che il paese ha nella regione.

I Kachin, a differenza dei Wa e dei Kokang, non hanno affinità etniche con gli Han cinesi. Hanno, inoltre, abbracciato per la maggior parte la religione cristiana e questo, sommato agli stretti rapporti che il Kio ha tessuto con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, li ha resi molto ambigui agli occhi di Pechino.

Al tempo stesso, però, l’economia cinese ha necessità di sfruttare le enormi ricchezze che offre questa provincia birmana. L’annullamento della costruzione della diga di Myitsone ha creato un pericoloso buco energetico nell’industria dello Yunnan e delle limitrofe regioni meridionali. Il deficit è stato ripianato con l’entrata in funzione del gasdotto Kyaukpyu-Kunming, inaugurato nell’ottobre 2013, che ha cominciato a rifornire la Cina di 12 milioni di metri cubi di gas naturale ogni anno. Risulta, quindi, chiaro che la dirigenza di Pechino ha tutto l’interesse nel trasformare il Kachin in un’area stabile, allontanando i venti di guerra che, sino a poco tempo fa, impedivano il sicuro passaggio di fonti energetiche di primaria importanza per la sua economia.

 

Dopo numerosi incontri preliminari tenutisi a Chiang Mai, in Thailandia, e a Ruili, in Cina, l’accordo finale è stato raggiunto il 30 maggio a Myitkyina. Le due controparti in causa, il Kio e il governo di Nay Pyi Taw, hanno firmato un documento d’intesa che prevedeva la continuazione del dialogo su via politica; il graduale disimpegno militare nella regione sino alla completa cessazione delle ostilità; il monitoraggio della situazione con gruppi di controllo misti; il rimpatrio e l’insediamento dei profughi attualmente all’interno e all’esterno dei confini dello stato Kachin; il riposizionamento delle truppe del Kachin Independence Army (Kia) e del Tatmadaw; la presenza e la formazione di una squadra del Kio a Myitkyina che collabori con le autorità governative per riportare la pace; la presenza di osservatori internazionali nei successivi colloqui di verifica.

Tutte le tre principali richieste del Kio, vale a dire l’indipendenza delle forze militari Kachin dal Tatmadaw, il continuo monitoraggio della situazione e il dialogo politico, sono state accolte dalla delegazione birmana.

Gli incontri tra i Kachin e il governo birmano sono continuati per tutto il resto dell’anno giungendo a ratificare un nuovo trattato all’inizio di ottobre. È importante notare, infine, che negli accordi non è stata inserita in alcuna parte la dicitura di «cessate il fuoco», fortemente osteggiata dal Kio perché già presente nel testo dell’accordo siglato nel 1994 e causa di diverse interpretazioni che avevano portato al fallimento dei negoziati.

Le intese raggiunte a maggio e ribadite con il nuovo trattato di ottobre, non hanno, però, riportato la pace nello stato. Il Kio ha più volte denunciato il disinteresse dei politici Bamar nei confronti della situazione nello stato. Particolarmente risentiti sono stati i rimbrotti verso Aung San Suu Kyi accusata, allo stesso modo di quanto avvenuto per i Rohingya, di non difendere i diritti Kachin. Numerosi scontri, seppure di minore intensità rispetto a quelli monitorati negli anni passati, si sono continuati a registrare in tutto il territorio. Lo stesso Thein Sein è stato costretto a intervenire più volte chiedendo ai comandanti delle forze armate birmane di evitare ingaggi con le truppe del Kia. La scarsa attenzione mostrata dai comandanti locali alle parole del presidente ha sollevato parecchi dubbi sull’effettivo controllo che il governo centrale possa avere sui vertici militari.

 

I militari: tra vecchio e nuovo corso

La galassia Tatmadaw, abituata a comandare per sessant’anni senza opposizione, è sempre più divisa tra la vecchia guardia e la nuova generazione di ufficiali, più propensa ad accettare un ruolo di subordine anche nella vita politica della nazione.

L’articolo della Costituzione che garantisce ai militari il 25% dei seggi nel parlamento è sempre stato visto come un impedimento al raggiungimento della democrazia nel paese. In linea di principio la considerazione è esatta, ma occorre notare che senza un consenso esplicito dei rappresentanti delle forze armate, nessuna riforma avrebbe potuto essere varata dal nuovo governo. Inoltre il gruppo militare si è dimostrato sorprendentemente libero da strettoie ideologiche durante le votazioni parlamentari. Solo in questioni considerate importanti per la sicurezza e l’unità nazionale si sono riscontrate votazioni unanimi tra i deputati appartenenti al Tatmadaw. Per tutte le altre decisioni in cui sono stati chiamati a esprimere il proprio voto, si è osservata una libertà di scelta e di opinione.

La stessa Aung San Suu Kyi, sebbene per principio sia contraria all’articolo costituzionale in questione, ha dichiarato che per quanto riguarda «la percentuale dei seggi riservati ai militari non penso rappresenti un problema. Ho sempre detto che i militari devono essere inseriti nel contesto esecutivo e legislativo del paese. Nei limiti di una democrazia, naturalmente».

Il timore dei generali, in particolare di coloro che sono stati pesantemente coinvolti nelle passate giunte (che hanno governato la nazione fino al 2010), è che la ventata di democrazia sul Myanmar possa trasformarsi in un’ondata di protesta dirompente e fatale per la salvaguardia del loro ruolo e delle fortune economiche familiari. Per questi gerarchi del vecchio potere, i continui proclami di Aung San Suu Kyi nel rassicurare che «non vogliamo vendetta, ma solo giustizia, verità e democrazia» hanno poco senso perché non rispecchiano un clima popolare che, per alcuni versi, è apparso tutt’altro che sereno. L’ombra dei militari è, dunque, ancora ossessivamente presente nella vita politica ed economica del paese.

Del resto il Tatmadaw è l’unica organizzazione transnazionale presente in Myanmar capace di mantenere unito il mosaico etnico. La stessa Aung San Suu Kyi, in odore di campagna elettorale e in cerca di appoggi anche tra le forze armate, ha detto di essere «sempre stata convinta che i militari devono lavorare a stretto contatto con la legislatura e l’esecutivo. Io ho sempre avuto un affetto particolare per i militari e a chi si scandalizza quando mi sente dire questo, rispondo che non ha capito nulla del mio pensiero» (vedi pag. 49, ndr).

È anche per la paura di una disgregazione nazionale che il budget di spesa per il 2013-2014 ha evitato drastici tagli alla Difesa, che per il biennio ha a disposizione 2,5 miliardi di dollari, pari al 17,2% del bilancio totale nazionale (4,2% del Pil).

La spesa, giustificata dal fatto che il paese doveva far fronte a nuove minacce intee (come i conflitti negli stati Rakhine, Kachin, Shan e nelle regioni delle minoranze etniche), contrastava pesantemente con il magro bilancio destinato alla sanità (3,8% del bilancio; 0,9% del Pil) e alla pubblica istruzione (7,5% del bilancio; 1,8% del Pil).

Degno infine di un certo interesse è il fatto che, conformemente al nuovo indirizzo economico e alla tendenza del governo birmano di sganciarsi dall’orbita di Pechino, nel 2012 il principale fornitore di armamenti per il Tatmadaw è stata la Russia, scalzando non solo il predominio cinese nel settore, ma anche la concorrenza indiana.

 

Le riforme di Thein Sein, gli investimenti inteazionali e il «Triangolo d’Oro»

Come già evidenziato, il governo Thein Sein ha continuato a varare nuove riforme che hanno interessato vari campi della vita quotidiana, da quella sociale a quella economica.

Il famigerato Ordine 2/88, che vietava ogni riunione pubblica che radunasse più di quattro persone, è stato abrogato così come le norme restrittive in materia di censura di stampa, libertà di espressione e di movimento, già abolite negli anni precedenti.

Tutto questo ha permesso a una grossa fetta di popolazione, in particolare ai contadini che erano stati privati – negli anni della dittatura militare – dei loro terreni, di unirsi in associazioni per richiedere la restituzione delle loro proprietà. Nel corso dell’anno il comitato parlamentare istituito per indagare sulle confische illegali ha ricevuto circa 4.000 domande di risarcimento. Così come avvenuto per i Rohingya, indagare a ritroso sulla consistenza delle vertenze sarà, in molti casi, impossibile e questo genererà ulteriore scontento che dovrà essere, in qualche modo, veicolato affinché non sfoci in dimostrazioni violente. Il caso dei contadini sfrattati dai loro villaggi nei pressi della miniera di Monywa è emblematico. Le famiglie della regione, a cui erano stati espropriati i terreni per permettere l’ampliamento della miniera di rame, si sono coalizzate occupando l’intero sito.

La commissione d’investigazione – presieduta da Aung San Suu Kyi – è stata costretta a sfoggiare tutta la sua retorica nello stilare il contorto rapporto finale consegnato a marzo. Il gruppo parlamentare, se da una parte ha verificato che il giacimento non avrebbe creato nuovi posti di lavoro e, anzi, avrebbe causato un danno ambientale rilevante, dall’altra ha suggerito che lo sfruttamento minerario procedesse al fine di non creare tensioni con il principale investitore, la Cina. Infine, la richiesta fatta ai contadini di accettare il trasferimento in cambio di una ricompensa in denaro (la proposta di risarcimento avanzata da Aung San Suu Kyi era di 1.730 dollari Usa per ogni acro) si è scontrata con la ferma condanna delle famiglie, che hanno continuato la protesta.

Contestazioni simili si sono ripetute in più parti della nazione, prendendo come spunto anche manifestazioni che esulavano dal tema economico. Durante i XXVII Giochi del Sudest Asiatico, quest’anno ospitati dal Myanmar, i tifosi della nazionale di calcio si sono più volte scontrati con reparti di polizia, evidenziando un crescente malessere che serpeggia tra la popolazione.

 

La bocciatura dello schema protezionista, proposto dal parlamento all’inizio del 2013, per far fronte a eventuali ribassi troppo accentuati del prezzo del riso, ha esacerbato ulteriormente gli animi. Nonostante gli economisti abbiano accolto con favore l’esito negativo della votazione che proponeva al governo di intervenire comprando il cereale dai contadini a un prezzo superiore da quello proposto dal mercato, il pericolo di accaparramenti artificiali da parte di speculatori, così come è già accaduto nel passato, è reale e ancora regolarmente utilizzato nelle campagne birmane.

In effetti il governo è più preoccupato di attirare nuovi investimenti che di soddisfare le richieste dei propri cittadini. I grandi sovvenzionamenti, elargiti dagli istituti di credito internazionali, sono stati quasi tutti diretti alla macroeconomia. La Banca Mondiale e l’Asian Development Bank hanno fatto la parte del leone elargendo un mutuo totale di quasi un miliardo di dollari per progetti socio economici e il miglioramento della gestione pubblica.

La fine delle sanzioni economiche ha portato numerosi uomini d’affari a visitare il Myanmar per cercare nuove soluzioni d’investimento.

Il Giappone, alla ricerca di un rilancio per la sua stagnante economia, è stato il più attivo. Una folta delegazione composta da 40 amministratori d’azienda e guidata dal primo ministro Shinzo Abe è stata accolta con tutti gli onori dalle principali autorità dello stato. I successivi colloqui hanno portato Tokyo a cancellare il debito di 1,85 miliardi di dollari che Nay Pyi Taw aveva contratto con il governo nipponico e al tempo stesso ad investire 500 milioni di dollari per la costruzione di strade e, con rammarico della Cina, centrali elettriche.

Il decrepito e fatiscente network di telecomunicazioni per cellulari, invece, sarà rinnovato dalla qatariota Ooredoo e della norvegese Telenor. La concessione è stata oggetto di un lungo e, a tratti, drammatico braccio di ferro tra il presidente Thein Sein, favorevole alla liberalizzazione del traffico telefonico, e il blocco militare, a cui si rifacevano le tre società che in precedenza controllavano il mercato (la Myanmar Post Telecommunication, la Yatanarpon e la Myanmar Economic Corporation).

Gli investimenti stranieri sono stati messi, però, a rischio dalla maggiore instabilità del paese e dalla complicata macchina burocratica che, in realtà, negli ultimi due anni si sia spogliata di numerosi orpelli che la appesantivano.

La società Maplecroft, specializzata in analisi di rischio d’investimenti, ha posto il Mynamar al quinto posto come paese a rischio su una classifica che tiene conto di 197 economie mondiali.

Peggiore ancora è la gestione delle risorse del territorio: il Revenue Watch Institute ha relegato la nazione asiatica all’ultimo posto. La pessima reputazione del governo birmano nel settore è confermata anche dal rapporto dell’United Nations Office on Drugs and Crime (Unodc), che nel suo resoconto ha evidenziato che in dieci anni (dal 2002 al 2012) la superficie destinata alla coltivazione di papavero d’oppio è cresciuta del 26%. Il 92% dei campi coltivati si trova nello stato Shan, dove sono presenti numerosi gruppi armati nazionalisti direttamente finanziati dai signori della droga. Il leggendario «Triangolo d’Oro» – l’area che include territori a cavallo fra i confini di Laos, Myanmar e Thailandia – è tornato ad essere l’area dove si concentrano maggiormente le piantagioni di papaver somniferum, raggiungendo il 18% della produzione mondiale, secondo solo all’Afghanistan. Il Tatmadaw, in un tentativo di analisi troppo azzardato, ha commentato i dati rilasciati dall’Unodc per evidenziare lo stretto legame esistente tra le aree a forte produzione d’oppio e la mancanza di uno stretto controllo sul territorio da parte dell’esercito birmano.

Ciò che dovrebbe preoccupare maggiormente il governo è la forte crescita del consumo interno di stupefacenti, in particolare tra la popolazione più giovane.

 

I contendenti per le presidenziali del 2015

Tutti questi problemi non potranno essere risolti in breve tempo e, quindi, passeranno al successore dell’attuale presidente. Thein Sein, infatti, ha già fatto sapere che non intende presentarsi alle prossime elezioni presidenziali, anche se, più recentemente, il suo portavoce, Ye Htut, ha ipotizzato un possibile ripensamento.

Da parte sua, Aung San Suu Kyi ha già avanzato la sua candidatura per le file del National League for Democracy (Nld). L’unico ostacolo che si frappone alla sua designazione è la Costituzione, il cui articolo 59 prevede che il presidente non sia sposato con stranieri (Aung San Suu Kyi, in quanto vedova di un britannico, non rientrerebbe in questa categoria) e non abbia figli stranieri (i figli avuti dal matrimonio con Michael Aris hanno passaporto britannico e questo potrebbe pregiudicare la candidatura).

Per perorare le sue ragioni e cercare alleanza tra gli stati occidentali che tanto hanno contribuito alla sua causa mentre era agli arresti domiciliari, Aung San Suu Kyi, per tutto il 2013, ha viaggiato negli Stati Uniti, in Oceania, Giappone ed Europa con il dichiarato scopo di chiedere l’emendamento della Costituzione birmana.

Un gesto sicuramente interessato e opinabile, come lei stessa ha indirettamente ammesso: «Capisco (…) che la mia insistenza sull’emendamento per la candidatura presidenziale può essere intesa come una battaglia personale. Ma non sono io che l’ho iniziata: è stata la precedente giunta militare che ha disegnato una Costituzione nazionale prendendo come misura la necessità di allontanare la mia persona da ogni forma di governo. Io mi batto non per la mia candidatura, ma perché il popolo abbia il diritto costituzionale di scegliere liberamente la persona che andrà a rappresentarlo» (a pag. 48, ndr).

Se, come è molto probabile che sia, l’articolo che impedisce la candidatura della leader dell’Nld verrà rimosso, la popolarità che gode tra i Bamar, l’etnia alla quale lei stessa appartiene e che rappresenta il 68% della popolazione del Myanmar, le garantirà il seggio presidenziale.

Non è ancora chiaro, invece, chi sarà il candidato del partito che attualmente detiene la maggioranza nel parlamento, l’Union Solidarity and Development Party (Usdp), anche se voci sempre più insistenti indicano che potrebbe essere Shwe Mann, potente portavoce sia della Camera bassa che della Camera alta. Shwe Mann, che durante il regime di Than Shwe superava in scala gerarchica anche Thein Sein, ha trasformato le legislature da semplici luoghi di ritrovo in cui si approvavano ciecamente i decreti proposti dal governo, a vivaci centri di dibattito.

Con la staffetta Thein Sein-Shwe Mann i militari si assicurerebbero ancora per un quinquennio una certa tranquillità, sufficiente per completare il loro ritiro dalla scena politica, ma non è escluso che i dissapori che da qualche mese stanno allontanando i due uomini forti del governo birmano, possano creare una spaccatura insanabile portando entrambe alla corsa presidenziale.

Nel frattempo la liberazione di prigionieri politici continua a essere presentata dal governo come motivo di miglioramento dei diritti umani nel paese: a fronte di 1.141 detenuti per reati d’opinione liberati dal 2011 all’11 dicembre 2013.

 

 

La situazione dei diritti umani, anche se in via di miglioramento, rimane, comunque, una spina nel fianco per il governo birmano. Reporters sans Frontières ha continuato a denunciare la repressione dei media, nonostante vi sia una decreto che abbia cancellato ogni forma di controllo preventivo. In realtà, in mancanza di una legge che possa garantire l’incolumità dei giornalisti, questi – per evitare conseguenze finanziarie o, peggio, fisiche – si censurano da soli.

Il Child Soldiers International, invece, ha continuato a segnalare il reclutamento di minori tra le file del Tatmadaw e degli eserciti etnici che combattono il regime di Nay Pyi Taw. Secondo il Csi alcuni gruppi di guerriglia, in particolare le coalizioni Karen National Union/Karen National Liberation Army (Knu/Knla) e Karenni National Progressive Party/Karenni Army  (Knpp/Ka) avrebbero avviato un programma con le Nazioni Unite per cessare l’assoldamento di combattenti minorenni, mentre in giugno l’Unicef ha avviato un piano di azione simile con il Tatmadaw, che include il «congedo» dei militari bambini.

Saranno tutti questi problemi, sommati a quelli già elencati, il pesante fardello che Thein Sein trasmetterà al suo successore.

Piergiorgio Pescali