Jihad, Sharia e terrorismo

Il professor Massimo Campanini, orientalista, storico del Vicino oriente arabo e di Filosofia islamica insegna all’Università di Trento. Ci spiega alcuni concetti di base.

Cos’è la jihad, la guerra santa?
Nel corano il termine ha significato di «sforzo». Ovvero impegno, coinvolgimento personale e comunitario sulla via di Dio. Può essere interpretato in senso spirituale (come ad esempio dai sufi), trasformazione del sé, raggiungimento della perfezione spirituale che consente di avvicinarsi a dio. Ha avuto caratterizzazione bellica, che può essere offensiva o difensiva. Offensiva nel senso di estensione della comunità islamica, ma mai come strumento di forzata conversione degli infedeli.
Diventa più aggressiva a partire dagli anni ’70: affermazione di fondamentalismo e radicalismo islamico. I teorici dei movimenti estremisti hanno sostenuto che il dovere jihadistico rivelato all’origine è stato per secoli dimenticato e i contemporanei lo devono rinverdire.
Il jihadismo è un problema contemporaneo. Forma contemporanea di radicalizzazione di alcune frange di islam che trovano riferimenti teologici nel medioevo ma li riadattano a certe prese di posizione e alla necessità della contingenza contemporanea.
I salafiti sono tutti jihadisti?
I salafiti sono una realtà plurale, non sono un blocco omogeneo. Esistono gruppi salafiti jihadisti ma anche gruppi salafiti quietisti, che predicano il non impegno politico, l’islamizzazione delle coscienze dei singoli e non la necessità di impadronirsi dello stato. In Arabia Saudita, convivono entrambe le tendenze.
Perché usano il terrorismo?
Il terrorismo è spesso l’arma di coloro che non hanno la possibilità di mettere in campo eserciti organizzati. Non riduciamo il terrorismo al jihad. Ma è il jihad che usa il terrorismo, è una questione tattica.
Cos’è la Sharia, legge islamica?
Sharia vuol dire «direzione»: ha valore più etico, ideologico che normativo. Nel Corano e nella Sunna (testi fondamentali dell’islam) sono contenute norme civili e penali.
Un conto è la rivelazione, altro è l’interpretazione fatta sulla rivelazione, umana e contestualizzata, a cui è data autorevolezza della sharia fraintendendo e tradendo le aspirazioni originarie.
Quando i gruppi fondamentalisti vogliono applicare la sharia, intendono alcune regole di comportamento, velo, applicazione delle pene corporali. Agitare lo spauracchio della sharia è un problema più formale che sostanziale.
Operano una semplificazione, radicalizzando alcune norme che fanno scalpore e sono anche utilizzate a livello mediatico.
Perché gli islamisti di Ansar Dine hanno distrutto i mausolei a Timbuctu?
Purificazione dell’islam, puritano e rigido, che non sopporta che venga adorato nient’altro accanto a Dio. Questo il senso teologico, malinteso ed esagerato, estremista, fondamentalista. C’è poi la mediatizzazione del fenomeno: allo scopo di trovare altri appoggi, convincere altra gente a seguire una posizione di tipo politico o ideologico. Convincere gli incerti a venire dalla loro parte.

a cura di Marco Bello

Marco Bello




1. Iran: L’ayatollah e il presidente

L’enigma Iran (dopo le elezioni di giugno). La teocrazia sciita: una lettura
alternativa.


di Angela Lano, orientalista

I «cattivi» hanno un nuovo leader

«Sono
felice che finalmente il sole della razionalità e della moderazione
torni a brillare in Iran», così ha esordito, sorridendo, il neopresidente della
Repubblica islamica dell’Iran, esprimendo il desiderio che l’Occidente assuma
verso il suo paese un atteggiamento diverso dal recente passato, «basato sul
reciproco rispetto e sull’equità».

Dal 15 giugno lo «Stato canaglia» (secondo la
definizione Usa) ha dunque il suo nuovo 
presidente, il settimo (l’11° se contiamo i tre ad interim): è il
clerico sciita Hassan Rohani, colto, poliglotta, conservatore moderato ma
aperto a nuove relazioni con l’Occidente. È stato eletto al primo mandato,
diversamente da come molti si aspettavano, con la maggioranza assoluta dei
voti, raccolti sia tra i sostenitori della linea riformista sia tra i
conservatori.

L’esclusione, da parte della Guida suprema ’Ali
Khamenei, della candidatura, tra le altre, dell’ex presidente Ali Akbar Hashemi
Rafsanjani, una figura carismatica (ancorché controversa) che avrebbe
probabilmente attratto molte preferenze, ha favorito l’unico rappresentante dei
moderati.

Lo slogan di Rohani è stato: «Moderazione, razionalità e
acume» ed evidentemente è risultato vincente rispetto a quello di altri
candidati, conservatori e piuttosto popolari, come il sindaco di Teheran,
Mohammad Baqer Qalibaf, o l’ex ministro degli Esteri, Ali Akbar Velayati.

L’embargo, e i suoi drammatici effetti sulla vita
economica e sociale del paese, e il boicottaggio internazionale, le sanzioni,
la propaganda occidentale, che descrive l’Iran come una nazione di folli,
saranno tra le questioni principali che il nuovo leader dovrà affrontare, in
quanto centrali per gran parte della popolazione. Nel frattempo, egli ha già
incassato i commenti positivi della Casa Bianca, e soprattutto dichiarazioni di
disponibilità a «impegnarsi con il nuovo governo iraniano per trovare una
soluzione diplomatica sul fronte del nucleare». Anche dall’Europa non sono
mancati commenti favorevoli e di apertura.

Una
società vivace e dinamica

La vittoria di Rohani è stata salutata con entusiasmo
dai sostenitori delle linee riformista e moderata, che vedevano in Khatami,
Karrubi, Rafsanjani, Mussavi dei leader che avrebbero potuto garantire al paese
un’apertura verso la comunità internazionale e un allentamento del controllo
esercitato dal clero, che – per una parte della società iraniana – rappresenta
un motivo di tensione sociale e malcontento.

Gli iraniani non sono, infatti, una massa monolitica e
uniforme, orientata in modo unidirezionale. Si possono trovare tante idee
diverse, sentimenti, bisogni, storie e speranze. Le giovani generazioni, colte,
poliglotte, vogliono poter viaggiare per il mondo, lavorare e fare carriera, e
anche divertirsi. Diversi di loro contestano le rigidità morali e religiose del
regime e vorrebbero più concessioni e più aperture, soprattutto in tema di
relazioni interpersonali, tempo libero, e di comunicazione virtuale  – internet e i social network, che –
dopo la rivolta del 2009 (scatenatasi dopo la rielezione del presidente
Ahmadinejad) – hanno subito un giro di vite, con censure, filtri e controlli.

«In Iran – ci spiega Ali Reza, ricercatore
italo-iraniano di studi geopolitici -, le università sono il luogo prediletto
della militanza, e il clima, al contrario di quello che si pensa, è molto
dinamico. Proprio qualche tempo fa ho potuto constatare come negli atenei vi è
una vivacità politica dei giovani, simile a quella che c’era in Italia negli
anni ‘60 e ‘80. Nelle università iraniane e negli ambienti della militanza
giovanile c’è veramente di tutto. Senza ombra di dubbio l’ambiente più libero
per il dibattito politico in Iran è l’università. Ricordo, addirittura, che
qualche anno fa fu organizzato un concerto di un gruppo heavy-metal nell’auditorium
dell’Università di Teheran. Il tutto ovviamente era illegale, ma si fece
ugualmente. Mi faceva sorridere molto l’immagine dell’imam Khomeini e della
Guida attuale, ayatollah Khamenei, che sovrastava l’ingresso
all’auditorium, con i metallari che lepassavano sotto. Anche questo è l’Iran,
un paese strano. Per ciò che riguarda la libertà religiosa devo dire che in
Iran, in base alla Costituzione, oltre all’Islam (anche sunnita), sono
ufficialmente riconosciute le comunità cristiane, ebraiche e zoroastriane. A
Teheran vi sono diverse chiese. Questo paese, senza ombra di dubbio, non è
retto da un sistema liberaldemocratico, ma il fatto che lo stato sia islamico
non vuol dire per forza che viga un regime talebano».

«Perché vi facciamo paura?»

Quella iraniana è una società accogliente e cordiale,
con un alto livello scolastico, orgogliosa della propria antica civiltà.
L’immagine che si ha viaggiando per il paese, fermandosi a chiacchierare con la
gente, visitando le sue vestigia storiche, e scoprendo la sua millenaria
cultura, è ben diversa da quella dipinta da molti media italiani e occidentali
in generale, e dal film premio Oscar Argo, una produzione politica
hollywoodiana di mera propaganda, che ritrae gli iraniani come dei pazzoidi
barbuti, violenti e pericolosi.

Le domande più frequenti che essi rivolgono a turisti,
amici e giornalisti stranieri sono: «Perché vi facciamo paura?», «Perché ci
odiate?», «Perché ci avete messi sotto embargo?», «Perché pensate che abbiamo
intenzioni belliche nei vostri confronti?».

Vogliono capire, nel modo curioso e simpatico che li
contraddistingue, le ragioni di tanto livore e sfiducia nei loro confronti.
Ragioni a cui non è affatto estranea la controversa «questione nucleare», molto
enfatizzata negli Usa e in Israele e seguita a ruota dall’Europa, e che il
nuovo presidente dovrà affrontare.

Il nucleare, Israele e il mondo 

Spiega bene le cause dei timori occidentali Giorgio
Frankel, storico ebreo torinese (morto l’anno scorso), nel suo interessante
libro L’Iran e la bomba: «Il profilo comportamentale di un futuro Iran
nucleare proposto dai media afferma che l’Iran è irrazionale e fanatico, votato
alla distruzione di Israele e alla conquista del mondo, immune da quella
fondamentale logica della deterrenza che anche durante la Guerra fredda ha
assicurato uno stabile equilibrio nucleare a livello globale, e quindi disposto
a subire devastanti contrattacchi nucleari pur di poter lanciare le sue
(future) armi atomiche contro i suoi avversari. (…) Alcune delle
caratteristiche che quel profilo attribuisce all’Iran, come per esempio
l’irrazionalità, la politica estera dominata dal fanatismo ideologico e
l’espansionismo potrebbero essere semplicemente non vere. L’esperienza storica
suggerisce, infatti, che il regime iraniano si muova razionalmente, conduca una
politica estera cauta e pragmatica e non persegua mire espansionistiche».

L’Iran ha deciso di arricchire l’uranio al 20 per cento
per fini civili, per far funzionare, ad esempio, il Tehran Research Reactor
che produce sostanze mediche per i malati. Sia gli Usa e Israele sia l’Europa
hanno spesso accusato il Paese di perseguire la ricerca nucleare per fini
bellici, nonostante le ripetute smentite di Teheran, che ha ricordato che, in
quanto firmatario del Trattato di non proliferazione (Tnp) e membro dell’Inteational
Atomic Energy Agency
(Iaea), è nel diritto di sviluppare tecnologia
nucleare per scopi pacifici.

Il braccio di ferro tra le richieste occidentali,
pilotate dagli Stati Uniti e Israele, e le rivendicazioni del governo iraniano
hanno portato più volte crisi tali da far intravedere alle porte una svolta
militare, con navi da guerra posizionate nel Golfo Persico, sia da parte
americana sia da parte iraniana.

Dal canto loro, sia il regime di Tel Aviv sia i falchi
del Congresso Usa continuano a spingere verso il conflitto, ma senza convincere
per il momento del tutto né Washington né la comunità internazionale.

La guerra intraislamica e la Siria

L’attuale guerra civile in Siria, oltre a voler
abbattere l’ormai difficilmente difendibile (dal punto di vista etico-morale)
regime di Bashar el-Assad, si inserisce nel contesto dei conflitti regionali
volti a indebolire l’Iran e il movimento sciita libanese Hezbollah, alleati di
Damasco, e a destabilizzare i grandi interessi russi e cinesi in Medio Oriente.

Il caos creato dalla guerra civile intra-islamica (fitna,
disaccordo, disputa, fino alla guerra) tra sunniti e sciiti, avversari storici
dai tempi della lotta per la successione (khilafa) del profeta Muhammad
(dal 632 d.C. in poi), risulta funzionale alla nuova spartizione
statunitense-europea del Mediterraneo e Medio Oriente.

Il conflitto interno al mondo islamico sta prendendo
sempre più forza e radicalità, grazie ai continui appelli al jihad
(sforzo interiore sulla via del Bene, e anche, come in questo caso, lotta
militare) contro gli alawiti (setta sciita) al potere in Siria, definiti
kuffar (miscredenti) e rafidi (rinnegati), da parte di
telepredicatori salafiti piuttosto popolari tra le comunità islamiche nei paesi
arabi e anche in Europa.

Leggendo qua e là nei siti arabi o su Fb i tanti appelli
e commenti che istigano al conflitto settario si comprende bene la dimensione
della tragedia in corso e la morte di ogni forma di ragione: giovani e adulti
musulmani sunniti, di origini o convertiti, nel XXI secolo hanno ripreso le
armi (anche solo verbali) per la nuova guerra contro gli «eretici», e a nulla
valgono i discorsi dei loro fratelli più informati o semplicemente più
razionali, che tentano di far capire loro la trappola politica in cui sono
cascati.

Un conflitto di natura geo-politica si è dunque
trasformato in guerra di religione, grazie al ruolo e al sostegno economico e
mediatico-dottrinale di Qatar e Arabia Saudita, stretti alleati di Stati Uniti,
Israele ed Europa.

«Il crollo dell’Urss – aggiunge Ali Reza – non ha
modificato l’obiettivo vero degli Usa nel continente eurasiatico, ovvero
l’accerchiamento geopolitico della Russia (e della Cina). In un contesto del
genere l’Iran ha un ruolo importante, in quanto se la Repubblica islamica si
alleasse con la Russia, gli Usa non riuscirebbero a completare l’accerchiamento
di Mosca da sud, in Medio Oriente, dopo che il crollo del blocco sovietico ha
proiettato la Nato a ovest dei confini russi. Le sanzioni all’Iran promosse
dall’Occidente, quindi, non sono nate, come ufficialmente viene detto, per
evitare che il paese mediorientale arrivi alla bomba atomica (esse infatti
vigevano anche prima che si sapesse del programma nucleare), ma solanto per
creare problemi all’economia iraniana, fomentando il caos sociale nella
speranza di una sommossa popolare».

In questo momento storico, dunque, il progetto americano
di destabilizzazione del Vicino e Medio Oriente è appoggiato, in vario modo e
con consapevolezze diverse, da quel mondo sunnita fondamentalista per cui un «nemico»
esterno è meglio di un «eretico» interno.

Con l’uso della ragione

Tra sunniti e sciiti ci sono basi comuni che poggiano su
Corano e hadith (i detti e fatti del profeta Muhammad) e sviluppi
teologici e giuridici diversi, alcuni quasi contrapposti: oltre alla
fondamentale divergenza sull’imamato (vedi box), esiste anche un
differente peso dato all’esercizio della ragione e dell’intelletto. Gli sciiti,
infatti, usano lo ‘aql o ijtihad, «raziocinio individuale» al posto del qiyas
(una delle fonti del diritto musulmano, usul al-fiqh) che si basa sul
principio di analogia per induzione (cioè l’analisi di casi simili nella
produzione di  leggi), utilizzato dai
sunniti. Dal secolo X, sono prevalentemente gli sciiti a far riferimento allo ijtihad,
mentre i sunniti praticano il taqlid, o accettazione, imitazione, e
principio dell’emulazione.

Se per gli sciiti l’uso del ragionamento individuale, e
la ricerca continua che ne deriva, è causa-effetto di maggiore apertura mentale
e vivacità culturale rispetto ai sunniti (e ai fondamentalisti in particolare),
il vilayat-e faqih  (la tutela dei
giuristi), cioè l’autorità di dirigere e governare nella prosecuzione della «vilayat
degli infallibili Imam» (a sua volta continuazione di quella del profeta Muhammad),
va a istituire le linee costitutive della teocrazia.

Per lo sciismo, infatti, a guidare e governare la società
deve essere un conoscitore dell’Islam, che sarà un Infallibile. Se costui non
dovesse essere presente, saranno gli scienziati, giuristi, islamici a svolgere
tale ruolo. Dovere fondamentale del governo è quello di farsi veicolo e tutore
degli ideali e delle leggi divine.

La teocrazia iraniana

La forma di governo iraniana è oggetto di incomprensioni
e speculazioni, e paragoni con i sistemi politici occidentali. Tuttavia, va
sottolineato che i parallelismi non funzionano, in quanto bisogna tenere conto
di una peculiarità: l’Iran è una teocrazia basata su un sistema elettorale
universale democratico. La religione e il clero detengono il vero potere. Nella
Repubblica islamica lo stato e i suoi funzionari sono sottoposti al potere
religioso: la Costituzione, infatti, prevede un sistema misto di democrazia e
teocrazia. Quest’ultima si basa su un concetto giuridico sciita duodecimano (la
forma di sciismo al potere in Iran), il sopracitato vilayat-e faqih,
ripreso da Ruhollah Khomeini dopo la Rivoluzione islamica del 1979 che scacciò
il regime dello shah Reza Palhavi.

Secondo questo concetto, i giuristi sono gli unici
governanti giusti, in quanto «Dio ha ordinato un governo islamico». Solo gli
esperti in studi religiosi e nella giurisprudenza islamica «possono garantire e
preservare l’ordine islamico e prevenire di deviare dal giusto sentirnero
dell’islam» («Islam and Revolution, Writigns and Declarations of Imam
Khomeini
»).

In base a tali criteri, dunque, anche il presidente
della Repubblica è subordinato all’ordine religioso e alla linea politica
intea ed estera dettata dai Guardiani della rivoluzione, gli ayatollah.

Di per sé, il «piano religioso» non preclude né lo
sviluppo economico né quello scientifico e culturale, e la storia degli antichi
Imperi islamici (ommayyadi, abbassidi, i regni fatimidi, la dinastia Ottomana,
tanto per fare un esempio) lo ha dimostrato, attraverso l’importante e vasto
bagaglio scientifico-filosofico-tecnologico-urbanistico passato all’Europa
Medioevale dal mondo arabo-musulmano.

Nonostante l’embargo

Secondo il Fondo Monetario Internazionale, l’Iran è la
17ª potenza economica del mondo, e, in base al piano strategico di Tehran
denominato «Iran 2035», nel prossimo ventennio dovrebbe far parte delle prime
sette potenze economiche del mondo. Ci spiega ancora Ali Reza: «Nonostante il
pesante embargo economico e le difficoltà, le statistiche dimostrano che
nell’ultimo ventennio la giustizia sociale è aumentata, così come il benessere
generale. Negli anni ‘80 in Iran c’era un’automobile ogni 27 persone, oggi
invece un’automobile ogni 7. Sull’isolamento politico e diplomatico dell’Iran
bisogna dire che, in primo luogo, la Repubblica islamica è a capo del Movimento
dei paese non allineati, ovvero un gruppo di 120 nazioni. È un paese membro
osservatore del Trattato di Shanghai per la Cooperazione, alleanza eurasiatica
che riunisce Russia, Cina, India e altri paesi di questo agglomerato imponente
di nazioni che vanno dalla Bielorussia all’Estremo Oriente. Entro il 2050
questi paesi, nel loro complesso, produrranno circa la metà del Pil (prodotto
interno lordo), reale e nominale, del mondo intero».

Per lo «Stato canaglia» si profila dunque un presente e
un futuro pieni di sfide che la sua popolazione sembra voler affrontare, e
vincere.•

 
       Hassan Rohani, il presidente                                                                   

Chi è il settimo presidente della Repubblica islamica
dell’Iran? Certamente un ortodosso, ma moderatamente progressista.

A seguito delle elezioni del 14 giugno 2013 Hassan Rohani,
64 anni, è diventato il 7° (11° se si contano gli interim) presidente della
Repubblica islamica dell’Iran. Rohani ha conquistato già al primo tuo il 50,7 per cento
dei voti (18,6 milioni), precedendo il sindaco di Teheran Mohammad Baqer
Qalibaf. Rohani è nato a Sorkheh, nella provincia di Semnan, il 13 novembre del
1948, da una famiglia religiosa. Nel 1972 si è laureato in Legge all’Università
di Teheran, e successivamente ha ottenuto un Master e un PhD alla Glasgow
Caledonian University. Rappresenta il leader della Rivoluzione islamica,
l’ayatollah  Seyyed Ali Khamenei (si veda
box) al Consiglio supremo della sicurezza nazionale. In gioventù aveva preso
parte alle lotte politiche contro lo Shah. Dopo la Rivoluzione islamica del
1979, Rohani fu eletto al Parlamento per cinque mandati consecutivi, fino al
2000, e ricoprì cariche importanti: vice-presidente del Majlis (Consiglio) e
capo dei Comitati di difesa e politica estera. Durante la guerra con l’Iraq
(1980-1988) fu comandante dell’aviazione militare iraniana. Rohani parla
fluentemente inglese, arabo e persiano. Ha scritto oltre un centinaio di libri
e articoli. È stato negoziatore nucleare iraniano negli anni 2003-2005. Nella
campagna elettorale Rohani ha rappresentato riformisti e i moderati; l’altro
candidato riformista, Mohammed Reza Aref, si era ritirato su invito dell’ex
presidente Mohammad Khatami. Rohani ha attratto i voti non solo di quella parte
del paese schierata con riformisti e moderati, ma anche dei cittadini stanchi
degli effetti dell’embargo e dell’isolamento diplomatico del paese. Dei sei
candidati, Rohani era considerato l’unico moderatamente progressista, intenzionato
a liberare i prigionieri politici e a riallacciare i legami con l’Occidente. •

 
       Ayatollah Khamenei, la Guida suprema                                                   

Sopra il presidente della Repubblica c’è il leader
della Rivoluzione islamica. Perché sopra la politica c’è la religione. Questa è
la teocrazia iraniana.

Il leader della Rivoluzione dell’Iran (vali-e faghih-e iran o anche rahbar-e enghelab) è la maggiore autorità
politica e religiosa del paese. Il ruolo fu istituito dalla Costituzione
iraniana in accordo con la Guida dei giuristi islamici, a seguito della
Rivoluzione del 1979, e dal giugno del 1989 è ricoperto dall’ayatollah ‘Ali
Khamenei, che succedette a Ruhollah Khomeini. Il leader supremo è più potente
del presidente della Repubblica. Egli nomina i dirigenti di diversi importanti
incarichi nazionali – militari, governativi, della magistratura, dei mezzi
pubblici di informazione -, orienta la politica estera della nazione e decide
della pace e della guerra. Decide la lista dei nomi dei candidati per le
elezioni del potere esecutivo e legislativo sia a livello nazionale sia locale,
così come nomina 6 dei 12 membri del «Consiglio dei guardiani», una sorta di
Corte suprema, che giudica la costituzionalità delle leggi approvate dal
Parlamento. Il suo potere non può essere messo in discussione, in base al
principio del velayat-e-faqih che
stabilisce la supremazia della religione sulla politica, dell’ambito spirituale
rispetto alle questioni materiali. La Costituzione richiede che il Leader della
Rivoluzione conosca la giurisprudenza islamica, sia giusto e compassionevole,
goda della stima della popolazione. Nella sua storia, la Repubblica islamica
d’Iran ha avuto due Guide supreme: Ruhollah Khomeini e Sayyed Ali Khamenei.

Ayatollah (āyat
Allāh
, segno di Allah). È un titolo onorifico dato agli esponenti di grado
elevato del clero sciita. Si tratta di esperti in giurisprudenza, scienza e
filosofia islamiche. Essi insegnano in hawza,
scuole o seminari islamici. Sotto gli ayatollah ci sono gli hujjat al-Islām (in persiano, hojjatol-eslam, prova o autorità
dell’Islam). Khatami, Rafsanjani e l’attuale presidente Rohani, tra i più noti,
sono hojjatol-eslam.

Gran ayatollah o ayatollah uzma.  È un titolo
garantito a pochi ayatollah, particolarmente seguiti dai fedeli e i cui scritti
sono presi come guida. Un Gran ayatollah è infatti un marja’al-taqlīd, cioè un giurista-teologo dello sciismo duodecimano
che gode di grande autorevolezza nell’esegesi dei testi sacri e che i fedeli
devono imitare.

Le ayatollah. L’Islam sciita contempla
l’esistenza di donne ayatollah, e – anche se in numero ridotto – sono
considerate al pari dei loro colleghi maschi. Sono le mujtahideh. •

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Angela Lano




2. Iran: Sunniti  e Sciiti

Tabella sintetica di paragone tra Sunniti e Sciiti

SUNNITI

Profeta
– Muhammad
(nome completo: Abu- l-Qasim Muhammad ibn ʿAbd Allah ibn ʿAbd al-Muttalib al-Hashimi) nacque
a Mecca intorno al 570 d.C. e morì a Medina nel 632. Era parte del clan
hashimita della potente tribù araba dei Quraysh. Fu il Profeta e il fondatore
della religione musulmana, secondo la tradizione islamica, incaricato da Dio
(Allah), attraverso l’angelo Gabriele (Jibril), di diffondere la sua Parola (il
Corano) tra gli Arabi, allora politeisti.

Nascita
sunniti
– È la corrente che si formò dopo la morte del
profeta Muhammad tra coloro che appoggiarono la nomina a califfo (khalifa,
vicario, successore) di Abu Bakr, uno dei primi compagni, convertiti all’Islam
e uno dei suoceri di Muhammad (era il padre di ‘Aisha, la giovane e battagliera
sposa). I sunniti sono i seguaci della sunna (pratica, tradizione)
secondo quanto raccontato dai compagni del Profeta (sahaba) negli ahadith
(hadith, al singolare), detti e fatti di Muhammad. Essi si considerano
il ramo ortodosso dell’Islam.

Diffusione
– La maggior
parte dei musulmani sono sunniti. Circa l’80% del totale.

Tradizione
– I sunniti,
chiamati anche Ahl al-Sunna, credono che la sunna del Profeta –
di cui sono parte, insieme al Corano, la collezione di ahadith – debba
essere seguita come esempio da tutti i musulmani. Gli ahadith, decine di
migliaia, riportati da amici e compagni della prima ora, furono scelti da
ricercatori e storici dei secoli XI e XII, sulla base di criteri di affidabilità
in una isnad (catena di trasmissione) che doveva arrivare, a ritroso,
fino a Muhammad. I sunniti accettano solo detti riferiti esclusivamente dal
Profeta e non dei suoi discendenti.

Clero
– Non c’è un
vero e proprio clero. Chiunque, preparato islamicamente, può essere un imam,
cioè colui che guida la preghiera, il culto, o essere chiamato shaykh.
Il mondo arabo sunnita brulica di shuyukh (plurale di shaykh),
perché è sufficiente essere benestante, o anziano, o avere un ruolo di
visibilità e responsabilità in gruppi, associazioni, comunità, o nella società,
per ottenere tale titolo onorifico, in segno di rispetto o deferenza. Sono
invece i saggi, gli studiosi (‘ulema’, mufti, mullah) che dominano il
discorso religioso con le loro prediche, in particolare su internet o in
televisione.

Imam
– È colui che
guida la preghiera, cioè colui che sta davanti ai fedeli e conduce il culto; e
i quattro fondatori delle scuole giuridiche. Il titolo imam era usato
parallelamente a quello di Khalifa.

Testi
sacri
– Sono il
Corano e gli ahadith.

Religione
e politica
– Secondo i
sunniti stato e religione non sono separabili.

Scuole
di giurisprudenza
– I sunniti
prevedono scuole (madhhab, strada, cammino) di giurisprudenza (fiqh),
che seguono le linee di quattro grandi pensatori: malikita, shafi’ita,
hanbalita
e hanafita. Tali scuole giuridiche si formarono entro il
XII secolo: il sunnismo segue un pensiero fermo a quella epoca, con alcune
riforme apportate nei secoli successivi, fino al riformismo islamico
dell’Ottocento-Novecento, quello che portò poi alla formazione del neosalafismo
e del fondamentalismo in generale. Nell’elaborazione delle leggi del diritto
islamico i sunniti praticano il taqlid, inteso come accettazione,
imitazione, emulazione.

Celebrante
– Il
predicatore, khatib, sta in piedi su un pulpito, minbar.

Moschee  – Sono costruzioni semplici e austere. A parte quelle del
passato di architettura arabo-islamica o ottomana.

Pilastri
del culto – Per i sunniti
sono 5: 1) la testimonianza di fede, al-shahada; 2) la preghiera
rituale, al-salah; 3) l’elemosina canonica, al-zakah; 4) il
digiuno durante il mese di Ramadan, sawm o siyam; 5) il
pellegrinaggio a Mecca almeno una volta nella vita, hajj.

Professione
di fede (shahada)
– Si ripete la
formula: «Testimonio che non c’è divinità se non Iddio, e Muhammad è il suo
Profeta». Questa frase è ripetuta anche durante il richiamo alla preghiera, l’adhan.

Atteggiamento
nella preghiera
– I credenti
eseguono le preghiere con le mani congiunte all’altezza del diaframma, e su un
tappeto. Stanno l’uno vicino all’altro, e alla fine del ciclo di orazioni,
girano il capo a destra e poi a sinistra.

Donne
–  Il ruolo delle donne e quello
degli uomini, sia nelle società sciite sia in quelle sunnite, differisce in
molti aspetti, e dipende da stato a stato. Alcuni studiosi prevedono lo jihad
al-Nikah
(un «matrimonio temporaneo per il jihad»): tale pratica
legittima la partecipazione femminile al jihad attraverso il proprio
corpo offerto ai jihadisti impegnati nelle guerre contro i nemici. (In
realtà, a fronte di qualche decina di ragazze che si offrono volontarie,
sperando nella ricompensa del paradiso, tale pratica è usata per legittimare
decine di migliaia di stupri commessi – ad esempio – ai danni di bambine e
ragazzine siriane sia in Siria che nei vari campi profughi).

Velo
islamico
–  L’uso del velo per le donne
musulmane è obbligatorio sia nel mondo sunnita sia nel mondo sciita, in base ai
versetti di due sure del Corano (XXXIII, 59 e XXIV, 31).

Feste
– I sunniti
celebrano solo due feste: Eid al-Fitr, che segna la fine del mese di
digiuno, Ramadan, e la Eid al-Adha, festa del sacrificio, alla fine del
pellegrinaggio (hajj) a Mecca.

Cibi
e bevande
– È vietata la
carne di maiale, così come il consumo di alcolici. •

SCIITI

Profeta
– Nessuna
differenza con i sunniti sulla figura di Muhammad.

Nascita
sciiti
– Da shiʿa, shi‘at ‘Ali, «partito di ‘Ali», cugino e
genero di Muhammad. Si costituì, secondo la tradizione sciita, nel giorno di Ghadir
Khum
, quando Muhammad alzò la mano di ‘Ali mostrando che lui sarebbe stato
il suo successore (khalifa) nella direzione della comunità islamica, umma.
Gli sciiti credono che il califfato spettasse a ‘Ali e che gli fu ingiustamente
sottratto con la nomina di altri tre successori, prima di lui – Abu Bakr, ‘Omar
e ‘Uthman – che loro non riconoscono. Costituiscono il secondo gruppo
dell’Islam.

Diffusione
– Il
10-15% dei musulmani è costituito da
sciiti delle diverse correnti (duodecimana, la principale, e poi ismaelita,
zaidita). Lo sciismo (si veda la cartina) è diffuso in Iran (la
maggioranza della popolazione), Iraq (un terzo della popolazione musulmana),
Pakistan (20%), Arabia Saudita (15%), Bahrein (70%), Libano (27%), Azerbaigian
(85%), Yemen (50%), Siria, Turchia, e in altre parti del mondo, compreso
l’Occidente.

Tradizione
– Sono chiamati
Ahl al-Bayt, la gente della Casa. Anche loro seguono gli ahadith,
ma accettano anche detti di discendenti del Profeta.

Clero
– Ha un clero
organizzato, preparato in università specifiche di scienze islamiche o nelle hawza
(scuole teologiche). Per diventare shaykh c’è bisogno di una cerimonia,
mentre, per salire nella gerarchia, il credente deve continuare a studiare, fino
a diventare mullah e poi ayatollah. Nello sciismo l’ayatollah
(ayatu-l-Lah, segno di Dio) è considerato il più alto dignitario del
clero. È un titolo conferito a coloro che hanno ottenuto meriti, sia per
proclamazione che per nomina da parte di un altro ayatollah. Per
diventare ayatollah, oltre agli studi specifici e una grande conoscenza
della religione, il fedele deve essere un discendente diretto di Muhammad.

Imam
– L’imam
è colui che deve guidare la religione in assenza del Profeta. Per i Duodecimani
sono 12 gli imam, tutti discendenti di Muhammad, e dotati di
infallibilità. Il 12° imam è l’imam occulto, il Mahdi. Quello
dell’imamato è un concetto-chiave che distingue sciiti da sunniti.

Testi sacri – Come i sunniti, con un’estensione
per gli ahadith.

Religione
e politica
– Gli sciiti hanno una tradizione di
indipendenza dei leader religiosi rispetto a quelli politici. Tuttavia, lo
stato è soggetto al clero, il quale monitora e decide se un governante è degno
di governare e se rispetta le linee guida islamiche.

Scuole
di giurisprudenza
–  La maddhab sciita è la jafarita,
ma ce ne sono molte altre, e ogni credente segue le scuole che ritiene meglio,
senza imposizioni preordinate. Lo sciismo non accetta l’imitazione di giuristi
morti, ma segue quelli in vita. Inoltre, i saggi/studiosi sciiti di scienze
religiose divergono dai loro colleghi sunniti perché danno molto più peso
all’esercizio della ragione e dell’intelletto. Per esempio, al posto del qiyas
(una delle fonti del diritto musulmano, usul al-fiqh, che si basa sul
principio di analogia per induzione, analizzando casi simili), gli sciiti usano
lo ‘aql o ijtihad, «raziocinio individuale». Rappresenta lo sforzo di
riflessione che gli ‘ulema’ (scienziati, studiosi di scienze islamiche)
o i mufti (accademici islamici cui è riconosciuta la capacità di
interpretare la legge, la shari‘a) intraprendono per interpretare le
fonti della legge (usul al-fiqh) e formare opinioni legali qualificate,
dando regole al fedele e informandolo sulla liceità o meno di un’azione.

Celebrante
– Il
predicatore sta in piedi di fronte alla comunità.

Moschee
– Le moschee
sciite sono decorate finemente, esteticamente accoglienti e attraenti. Si
confronti una qualsiasi moschea dell’Arabia Saudita con quelle di Teheran o
Isfahan, capolavori di bellezza e arte.

Pilastri
del culto
– Nello sciismo
duodecimano ci sono 10 pilastri, chiamati «ausiliari della fede» (furuʿ al-din): 1) al-salah (in
persiano, namaz); 2) sawm; 3) al-zakah (2,5% della
ricchezza; non prevede donazioni in denaro, ma in oro, grano, animali,
prodotti); 4) khums, una tassa annuale del 20% circa del reddito da
donare agli imam e ai bisognosi; 5) hajj; 6) jihad, la lotta
sulla via di Dio (ce ne sono di molte tipologie); 7) amr-bil-Marouf,
incoraggiare, prendere parte a ciò che è buono; 8) nahi anil munkar,
rigettare, proibire ciò che è male; 9) tawalla, esprimere l’amore per il
bene (per gli amici di Dio, i suoi Profeti, coloro che desiderano e sostengono
la giustizia, la verità); 10) tabarra, esprimere odio e rifiuto per il
male (verso i nemici di Dio, dei Profeti e dell’Umanità, e verso gli
oppressori).

Professione
di fede (shahada)
– Gli sciiti
aggiungono «e ‘Ali ibn Abi Talib è amico di Dio».

Atteggiamento
nella preghiera
– Gli sciiti
pregano con le mani in parallelo rispetto al corpo, davanti alle cosce. La
preghiera è realizzata con l’ausilio di una pietra (turbah) su cui va a
posarsi la fronte, nella genuflessione sopra il tappeto. Essa termina
pronunciando tre volte il takbirAllahu akbar», Dio è il più
grande).

Donne
– Per gli
sciiti, due donne sono considerate come modello per tutte, e hanno un ruolo
particolarmente importante: Fatima Zahra (figlia del profeta Muhammad, moglie
di ‘Ali e madre di Hasan e Hussayn) e Zaynab, la figlia di ‘Ali e Fatima. Nel
mondo sciita è permesso il mut‘a: matrimonio a tempo tra un uomo e una
donna non sposata. Il matrimonio, siglato attraverso un contratto e il
pagamento di una somma di denaro a compensazione, può durare da qualche ora a
anni. In realtà si tratta di un’istituzione pre-islamica, condannata dagli ayatollah
iraniani e avversata dal sunnismo che la considera al pari della prostituzione.
Il mut‘a viene riconosciuto come una sorta di salvacondotto legale per i
rapporti sessuali non finalizzati alla procreazione (prevista all’interno del
matrimonio permanente).

Velo
islamico
–  Cambia soltanto il nome e la
tipologia. Ad esempio, in Iran è diffuso lo chador, un manto che copre
tutto il corpo.

Feste
–  Gli sciiti festeggiano anche: Mawild,
l’anniversario della nascita del Profeta, della figlia Fatima e di tutti e 12
gli imam; l’Eid al-Ghadir, per ricordare la nomina di ‘Ali come
successore di Muhammad; la morte di tutti gli imam, e in particolare Ashura,
in cui viene ricordato il martirio di Hussayn a Karbala. Quaranta giorni dopo Ashura
c’è la festa di ‘Arba‘iyn, a ricordo della visita dei suoi familiari al
sepolcro.

Cibi
e bevande
– Non ci sono
differenze con il sunnismo. •

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Angela Lano




L’Incontro (Nohimayou) – 1


50 anni di Catrimani (1965-2015):
Yanomami e Missionari della Consolata.

In questa Prima parte:

Introduzione di Stefano Camerlengo

Presentazione di Paolo Moiola

I TESTIMONI

Testimonianza di Giuglielmo Damioli

La voce di Corrado Dalmonego


Vai alla Seconda parte: I Testimoni:

Un brasiliano tra gli Yanomami, Laurindo Lazzaretti | Incontro con Carlo Zaquini

Vai alla Terza parte: SCHEDE

Dati e informazioni sugli Yanomami | Il mondo Yanomami | Cronologia essenziale | Breve glossario Yanomami

Vai alla Quarta parte: INCONTRO O SCONTRO

La parola agli Yanomami | Esiste una strada per la convivenza? di Silvia Zaccaria | Sopravviveranno alle contaminazioni? di Daniele Romeo | Gli amici (il Co.Ro.) di Carlo Miglietta

Video: “Vennero come amici: 50 anni di Missione a Catrimani tra gli Yanomami”,
realizzato da Yuri Lavecchia e da Daniele Romeo.
Eccezionale testimonianza sui 50 anni dei Missionari della Consolata a Catrimani.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=UrVF88Uqf9A?start=14&feature=oembed&w=500&h=281]

 


 Introduzione         

 Una storia che deve continuare

di Stefano Camerlengo

Stare al fianco degli indios è come lavorare su un «terreno minato». Nel 2015 come cinquant’anni fa. Eppure, rimanere a Catrimani e con gli Yanomami è un dovere etico.

Come missionari della Consolata celebriamo i nostri primi 50 anni di presenza con il popolo yanomami nella foresta amazzonica brasiliana e con spirito di gratitudine e riconoscenza presento questo dossier speciale a loro dedicato.

Parlare di presenza significa fare riferimento a persone concrete, che in cinque decenni si sono alternate e hanno solcato con i loro piedi e con il loro cuore questa immensa foresta, bacino di vita per l’umanità. Per noi Catrimani è una missione «speciale», un’opera di promozione e accompagnamento di un popolo, volta a ridare ad esso dignità, capacità di espressione e di camminare con le proprie gambe. Diversi e importanti sono gli insegnamenti che questa esperienza ci ha regalato. Provo a elencarne alcuni, con uno sguardo teso al futuro.

Dialogo senza pregiudizio – Gli indios yanomami si presentano al tavolo del dialogo interculturale per ricevere e per dare. Essi non vanno visti soltanto come persone impoverite, ma anche e soprattutto come portatori di valori e beni umanizzanti, a partire dalla loro cultura. Sono un popolo che non ha bisogno di intermediari che parlino per loro: basta ascoltarli. La relazione interculturale ha richiesto ai nostri missionari particolari canali, criteri di spiritualità e pratica dialogica. Il dialogo interculturale ci ha richiesto, prima di tutto, la convinzione del valore della loro cultura senza complessi di superiorità o centralità, l’apertura senza pregiudizio al pensiero altrui, per favorire un ambiente di reciproco coinvolgimento. In questo modo abbiamo riconosciuto il «passaggio di Dio» nella vita di questo popolo. I nostri missionari ci hanno insegnato un cammino di avvicinamento agli altri, nelle loro giornie e speranze, nei loro codici, valori, lingua e spiritualità, affinché l’incontro sia una facilitazione e un rafforzamento delle diverse culture. In un dialogo che non è un mero condividere e comunicare pensieri, ma un essere disponibili al cambiamento e alla scoperta di nuovi spazi di realizzazione.

Uno stile rispettoso È emerso qui, nel Catrimani, lo stile di una missione che rispetta l’altro riconoscendolo come già illuminato e capace di leggere i segni della presenza di un Dio buono in chi si fa prossimo per offrirgli ogni gesto possibile di solidarietà umana. È il servizio gratuito reso all’altro che fa sussultare, germogliare in esso quello che lo Spirito vi aveva già posto. L’urgenza che porta il cristiano verso l’altro è la sollecitudine, il desiderio di prendersene cura al punto da non frapporre indugio tra l’averne conosciuto il bisogno e la disponibilità a venire incontro a quel bisogno.

Presenza, denuncia, annuncio – Quella dei missionari a Catrimani è una presenza profetica, capace di penetrare profondamente la realtà e indicare, assieme alla gente, i cammini da seguire. Una comunità missionaria cosciente e ben inserita tra le persone che è diventata catalizzatrice di trasformazioni compiute dallo stesso popolo locale. Una comunità che ha fatto sua la sfida ecologica, che si è fatta voce della terra e delle persone con ostinazione e metodo, aggregando forze ed educando la gente all’azione. Una comunità profetica di denuncia e annuncio, capace di spargere la voce ovunque, approfittando con saggezza dei mezzi tecnologici e dei media (come – ad esempio – la rivista che tenete tra le mani). Questa comunità ha reso visibile a molti un piccolo angolo del mondo, ha offerto la sua esperienza locale come possibile modello di azione anche per altri contesti e si è resa disponibile a collaborare con tutti gli alleati che vogliano affrontare le stesse sfide.

Tanti, ma non abbastanza – Mi sembra questo uno dei lasciti più preziosi della testimonianza dataci dai nostri missionari e dal popolo con il quale vivono: l’invito a non scordare mai che, anche quando si compie tanta strada, all’arrivo si troverà sempre «lo Spirito Santo» già presente, si troverà l’altro, verso il quale ci chiniamo, già abitato dalla presenza del Signore, in attesa solo di qualcuno che lo renda consapevole del dono gratuito che Dio offre a ogni essere umano.

Noi come missionari della Consolata vogliamo continuare la nostra missione tra gli Yanomami per aiutarli a vivere degnamente e a recuperare i propri valori. Vogliamo che la loro autonomia e la loro storia, scritte nella memoria e nel territorio, vengano rispettate. Per questo crediamo fermamente che 50 anni siano tanti, ma non abbastanza.

Il dovere «etico» di rimanere – Rimaniamo a Catrimani e continuiamo perché questo popolo ha il diritto di vivere. E come missionari abbiamo sempre il dovere di promuovere la vita. Non sappiamo se riusciremo ad aiutarli perché siamo consapevoli di muoverci su un «terreno minato», ma ci crediamo e andiamo avanti. L’obiettivo è l’autonomia e la libertà degli Yanomami.

Gli indios sono stati manipolati. L’incontro-scontro con il mondo dei «bianchi» li ha resi più poveri e troppi di loro sono stati uccisi per gli interessi egoistici di quel mondo. I governi pensano solo alle elezioni e al potere. Dietro a ogni scelta politica c’è sempre l’aspetto economico dell’accaparramento delle ricchezze. Noi non vogliamo che continui così.

Che vengano pure analizzati e corretti i nostri errori, ma dobbiamo esigere che la differenza di stili di vita e di idee venga accolta. Stiamo aiutando delle persone a ritrovare se stesse, a ridare valore alla loro esistenza. Un cammino, questo, che è possibile solo con gente che, gratuitamente, condivide la propria vita con altri.

Il «rinascimento indigeno» in America latina, avvenuto nelle ultime decadi, è una realtà incoraggiante, ma il suo cammino è quasi ovunque irto di difficoltà e di feroci resistenze, per questo vale la pena e anzi è un «dovere», etico e categorico, rimanere e far sì che la storia continui. 

Stefano Camerlengo

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L’evoluzione del dubbio

Yanomami e napëpë

 di Paolo Moiola

Primitivi, selvaggi, feroci. Un tempo erano questi gli aggettivi affibbiati agli Yanomami (e ai popoli indigeni in generale). Poi le cose sono un po’ cambiate. Ma i problemi sono rimasti. Oggi per gli indios il pericolo maggiore non è la sopravvivenza fisica, ma quella culturale.

Boa Vista. Nella filiale del Banco do Brasil sono presenti molte persone. La banca ha soltanto sportelli automatici. Dopo aver prelevato il denaro, veniamo avvicinati da due uomini dalle fattezze indigene. Ci dicono di averci visti nella sede di Hutukara, l’organizzazione yanomami dove in effetti il giorno prima eravamo stati per incontrare il leader Davi Kopenawa1. I due indigeni ci chiedono se possiamo aiutarli con la loro tessera bancomat, del cui utilizzo non sono esperti. Entriamo nel conto che però risulta vuoto. «I soldi non sono ancora arrivati», sentenzia uno di loro. Ci salutiamo.

Come ci spiegherà in seguito Carlo Zacquini, l’uso del bancomat si è (relativamente) diffuso tra gli Yanomami perché un piccolo numero di loro ha un impiego pubblico. Soprattutto come insegnante o come agente di sanità indigena. Nella mente si fanno spazio tanti dubbi. Il primo, forse banale ma crediamo lecito, recita così: nell’incontro tra indios e bianchi ci sono perdenti e vincitori? La storia, passata e attuale, risponde che sono gli indios ad avere perso. Spesso la vita, oggi probabilmente stili esistenziali e cultura.

«Perché disturbare gli indios?», si chiedeva nel lontano 1966 mons. Servilio Conti, allora vescovo di Roraima2. «La domanda è lecita – proseguiva il prelato – e ce la siamo proposta anche noi. Ovviamente verrebbe voglia di ragionare così: se gli indios hanno continuato a vivere indisturbati e felici nel loro regno verde per millenni, perché andare a disturbarli col rischio di infrangere irreparabilmente quell’equilibrio che li ha tenuti in vita fino ai nostri giorni? Perché ostinarsi a penetrare in un ambiente senza essere richiesti, non solo, ma anche col pericolo di rovinare tutto?».

Felicità-infelicità, sviluppo-arretratezza, civilizzato-selvaggio sono concetti in apparenza facilmente definibili, ma in realtà spesso relativi.

«Vado avanti volentieri, pensando all’infelicità di questo popolo, il cui cammino verso la fede e la civiltà è tanto difficile e pieno di incertezze», scriveva Silvano Sabatini nel 1967 a proposito degli Yanomami del fiume Apiaú3 (conosciuti anche come Ninam o Yanam). Già pochi anni dopo il pensiero del missionario però cambia: dà la parola a Gabriel Viriato Raposo, un indio makuxi, e ne sposa le ragioni, molto critiche verso il bianco conquistatore4.

Nei suoi ultimi lavori, Sabatini parla del suo «percorso di trasformazione interiore»5: «Partito per cambiare gli indios – hanno scritto di lui -, è stato da loro cambiato»6.


La missione in riva al Catrimani, sullo sfondo la maloca Yanomami.

Diverso, molto diverso, il percorso di Napoleon Chagnon, antropologo statunitense, che con le sue ricerche tra gli Yanomami (del Venezuela)7 ha costruito la sua fortuna e la sua fama, peraltro assai controversa. Chagnon parla di essi come di un popolo primitivo in stato di guerra perenne («in a state of chronic warfare»); parla di bellicosità, aggressioni, vendette di gruppo. Siamo nel 1968. Nel 2013, 45 anni dopo, l’antropologo manda alle stampe un nuovo libro in cui ribadisce in toto i concetti espressi nella sua prima opera e difende se stesso e il proprio lavoro dalle critiche degli altri antropologi8.

Non si sa quanti siano i popoli indigeni rimasti incontattati. Gli Yanomami sono stati avvicinati per la prima volta dai «bianchi» circa un secolo fa. Oggi alcuni gruppi di loro vivono in «isolamento volontario», altri mantengono con la società circostante relazioni limitate, ma tutti sono in pericolo. Di certo, nel mondo (rimpicciolito) di oggi è quasi impossibile non subire influenze e contaminazioni. Piccole e grandi, spesso nefaste, a volte con effetti contrastanti. Da tempo, sulle terre indigene (non solo del Brasile) si sono posati gli occhi e gli appetiti delle lobbies politiche ed economiche. In questo caso, una risonanza internazionale può trasformarsi in un’inattesa arma di difesa per le popolazioni native. «Gli indios bisogna raccontarli e, raccontandoli, salvarli per imparare come loro a vivere armoniosamente con la natura», ha detto Sebastião Salgado, star della fotografia mondiale, presentando nel 2014 il suo lavoro sugli Yanomami9.

Nelle pagine di questo dossier missionari, volontari, antropologi raccontano del popolo yanomami e della Missione Catrimani. Di quanto sia stato duro difendersi dall’avanzata – fisica e culturale – dei napëpë (cioè dei non-Yanomami e, nello specifico, dei bianchi). Di quanto sia difficile rimanere uno Yanomami (e in generale un indio) nel mondo del 2015. Con o senza bancomat.

Paolo Moiola

Note

(1)  Paolo Moiola, Dalla montagna del vento, Incontro con Davi Kopenawa, Missioni Consolata, novembre 2014.
(2)  Servilio Conti, Se potessimo volare!, Missioni Consolata, marzo 1966, pagg. 14-19. Mons. Conti, missionario della Consolata, è andato al riposo eterno nel settembre 2014.
(3)  Silvano Sabatini, Tra gli indios dell’Apaiú, Edizioni Missioni Consolata, Torino 1967, pag. 79.
(4) Silvano Sabatini (a cura di), Gabriel Viriato Raposo. Ritoo alla maloca, Emi, Bologna, 1972.
(5)  Silvano Sabatini, Il prete e l’antropologo, Ediesse, Roma 2011, pag. 65.
(6)  Stefano Camerlengo, introduzione a Silvano Sabatini, Yanam. Vita e morte di un popolo, Torino 2008, pag. 4.
(7)  Napoleon A. Chagnon, Yanomamö. The Fierce People, Holt, Rinehart and Winston, Usa 1968
(8)  Napoleon A. Chagnon, Tribù pericolose. La mia vita tra gli Yanomamö e gli antropologi, il Saggiatore, Milano 2014 (originale: Nobles Savages, 2013).
(9)  Sebastião Salgado, The Yanomami: An isolated yet imperiled Amazon tribe, The Washington Post, 25 luglio 2014; Salgado racconta gli Yanomami, La Stampa, 13 luglio 2014.


La maloca


  I TESTIMONI                                 

Lo stile nuovo di Catrimani

La cappella non è al centro

 di Guglielmo Damioli

Cinquant’anni fa – era l’ottobre del 1965 – i padri Bindo Meldolesi e Giovanni Calleri arrivarono tra gli Yanomami del fiume Catrimani. Dopo un periodo di scoperta reciproca, la scelta dei missionari fu quella di costruire una missione con la casa comune degli indigeni, la yano (maloca), al centro. Un cambio di paradigma rivoluzionario. In queste pagine i ricordi di Guglielmo Damioli, che a Catrimani ha trascorso vent’anni.

Da bambino facevo parte di una banda che giocava nei boschi di Cividate Camuno (Brescia), in Val Camonica. La domenica amavamo andare al cinema dell’oratorio a vedere i film di «banditi e indiani». Nel momento in cui la cavalleria irrompeva nel villaggio incendiando le capanne e facendo a pezzi gli indiani con le sciabole, noi gridavamo «arrivano i nostri». Qualche anno dopo, la mia prospettiva cambiò. Quando ero un giovane studente, mi arrivò infatti tra le mani un libro dal titolo Tra gli indios dell’Apiaú. L’autore si chiamava Silvano?Sabatini, un missionario della Consolata. Ricordo la foto di una giovane donna, dentro una canoa, con un bambino in braccio. Aveva un bel volto, capelli neri con frangia, espressione emblematica. Nudità, acqua e foresta. Quel libro rappresentò il mio primo, vero incontro con gli indios. L’immaginario popolato da indiani selvaggi lasciava spazio alla realtà misteriosa degli indios dell’Amazzonia. Mentre frequentavo l’Università Gregoriana tentando di coniugare le verità dei professori con lo spirito rivoluzionario dei documenti conciliari, Silvano Sabatini, già con fama di «indio», venne a invadere il mio mondo.  Forse lui aveva solo bisogno di qualcuno che lo ascoltasse, ma io permisi che mi prendesse il cuore. Con la destinazione per Roraima come obiettivo, già focalizzato sull’indigenismo, frequentai la facoltà di missiologia. Con la sete di sapere tutto sugli indios, divorai testi di storia delle religioni, antropologia, dialogo religioso, cultura e simbologia dei popoli delle foreste tropicali, mitologia. In una ricerca affannosa nelle librerie di Roma e nella biblioteca della Gregoriana, venni a conoscenza della mostruosa e vera storia della «scoperta» dell’America.


Damioli Guglielmo che rimase venti anni al Catrimani.

Brandendo la croce e la spada

Solo in Brasile furono massacrati sei milioni di indios, decine di milioni furono sterminati nell’America Latina, fatti a pezzi dalle spade, dai fucili, dalle malattie, dalla fame, dalla schiavitù…  sacrificati dal progetto colonialista all’ingordigia insaziabile dei conquistatori, bramosi di metalli preziosi, legni pregiati, terre e perfino di letame. Spagnoli e portoghesi, brandendo la croce e la spada, dopo il diluvio, furono responsabili del maggiore genocidio della storia dell’umanità. Durante i miei anni a Roma, venne pubblicato Ritoo alla maloca (1972) in cui Sabatini raccontava la situazione umiliante e disperata degli indios cristianizzati delle praterie di Roraima. Pochi anni prima (1968) l’antropologo statunitense Napoleon Chagnon, con il suo libro Yanomamö. The Fierce People, aveva rivelato al mondo l’esistenza degli Yanomami, dandone però una descrizione fuorviante: nel cuore dell’Amazzonia esiste un popolo isolato e «primitivo» che racchiude il «gene della guerra». Come non vedere il contrasto tra gli Yanomami di Chagnon e quelli della Missione Catrimani descritti in due filmati – Un giorno tra gli Indios e Indios miei fratelli – di padre Gabriele Soldati, un altro missionario della Consolata? Nel contesto post conciliare, così come la «Commissione Pro Indio» della Prelazia di Roraima già aveva fatto negli anni ‘60, la croce della chiesa missionaria dell’America Latina cercava di svincolarsi dalla spada, dal progetto coloniale e colonialista, tracciando nuove strade per l’evangelizzazione degli indios. In particolare, il Cimi (Consiglio indigenista missionario) fu la locomotiva che condusse la Chiesa cattolica brasiliana in rotta di collisione col potere integrazionista e distruttivo dello stato e con interessi economici e politici a tal punto che la testa di dom Aldo Mongiano, vescovo di Roraima, sarà posta come «premio» in una radio locale di Boa Vista.

«Il Dio dei bianchi è cattivo»

Con questo bagaglio culturale nell’ottobre del 1979 arrivai a Roraima, alla missione di Surumú, un centro di formazione di leader di indios delle praterie e delle montagne. Indigeni che, dopo centinaia di anni di convivenza col mondo «civilizzato», stavano perdendo la lingua, la religione, l’identità e le terre, una realtà che portò Viriato Makuxí, protagonista del libro di Sabatini, a concludere: «… il Dio dei bianchi è cattivo».

Nel gennaio dell’81, dopo un viaggio di 300 chilometri lungo la strada Br 174 (costata la vita a padre Calleri e la decimazione degli indios Waimiris), e la Br 210 (Perimetral Norte), recentemente costruita dal governo militare, attraversando foreste già devastate da coloni e innumerevoli fiumi e fiumiciattoli (igarapé), al tramonto arrivai alla Missione Catrimani, mia nuova casa per i successivi 20 anni. Anche se psicologicamente preparato, fui invaso da stupore, emozione e allegria.  Mi vidi accerchiato da volti allegri e ciarlieri, pitturati di rosso, con capelli neri a caschetto, bastoncini e penne variopinte infilate nel setto nasale, nelle orecchie e nelle labbra; da uomini col labbro inferiore gonfio per il tabacco, vestiti con un cordoncino di cotone, in piedi, appoggiati ad archi e frecce oltre misura; da donne, con piccoli perizomi rossi di cotone, sedute per terra con le gambe incrociate, bambini attaccati al seno e sostenuti dalla tipoia (striscia di corteccia messa a tracolla e pitturata di rosso, ndr). Alla sera, partecipai alla prima celebrazione. La cappella, fatta di tavole di legno, ampia 1 x 4 metri, annessa a un deposito, era certamente la più piccola del mondo: una presenza discreta, una semente nel cuore del mondo yanomami. Padre Tullio Martinelli presiedeva con una piccola stola. Era presente anche fratel Carlo Zacquini con minuscoli calzoncini neri, a torso nudo, con la schiena coperta di sangue raggrumato, frutto di migliaia de punzecchiature di insetti.

Non ricordo i testi  biblici di quella messa perché nella mia testa martellava l’inizio del Vangelo di Giovanni: «…e la parola si è fatta carne ed è venuta ad abitare in mezzo a noi…».

Al mattino seguente visitammo la comunità dei Wakatha-u-theri (che significa armadillo gigante-fiume-abitanti). Entrammo nella loro yano (maloca), la grande casa comune, una enorme struttura conica con copertura di foglie di ubim (una specie di palma, ndr), con pali e liane. All’interno un grande spazio vuoto illuminato dall’alto da una piccola apertura e, alla periferia, il circolo dei fuochi accesi con amache di cotone stese a triangolo. Un bambino di circa sei anni, Xaí, con un sorriso accattivante, mi prense la mano e mi condusse, indicando un fuoco e dicendo «Wakè a», e io risposi sorridendo «Uakeà, fogo». A causa del mio petto carenato (gabbia toracica con protrusione anteriore dello sterno, ndr), in poco tempo mi battezzarono: Hewësi Par+ki, ossia «pipistrello petto», poi abbrevviato in Hewësi. Divenni così membro di quella famiglia, pronto, come ogni «buon yanomami», a morire o uccidere per difendere il gruppo.

Con profonda soddisfazione mi rendevo conto di testimoniare uno stile nuovo di missione: una missione senza la cappella al centro. Il centro della Missione Catrimani era la yano, la maloca, simbolo della sopravvivenza fisica e culturale degli Yanomami, un popolo, con lingua, identità e terra. Oggi, guardando indietro, posso dire che tutti i missionari della Consolata che hanno lavorato anni alla missione Catrimani – dai fondatori (Giovanni Calleri e Bindo Meldolesi) ai successori (Carlo Zacquini, Giovanni Saffirio, Tullio Martinelli, André Ribeiro, Silvano Sabatini, le suore della Consolata, le laiche locali, italiane e del Cimi) fino a noi – battezzati con un nome yanomami e tornati bambini per la voglia di imparare, si sono lasciati condurre per mano sui sentirneri intricati della foresta, sulle spumeggianti rapide dei fiumi, nei segreti della lingua, nel mitico mondo dello sciamanesimo, della spiritualità e della cultura yanomami.

Una breccia mortale: «napë pë mohoti»

Per 7 anni il nostro lavoro principale fu quello di salvare vite. La costruzione della Perimetrale Norte, aveva squarciato la foresta e aperto una breccia fatale nell’isolamento dei gruppi yanomami. Sospesa a metà degli anni ’70, le centinaia di lavoratori se ne andarono lasciando una eredità di malattie mortali per popolazioni con bassa resistenza. Malattie che sfuggivano al potere di cura degli sciamani (xapuripë): morbillo, malaria, raffreddori, infezioni intestinali, verminosi, tubercolosi. Un’epidemia di morbillo, nonostante il pronto intervento di padre Saffirio e fratel Carlo, aveva già decimato i gruppi yanomami dell’alto Catrimani e del fiume Lobo de Almada. Quante volte, dopo una corsa affannata di un giorno o una notte, con bambini arsi dalla febbre, arrivavo all’ospedaletto col piccolo morto…  Tra i disperati pianti funebri, accovacciato con la testa sulle ginocchia, piangendo sussurravo: «O mio Dio, non riusciamo a salvarli tutti…».

Nell’87 gruppi isolati di cercatori d’oro illegali (garimpeiros) cominciarono a invadere la terra yanomami. Con un gruppo di indios e agenti della Funai e della polizia federale, partecipai a una spedizione a un affluente del fiume Apiaú allo scopo di localizzare e distruggere un garimpo. Vidi resti di accampamenti di indios, baracche di legno, foresta squarciata, ruscelli sviscerati, grandi buche con acqua stagnante, nugoli di moscerini, uomini seminudi, coperti di fango e con fucili in mano, bottiglie di cachaça, taniche di mercurio.

A metà del 1987, un massacro di indios nella regione del fiume Paapiú (a circa 300 chilometri da Catrimani), divulgato a livello nazionale, rivelò l’esistenza di oro nelle terre yanomami scatenando la corsa al prezioso metallo. Politici e giornali di Roraima avevano nel frattempo iniziato una durissima campagna contro i missionari, accusati di organizzare la resistenza armata degli indios. Così, nell’agosto del 1987, sulla pista in terra battuta della missione, atterrarono due piccoli aerei: 4 agenti della polizia federale armati di mitragliatrici e 2 agenti della Funai portavano l’ordine di espulsione dei missionari. Furono 7 ore di agonia e tensione, dialogando col vescovo via radio sotto il tiro delle armi dei federali, accerchiati da un nugolo di indios inquieti armati di archi e frecce. Col cuore a pezzi, dopo avere tranquillizzato gli indios, salii sull’aereo con la polizia che mi avrebbe portato all’aeroporto di Boa Vista. Infine, dopo 6 giorni, inviammo un aereo alla missione per recuperare l’infermiera suor Florença, ultimo membro dell’equipe missionaria, che arriva a Boa Vista in stato di shock dopo vari giorni in domicilio coatto sotto il tiro delle armi della polizia militare che occupava la missione.

I numeri di quella febbre dell’oro sono spaventosi: 5 anni di furia, 40.000 cercatori d’oro dentro le terre yanomami, 140 piste clandestine dentro la foresta, tonnellate di oro vendute di contrabbando, gruppi di indios yanomami isolati sterminati, 2.000 Yanomami morti, il 20% della popolazione. In esilio forzato, chiamato dalle suore infermiere, incontrai Yanomami di tutte le età e di tutte le tribù negli ospedali di Boa Vista, trasportati da agenti del governo o da piloti misericordiosi, con ferite orribili di armi da fuoco e di coltellacci, con gli occhi spenti, in preda al panico, in terra nemica, senza saper dire una parola. La luce si accendeva quando, sorridendo, sussurravo parole yanomae. Tra singhiozzi, tutti dicevano la stessa cosa «napëpë mohoti»: i bianchi sono irresponsabili, i bianchi sono cattivi.


Sciamano che cura un malato.

Autodifesa: terra, lingua, identità

Alla fine di novembre del 1988 ritornammo alla missione con l’arduo compito di ricomporre l’equilibrio socio-culturale scosso dalla convivenza degli indios con garimpeiros e agenti del governo. Convivemmo mesi con gli agenti del governo. Garimpeiros disperati arrivavano alla missione alla ricerca di medicine, invadevano le maloche alla ricerca di cibo. Nel frattempo (ottobre 1988) la nuova Costituzione brasiliana aveva liberato gli indios dalla integração e dalla tutela esclusiva della Funai, garantendo il diritto degli indigeni sulle terre necessarie per la sopravvivenza fisica e culturale, nonché una salute e una educazione «differenziata».

La missione, rivelata la sua fragilità durante l’evento dell’espulsione, davanti al nuovo scenario costituzionale e alla rottura dell’isolamento col conseguente scontro disuguale di culture, era chiamata a una nuova sfida: preparare gli Yanomami all’autodifesa.

Dal ’90 al 2000, con una equipe missionaria rinvigorita dall’arrivo delle suore della Consolata e di laici del Cimi, per rinforzare la maloca e il progetto yanomami di vita, iniziammo a mettere in pratica tre azioni strategiche: impiantare la etnoalfabetizzazione, insegnando a leggere e a scrivere in lingua yanomae e producendo letteratura bilingue; organizzare assemblee yanomami riunendo tutte le tribù attorno a un obiettivo comune, la difesa della terra e dell’identità; favorire l’alleanza con gli indios delle praterie e delle montagne già organizzati nel Cir («Consiglio indigeno di Roraima»).

In pochi mesi i giovani yanomami si impossessarono dei segreti della scrittura, facendo disegni, registrando la storia, raccontando miti, scrivendo lettere alle autorità, inviti, informazioni… La scrittura permise la formazione di professori e di infermieri che da allora iniziarono a raggiungere ogni villaggio.

L’introduzione della scrittura in un popolo a tradizione esclusivamente orale ha rappresentato un cambio epocale, con un’infinità di effetti collaterali da integrare in sempre nuove sintesi. Il criterio della gradualità ha aiutato Yanomami e missionari a mantenere l’equilibrio etnico e garantire i tre pilastri del progetto di vita e di futuro: terra, lingua, identità. Oggi gli Yanomami stanno sempre più prendendo in mano le redini del proprio destino, costruendo nuovi capitoli della loro storia, tocca a noi, come compagni di viaggio, lasciarci condurre per mano, non piú da un bambino ma da un popolo.

Guglielmo Damioli
(Hewësi Par+ki)


Dall’incontro alla condivisione

I nostri primi cinquant’anni

 di Corrado Dalmonego

In tanti hanno risalito i fiumi penetrando nei territori indigeni. In pochi non si sono comportati da invasori. Per Yanomami e missionari orizzonti e logiche sono diversi, ma il dialogo e l’incontro sono possibili e fruttiferi. L’importante è la condivisione della quotidianità. Una prassi che soltanto i missionari hanno seguito, come dimostrano i 50 anni della Missione Catrimani.

 «Molto tempo fa, quando noi Yanomami non conoscevamo i bianchi, quando io ero un bambino di circa 10 anni, i padri risalirono il fiume Catrimani […]. Loro fecero conoscenza degli Yanomami e divennero amici. […]». Con queste parole, Davi Kopenawa, leader e sciamano yanomami1, inizia a narrare una vicenda di fatti e vite lunga cinquant’anni: la storia della Missione Catrimani.


Padre Corrado Dalmonego.

Esotici, strani, misteriosi

Sfogliando alcuni articoli apparsi su Missioni Consolata negli anni Cinquanta e Sessanta, qualche documento scritto dai primi missionari arrivati tra gli indios e ascoltando le testimonianze di anziani yanomami riguardanti gli incontri con i missionari, si possono notare alcune caratteristiche che contraddistinguono gli inizi di questa missione. Non sono solo elementi di un passato sepolto, ma aspetti che ci comunicano qualcosa dell’oggi della missione e in generale di ogni realtà missionaria.

Primo: l’incontro dei missionari della Consolata con gli Yanomami è stato il risultato di una ricerca reciproca. Il padre Domenico Fiorina – allora superiore generale dell’Istituto – aveva già indicato una direzione ai suoi: «Verso Ovest esistono vaste zone inesplorate, difficili a penetrarsi, dove vivono gli indios bravos – bravos significa selvaggi […]. È alla conversione di questi indios che i nostri missionari dedicheranno le loro migliori energie»2. Nel frattempo, gli Yanomami – che già avevano avuto diversi contatti con non-indigeni – seguivano le tracce lasciate dai vari gruppi di bianchi che risalivano i fiumi addentrandosi nel territorio da loro abitato.

Secondo: questo trovarsi – seppure segnato da concezioni molto diverse – ha richiesto e messo in luce una disponibilità all’incontro. La descrizione che padre Silvestri fa delle sue visite agli Yanomami del fiume Apiaú, all’inizio degli anni Cinquanta3, dimostrano che – nonostante l’iniziale timore reciproco e la difficoltà di comunicazione – il missionario era accolto e i sospetti lasciavano presto spazio a gesti di amicizia. Gesti come il saluto con pacche sul petto, che inizialmente aveva intimorito il missionario; la complicità in uno scherzo, originato da un apparentemente minaccioso arco teso; la condivisione di alimenti o dell’amaca, quando un indigeno non pensa due volte – in una notte di pioggia – a infilarsi nell’amaca occupata dal religioso, che stende la coperta per proteggere dal freddo della notte il suo inatteso ospite. Dodici anni dopo, nel 1965, sul fiume Catrimani, anche padre Calleri si metteva in marcia, per visitare i villaggi yanomami più lontani, ricevendo la stessa accoglienza: un cammino aperto nella foresta, una guida sicura, una comunità che riceve lo straniero.

Terzo: l’incontro lasciava un senso di estraneità. L’altro, diverso, si presentava sempre come esotico, ma questa impressione era lenita, dal lato dei missionari, dalla coscienza che si trattava di una sensazione reciproca: padre Tullio Martinelli scrive che certamente, agli occhi degli indigeni, i missionari dovevano suscitare curiosità, apparendo esotici, strani e misteriosi4. Dal lato degli Yanomami, la loro visione del mondo prevedeva uno spazio che poteva essere occupato dall’altro, dal diverso, che rappresentava sempre la possibilità di arricchimento, seppur conservando un aspetto pericoloso5.

Con questi presupposti, la missione si è configurata come un intreccio di relazioni che hanno cercato di essere diverse da quelle stabilite fra gli indigeni e altre organizzazioni di contatto della società circostante, nonostante non mancassero ambiguità e fossero portate avanti da persone che potevano risentire dello spirito etnocentrico dominante all’epoca.


Padre Bindo Meldolesi in un viaggio dei primi anna Sessanta.

Invasori e missionari

Un aspetto fondamentale che ha caratterizzato la «nuova evangelizzazione», pensata dai missionari che, alla metà degli anni Sessanta, si riunivano nella «Commissione Pro-Indio»6 della Prelazia di Roraima, e che ancora oggi costituisce un aspetto rilevante della Missione Catrimani, è la permanenza. Oggi, continuando le aggressioni del passato, i popoli indigeni sono espropriati delle loro terre e sono forzati (da progetti sostenuti dall’ideologia dello «sviluppo») a popolare le periferie delle città. Contemporaneamente, le organizzazioni indigeniste e missionarie sono costrette – per la esiguità di risorse e la scarsità di personale disposto a condizioni di vita poco confortevoli – a concentrare le loro presenze nei centri urbani e limitarsi alla realizzazione di azioni sporadiche presso le popolazioni indigene. In questo panorama, la presenza stabile della Missione Catrimani si mostra ancora più significativa.

Questa presenza era già stata difesa, con le unghie e coi denti, da padre Calleri, nonostante la maggioranza dei missionari della Prelazia di Roraima, fossero convinti che le esigue forze missionarie e l’estensione del territorio imponessero la pratica della «desobriga» – le visite stagionali per l’amministrazione dei sacramenti – come unica possibile forma di azione evangelizzatrice.

La scelta dei missionari di vivere con loro è stata riconosciuta dagli Yanomami come una differenza fondamentale fra i bianchi che risalivano il fiume, durante l’epoca delle piogge, per estrarre risorse della foresta, e i padri che chiedevano aiuto e collaborazione per aprire una pista di atterraggio, costruire una casa, coltivare un campo, imparare la lingua della gente.


Ancora padre Bindo Meldolesi sul fiume Catrimani.

La prossimità nel quotidiano

P. Giovanni Calleri a Catrimani.

La presenza stabile accanto alle comunità Yanomami ha reso possibile ciò che le visite saltuarie o l’attuazione di alcune azioni puntuali non avrebbero potuto permettere. Solo la prossimità nel quotidiano rende possibile la costruzione di relazioni di fiducia e convivialità che – all’inizio della presenza missionaria, come oggi – anelano a essere diverse da quelle stabilite dagli Yanomami con altre istituzioni. Quando parliamo del quotidiano, ci riferiamo a un’interazione che non si limita a momenti sporadici come assemblee di rappresentanti delle comunità indigene cui sono invitati non-indigeni, corsi per maestri yanomami o visite per la realizzazione di azioni di salute.

In vari decenni, missionari e indigeni hanno affrontato insieme fatti tragici come la costruzione di una strada che ha provocato la decimazione delle comunità a causa delle epidemie, il genocidio conseguente all’invasione di migliaia di garimpeiros, l’impatto ambientale e la violenza portati avanti da progetti lontani dalle reali necessità di un popolo. Sebbene tali minacce siano sempre in agguato, il quotidiano della missione è stato anche l’affrontare insieme camminate, cacciare e pescare sul fiume, soccorrere un ammalato, raccogliere frutti in foresta, condividere gli alimenti e partecipare alla danza di entrata degli ospiti in una festa o ad un rituale di cura.

Gli Yanomami hanno accolto nel loro quotidiano i missionari che, per quanto riuscissero, hanno cercato di farsi vicini. La presenza e l’accompagnamento nelle diverse attività, anche se possono sembrare poco efficaci – soprattutto se si tratta di una spedizione di caccia o di una cerimonia rituale – sono molto apprezzate da loro.

La scritta dipinta sulle pareti della prima casetta dei missionari da padre Giovanni Calleri.

Incontri e dialoghi (da orizzonti diversi)

Su questa prossimità e condivisione, la missione si è costruita: anche se le relazioni possono essere segnate da equivoci e mutue incomprensioni, è possibile stabilire un dialogo e arrivare a un incontro partendo ciascuno dai propri orizzonti e dalla propria logica.

Se i missionari erano interessati alla «cultura materiale» degli indigeni e osservavano con curiosità gli utensili da loro confezionati, allo stesso tempo padre Calleri era commosso dalla fatica che gli Yanomami facevano nello svolgere le attività produttive: sofferenza che egli cercava di alleviare foendo generosamente oggetti industriali (attrezzi da taglio, ami da pesca, e altro).

Se per i missionari era questione di emergenza prendersi cura della salute degli indigeni, quando l’invasione del loro territorio era accompagnata da epidemie letali, per gli Yanomami il religioso che affrontava le rapide dei fiumi e l’asprezza dei sentirneri nella foresta per soccorrere i malati e sfamare i sopravvissuti resi fragili dalle malattie, si comportava come un curatore e un parente: un papà.

Se l’infermiera della missione dedicava il massimo sforzo alla cura efficace di un paziente, l’ammalato che si ristabiliva dava più importanza alle attenzioni ricevute e al fatto di essere stato accolto e sfamato all’interno della casa «di assi», che non alla patologia da cui era stato curato.

Se la demarcazione del territorio indigeno, per i missionari, era la condizione di sopravvivenza fisica e culturale degli Yanomami, per questi ultimi rappresentava la conservazione dell’equilibrio di un socio-cosmo abitato da molti esseri visibili o invisibili.

Se per i missionari il progetto di «educazione globale» e lo studio della lingua portoghese erano gli strumenti che dovevano essere messi nelle mani degli Yanomami affinché potessero difendersi dalle minacce sempre più pressanti della società circostante, per gli Yanomami l’apprendistato dei modi di vita dei bianchi e la convivenza costituivano un ampliamento delle possibilità di esistenza e un sistema di relazioni desiderato.

Nonostante le prospettive siano distanti e le letture degli avvenimenti siano diverse, la condivisione della storia ha reso e rende possibile un dialogo nella pratica quotidianità. I missionari sono stati riconosciuti come «quasi parenti», il cui comportamento, in alcuni casi, si approssima ai criteri adeguati di socievolezza. Sono persone che possono essere istruite nella lingua e nei costumi, che sanno prendersi cura, accompagnano, piangono i defunti senza pronunciarne il nome – per non risvegliare la tristezza e il risentimento per la perdita recente – o festeggiano una nascita.


Padre Silvano Sabatini che ha dedicato la vita alla causa degli Yanomami.

Il segreto sta nella condivisione

Il cammino della missione è stato percorso con grande dispendio di energia. Dai due lati. Non essendoci l’imposizione di un programma predefinito, si configura come il sentiero tracciato dal Signore, lungo il quale siamo guidati dallo Spirito a prestare attenzione, aprendo gli occhi e entrando – quando accolti – in un mondo differente, con atteggiamenti di condivisione:

– togliendo le scarpe per camminare in sentieri sconosciuti – fra spine, zone allagate, liane – per incontrare la destinazione indicata da Dio nella storia di questo popolo;

– imparando un’altra lingua – che questo popolo ci insegna con grande disponibilità e allegria – per poter ascoltare gli appelli e i sogni e tentare di balbettare qualche risposta;

– cercando di conoscere – condotti dalle nostre guide – la foresta, i fiumi, le montagne e tutti gli esseri che vi abitano, perché questo è il mondo in cui vivono i nostri fratelli e perché ogni messaggio – anche se trascendente – ha senso solo se dice qualcosa a partire da un mondo conosciuto;

– apprezzando cibi diversi, perché è consumando insieme un abbondante frullato di banana – alle volte… troppo abbondante -, un pezzo di focaccia di manioca cotta sulla brace e una porzione di tapiro affumicato, che si costruisce la familiarità e lentamente la fiducia;

– imparando a stendersi nell’amaca, a caricarsela sulle spalle per accompagnare le persone nei loro lunghi spostamenti e appenderla, un’altra volta, fra due alberi o in un’abitazione comunitaria dove gli Yanomami si riuniscono per celebrare, piangere un morto o discutere sulle decisioni prese lontano, da estranei che minacciano la loro vita.

È attraverso questi gesti di completa condivisione che si costruisce la missione. Le persone vengono cambiate dall’incontro. Si conciliano speranze, sogni e aspettative, con un messaggio che i missionari – fragili messaggeri – scoprono insieme agli Yanomami: un messaggio che è vita contro i progetti di morte.


Suor Florënça Lindey Águida

Avvicinarsi e rimanere

Concludiamo con alcune parole che Davi Kopenawa diceva ai missionari della Consolata riuniti in assemblea nel luglio 2012: «Io capisco che – essendo voi religiosi e conoscendo Dio – Lui vi ha mandati per difendere la vita del nostro popolo e del pianeta. So che, da molti anni, la Chiesa si è posta lungo il sentiero dell’incontro con i popoli indigeni. La Chiesa sa che l’indigeno non è un “animale” [mentre settori della società lo trattano come fosse tale, ndr], sa che è persona, che è stato creato dall’autorità del cielo, così come sono stati creati i non-indigeni. Il compito della Chiesa è di non lasciare far guerre, di portare la pace, mentre, dall’altro lato, esistono nemici molto forti, alleati a politici, che vogliono impossessarsi delle ricchezze della Terra. La Chiesa deve essere differente, pensare come pensa Dio: desiderare la nostra vita! Voi avvicinatevi, con attitudine di amicizia e simpatia, senza la diffidenza di chi dice che l’indio deve rimanere lontano, al suo posto!».

Queste parole ci sembrano in sintonia con l’ultima enciclica di papa Francesco e ci danno lo stimolo a continuare la missione per… altri cinquant’anni o, come ci diceva proprio quest’anno lo stesso Davi, sottolineando l’importanza del lavoro svolto alla Missione Catrimani, «rimanendo là fino alla fine del mondo: io non so quando questo mondo terminerà, ma so che per noi questo è importante».

 
Corrado Dalmonego
(Hewësi Ihurupë)

Note

(1)  Su Davi Kopenawa si legga: Paolo Moiola, Dalla montagna del vento, in Missioni Consolata, novembre 2014.
(2)  Domenico Fiorina, Le Missioni del Rio Branco, in Missioni Consolata, n. 19, p. 282-285, 1951.
(3)  Tullio Martinelli, Ho visto gli indios Jaranís, in Missioni Consolata, p. 14-20, febbraio 1964.
(4)  Riccardo Silvestri, Una spedizione tra gli Indios nelle foreste del Rio Apiaù, in Missioni Consolata, n. 19, p. 224-234, 1953; Il padre Silvestri ritorna fra gli Indios del Rio Apiaù, in Missioni Consolata, n. 5, p. 58-63, marzo 1954.
(5)  Bindo Meldolesi, Tra gli Apiaù, in Missioni Consolata, n. 15, p. 35-42, agosto 1960; Il campo è pronto, in Missioni Consolata, n. 7-8, p. 35-42,  luglio-agosto 1966.
(6) La Commissione fu una pastorale indigenista ante-litteram. Durò soltanto pochi anni e radunava alcuni missionari della Consolata che lavoravano con i popoli indigeni. Fu molto significativa perché all’epoca ancora non esistevano né il Cimi né altre organizzazioni della Chiesa o della società civile.

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Continua la lettura con la seconda, terza e quarta parte di questo dossier

a cura di Paolo Moiola




L’Incontro (Nohimayou) – Due testimoni


Seconda Parte: continua la testimonianza dei missionari che sono stati o sono ancora a Catrimani:
Laurindo Lorenzatti e Carlo Zaquini

 Sommario

Vai alla Prima parte

Introduzione di Stefano Camerlengo | Presentazione di Paolo Moiola | I TESTIMONI: Testimonianza di Guglielmo Damioli | La voce di Corrado Dalmonego


In questa Seconda parte: I Testimoni

  • Un brasiliano tra gli Yanomami, Laurindo Lazzaretti
  • Incontro con Carlo Zaquini

Vai alla Terza parte: SCHEDE

Dati e informazioni sugli Yanomami| Il mondo Yanomami| Cronologia essenziale | Breve glossario Yanomami| Bibliografia

Vai alla Quarta parte: INCONTRO O SCONTRO

La parola agli Yanomami | Esiste una strada per la convivenza? di Silvia Zaccaria | Sopravviveranno alle contaminazioni? di Daniele Romeo | Gli amici (il Co.Ro.) di Carlo Miglietta


Dieci anni tra gli Yanomami

Circondati dal mondo

 di Laurindo Lazzaretti

Catrimani è stato un centro di resistenza contro gli invasori e contro le politiche governative. Negli anni alcune cose sono cambiate: presso alcuni gruppi di Yanomami sono arrivati vestiti, fucili, barche a motore, soldi. Cambiamenti grandi, rapidi e profondi stanno avvenendo senza lasciare il tempo agli indigeni di discernere ciò che è meglio. Ricordi, riflessioni e preoccupazioni del primo brasiliano che ha lavorato nella Missione Catrimani. Per dieci intensissimi anni.

Prima dell’arrivo a Roraima il mio contatto con i popoli indigeni era stato minimo1. Porto con me un’immagine dell’infanzia in cui i Kaingang2 del Rio Grande do Sul (il mio stato di nascita) passavano per la strada in gruppi, recandosi in città a vendere i loro prodotti artigianali. Al ritorno si accampavano ai bordo del torrente e da lontano si ascoltavano i loro canti e le conversazioni. Il più delle volte, ubriachi, finivano per litigare e per fare a botte. Non sapevo né capivo che la loro terra era stata invasa e presa in mano da coloni venuti da diverse regioni. In pochissimi anni questo gruppo scomparve e la sua terra, che era ricca di un legno tipico della regione, fu completamente disboscata e occupata da 1.200 famiglie. Parecchi anni dopo, durante il noviziato in Colombia, ebbi l’opportunità di conoscere da vicino il lavoro dell’equipe missionaria di Toribio e tramite essa la realtà indigena della regione del Cauca (che non è diversa da quella della maggior parte dei popoli indigeni delle Americhe).

A favore della vita

L’arrivo a Catrimani e l’incontro con gli Yanomami fu un punto di svolta nella mia vita. Tutto ciò che avevo studiato, udito e visto fino ad allora venne azzerato, mostrandomi la necessità di ricominciare da capo. E, in effetti, iniziò un processo di conversione che mi ricordò l’esperienza della caduta da cavallo di san Paolo: diventare cieco, guarire e infine vedere le cose con occhi diversi, con un altro cuore e con motivazioni molto più profonde che non fossero soltanto quelle emotive. Come, per esempio, era quella di vedere «l’indigeno come buon selvaggio». Quello che più mi ha colpito durante i dieci anni – dal 2001 al 2011 – trascorsi nella Missione Catrimani è stato sperimentare il Dio della vita accanto a un popolo con lingua, costumi, tradizioni, spiritualità, mistica e organizzazione sociale completamente diversi da quelli che avevo vissuto fino ad allora.

Ricevetti un’enorme eredità dai missionari, la maggior parte di loro italiani, rimasti per molti anni tra gli Yanomami che essi avevano fatto conoscere al mondo, a dispetto delle molte polemiche – all’interno della chiesa e dell’istituto – per un impegno più a favore della vita che della dottrina e della evangelizzazione.

Primo missionario brasiliano a rimanere così a lungo tra gli?Yanomami di quella missione, con una nuova equipe e meno risorse finanziarie rispetto a coloro che ci avevano preceduto, nei dieci anni trascorsi a Catrimani assistetti alle grandi sfide cui la missione fu chiamata. Qui di seguito ne ricorderò qualcuna.

Catrimani, centro di resistenza

Verso la metà degli anni Settanta i governi brasiliani promossero la costruzione della Perimetral norte o Br-210, che causò molti disastri nelle popolazioni indigene e tra gli Yanomami in particolare. Così facendo favorirono l’ingresso di migliaia di minatori (garimpeiros) nei territori degli Yanomami e promossero lo sfruttamento delle ricchezze minerarie provocando un genocidio degli indigeni, attraverso epidemie e scontri di ogni genere. Inoltre, a causa della strada, sempre più agricoltori iniziarono ad avanzare sulle terre indigene. In questo contesto, insieme con gli Yanomami la Missione Catrimani divenne un centro di resistenza alle invasioni e di critica alle politiche poste in essere dalle autorità brasiliane.

Vari anni dopo, proprio nel periodo in cui ero a Catrimani, Brasilia cambiò strategia chiedendo alla nostra missione di seguire l’attuazione di alcuni programmi di salute. Il governo esigeva però risultati immediati: tempestiva esecuzione di tutti i programmi, riduzione della mortalità, soprattutto di quella infantile. Non dava seguito ai suoi obblighi, ma tuttavia esigeva e faceva pressioni. Attraverso questi programmi la missione venne «invasa» da tecnici sanitari che però non provavano alcun interesse per la causa indigena e nessuna comunione d’intenti con la chiesa e con l’equipe missionaria. A causa del cambio delle equipe di lavoro e del trasporto di indigeni in città triplicò il viavai sia per la strada (finché essa funzionò) che per via aerea. I gerenti di questo progetto, che stavano a Boa Vista, dialogavano poco con l’equipe e i missionari erano chiamati in causa per cose che non competevano loro o per le quali non erano preparati. I missionari stavano lì per la formazione sanitaria, l’istruzione, l’accompagnamento, per stabilire un dialogo interreligioso e interculturale con le comunità yanomami. Non erano lì per soddisfare le esigenze strutturali e logistiche del programma di governo e dei tecnici che si tornavano a brevi intervalli. L’equipe missionaria era vista come «manodopera a basso costo», e ovviamente questo causò molti conflitti, malessere nelle persone e di conseguenza nel lavoro missionario.

 

Il denaro e le sue conseguenze

Al primo incontro a cui partecipai alla missione rimasi scioccato. Alcuni giovani che erano stati preparati in microscopia e come agenti di salute e che fornivano un servizio gratuito alle loro comunità si confrontavano con i missionari affermando che, se non fossero stati pagati, non avrebbero più svolto questi servizi. Molto era stato investito nella loro preparazione e, soprattutto, sulla prospettiva della gratuità. Ma ora veniva prevista una remunerazione per questi giovani e in seguito essi avrebbero lavorato con un contratto formale. Più tardi lo stesso sarebbe accaduto con gli insegnanti. Il significato e il mutamento che i soldi nelle mani di questi giovani produssero furono (sono) molto profondi. Iniziarono a prendere il posto degli anziani nelle relazioni con i non indigeni e nel cercare di soddisfare alcuni bisogni fondamentali della comunità (machete, asce, reti, nasse, tabacco, sale, …); non era (è) più necessario essere un buon cacciatore, pescatore e raccoglitore per sposarsi, ma avere un salario. Non accettavano più di andare in città con gli stessi pantaloncini rossi, di serie, foiti dalla missione. Ora volevano comprare jeans e scarpe firmate. Con il denaro arrivò il motore di coda sulle barche che facilitava la vita sul fiume e permetteva di andare a pescare più lontano. Entrò il fucile a sostituire l’arco e le frecce3, le reti da pesca al posto dei metodi tradizionali.

Strade, alcol e lavoro schiavo

Il 31 dicembre 2002 ci fu l’ultimo viaggio lungo un tratto di strada che dalla missione proseguiva per 110 chilometri. Poi la foresta riprese il sopravvento. Lungo questo tratto c’erano almeno quattro villaggi (come le aldeias Ajarai I e II) che erano seguiti, se non in modo permanente, almeno quando i missionari in transito si fermavano per uno scambio e un accompagnamento. Con l’abbandono della strada divenne impossibile l’accompagnamento da Catrimani e d’altra parte non si riuscì a formare un gruppo permanente che potesse seguire quelle comunità. Esse così si avvicinarono al villaggio di Sao José e alla città di Caracaraí. Vari fazendeiros occuparono illegalmente la terra indigena. Per quelle comunità fu un periodo davvero disastroso. Si intensificarono le incursioni nei centri urbani e si moltiplicarono i problemi a causa dell’alcol che era venduto dai mercanti della regione e del lavoro semischiavo praticato nelle aziende agricole che erano sorte all’interno della terra indigena.

 

Le «cose» come fattore disgregante

Al centro della missione c’era una piccola casa che per lungo tempo servì come luogo di scambio con gli Yanomami. Artigianato e prodotti coltivati dagli Yanomami erano scambiati con manufatti dei missionari, ottenuti questi tramite la vendita di prodotti artigianali o come aiuti (avuti per i progetti o da amici e familiari). Questa piccola attività commerciale non era però del tutto benefica per la comunità influenzando i comportamenti di missionari e indigeni. La nuova conformazione della équipe della missione, la diminuzione dei progetti, il costo del viaggio aereo e gli scambi disparati ne causarono la cessazione. Poi il desiderio di comprare cose che non erano nelle opzioni della missione fece sì che gli indigeni scegliessero di acquistare i loro prodotti in città, pagando il trasporto.

Sembra banale, ma questo fatto cambiò molto le relazioni tra gli indigeni, dato che alcuni avevano la possibilità di acquistare beni e distribuirli, mentre altri non potevano. Ma cambiò anche l’atteggiamento verso i membri dell’équipe missionaria.

Il fattore economico era dunque divenuto il nuovo modo di «integrare gli indigeni nella società nazionale» dimenticando specificità e differenze. Pertanto, grandi, rapidi e profondi cambiamenti stavano avvenendo senza dare agli indigeni il tempo di discernere ciò che fosse meglio. Negli anni questa tendenza si è accentuata, con l’entrata di altri programmi del governo, in futuro i cambiamenti potrebbero essere ancora più grandi e probabilmente più disastrosi.

Attrazioni fatali?

Al termine dei primi 40 anni di missione tra gli Yanomami vedemmo come la città stesse incantando gli Yanomami. Oggi, dopo 50 anni, possiamo vedere come molti di essi vivono nei centri urbani, chiedono di studiare e laurearsi.

La politica economica del paese sta costringendo allo spopolamento delle zone intee per fare spazio alla produzione di materie prime per l’esportazione. I popoli indigeni e le loro terre sono nel mirino di questa politica e il primo obiettivo è quello di smantellare i loro diritti costituzionalmente garantiti.

Laurindo Lazzaretti

Note

(1)  Su Laurindo Lazzaretti si legga: Paolo Moiola, La biodiversità è indigena, dossier MC, maggio 2015.
(2)  Oggi gli indigeni kaingang vivono in condizioni precarie in quattro stati brasiliani. Si stimano essere circa 32.000 persone.
(3)  Secondo le stime di padre Dalmonego, nelle comunità yanomami del Catrimani ci sarebbero una dozzina di fucili su una popolazione di circa 900 persone.

 

 


Incontro con Carlo Zacquini

«Io sono Hokosi»

 di Daniele Romeo

Una vita trascorsa tra gli Yanomami, fratel Carlo Zacquini (Hokosi, per gli indigeni) racconta nascita, storia e problemi della Missione Catrimani. Con un’avvertenza finale: per gli indios i pericoli sono più che mai attuali.

Incontro fratel Carlo Zacquini1 al Centro di documentazione indigena dei missionari della Consolata a Boa Vista. Siamo in gennaio, piena estate a Roraima, e le giornate nella casa regionale dei missionari iniziano molto presto: celebrazione della messa, colazione e poi ognuno alle proprie mansioni quotidiane. Con fratel Carlo Zacquini trascorro due giorni nelle stanze che, in via provvisoria, racchiudono le testimonianze e i materiali raccolti da lui e da numerosi confratelli in cinque decenni di vita passata tra gli indigeni yanomami. Seduto davanti al suo computer, sul quale ha digitalizzato migliaia di immagini e documenti, mi racconta i primi anni della presenza dei missionari a Catrimani.

Anni Cinquanta: i primi viaggi

«Padre Riccardo Silvestri è stato il primo missionario della Consolata ad avere contatti con gli Yanomami lungo il fiume Apiaú. Morì tragicamente nelle acque del Rio Branco nel 1957. Padre Bindo Meldolesi seguì le orme di Silvestri e fece parecchi viaggi verso il Rio Apiaú e il Rio Ajaraní. L’accesso era sempre fluviale, con un piccolo motore fuoribordo e i remi. Padre Meldolesi voleva fermarsi più a lungo e per questo cominciò subito a realizzare una piccola piantagione con a fianco una tettornia di foglie di palma. Qui coltivava alcune piante per poter alimentarsi: manioca, banani, papaya e trascorreva in foresta un paio di mesi per poi tornare a Boa Vista».

«Quando tornava dopo qualche mese, la foresta aveva già invaso la piantagione, gli animali avevano mangiato i tuberi di manioca e, a volte, riusciva ancora a trovare qualche banana o papaia. Doveva ricominciare quasi tutto da capo».

«Questa modalità di presenza era proseguita per diversi anni senza passi decisivi: andando una o due volte all’anno per poche settimane era difficile fare di più. Padre Bindo doveva lavorare molto duramente per avere qualcosa da mangiare e magari da offrire agli indios quando lo visitavano. Tuttavia preferiva fare così piuttosto che andare nei villaggi, perché questi erano lontani dal fiume navigabile. Gli Yanomami erano indios di terra ferma e stavano lontani dai grandi fiumi a causa della presenza degli insetti e di altri popoli indigeni che, in passato, occupavano le rive dei fiumi navigabili. Per loro era più facile vivere vicino ai piccoli corsi d’acqua, in più soltanto pochi di loro sapevano nuotare».

Requisito essenziale: una pista di atterraggio

Fratel Carlo Zacquini incontrò per la prima volta gli Yanomami nel maggio del 1965 alla foce del Rio Apiaú, «Quando ero molto giovane, un difetto che ho perso con gli anni», precisa con simpatica autornironia. Fu un momento sconvolgente per la sua vita. «Vivevamo vicino agli indigeni, cercando di osservare cosa facessero e di comunicare con loro, pur con molta difficoltà. La cosa che più mi colpì furono i loro sorrisi, dolci, sereni».

Sul finire del 1965 i padri Calleri e Meldolesi organizzarono una spedizione per fondare una missione sul Rio Catrimani. Essa doveva avere una caratteristica fondamentale: essere raggiungibile da un piccolo aereo. I due padri risalirono il fiume fino a quando, all’altezza di una delle molte rapide incontrate lungo il cammino, trovarono dei sentieri da entrambe le parti del fiume. Erano molto stanchi e poiché quest’area si dimostrava adatta per una pista di atterraggio, cominciarono ad abbattere la foresta per preparare il terreno. Lavorarono alcuni mesi riuscendo ad aprire la prima parte della pista: era lunga 500 metri e larga 30. Nel marzo del 1966 vi atterrò il primo aereo2.

«Quando arrivai a Catrimani – racconta fratel Carlo – padre Bindo aveva già costruito quasi tutto il tetto dell’abitazione. La casa era però senza pareti e, quando pioveva, il vento portava acqua all’interno. Non c’era un metro quadrato sicuro dall’acqua. Io quindi costruii gli spioventi per far passare l’aria e il vento ma non la pioggia. Poi realizzammo un recinto per evitare l’entrata dei cani e un po’ alla volta iniziammo ad allevare animali».

La lingua yanomae

«Appena arrivato, il rapporto con gli Yanomami risultò molto complicato. A cominciare dalle difficoltà linguistiche. Appresi una cinquantina di parole da padre Bindo, ma non avevo nemmeno la carta per scriverle. Ogni parola, la stessa parola, veniva usata con significati diversi, a seconda del contesto».

«Una volta andai dall’altra parte del fiume con uno Yanomami a fare un giro nelle foresta. Avevamo un cane con noi. A un certo momento notammo delle grosse impronte sul terreno. Non avevo alcuna idea a quale animale esse appartenessero. Io e lo Yanomami iniziammo un dialogo surreale e comico (a posteriori). Io chiedevo, in portoghese, “Como chama?”. Egli rispondeva: “Chama”! E io ancora: “Como chama?”. E lui: “Chama!” Dopo un po’ il cane iniziò a correre con lo Yanomami. Io avevo con me una carabina calibro 22, mentre l’indio era disarmato».

«Mi misi a correre anch’io, ma pur correndo (con molta fatica) non riuscivo a raggiungere l’animale. Pensavo di averlo perso. Il cane invece di abbaiare ci veniva incontro scodinzolando. Andammo avanti ancora un po’ finché l’indio mi indicò un punto davanti a noi. In quel momento vidi un animale nero, fermo in una pozzanghera di un ruscello. Aveva le zampe in acqua. Sparai 2 o 3 volte finché lo Yanomami mise la mano sul fucile per abbassarlo, come per dire basta. Dopo un po’ l’animale si accasciò nell’acqua, colpito a morte. Lo tagliammo a pezzi e ne portammo una parte con noi alla missione. Poi tornammo con un gruppo di uomini per prendere il resto. La caccia fortunata fu occasione per fare una festa con carne per tutti. E io scoprii anche il motivo delle incomprensioni linguistiche: l’animale catturato era un tapiro che, in lingua yanomae, si chiama… chama!».

«Durante il mio primo mese a Catrimani andavo a cacciare o pescare quasi tutti i giorni. Dovevo provvedere la carne per i lavoratori e per quelli che venivano con me. Praticavo la caccia con la carabina, mentre si pescava in riva al fiume, ma era molto difficile senza barca. A dire il vero gli Yanomami ci vedevano con simpatia perché attraverso noi potevano ottenere manufatti a cui prima non avevano accesso: coltelli di acciaio, machete, scuri, ami, lenze, fiammiferi e altro ancora».

Indios, «caboclos», «civilizados»

«Nel 1975 arrivò un nuovo vescovo, dom Aldo Mongiano, missionario della Consolata, che conosceva poco la realtà locale, poiché proveniva dal Mozambico e non aveva alcuna esperienza di Brasile. All’inizio non riusciva a comprendere la situazione e noi missionari cercavamo di fare pressione su certe sue decisioni. Il vescovo insisteva sul dialogo, ma il potere locale non aveva nessuna intenzione di dialogare: il solo obiettivo era di continuare a lasciare immutata la situazione degli indigeni. Dopo circa due anni cominciò a partecipare ad alcune riunioni nei villaggi indigeni e ad ascoltare quello che gli indios dicevano. Cose che noi cercavamo di fargli capire da tempo. Allora si rese conto che veniva usato dal potere locale e cambiò il suo modo di agire prendendo decisioni coraggiose insieme a noi».

«A Roraima, i gradini della “civiltà” erano sostanzialmente tre. Su quello più basso c’erano gli indios: erano quelli che non usavano vestiti e che vivevano nella foresta. Erano definiti “bravos” (selvaggi, insomma). Quelli della savana, che usavano qualche capo di vestiario e a volte parlavano un po’ di portoghese, erano chiamati caboclos. Gli altri erano i civilizados. Questi ultimi facevano quello che volevano con modalità più o meno eleganti. Alcuni divennero poi nemici della Chiesa perché questa iniziò a prendere decisioni forti, arrivando a parlare in maniera chiara in difesa della causa indigena».

«I civilizados facevano apparire il mondo indigeno come un’isola fortunata dove tutti stavano bene. In realtà gli indios e i caboclos non avevano alcun diritto. Varie volte ho visto giovani indigeni che lavoravano senza stipendio per il proprio padrone in cambio di cose di pochissimo valore o di bevande alcoliche. Gli indios erano completamente soggiogati, a tal punto che sovente i civilizados erano invitati a fare da padrini di battesimo. La cosa era andata avanti per generazioni e una parte degli indios si era abituata e difendeva gli invasori a tal punto che, quando ci fu la lotta vera per la definizione del territorio, una parte di loro era contraria. Ritenevano che, se gli invasori fossero andati via, gli indios sarebbero rimasti privi degli “aiuti” che costoro davano loro. Una volta parlai con un gruppo di Yanomami la cui terra era stata invasa da fazendeiros e, mentre spiegavo loro che i bianchi non avevano diritto di rimanere nella loro terra, dicevano che andando via loro avrebbero fatto la fame. “Chi ci darà il riso?”, domandavano. I fazendeiros davano loro riso in cambio di lavoro e servizi. Non si rendevano conto che in passato non avevano mai avuto bisogno del riso. Soltanto col tempo esso era diventato una necessità».

La devastante corsa all’oro

«Quel che andava per la maggiore, a Roraima, erano i giacimenti di diamanti nelle regioni della savana o di montagna abitate da altri indios. C’erano molte leggende sul fatto che le persone più ricche e più importanti fossero quelle che commerciavano in pietre preziose. Si parlava molto di un tale che aveva un piatto pieno di diamanti sul tavolo da pranzo… Non so cosa ne facesse, ma immagino che li usasse per pavoneggiarsi. Successivamente i diamanti iniziarono a passare in secondo piano, sia perché l’oro cominciò ad avere un prezzo più conveniente sia perché furono scoperti molti giacimenti auriferi». «Nell’area degli Yanomami i primi giacimenti furono trovati nei primi anni Settanta. Negli anni Ottanta i cercatori d’oro furono facilitati da un programma finanziato dal governo brasiliano che voleva avere una mappatura e un controllo del territorio amazzonico al Nord del Rio delle Amazzoni e del Rio Solimões. Si trattava del progetto “Calha Norte”. Un progetto che stava molto a cuore ai militari, che infatti arrivarono in gran numero».

«Nel 1987 ci fu una vera e propria invasione di cercatori d’oro. La Funai pensò bene di cacciare via i missionari e l’equipe medica che svolgeva azioni di medicina preventiva, lasciando gli Yanomami totalmente in balia di questi cercatori che provocarono livelli di mortalità altissima a causa delle malattie da loro portate. Fu un genocidio».

«Nel 1988 i missionari ritornarono alla Missione Catrimani, sistemarono le strutture danneggiate e fecero ripartire le attività di appoggio cercando di utilizzare uno schema diverso perché la realtà era cambiata molto nel frattempo. Iniziarono ad aiutare gli Yanomami nell’organizzazione di assemblee indigene, a preparare corsi scolastici per portare i propri giovani ad avere conoscenze sufficienti per non essere annientati dai bianchi. I leader yanomami volevano che i giovani imparassero a leggere e scrivere non per diventare bianchi, ma per difendersi dai bianchi che, ormai lo avevano capito, erano molto pericolosi per loro».

Anno 2015: ancora invasioni

Nel 1992, anche grazie al lavoro dei missionari della Consolata, la terra yanomami viene ufficialmente riconosciuta e protetta. Si tratta però di una protezione più teorica che reale. «Ancora nel 2015 – conclude con evidente rammarico fratel Carlo3 – centinaia o forse migliaia di cercatori d’oro continuano a invadere illegalmente il territorio indigeno, a distruggere la natura, a contaminare l’acqua con il mercurio, a causare epidemie e danni irreparabili alla cultura yanomami».

Daniele Romeo

Note

(1)  Su Carlo Zacquini si legga anche: Paolo Moiola, Il bianco che si fece Yanomami, MC, ottobre 2013.
(2)  Sulla scelta del luogo e sulla costruzione della pista di atterraggio si legga: Bindo Meldonesi, Il campo è pronto!, MC, luglio-agosto 1966.
(3)  La conversazione di queste pagine è tratta dall’intervista inserita nel documentario sulla Missione Catrimani realizzato da Daniele Romeo e Yuri Lavecchia.

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a cura di Paolo Moiola




L’Incontro (Nohimayou) – 3 dati essenziali


Schede di informazioni essenziali su gli Yanomami

 Sommario

Vai alla Prima parte

Introduzione di Stefano Camerlengo | Presentazione di Paolo Moiola | I TESTIMONI: Testimonianza di Giuglielmo Damioli | La voce di Corrado Dalmonego

Vai alla Seconda parte: I Testimoni

Un brasiliano tra gli Yanomami, Laurindo Lazzaretti | Incontro con Carlo Zaquini

 


In questa Terza parte: SCHEDE

  • Dati e informazioni sugli Yanomami
  • Il mondo Yanomami
  • Cronologia essenziale
  • Breve glossario Yanomami

 Vai alla Quarta parte: INCONTRO O SCONTRO

La parola agli Yanomami | Esiste una strada per la convivenza? di Silvia Zaccaria | Sopravviveranno alle contaminazioni? di Daniele Romeo | Gli amici (il Co.Ro.) di Carlo Miglietta

 


 Dati base

Dove sono – Il popolo degli Yanomami vive in un’area di foresta tropicale a Ovest del massiccio delle Guiane, sui due lati della frontiera tra Brasile e Venezuela.

Superficie – Occupano un territorio di circa 192.000 chilometri quadrati (quasi 2/3 dell’Italia), di cui 96.650 in Brasile.

Popolazione – Sono circa 33.100 persone (fonte: Albert – Milliken, 2009).

Lingue – Gli Yanomami si riconoscono come un popolo che presenta, al suo interno, diversità culturali e che parla lingue appartenenti alla stessa famiglia e mutuamente comprensibili.

In Brasile – La Terra indigena Yanomami è localizzata all’estremo Nord del Brasile e ha un’estensione di 9.664.975 ettari, essendo abitata da 21.249 persone, organizzate in 285 comunità (Distrito sanitário especial indígena yanomami, 2014).

Localizzazione della Missione Catrimani – La Missione Catrimani è localizzata sulla sponda sinistra del fiume Catrimani (N: 02°21’167’’; W: 063°00’447’’), affluente del Rio Branco, di fronte alla rapida del Cujubim.

Comunità e popolazione – Nella regione della missione Catrimani esistono 22 comunità con una popolazione di quasi 900 abitanti.

Dati demografici – Gli Yanomami stanno vivendo una forte crescita demografica, perciò la popolazione è molto giovane. Nella regione del Catrimani, 408 persone hanno meno di 14 anni, corrispondendo al 49 % del totale.

Distanze – La Missione Catrimani dista circa 250 Km in linea d’aria da Boa Vista, capitale dello stato di Roraima.

Mezzi di trasporto – Partendo da Boa Vista, è raggiungibile con piccoli aerei leggeri che atterrano sulla pista della missione (circa un’ora di volo), ma si può arrivarvi per via fluviale, risalendo il fiume Catrimani (circa tre giorni di navigazione), o per via terrestre, utilizzando veicoli fino a dove esistono strade e … continuando a piedi nella foresta, meglio se ben accompagnati (circa cinque giorni).

Salute – Le patologie più diffuse: infezioni respiratorie, gastroenteriti/verminosi, malattie della pelle/dermatiti, tubercolosi, malaria, denutrizione. Alla missione esiste un ambulatorio con farmacia, ma i casi più gravi sono trattati in città.

Educazione – Ogni comunità, in genere, possiede una piccola scuola con il proprio maestro Yanomami che vi risiede. Alla missione esiste un Centro di formazione usato per la formazione di maestri, di tecnici indigeni di salute, per corsi, incontri e assemblee.

 


Mondo Yanomami

A causa dell’isolamento e di un’esistenza millenaria nell’ambiente della foresta tropicale dell’Amazzonia, il popolo Yanomami ha sviluppato una cultura e un sistema simbolico propri, molto differenti dalla simbologia biblica frutto di un ambiente e di una cultura di pastori del deserto. Qualsiasi traduzione letterale, tipo Dio = Omã, risulta insostenibile. La tradizione orale yanomami, miti e storie esemplari rivissute nei rituali, spiega le origini e orienta il comportamento sociale e etico della società che vive in foresta. In una cultura orale come quella yanomami, i miti sono dinamici, raccontati o celebrati, liberamente adattati alla situazione ma conservandone inalterato il nucleo.

Le origini

Invece di un Dio creatore, alle origini ci sono due gemelli: Omâ e Yoasi. Omâ rappresenta l’intelligenza creativa, la furbizia, la generosità. Yoasi, il caimano, rappresenta la stupidità e l’egoismo. 

  • Gli Yanomami sono figli di Omâ e i napëpë (= non Yanomami) sono figli di Yoasi, egoisti e irresponsabili (mohoti) • Omâ ha dato queste terre agli Yanomami, ai napëpë ha dato Boa Vista, São Paulo… • Omâ si è ritirato sulle montagne del Parima, ma è chiamato in causa quando c’è bisogno. • Il figlio di Omâ aveva sete. Omâ fece un buco nella terra causando la grande inondazione.

L’Universo e l’armonia

La foresta (urihi) è il mondo, il pianeta, il cosmo dove vivono tutte le cose che esistono, materiali e spirituali: Yanomami, napëpë, spiriti, ancestrali, animali, piante, fenomeni naturali… Una struttura molto instabile frutto di un cataclisma originale causato dalla rottura dell’equilibrio. Se si rompe l’armonia dell’insieme tutto cade, è la fine di tutto.

  • Ferire la foresta, tagliare o strappare alberi in grande quantità, aprire strade, scavare buchi per estrarre metalli libera un fumo, una nebbia mortifera invisibile che si sparge seminando epidemie, malattie mortali (xawara).
  • Nella foresta ci sono luoghi dove abitano animali mostruosi, Teperesik+, Terema… sono luoghi protetti, nessuno può andare là per cacciare o pescare impunemente.  Sono nidi di riproduzione della biodiversità.
  • Gli xapuripë (sciamani) yanomami, grandi alberi materiali e spirituali, sono le colonne del cielo. Quando l’ultimo sciamano morirà, anche l’ultimo albero sarà abbattuto e il cielo cadrà nuovamente.

Gli sciamani (xapuripë)

Lo sciamanismo e l’endocannibalismo sono i rituali più affascinanti della cultura yanomami. Gli sciamani, mediante l’uso di allucinogeni, di canti e danze, sono il ponte tra il mondo materiale e quello spirituale con la funzione di mantenere l’equilibrio, l’armonia della foresta/mondo.

  • Quando uno sciamano muore, gli elementi si infuriano, particolarmente il vento e il tuono. (In occasione della morte di una persona importante ho visto una donna gridare allo sciamano: «Il tuono sta dormendo, scuoti la sua amaca»).
  • La morte di uno sciamano scuote l’equilibrio, asce tagliano i pilastri del cielo, gli sciamani alzano le braccia per reggere un peso che può diventare insostenibile. I pianti rituali, le grida, i canti e le danze mimiche creano un clima di grande drammaticità, letteralmente da fine del mondo.
  • Lo sciamano viaggia nel mondo degli spiriti animali, incarna e imita l’animale appropriato, succhia e poi soffia buttando via lo spirito responsabile per la malattia. Il rituale, eseguito singolarmente o in gruppo, può durare una notte intera.
  • L’endocannibalismo consiste nella consumazione rituale e in gruppo delle ceneri delle ossa di uno Yanomami morto sciolte in una zuppa di banane.
  • I rituali funebri valorizzano le qualità a servizio del gruppo. È una forma di comunione per perpetuare questi valori e stringere alleanza con altri gruppi.

Gli animali

I personaggi dei miti delle origini, dei racconti e dei disegni sono animali della foresta, indicando una intima unione ancestrale e attuale. 

  • Ogni Yanomami ha un «alter ego» (altro-io) animale, il falco reale è il più rappresentativo, la sua uccisione richiede rituali di purificazione. • Il giaguaro ruggisce nel petto degli sciamani e dei giovani cacciatori. • Il colibrì ha estratto il fuoco dalle fauci del caimano e l’ha posto dentro il legno della pianta di cacao.  • Il sangue della puzzolente e antipatica mocura (faina) stà all’origine dei colori degli animali. • Il tacchino selvatico, dalle penne nere e petto bianco, sta all’origine della alternanza del giorno e della notte. «Voi napëpë pensate che l’aurora viene meccanicamente? Sono gli uccelli che, cantando, chiamano l’aurora. Se uccidete tutti gli uccelli, la notte si estenderà per sempre».

L’intima unione di tutti gli elementi della foresta / mondo fa sì che non ci sia distinzione tra voce e rumore, tutti parlano, tutti si comunicano: la voce degli Yanomami, la voce del tucano, del giaguaro… del tuono, delle rapide dei fiumi, del vento.

Ritengo che le tradizioni racchiuse nella sapienza yanomami possano realmente trasmettere segnali e valori alla nostra società occidentale. A garanzia  della vita e soprattutto della sopravvivenza del pianeta.

Guglielmo Damioli*

(*)  Per approfondire le tematiche della cultura yanomami rimandiamo a: Guglielmo Damioli, Giovanni Saffirio, Yanomami. Indios dell’Amazzonia, Edizioni Il Capitello,    Torino 1996.


Cronologia

1929 – 1930 – Una spedizione raggiunge il fiume Catrimani e incontra un gruppo di Yanomami. Ne fa parte il benedettino Alcuino Meyer.

1948 – I missionari della Consolata arrivano a Roraima in sostituzione dei Benedettini.

1953 – Primo viaggio di padre Riccardo Silvestri (Imc) tra gli indios isolati del fiume Apiaú.

1960 – Primo viaggio di Bindo Meldolesi (Imc) tra gli indios del fiume Apiaú.

1965, ottobre – I padri Bindo Meldolesi e Giovanni Calleri fondano la missione sulla sponda sinistra del fiume Catrimani.

1966, marzo – Il primo aereo Cesna 170 atterra sulla pista della missione, appena terminata.

1967, dicembre – Viene creata la Funai (Fundação Nacional do Índio) in sostituzione dello Spi (Serviço de Proteção aos Índios).

1968, gennaio – All’equipe missionaria di Catrimani si aggrega fratel Carlo Zacquini.

1968, novembre – Massacro della spedizione di padre Giovanni Calleri tra gli indios Waimiri-Atroaris.

1972 – Viene fondato il Conselho indigenista missionario (Cimi), un’organizzazione che si rivelerà fondamentale per la difesa dei popoli indigeni del Brasile.

1974 – Inizia la costruzione della Perimetral Norte (Br-210). Prime invasioni di lavoratori e macchine. Si lavorerà per poco più di tre anni. Poi il progetto verrà sospeso per mancanza di fondi.

1974 – Prima epidemia di morbillo.

1977 – Seconda epidemia di morbillo.

1987, agosto – I missionari sono espulsi dalla Missione Catrimani. Vi torneranno soltanto un anno e mezzo più tardi (novembre 1988).

1988, ottobre – Viene emanata la nuova Costituzione brasiliana contenente anche il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni.

1989, marzo – I missionari iniziano il progetto di etno-alfabetizzazione.

1992, maggio – Esce il decreto presidenziale con il quale viene finalmente omologata la Terra indigena yanomami.

2015, agosto – Cinque anni dopo la sua uscita in Francia, anche in Brasile, esce la biografia di Davi Kopenawa, sciamano (xapuri), da anni leader riconosciuto degli Yanomami. 

(a cura di Paolo Moiola)

 


Glossario

Urihi – Terra-foresta. Per gli Yanomami la foresta è viva, popolata da un’infinità di esseri viventi: umani, animali, spiriti ecc.

Yano – La casa comunitaria, una costruzione circolare unica, di pali e paglia, condivisa fra i parenti. Possiede al centro un’area destinata alle funzioni rituali e socio-politiche, e non esistono pareti divisorie che separino gli spazi occupati dalle diverse famiglie. È l’ambito privilegiato delle relazioni sociali, ma anche metafora del cosmo. Spesso è chiamata «maloca», che però è un termine tupí-guarani.

Hutukana – La piantagione dove sono coltivati prevalentemente banani, piante di manioca, canna da zucchero, papaie, tabacco, cotone, piante curative e magiche ecc.

Wakatha u – Nome yanomami di una specie di armadillo e, con l’aggiunta del suffisso «u», del fiume Catrimani, sulla cui sponda sinistra, all’altezza della rapida del Cujubim, è stata fondata la Missione Catrimani.

Xapuri – Il termine si riferisce sia agli spiriti ausiliari invocati durante le sessioni sciamaniche che agli sciamani stessi che viaggiano nel tempo e nello spazio, visitando altre dimensioni.

Napë – In contesti diversi, assume significati differenti: puó indicare un nemico, ma anche uno straniero, un non-Yanomami o un bianco. Plurale: napëpë.

Xawara – Epidemia. Per gli Yanomami le gravi epidemie che hanno decimato la popolazione a partire dal contatto con i bianchi sono attribuite ai fumi prodotti dalle sostanze e dai macchinari usati dai bianchi e dai cercatori d’oro in particolare.

Xori – Cognato. La relazione fra due cognati promuove alleanza, amicizia e facilità di scambio. Sin dal principio, i missionari sono stati classificati con questo termine.

Nohimayou – La parola «nohi» significa amico. Il verbo nohimayou si riferisce all’abilità di suscitare nell’altra persona un sentimento di amicizia. Gli Yanomami usano quest’espressione per descrivere anche l’atteggiamento dei missionari del Catrimani.

Garimpeiros (port.) – Cercatori d’oro che invadono illegalmente la Terra indigena. Gli Yanomami li denominano anche con i termini: «napë wareri pë», spiriti pecari stranieri, o «urihi wapo pë», mangiatori di terra, poiché devastano il suolo e scavano buche per estrarre i minerali.

(a cura di Corrado Dalmonego)

 

 

 



L’Incontro (Nohimayou) – 4 problemi e commenti


Opinioni degli amici

 Sommario

Vai alla Prima parte

Introduzione di Stefano Camerlengo | Presentazione di Paolo Moiola | I TESTIMONI: Testimonianza di Giuglielmo Damioli | La voce di Corrado Dalmonego

Vai alla Seconda parte: I Testimoni

Un brasiliano tra gli Yanomami, Laurindo Lazzaretti | Incontro con Carlo Zaquini

Vai alla Terza parte: SCHEDE

Dati e informazioni sugli Yanomami | Il mondo Yanomami | Cronologia essenziale | Breve glossario Yanomami


In questa Quarta parte: INCONTRO O SCONTRO

  • La parola agli Yanomami
  • Esiste una strada per la convivenza? di Silvia Zaccaria
  • Sopravviveranno alle contaminazioni? di Daniele Romeo
  • Gli amici (il Co.Ro.) di Carlo Miglietta

 


 La parola agli Yanomami

Testimonianza di K. YANOMAMI

(morto in marzo 2014, a circa 75 anni). Stralcio della deposizione raccolta e registrata, a gennaio 2013, presso la comunità di Waroma (regione Missione Catrimani).

«Ci presero con loro» «[Poco dopo la fondazione della Missione Catrimani] padre Giovanni Calleri disse proprio così: “Voi, altri bianchi, non dovete più venire qui, non dovete risalire il fiume. No! Io ho già preso sotto la mia protezione gli Yanomami”. […]

Che cosa passava per la testa dei padri, quando sono arrivati? Padre Calleri diceva così: “Molto bene, io sono venuto a cercarvi, per prender con me voi Yanomami”. […]

I padri hanno preso con sé noi Yanomami, perciò hanno detto: “È bene che vi prendiamo con noi […]: noi vi cureremo, vi difenderemo dai garimpeiros, quando questi arriveranno per stabilirsi”. Così, quando hanno iniziato a costruire la strada [BR 210] loro sono rimasti qui».

Testimonianza di ALEXANDRE?YANOMAMI

(di circa 55 anni) Stralcio della deposizione raccolta e registrata in video, a gennaio 2015, presso la comunità di Hawarixa (regione Missione Catrimani).

«Ma lui fu ucciso»

«Inizialmente solo padre Calleri arrivò fino alla comunità di Hawarihi [localizzata lungo il fiume Lobo d’Almada, affluente di destra del Catrimani] e raggiunse le altre comunità dei nostri avi. In seguito, lo raggiunsero altri e chiamò molti abitanti di questa regione. [Padre Calleri] vide le necessità degli anziani e conobbe la loro cultura: l’amaca di cotone [coltivato nella piantagione], la mandibola di pecari [un tipo di cinghiale] per lisciare l’arco, […] l’utensile di denti di aguti [un roditore] legato al braccio. […]

Gli anziani Yanomami insegnarono a padre Calleri: “In questo modo fabbrichiamo la punta [di freccia chiamata] atarihi; invece così, dopo avere ritorto [le fibre vegetali], prepariamo la corda per l’arco”. In questo modo, Calleri vide con i suoi occhi le difficoltà degli antenati: le donne cuocevano la focaccia di mandioca sulle pietre, grattuggiavano i tuberi di mandioca [sfregandoli] sulla corteccia dell’albero operema, spremevano la polpa di mandioca nei piccoli cesti ikatoma. Vedendo tali necessità, padre Calleri li aiutò: li aiutò veramente. Dopo averli aiutati, li chiamò: “Venite qui” e i nostri genitori andarono ad aprire la pista di atterraggio. […] Venendo da tutte le comunità, gli Yanomami, insieme, costruirono questa pista. In seguito, per il servizio prestato, padre Calleri distribuì i coltellacci che aveva portato con sé da Manaus.

I nostri antenati fecero grande amicizia con padre Calleri: tutti gli abitanti delle comunità di Tooropi, di Hwaia u, di Kaxipi u, gli Yawari. Tutti strinsero amicizia con lui. Ma lui fu ucciso».

L’epidemia di morbillo

«Questo qui [indicando fratel Carlo Zacquini] era un papà. Aiutò i nostri anziani. Loro piangevano di dolore, ma li soccorse. Molti furono curati. Vedendo che le persone venivano curate, [i nostri anziani] lo chiamarono di xapuri [sciamano/curatore] bianco.

Dissero: “Lui è xapuri bianco, per questo guariamo, recuperiamo la salute”. […]

Nel 1977, quando i nostri genitori morivano nei pressi del fiume Hwaia u, corse insieme alla mamma Claudia (Andujar, fotografa svizzera molto conosciuta per il suo lavoro tra gli Yanomami, ndr), per soccorrerci durante l’epidemia di morbillo. Questi due accorsero per darci ausilio, mentre noi e altri Yanomami ammalati, qui [nell’alto corso del fiume] stavamo correndo [cercando soccorso alla Missione Catrimani]. […]

In quel tempo, quando il morbillo aveva già ucciso molti ed era calata l’intensità dell’epidemia, questi due arrivarono. Ci raggiunsero nella comunità ormai spopolata. Portarono vaccini e medicine contro il morbillo, con i quali – noi che eravamo sopravvissuti – fummo curati e ci ristabilimmo.

A causa di questa situazione [di grave sofferenza degli Yanomami], Claudia e Carlo Zacquini, cominciarono la lotta per la [demarcazione della] terra indigena. Iniziarono questa nuova lotta perché volevano prendersi cura di noi. […] I missionari della Consolata ci aiutarono realmente. Padre Giovanni [Saffirio] corse al Posto indigeno della Funai [Fondazione Nazionale dell’Indio] al Watorik? [Demini], per richiedere il soccorso di un elicottero. […]

Loro hanno inviato [più di una] proposta [di demarcazione] al governo [brasiliano]. [Affermando:] “Il popolo Yanomami è importante”. […] Tutto questo perché potessimo vivere in salute, [continuare a] realizzare le nostre feste reahu, fare le nostre piantagioni, crescere [allevare] i nostri figli». 

Testimonianza di PEDRO?YANOMAMI

(di circa 80 anni, comunità di Maamapi)
Stralcio della deposizione raccolta e registrata in video, in gennaio 2015, presso la comunità di Maamapi (regione Missione Catrimani).

«Noi due moriremo insieme»

«Fratel [Carlo Zacquini] andava a caccia con me, in quella direzione. Noi cacciavamo là tapiri e scimmie. Adesso è anziano. Io sono divenuto anziano, e lui, come me.

[Rivolgendosi a Fratel Carlo che da qualche anno vive a Boa Vista:] Fratello tu tornerai? Vieni di nuovo a visitarci alla Missione. Vieni ad abitare qui di nuovo. Moriremo insieme. Noi due moriremo insieme. [Gli altri Yanomami] realizzeranno il rituale con le nostre ceneri. Se seppelliranno il tuo corpo, tu [in questo passaggio] soffrirai: i bianchi sono irresponsabili, non sanno le cose. Solo se sarà realizzato qui il rituale delle ceneri, andrà tutto a buon fine.

Io ho pensato che sarà bene così per noi, perciò ti chiamo: ritorna qui.

[Fra qualche settimana,] quando realizzeremo la festa reahu, nella mia comunità, visitaci di nuovo. Anche se anziano, danzerai nella mia casa. Noi due anziani danzeremo. Io non vedo più le persone e le cose con i miei occhi, ma ancora posso camminare. Invece, i tuoi occhi scorgono ancora chiaramente: solo io sono immerso in una grande oscurità.

Sento molta nostalgia. Tu hai cacciato e pescato per alimentarmi, perciò ti ricordo, ti conservo nel cuore. Se io avessi occhi buoni, ti visiterei varie volte a Boa Vista, dopo aver volato con l’aereo. Domanderei: “Tu stai bene?”. Questo è ciò che penso».

(a cura di Corrado Dalmonego)


Indigeni e mondo dei bianchi / 1

Esiste una strada per la convivenza?

La storia della Missione Catrimani può contribuire a gettare luce sulle vicende più recenti relative alla conquista dell’Amazzonia e sul modello di convivenza possibile tra indigeni e mondo dei bianchi.

Ci ricorda, ad esempio, che i protagonisti dell’epopea della conquista furono uomini che inseguivano promesse ingannevoli, come quella contenuta nello slogan «terra senza gente, per gente senza terra!», dietro alla bandiera illusoria di un progresso che non sarebbe mai stato per loro. È a questi avventurieri che inizialmente si associarono i missionari per realizzare la propria opera in terra amazzonica, ovvero portare il Vangelo a popoli allora considerati selvaggi e senza Dio.

Benché il suo territorio fosse stato raggiunto dalla «Commissione nazionale per l’ispezione delle frontiere» già nel 1927, nei primi anni ‘60, quando il desbravamento (colonizzazione) del Brasile centrale era già stato completato, Roraima ospitava ancora indios non contattati come i Vaikà (nome dispregiativo dato agli Yanam, sottogruppo yanomami).

I missionari della Consolata, catapultati in quell’ambiente ostile e sconosciuto, non avevano altra scelta se non quella di mettersi al seguito degli «invasori»: come il cacciatore di pelli Joãozinho, che risalendo il rio Ajaraní, aveva «scoperto» gli Yanam e i raccoglitori di gomma che invitarono padre Bindo Meldolesi ad accompagnarli in un viaggio sul rio Catrimani dove avevano individuato gruppi di indios.

Già nella spedizione successiva al Catrimani, organizzata dallo stesso Meldolesi e da padre Calleri nel 1965, i missionari rinunciarono ad appoggiarsi a intermediari «bianchi». Individuata la sede per la missione, i due padri iniziarono a preparare la pista di atterraggio, che sarebbe stata inaugurata nel 1967 con un volo dell’aereo della Diocesi di Roraima, avvenimento documentato fotograficamente da padre Silvano Sabatini, al tempo amministratore della Consolata in Brasile.

In pochi anni, tra il ‘65 e il ‘68, i missionari della Consolata, anche grazie al nuovo metodo di approccio stimolato dal Concilio Vaticano II che li portò alla costituzione della prima equipe diocesana di pastorale indigena del Brasile, la Commissione Pro-Indio (Coprind), passarono dall’idea di integrazione a quella di avvicinamento graduale degli indios alla società bianca, incarnata dal progetto di «pacificazione» dei Waimiri Atroari. Nello stesso periodo, la Coprind elaborò anche un primo progetto di demarcazione di riserve indigene nell’area yanomami, che preludeva a quello di creazione del Parco Yanomami presentato dalla Ong Ccpy nel 1978 e poi ufficialmente approvato nel 1992.

Per Sabatini, allora presidente della Coprind, quello fu il momento d’oro della Consolata a Roraima: la Missione Catrimani venne ampliata con l’invio di due giovani missionari, fratel Carlo Zacquini e padre Giovanni Saffirio e la Commissione avviò una collaborazione proficua con i vertici della Funai, il nuovo organo indigenista appena creato, che però sarebbe durata poco. La realizzazione della Perimetrale Nord, nel 1971, inaugurò l’invasione massiccia del territorio yanomami, aprendo la strada ai cercatori d’oro. L’ambiguità della Funai che soccorreva i superstiti senza cercare di impedire l’invasione (come poi avrebbe fatto nel caso dei Waimiri-Atroari), sfociò in uno scontro aperto con la missione che durò vari anni. Malgrado le pressioni e le minacce della nuova presidenza della Funai, retta per più di un decennio dai militari, l’equipe del Catrimani rimase a fianco degli indios, stimolando il mantenimento delle istituzioni culturali indigene come la maloca e la pratica dello sciamanesimo, tanto che la Conferenza nazionale dei vescovi definì quella di Catrimani come «esperienza missionaria profetica» del Brasile.

Nella storia della Missione Catrimani, padre Silvano Sabatini è stato un protagonista, pur non essendo stato uno specialista di cultura yanomami. Sin dai primi contatti con gli indios, le sue intuizioni sono state segnate da una grande libertà di pensiero e dalla capacità di sospendere il giudizio anche di fronte a pratiche facilmente condannabili – secondo il nostro sistema di valori – come l’infanticidio o la guerra, giungendo a conclusioni radicali e illuminanti per il modo in cui il missionario dovrebbe approcciare contesti culturali altri: «Non ha senso battezzare l’indio fuori dalla comunità… Il missionario deve “essere Cristo” invece di nominarlo…».

Sabatini si è spinto anche oltre. Avventurandosi nel territorio caro agli antropologi, egli ha riconosciuto il ruolo fondamentale giocato dai leader indigeni (come Gabriel Macuxi e Davi Yanomami) come «mediatori dell’alterità», in quanto figure «di confine» in grado di tradurre la nostra cultura all’interno del proprio gruppo e di operare una rielaborazione della cultura indigena il più possibile rispondente alle esigenze dell’immaginario occidentale dominante, per renderla intellegibile all’esterno e «attuale», garantendole così il diritto di continuare a esistere. E ancora, Silvano Sabatini e la Missione Catrimani hanno dimostrato come solo la piena legittimazione dei valori delle culture altre possa oggi dare nuovo senso non solo alla pratica missionaria ma, più in generale, alla nostra stessa cultura occidentale, che ha bisogno, questa sì, di una «nuova evangelizzazione» se vuole gettare le basi per una convivenza pacifica con l’Altro.

Silvia Zaccaria
 
 


 

 

Sopravvivranno alle contaminazioni?

C’è qualcosa di inevitabile nella distruzione delle società tribali? Quello che sta accadendo oggi nei territori Yanomami dell’Amazzonia brasiliana – furto delle terre, estrazione indiscriminata di minerali pregiati, sfruttamento selvaggio delle risorse idriche e della biodiversità – fa sorgere questa domanda. I governi brasiliani e gli amministratori locali di Roraima hanno sempre spiegato (e giustificato) questa situazione come una conseguenza secondaria dello sviluppo e del progresso.

Quando, nel gennaio 2015, sono arrivato a Roraima e a Boa Vista, avevo una sorta di pregiudizio che considerava l’estinzione degli Yanomami come una condizione tragica ma inevitabile.

In effetti, una lotta impari sta portando gli Yanomami a modificare rapidamente la loro esistenza, passando da un isolamento millenario a indossare i nostri abiti, acquistare telefoni di ultima generazione, guardare la tv satellitare nel mezzo alla foresta. Si tratta di un processo di implosione e di «evoluzione sociale» – inconsapevole, incontrollato e forse oscuramente «pilotato»-, che sta modificando e distruggendo tradizioni e abitudini di vita.

La terra è da sempre il cuore del conflitto e dello sterminio del popolo yanomami che, fino a qualche generazione fa, conosceva la nostra esistenza solo grazie ai contatti con i missionari. Uno di loro, tra i pochi superstiti di una generazione probabilmente eroica, è fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata. Da quasi 50 anni Carlo vive a contatto con la realtà indigena e per questo era la miglior guida possibile nell’area del Catrimani. Lungo i percorsi fluviali, durante gli spostamenti tra i villaggi e durante le serate trascorse insieme sotto la tettornia della missione, ho ascoltato dalla sua voce racconti emozionanti di anni vissuti tra gli indigeni, dai primi contatti fino alla costruzione e allo sviluppo della missione. Attraverso i suoi racconti ho ripercorso la storia degli ultimi anni degli indios del Catrimani, le leggende, gli aneddoti, le tradizioni, le difficoltà incontrate e i momenti difficili. Fratel Carlo rappresenta un parte importante della memoria storica degli ultimi decenni del popolo yanomami del Brasile. Un testimone vivente la cui esistenza è stata dedicata alla causa indigena. Parte del lavoro suo e di altri missionari è raccolto e custodito in maniera precaria a Boa Vista. Due piccole stanze – soggette alle intemperie e sotto la minaccia costante dell’umidità e delle termiti – raccolgono anni di immagini, giornali, carteggi, libri, testimonianze, oggetti della cultura yanomami. Un patrimonio inestimabile che, con fatica, fratel Carlo cerca di difendere, preservare e accrescere. Nella speranza che possa diventare un giorno un punto di riferimento per gli indigeni, i giovani missionari, gli studiosi, i ricercatori e la gente comune.

Il mio timore di una lenta contaminazione degli Yanomami ha trovato riscontri concreti durante la mia pur breve permanenza tra loro: operatori dei punti di salute disinteressati alla causa, strutture di supporto e personale inadeguato. Tuttavia, l’aver visto le loro vite integrate con i ritmi della foresta e fatte di straordinaria umanità, mi ha anche aperto la strada verso una più ampia visione del futuro: lottare per la causa Yanomami dando supporto a quanti di loro, attraverso il principio di autodeterminazione e autodocumentazione, si stanno attivando per sensibilizzare altri Yanomami e per cercare di essere preparati ad affrontare le sfide portate dall’invasione occidentale.

Di certo, sono molte le domande senza risposta. Cosa sarà degli Yanomami (come di molti altri popoli indigeni del mondo) in un futuro nemmeno tanto lontano? Cosa possiamo fare noi per contribuire alla loro lotta? Quanti sono a conoscenza della loro esistenza, dei drammi e dei pericoli per la loro stessa sopravvivenza? Da ultimo, cosa sarà delle testimonianze e dei materiali raccolti e custoditi dai missionari?

Daniele Romeo
 


Il Comitato Roraima (Co.Ro.)

«Nada se compara a Catrimani»

 Un medico torinese e un gruppo di volontari, innamorati della realtà indigena brasiliana, hanno fondato un comitato che da anni opera per appoggiare indigeni e missionari.

Durante l’anno Santo del 2000, con la mia famiglia e alcuni amici decidemmo di andare in Brasile, nello stato di Roraima, alla ricerca di padre Silvano Sabatini, un amico missionario che da un po’ di tempo non dava più notizie. Era infatti nascosto perché minacciato di morte, da quando, due anni prima, era uscito il suo libro Massacre, con nomi e testimonianze precise che inchiodavano gli autori del massacro della spedizione in cui fu ucciso padre Calleri (esponenti militari, compagnie minerarie, sette nordamericane).

«Padres ladroes e viados»

Giunti a Boa Vista, capitale di Roraima, subito respirammo il pesante clima di persecuzione nei confronti della Chiesa. La città era tappezzata di manifesti del governo di Roraima e di associazioni di commercianti e agricoltori che attaccavano i missionari per la loro lotta in difesa degli indios: «Una diocesi deve catechizzare e non interessarsi delle terre indigene!»; «La diocesi è nociva alla società di Roraima». Sui muri vistose scritte: «Padres ladroes e viados!», «Padres corruptos!»

Al mattino seguente i missionari ci svegliarono dicendo che c’’era la possibilità per una persona di raggiungere con un piccolo aereo la missione Yanomami di Catrimani, in foresta, dove gli indios avrebbero tenuto una riunione sui problemi sanitari. Ma le speranze appena accese si spensero presto: la piccola pista di atterraggio di Catrimani era allagata e tale sarebbe rimasta per tutta la settimana. Catrimani divenne per noi un mito, una sorta di irraggiungibile Eldorado: tanto più che Carlos, il simpatico factotum della missione, che con un fuoristrada ci accompagnava nei nostri spostamenti, continuava a martellarci, di fronte al nostro stupore per la bellezza della savana o dei grandi fiumi, che comunque «Nada se compara a Catrimani», «Nulla è paragonabile a Catrimani».

Il mio contatto con Catrimani avvenne l’anno dopo, accompagnato da fratel Carlo Zacquini: portavo con me due giornalisti di Famiglia Cristiana perché documentassero le vessazioni a cui gli Yanomami erano (e sono) sottoposti.

Restammo conquistati dall’affetto con cui fratel Carlo, uno dei primi missionari che avevano «scoperto» gli Yanomami, era accolto dagli indigeni, che facevano a gara per abbracciarlo, stringerlo a sé con le lacrime agli occhi per la gioia e la riconoscenza. Fratel Carlo aveva vissuto con gli Yanomami lunghi periodi in solitudine, indio tra gli indios, incurante dei pericoli, del clima umidissimo, di scorpioni, serpenti, giaguari e dei terribili «piun» (le micidiali piccolissime zanzare), della fame, delle malattie (quante volte ha avuto la malaria, e alcune volte anche il coma malarico).

E davvero constatai che «nada se compara a Catrimani». Nulla è paragonabile per il fascino della foresta amazzonica, la bellezza del fiume Catrimani, i meravigliosi pappagalli multicolori che volteggiavano attorno alla missione, l’imponente tucano, i voraci piranha pescati dagli indigeni insieme agli enormi «pesce gatto», l’anaconda, fortunatamente «piccola», che aveva dilaniato la gamba di un giovane yanomami, le cui ferite riuscii a suturare alla meglio poco prima della mia partenza, i canti degli uccelli, le urla delle scimmie.

«Nada se compara a Catrimani» per l’incontro con gli indigeni, che ci accolsero con calore misto a curiosità, e che per noi organizzarono una festa con canti e danze, e l’immancabile frullato di banane. Il sonno della prima notte fu interrotto da urla disperate di uno Yanomami che gridava: «È morto mio figlio! È morto mio figlio!». Quando accorremmo, scoprimmo che gli era morto… il cane, considerato però come un membro della famiglia. In quei giorni ricordo i bambini che si affollavano intorno a me perché fischiettavo bene, cosa che loro non sanno fare. E ancora la paura di quando, uscito con un gruppo di indios a caccia nella foresta, mi attardai un attimo per fare una fotografia e mi ritrovai sperduto tra alberi altissimi, assolutamente incapace di orientarmi: mi misi allora a gridare e altre grida indigene mi indicarono il cammino. Rammento gli sciamani che prima che sorga l’alba, nel tepore dei fuochi della maloca, raccontano i miti della tribù e ricordano a tutti che, se gli Yanomami smettessero di sostenere con la loro preghiera la volta del cielo, questa si schianterebbe sulla terra. La giovane mamma yanomami affetta da mastite che rifiutava la terapia antibiotica da me proposta, perché voleva una mastectomia, confusa notizia arrivatale chissà come dal mondo dei bianchi. E la pazienza di fratel Carlo che si accovacciò accanto a lei (all’uso indigeno), abbracciandola e convincendola, attraverso un lungo colloquio, ad accettare la mia cura, che risolse poi il problema con due sole iniezioni intramuscolo.

Nascita e attività del Co.Ro.

Dopo il viaggio del 2000, dall’indignazione per l’etnocidio in atto e dall’ammirazione per il lavoro dei missionari, nacque il Co.Ro. Onlus, Comitato Roraima di solidarietà con i popoli indigeni del Brasile. Oltre a interventi per altre popolazioni indigene di Roraima (Macuxi, Wapichana, Tuarepang, tra le principali), per la missione di Catrimani il Comitato ha reso possibili numerosi progetti come: la ristrutturazione delle strutture adibite ad accoglienza, ambulatorio e scuola; la foitura di barche per raggiungere le maloche più distanti lungo il fiume Catrimani; l’impianto di pannelli solari che oggi foiscono energia per le attività sanitarie ed educative; la formazione degli agenti indigeni di sanità; la organizzazione di incontri formativi per i leaders delle 24 comunità che afferiscono alla missione; la preparazione di incontri dei tuxaua (capi) per partecipare ad eventi inteazionali in difesa degli indios e sulla possibilità di un’agricoltura ecologica e sostenibile; il mantenimento di un prezioso collaboratore laico, indispensabile motorista, meccanico, carpentiere; il progetto di documentazione audiovisiva sulla storia della missione e sulle sfide affrontate dagli Yanomami. Infine, una curiosità. Non poche difficoltà sorsero tra noi quando ci fu proposto di sostenere un corso di formazione per gli sciamani. Alla fine le perplessità furono superate: i missionari ci aiutarono a comprendere che gli sciamani erano (e sono) insostituibili custodi della tradizione e della spiritualità yanomami.

Catrimani: una missione estrema, con missionari che incarnano concretamente una Chiesa che sta con gli ultimi o, come dice papa Francesco, «con gli scarti, alla periferia del mondo».

Carlo Miglietta

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a cura di Paolo Moiola

 



Minerali Insanguinati

Materie prime e guerre in Africa


Sommario

(clicca su uno dei titoli per andare al testo)
– Introduzione: Ricchezza di morte


– Rd Congo: Una miniera a cielo aperto


– Repubblica Centrafricana:
Pietre preziose e religioni


– Sierra Leone: I diamanti della guerra


– Unione Europea: Una legge sui minerali
– Questo dossier

Introduzione

Ricchezza di morte

Che cosa mi importa? In che modo mi
tocca un problema che riguarda popolazioni che vivono a migliaia di chilometri
da me? E, poi, perché devo essere considerato responsabile di conflitti di cui
si sa poco o nulla? Sembra di sentirle le domande che degli ipotetici ragazzi,
ma anche persone comuni, potrebbero porre a un (avventato) giornalista che si è
avventurato nel tema dei «minerali insanguinati» e proponesse loro un incontro
di sensibilizzazione.

Eppure, questo capitolo della
nostra storia contemporanea è molto più vicino a noi occidentali di quanto
sembri. È sufficiente guardarsi in tasca e prendere il proprio telefonino.
Quell’apparecchio, sempre più sofisticato, non potrebbe esistere senza alcuni
minerali (il coltan su tutti) provenienti dall’Africa. Minerali che vengono
estratti in miniere controllate da milizie (con la complicità di molti stati)
che, proprio dall’estrazione di quelle sabbie e pietre preziose, traggono il
sostentamento per continuare a combattere. Gli esempi in questo campo possono
essere numerosi: basti pensare all’impiego industriale del tungsteno, dello
stagno, dell’oro, ma anche al commercio dei diamanti.

L’Europa, per anni, non ha voluto varare leggi che
limitassero l’importazione di questi «minerali insanguinati». In tempo di
crisi, il timore era che ciò si trasformasse in nuovi costi per le imprese
continentali. L’esempio degli Stati Uniti, che nel 2010 ha approvato una
normativa che impedisce l’importazione di minerali dalla Repubblica Democratica
del Congo, ha spinto Bruxelles a scendere in campo. Il 20 maggio il Parlamento
europeo ha approvato un testo che limita l’importazione da zone di guerra. Ora
la parola passa alla Commissione europea che deve esprimersi prima che il testo
diventi definitivamente legge. In questo dossier abbiamo voluto fare il punto
su un tema delicato per l’Africa, ma che ha anche profonde ricadute sulle
nostre abitudini.

 

Repubblica
Democratica del Congo

Una miniera a cielo aperto

La ricchezza del suo
sottosuolo è anche la sua rovina. Un collaudato circuito criminale gestisce
l’estrazione clandestina in Congo e il contrabbando verso i paesi vicini. Così
il Rwanda diventa uno dei maggiori esportatori di coltan, pur non producendolo.
E si arricchisce, mentre nelle miniere si continua a morire.


«Si
pensa che la mafia sia presente solo in Italia. No, la mafia è attiva anche
nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc). È un’organizzazione criminale
composta da politici locali, dirigenti delle grandi compagnie minerarie e
politici di paesi confinanti. E si alimenta delle nostre risorse». Monsignor
Fridolin Ambongo, vescovo di Bokungu-Ikela e amministratore apostolico di Kole,
non usa mezzi termini per denunciare lo sfruttamento illegale di minerali, ma
anche di legno e, in futuro, dell’acqua, del suo paese. «Molti anni fa –
osserva il vescovo – uno scienziato belga definì il Congo “uno scandalo
geologico”. Il mio paese ha un sottosuolo ricchissimo di minerali preziosi, ma
ha anche una foresta pluviale con legname pregiato e molti fiumi sempre gonfi di
acqua. E in futuro diventerà sempre più strategico controllare le risorse
idriche. Potrebbe essere uno stato ricco, in cui la popolazione vive in modo
pacifico e senza l’affanno della povertà. Invece i congolesi sono costretti
alla miseria, vessati dalle scorribande di milizie nazionali e straniere e sono
mal governati. La Rdc potrebbe essere un paradiso in terra, ma è un inferno».

Qualche statistica

Per meglio comprendere che cosa si nasconde dietro il
traffico illegale di minerali è necessario fornire alcuni dati. In questo ci
può aiutare il rapporto pubblicato dall’Unep (Programma delle Nazioni Unite per
l’ambiente) il 15 aprile e redatto in collaborazione con Interpol, alcune Ong e
istituzioni locali congolesi. Secondo questo rapporto, ogni anno vengono
contrabbandati dalle zone di guerra della Rdc un miliardo e 200 mila dollari
(circa 1,1 miliardi di euro) in oro, minerali preziosi, legname, carbone e
prodotti della fauna selvatica (avorio, ecc.). Questa ricchezza, in parte viene
portata in altre zone del Congo non toccate dal conflitto e, in parte,
all’estero (in prevalenza nei paesi confinanti). Solo dall’oro si otterrebbero
120 milioni di dollari (107milioni di euro), dal legno tra i 16 e i 48 milioni
di dollari, dai minerali tra i 7,5 e i 22,6 milioni di dollari. Senza contare
il bracconaggio, le tassazioni illegali, e altre risorse che producono profitti
per circa 28 milioni di dollari.

Questo traffico è gestito dalle milizie che operano sul
territorio, ma hanno collegamenti con grandi organizzazioni criminali
all’estero. Secondo un calcolo sommario dell’Unep, però, solo il 2% dei
profitti rimane in loco, il restante 98% finisce in mano a una rete criminale
che opera con la complicità degli stati confinanti: Burundi, Rwanda, Tanzania e
Uganda. Nonostante alle milizie locali rimangano poco più che le briciole di
questo immenso commercio illegale, i profitti riescono a mantenere almeno
ottomila uomini che combattono nelle fila di una cinquantina di gruppi armati.
«Queste milizie – spiega Massimiliano Pallottino, ricercatore del Centro
interdisciplinare di Scienze per la Pace dell’Università di Pisa, che si è a
lungo interessato di questo traffico – sono una pedina in mano alle grandi
organizzazioni criminali e vengono utilizzate per destabilizzare le aree
dell’Est del Congo, quelle più ricche di minerali. Questa destabilizzazione fa
buon gioco alle mafie locali perché nel caos è più semplice accaparrarsi le
risorse minerali e quelle naturali». Queste organizzazioni scommettono proprio
sulla confusione e sulla guerra, armando e finanziando ogni singolo gruppo
affinché nessuno prevalga e possa assumere una posizione dominante che
impedirebbe o modificherebbe i rapporti di forza attuali.

Come funziona il
traffico

Prima di addentrarci nell’articolato sistema di
sfruttamento dei minerali insanguinati in Rdc, è forse necessario fare una
premessa storica. Lo sfruttamento non è un fenomeno nuovo. A partire dagli anni
Settanta, quando a governare sul paese era il dittatore Mobutu Sese Seko, le
regioni orientali erano spogliate delle loro risorse da parte di una classe
politica rapace. Negli anni Novanta, in seguito al genocidio ruandese (1994),
le zone di confine tra Rdc, Uganda, Rwanda, Burundi sono diventate
particolarmente sensibili. È stato in quegli anni che molti miliziani hutu,
responsabili delle stragi in Rwanda, si sono rifugiati in Congo per cercare
protezione dalle vendette dei tutsi. Questi miliziani, per sopravvivere in
terra straniera, hanno iniziato a sfruttare le risorse immediatamente
disponibili e, in modo particolare, il coltan e l’oro i cui giacimenti sono
superficiali. Poco per volta si è strutturato un mercato complesso al quale non
partecipano più solo gli hutu ruandesi, ma anche milizie congolesi collegate
più o meno strettamente a governi stranieri (in particolar modo il Rwanda).

Il mercato illecito dei minerali si può descrivere come
strutturato in tre fasi distinte. La prima fase è quella dello sfruttamento
delle miniere. Queste possono essere controllate indifferentemente da milizie
oppure dalla popolazione locale o, ancora, da rifugiati. Per proteggerle, però,
la gente si arma creando insicurezza e violenza. In questo contesto, viene
estratto il materiale grezzo. Nel caso del coltan (ricordiamo che il 60% del
coltan estratto a livello mondiale proviene dalla Rdc), i minatori non hanno i
mezzi per separarlo dalle altre rocce e per raffinarlo. Essi hanno però la
necessità di vendere il coltan (ma anche altri minerali rari e l’oro), ma per
poterlo fare devono prima pagare tangenti alle milizie. Solo così ottengono il
via libera per portare il minerale agli intermediari, chiamati in francese comptornir
(banchi). Esistono comptornir nei pressi delle miniere o nei centri più
grandi dell’Est Congo (Goma, Bukavu). Questi intermediari, a differenza dei minatori,
hanno gli strumenti per trattare e valutare il minerale. Così lo rendono puro e
lo trasportano ad altri intermediari in Burundi, Rwanda o Uganda. «A Kigali,
Kampala o Bujumbura – continua Pallottino – esistono comptornir più grandi
che “ripuliscono” il minerale facendogli perdere la “cittadinanza” congolese e
facendolo diventare a tutti gli effetti ruandese, burundese, ma anche ugandese
e tanzaniano».

Infine il minerale viene venduto sul mercato
internazionale. Il coltan ripulito viene acquistato, tra le altre, da tre
grandi aziende che hanno sede in Cina, Germania e Kazakistan. Da esse viene
trasformato in semilavorati (polveri, leghe, lamine, ecc.) che poi vengono
venduti alle grandi multinazionali di prodotti elettronici: telefoni cellulari,
tablet, personal computer, piattaforme per i giochi, ecc.

 
Il ruolo del Rwanda

«Inutile nascondersi dietro a un dito – osserva Frédéric
Triest della rete Eurac (European Network for Central Africa) – dietro
alle milizie che si combattono sul suolo congolese ci sono paesi stranieri:
Uganda, Burundi, ma, soprattutto, Rwanda. Sono questi stati a fomentare le
ribellioni. L’instabilità fa il loro gioco perché da essa traggono una
ricchezza notevole. Kinshasa non vuole intervenire, sia perché non ne ha la
forza, sia perché molti politici congolesi corrotti sono complici di questo
traffico».

In questi ultimi vent’anni è il Rwanda ad aver fatto la
parte del leone. Kigali ha finanziato molte milizie locali. Pensiamo all’M23,
un gruppo congolese a base etnica tutsi, che ha terrorizzato le zone di
frontiera. Proprio grazie ai finanziamenti e all’appoggio politico ruandesi ha
potuto controllare per anni la zona al confine tra Rwanda e Congo e sfruttae
a fondo le risorse minerarie, che venivano poi dirottate su Kigali. Ma, anche
dopo la sconfitta dell’M23 (2013), Kigali è rimasta la meta di buona parte dei
minerali preziosi, coltan e oro in particolare. Non è un caso che il Rwanda sia
diventato il primo esportatore mondiale di tantalio, estratto sotto forma di
coltan (vedi box sui minerali). Secondo le statistiche pubblicate a fine 2014
dalla Banca centrale di Kigali, nel 2013, ne ha esportato 2.466.025 kg, il 28%
del mercato mondiale del minerale, per un incasso di 134,5 milioni di dollari.
Nel 2014 ha raggiunto le 1.931 tonnellate per un controvalore di 87,4 milioni
di dollari. Il calo delle entrate è, in parte dovuto al calo della produzione,
in parte alla diminuzione del prezzo medio al kg. Il Goveo guidato dal
presidente Paul Kagame si è posto l’obiettivo di ottenere un guadagno di 400
milioni di dollari all’anno dal settore minerario entro il 2017. Ci riuscirà?
«Questi – osserva Triest – sono i dati ufficiali foiti dalla Banca centrale
ruandese. Non sappiamo quanto sia la reale capacità produttiva del paese e
quanto invece arrivi di contrabbando dall’Rdc. A nostro parere, il Rwanda sta
sfruttando le carenze della legge statunitense Dodd-Frank». Questa normativa
(vedi box) vieta l’importazione negli Usa di quattro minerali che si estraggono
nella Rdc. Coltan e oro vengono quindi portati in Rwanda (ma anche in Burundi e
Uganda), ed è qui che poi le multinazionali si approvvigionano acquistando
minerali «ripuliti». «È per questo motivo – sottolinea Triest – che abbiamo
chiesto che venga imposto un embargo alle nazioni che confinano con il Congo e
che la comunità internazionale imponga anche a Rwanda, Burundi e Uganda (e non
solo a Kinshasa) di sedersi a un tavolo di trattativa per riportare la pace
nella regione. È a questo tavolo che si deve discutere anche della questione di
una equa ripartizione delle risorse».

 
Le responsabilità

«Le responsabilità – osserva mons. Ambongo – sono
evidenti. Questo traffico sarebbe impossibile senza la partecipazione delle
autorità locali, che invece di pensare al bene comune, permettono lo scempio
del loro territorio e sono complici delle milizie; le autorità nazionali, che
non intervengono; le compagnie minerarie straniere, che sfruttano il
territorio, ma non pagano le tasse al paese e trasformano altrove i nostri
minerali; gli stati confinanti, che fomentano il caos per arricchirsi».

È la popolazione locale a pagare il prezzo più alto di
questa illegalità. Se, infatti, è vero che lo sfruttamento delle miniere
garantisce qualche provento ai congolesi, è anche vero che questi sono vittime
di sfruttamento e di violenze inaudite. Le miniere sono gironi infeali dove
uomini, donne e bambini sono costretti a scavare a mani nude o con mezzi di
fortuna per estrarre i minerali preziosi. Spesso le gallerie crollano facendo
numerose vittime, soprattutto tra i più piccoli. Se le persone non muoiono
lavorando, spesso si ammalano di malattie linfatiche a causa della
radioattività del terreno. Il costo sociale è elevatissimo. Migliaia di ragazzi
non frequentano la scuola. Molte donne sono vittime di violenze fisiche e
sessuali. Spesso le ragazze vengono avviate alla prostituzione. Chi può se ne
va, emigra verso altre regioni del Congo o all’estero. «I proventi delle
risorse minerarie – osserva Martin Kobler, responsabile della Monusco, la
missione Onu in Rdc – vanno a finire nelle mani di milizie che continuano ad
alimentare il conflitto invece di finanziare il sistema di infrastrutture
locali, le scuole, gli ospedali. Immaginate se potessimo spendere queste
centinaia di milioni di euro per pagare insegnanti, medici, e promuovere
business e turismo».

La Chiesa cattolica ha chiesto a più riprese alla
comunità internazionale di intervenire e di approvare normative inteazionali
che impediscano lo sfruttamento di questi minerali. «La legge Dodd-Frank –
conclude mons. Ambongo – è un’iniziativa che noi riteniamo positiva, anche se
va ulteriormente migliorata. Ci aspettiamo che anche l’Europa ne segua
l’esempio approvando una regolamentazione che impedisca l’utilizzo dei minerali
provenienti dalle zone di guerra della Rdc. Solo così si può creare un mercato
più trasparente e si possono spuntare le armi delle milizie e delle
organizzazioni che sfruttano il nostro territorio».

 

Repubblica
Centrafricana (Rca)

Pietre preziose e religioni

In Rca dal 2013 si
combatte una guerra a sfondo religioso. Ma il traffico dei diamanti e dell’oro
ne sono una molla imprescindibile. Le milizie sedicenti cristiane e musulmane
si finanziano tramite il traffico illegale dei minerali. In gran parte estratti
da bambini in condizioni deplorevoli.

Forse
i più giovani non sanno neppure chi sia. Ma per chi oggi ha tra i 45 e i 60
anni, Jean Bedel Bokassa, il folle dittatore che si incoronò imperatore del
Centrafrica, è un ricordo vivo con il suo sfarzo esibito in una nazione
poverissima e la sua crudeltà nei confronti degli oppositori. Fu lui, tra
l’altro, a far conoscere al mondo la ricchezza mineraria del suo paese. Lo
fece, destando scandalo, quando regalò all’allora presidente della Repubblica
francese, Valery Giscard d’Estaing, alcuni diamanti. Furono quelle pietre a
costare la rielezione al Capo dello Stato transalpino e a spalancare le porte
della presidenza a François Mitterrand.

Dopo la caduta di Bokassa nel 1979, si sono susseguiti
una serie di golpe che hanno gettato il paese in uno stato di instabilità
continua, con ampie porzioni di territorio fuori dal controllo del potere
centrale. Ciò ha fatto sì che le ingenti risorse minerarie non potessero essere
sfruttate in modo razionale e i loro proventi investiti nello sviluppo. Negli
anni, neanche le multinazionali hanno investito in Centrafrica, nonostante le
grandi potenzialità. Troppo poche le infrastrutture, troppi i rischi: estrarre
lì comporterebbe costi troppo elevati. Così, gran parte della produzione di
diamanti (ma anche dell’oro che viene estratto in abbondanza) viene messa in
commercio sul mercato nero e contrabbandata all’estero. La destinazione
principale è il Ciad dove i trafficanti vendono le pietre alle grandi
multinazionali che hanno i propri uffici a Ndjamena, la capitale.

Ancora una guerra

La guerra civile scoppiata nel 2013 non ha modificato
questo sistema, ormai collaudato da anni (cfr. MC ottobre 2013 e luglio 2014).
Anzi, se possibile, l’ha potenziato. Secondo alcune stime (per forza
incomplete), dal dicembre 2013, quando è stato attivato l’embargo
internazionale nei confronti del Centrafrica, sarebbero 140mila i carati di
diamanti, a essere stati contrabbandati fuori dal paese, con un valore pari a
24 milioni di dollari.

Alcuni osservatori inteazionali sostengono addirittura
che Séléka, il principale movimento ribelle di matrice islamica, proveniente
dalle province del Nord, sia stato finanziato da operatori del settore
diamantifero proprio per destituire François Bozizé, allora al potere.
Quest’ultimo aveva infatti siglato accordi con imprese minerarie sudafricane
per lo sfruttamento dei giacimenti di diamanti. Non è un caso che proprio i
soldati sudafricani abbiano difeso fino all’ultimo Bozizé (e che tredici di
essi siano morti).

Diamanti e guerriglia

I proventi di questo traffico vengono utilizzati dalle
milizie, sia i Séléka sia i loro avversari, chiamati anti-Balaka, per
acquistare armi, equipaggiamenti e cibo per i combattenti. Secondo gli esperti
dell’Onu, anti-Balaka e Séléka (o i gruppi che rimangono dopo il suo
scioglimento) impongono tasse sui minerali estratti e addirittura possiedono
centri di smistamento e di rivendita dei minerali preziosi.

Attraverso immagini satellitari, gli esperti hanno
notato che la produzione di diamanti è esplosa specialmente nella zona Nord
orientale controllata dagli ex Séléka, dove non è presente nessuna forza
internazionale. Nella miniera di Ndassima, vicino Bambari, anch’essa nelle mani
dei ribelli, avrebbero anche cercato di organizzare una catena di produzione e
una rete di distribuzione, concedendo licenze minerarie per lo sfruttamento.

Le miniere sono gironi infeali nei quali lavorano a
ciclo continuo uomini, donne e, soprattutto, bambini per pochi spiccioli al
giorno. È un modo per contrastare la miseria dilagante. In Centrafrica, il 60%
della popolazione vive con poco più di un euro al giorno, la metà è analfabeta,
l’Indice di sviluppo umano del paese è inchiodato agli ultimi posti della
classifica mondiale.

 
Sierra Leone

I diamanti della guerra

I diamanti della Sierra
Leone sono facili da estrarre. Già in epoca coloniale i britannici ne
approfittavano. Il paese ha poi vissuto una guerra civile molto violenta,
alimentata dal traffico della pietra preziosa. Ma il paese è ricco anche di
altri minerali e oggi il governo vuole investire sul settore. Così molti
giovani diventano minatori, ma le condizioni di lavoro sono terribili.

Quando
si parla di «diamanti insanguinati» balza subito alla mente la tragica guerra
civile che si è combattuta in Sierra Leone dal 1991 al 2002. Un conflitto che
ha fatto centinaia di morti e che si è alimentato con il contrabbando di pietre
preziose (e anche di oro). Sono ormai passati 13 anni dalla fine delle
ostilità, ma quel traffico non è cessato. Prosegue senza sosta e a pagae il
costo sono ancora le fasce più povere del paese e, in particolare, i bambini.
Oggi come allora, possiamo ancora chiamare quei diamanti «insanguinati»,
riferendoci al sangue di chi, tra mille sofferenze li estrae, anche se le armi
tacciono ormai da tempo.

Per comprendere meglio le dinamiche di questo mercato
distorto è forse utile fare un passo indietro risalendo ai tempi del
colonialismo britannico.

La scoperta dei
giacimenti

È negli anni Trenta che i britannici, che allora
controllavano la regione, scoprono ricchi giacimenti di diamanti. Sono pietre
di tipo alluvionale, si trovano cioè quasi in superficie e sono libere dalle
rocce. Estrarli è quindi semplice e non richiede l’impiego di tecnologie
sofisticate come avviene in Sudafrica, dove le pietre preziose si trovano nella
kimberlite e devono essere divise dalle rocce.

Per sfruttare questi giacimenti ricchissimi, Londra
cerca la collaborazione di alcune grandi compagnie minerarie e, dopo vari
contatti a livello internazionale, decide di dare la concessione a una
compagnia angloamericana: la Sierra Leone Selection Trust. Nel momento
in cui viene concesso il monopolio a questa compagnia, ogni altra società
mineraria od ogni altro individuo che estrae diamanti, lo fa in modo illegale.
Ma controllare i bacini diamantiferi è quasi impossibile. Le popolazioni locali
infatti comprendono immediatamente come sia facile estrarre le pietre e quale
grande valore esse abbiano. Quindi prende il via un’attività artigianale di
sfruttamento dei giacimenti che, sebbene contrasti la legge, diventa fiorente.

«In quel periodo – spiega Lorenzo D’Angelo, antropologo,
docente dell’Università Cattolica di Milano – l’estrazione artigianale aveva
anche una valenza politica. Era un modo per danneggiare gli interessi coloniali
perché sottraeva risorse alla potenza occupante. Già in periodo coloniale si
creano tensioni intorno alle miniere e alla loro gestione. Nella regione del
Kono, nasce addirittura un partito che rivendica una partecipazione maggiore
dei sierraleonesi nella gestione delle risorse».

Con l’indipendenza, però, la situazione non muta molto.
La nuova classe politica, legata ancora alla Gran Bretagna, lascia la gestione
dei bacini nelle mani della Sierra Leone Selection Trust. Ma, anche
quando il presidente-dittatore Siaka Probyn Stevens decide di nazionalizzare la
compagnia, lo fa non per favorire la crescita del paese, bensì per accaparrarsi
una fonte di reddito sicuro per sé e il suo gruppo di potere. Non è un caso
che, quando nel 1985 Stevens lascia il potere, il paese è allo stremo. Le
differenze sociali sono stridenti e la povertà dilaga. La Sierra Leone è come
un barile di dinamite pronto a esplodere alla prima scintilla.

La guerra civile

La scintilla si accende nel 1991 quando un gruppo di
soldati addestrati penetra dalla Guinea nella regione del Kono (dove si
concentrano i principali depositi diamantiferi) e inizia ad attaccare i
villaggi e a reclutare civili in modo forzato. Il conflitto si infiamma e si
estende a tutto il paese.

La guerra civile sierraleonese diventa famosa in tutto
il mondo per la brutalità con la quale viene combattuta: le stragi di civili
(alla fine i morti saranno 120mila), le mutilazioni di diverse migliaia di
persone, l’arruolamento di bambini soldato, le violenze sulle donne. E anche
per l’estrazione e l’esportazione illegale di diamanti.

«Da molte parti – continua D’Angelo – si sostiene che il
controllo dei bacini diamantiferi fosse la ragione più profonda del conflitto
sierraleonese. Io sono dell’avviso che la causa della guerra civile sia stata
l’ingiustizia sociale, la corruzione, lo sfruttamento. I diamanti servivano
solo ad alimentare il conflitto. Erano la merce di scambio con la quale le
parti acquistavano armi, equipaggiamenti e cibo. Certo, negli ultimi anni,
quando i miliziani hanno perso il senso di ciò che facevano, il controllo delle
miniere era un modo per arricchire i capi, ma all’inizio non era così».

L’esportazione avviene secondo uno schema già collaudato
prima della guerra. I diamanti vengono venduti dalle parti in conflitto all’estero
e da qui verso i mercati inteazionali. I paesi confinanti, Liberia e Guinea,
entrano nel novero dei maggiori esportatori di diamanti, pur avendo un numero
decisamente inferiore di miniere rispetto alla Sierra Leone. I proventi della
vendita delle preziose pietre non alimentano solo la guerra in Sierra Leone.
«Il traffico dei diamanti in Africa occidentale – osserva D’Angelo – viene
controllato in gran parte dalla comunità libanese che, già negli anni Ottanta,
destinava una parte dei proventi dell’estrazione illegale al sostegno delle
milizie che si combattevano in Libano».

Un popolo di minatori

La cessazione delle ostilità, dichiarata il 18 gennaio
2002 dal presidente Ahmad Tejan Kabbah, non cambia molto le cose. Il paese è
devastato da undici anni di guerra. Le infrastrutture sono distrutte. Le
attività commerciali devono essere rilanciate. La popolazione ha sofferto
moltissimo per le violenze. Nonostante gli aiuti inteazionali, la Sierra
Leone fatica a riprendersi.

La nuova classe politica scommette di nuovo sulle
risorse minerarie. Il paese, pur essendo molto piccolo, è ricchissimo non solo
di diamanti, ma anche di ferro, rutilio (utilizzato per produrre il titanio),
bauxite (indispensabile per produrre alluminio), oro, platino e cromo.

Molte miniere vengono riaperte. «Il valore del ferro in
piccole quantità è risibile e quindi l’estrazione a livello artigianale non ha
alcun senso – osserva D’Angelo -. Le miniere di ferro, come quelle di bauxite e
di rutilio, devono quindi essere sfruttate con tecnologie in grande scala cosa
che può essere fatta solo da grandi compagnie minerarie. Diverso il discorso
per l’oro e i diamanti».

In un paese dove la disoccupazione è altissima (70%) il
miraggio di diventare ricchi oppure anche solo di trovare un lavoro che
permetta di tirare avanti è fortissimo. Molti ragazzi diventano così minatori
artigianali. Lavorano fino a 20 ore al giorno per una paga che va dai 2 ai 5
euro e che arriva fino a 12 euro se trovano un diamante. I costi sociali sono
elevatissimi. I ragazzi (spesso bambini) abbandonano la scuola consegnandosi a
un futuro di analfabetismo.

Una ricerca dell’Ong Inteational Human Rights
ha denunciato le pessime condizioni di vita e di lavoro. I bambini sono
costretti a portare ogni giorno sulla testa sacchi di 30 e più kg e a vivere
nei giacimenti senza protezioni per gli infortuni. Il cibo è scarso e nei
villaggi non c’è assistenza medica.

Le miniere sono gestite da sierraleonesi che sono
riusciti a strappare una licenza di estrazione. Questi si prendono i minerali
estratti e sottopagano i minatori. I diamanti vengono poi venduti ai
commercianti all’ingrosso, in particolar modo i libanesi. Questi, a loro volta,
li immettono nel circuito internazionale, vendendoli ai centri di taglio
principali (Olanda, Belgio, Thailandia, Israele, Paesi del Golfo, ecc.).

Molto spesso chi dovrebbe verificare le condizioni di
lavoro e di sfruttamento dei giacimenti viene corrotto. Così i funzionari
governativi chiudono gli occhi di fronte all’uso e allo sfruttamento dei bambini.
Una parte di questo sistema alimenta anche il contrabbando. Alcuni minatori
sottraggono i diamanti ai loro capi e li rivendono all’estero. È un’impresa
rischiosa perché se vengono scoperti sono percossi e, talvolta, rischiano la
vita. La guerra non c’è più, ma i diamanti rimangono insanguinati.

 

Come si muove l’Unione
Europea

Una legge sui minerali

Anche l’Unione
europea vuole dotarsi di una legislazione sulla tracciabilità dei minerali
strategici, troppo spesso legati ai conflitti. Un primo importante passo è
stato compiuto lo scorso 20 maggio. Fondamentale è stata l’azione di advocacy
della società civile europea.

Il
20 maggio il Parlamento europeo ha approvato un testo che introduce la
tracciabilità obbligatoria per le 800mila imprese dell’Ue che utilizzano, per
la fabbricazione dei loro prodotti, i minerali provenienti da aree interessate
da guerre. Le imprese dovranno garantire informazioni «su tutte le misure prese
per identificare e risolvere i rischi connessi alla loro catena di approvvigionamento».
In pratica, si istituisce un sistema di tracciabilità dei minerali provenienti
da aree di conflitto. È un risultato positivo, frutto anche della azione di advocacy
della società civile europea, sia quella laica sia quella di ispirazione
cristiana. Però non bisogna illudersi. Il cammino è ancora lungo.

Un primo passo

Di tale normativa si parla da anni. Le lobby
industriali, sostenute dalle frange più conservatrici del parlamento, hanno
sempre fatto forti pressioni per evitare l’approvazione di una legge in questa
materia. L’obiezione che veniva (e viene ancora) posta era che una simile
normativa aumenterebbe i costi per le imprese europee (già in difficoltà per la
crisi economica) e le porrebbe fuori dal mercato.

Nel 2010, però, gli Stati Uniti hanno approvato la legge
Dodd Frank (vedi box pag. 40) che impone alle aziende statunitensi quotate in borsa,
e che utilizzano stagno, tantalio, tungsteno e oro nelle loro produzioni, di
certificare che questi minerali non provengono dalla Repubblica Democratica del
Congo e dai paesi confinanti. La legge americana si basa su un approccio di
tipo vincolante per tutte le compagnie quotate, fissa aree geografiche definite
e stabilisce con precisione a quali minerali si rivolge.

L’esempio degli Stati Uniti ha convinto anche l’Europa a
prendere provvedimenti in questo comparto. Così nel marzo 2014, la Commissione
europea ha presentato una proposta di regolamento che prevede un sistema di
autocertificazione per gli importatori di stagno, tantalio, tungsteno e oro. In
base a tale normativa, l’importatore può cioè autocertificarsi come importatore
responsabile, ma non ne ha l’obbligo. Di fronte a questo testo è insorta la
società civile che ha chiesto di introdurre requisiti «obbligatori» di
certificazione, di includere una gamma più ampia di imprese (tutta la filiera,
non solo gli importatori), di aumentare il numero di minerali interessati.

Certificazione
obbligatoria, ma …

All’inizio di quest’anno, il regolamento proposto dalla
Commissione europea è stato vagliato dalla Commissione per lo sviluppo e da
quella del commercio internazionale del Parlamento europeo. La norma è stata
modificata. La certificazione è stata resa obbligatoria, ma solo per le
fonderie e le raffinerie dell’Unione europea (tutti gli altri attori sono stati
esclusi) e anche la lista dei minerali è rimasta limitata a stagno, tantalio,
tungsteno e oro. Il 20 maggio scorso questo testo è poi arrivato in Parlamento
che lo ha discusso in seduta plenaria. Con 400 voti a favore, 285 contro e
sette astensioni, l’aula di Strasburgo ha approvato l’obbligo della
tracciabilità, non solo per le raffinerie, ma per l’intera filiera produttiva.
Il testo rafforza quindi la proposta che era stata avanzata dalla Commissione e
quella discussa da Commissione per lo sviluppo e da quella del commercio
internazionale del Parlamento europeo.

«È Stata una delle più belle battaglie della mia vita
parlamentare. Ringrazio i gruppi che l’hanno condivisa, mi rammarico per chi
non l’ha fatto – ha dichiarato alle agenzie Gianni Pittella, vicepresidente
vicario del Parlamento europeo e capogruppo dei Socialisti democratici -. Un
voto che mi ha emozionato perché è anche etico, rivoluzionario: la maggior
parte dei conflitti viene alimentata dalla produzione di “mineral conflicts”,
con le organizzazioni criminali che sfruttano le popolazioni. Se eliminiamo
questi interessi, eliminiamo questi conflitti o, almeno, aiutiamo a
eliminarli».

Questa normativa potrebbe avere un forte impatto non
solo sui conflitti, ma anche sulle aree di crisi. Il testo di legge infatti
include «le aree affette da conflitto»
ma anche quelle «ad alto rischio» cioè quelle con violenza diffusa,
collasso delle infrastrutture civili, aree in uno stadio di post conflitto,
regioni senza governo. Tra di esse, in particolare, la Repubblica Democratica
del Congo, paese ricchissimo di risorse e, al tempo stesso, caratterizzato da
continue violazioni dei diritti umani.

Economia e diritti

Il provvedimento ha profonde ricadute anche sulla nostra
vita quotidiana. I metalli presi in considerazione sono infatti molto presenti
negli oggetti che utilizziamo ogni giorno: computer, telefoni cellulari,
apparecchiature elettroniche ed elettriche, strumenti medicali, ecc. È stato
quindi compiuto un primo passo verso un’economia più rispettosa dei diritti
umani e delle popolazioni dei paesi del Sud del mondo.

«Abbiamo vinto una battaglia, non la guerra – osserva
però Nicolas Van Nuffel, presidente di Eurac (Réseau européen pour l’Afrique
Centrale
) -. Chiediamo al Consiglio e alla Commissione europea di prendere
in considerazione la posizione del Parlamento europeo per avviare una
discussione approfondita e arrivare infine all’approvazione di una legge». Ora
infatti toccherà ai singoli stati membri esprimere la loro posizione. In seguito
si apriranno negoziati tra Commissione, Consiglio e Parlamento. «Sappiamo per
esperienza – aggiunge Emmanuelle Devuyst del Jesuit
European Social Centre (i gesuiti sono stati molto attivi
in questa campagna) – che il Consiglio dell’Unione europea (che rappresenta i
governi degli stati membri) cercherà di depotenziare i risultati positivi
raggiunti in Parlamento. Dobbiamo convincere i nostri governi a rispettare le
decisioni dell’assise di Strasburgo».

«Gli Stati membri europei – ha aggiunto però più ottimista
Stefan Reinhold, cornordinatore dei lavori di advocacy compiuti da Cisde
(una rete di Ong cattoliche) – avranno ora la possibilità di sostenere e
rafforzare ulteriormente questa legislazione. Ci sono molti esempi provenienti
da tutta Europa, come la legge Due Diligence in Francia o la Mode
Slavery Act
nel Regno Unito, che mostrano una netta tendenza nel
regolamentare meglio le attività delle imprese, in modo da evitare il loro
coinvolgimento in violazioni dei diritti umani e dare garanzie ai cittadini di
non essere complici attraverso i propri acquisti».

In Italia, piccoli
passi

In Italia, nel frattempo, è già stata avviata la discussione in merito. Il 24 febbraio 2015 la
Commissione industria, commercio, turismo e quella politiche dell’Unione
europea del Senato hanno approvato una risoluzione nella quale si affermava che
fosse «opportuno rafforzare l’adesione delle imprese europee al regime di auto
certificazione della Due Diligence nella catena di approvvigionamento
dei minerali, prevedendone la obbligatorietà o, in subordine, prevedendo
specifici meccanismi di incentivazione all’adesione volontaria» e si aggiungeva
«che l’accesso all’autocertificazione di “impresa responsabile”, attualmente
prevista solo per le imprese importatrici» fosse «esteso anche alle imprese che
commercializzano prodotti finiti contenenti i minerali contemplati dalla
proposta di regolamento».

Questa risoluzione però è stata approvata sulla base del
testo della Commissione europea oggi superato dal documento passato in
Parlamento. Quindi è necessario che il Parlamento stimoli il governo a prendere
atto delle novità e ad agire di conseguenza nelle sedi europee. «Il nostro
Esecutivo – osserva Lia Quartapelle, deputata del Pd e membro della Commissione
esteri della Camera – deve prendere atto della necessità, evidenziata dal testo
approvato a Strasburgo, di rendere obbligatoria la certificazione. Allo stesso
tempo, il governo deve far sì che le aziende, soprattutto quelle di piccole e
medie dimensioni, possano accedere ai fondi europei che permettano alle imprese
di far fronte ai maggiori costi che la tracciabilità impone». Proprio Lia
Quartapelle ha presentato a giugno un’interpellanza urgente per chiedere conto
al governo della posizione italiana in Europa su questo tema. La risposta è
attesa per i primi di luglio.

 

Questo dossier

Enrico Casale: giornalista, africanista, lavora alla
Fondazione Magis (Ong dei Gesuiti italiani) e collabora con alcune testate
missionarie e Radio Vaticana. Casale è da anni collaboratore di MC sui temi africani.

Le foto di questo dossier:
• In prima pagina: una donna mostra minerali di rame in Rdc.

• In ultima pagina: minatori della Gecamines, nel Kolwezi,
Rdc.

Le foto del dossier sono gentilmente offerte da Fairphone,
in regime di Creative commons, e da IrinNews.

Dossier a cura di: Marco Bello, redazione MC.

Tags: materie prime, guerre, minerali insanguinati, coltan, traffico materie prime, tracciabilità minerali, minerali, Africa, RD Congo, Centrafrica, Sierra Leone

Enrico Casale




Cambogia: Troppi incubi, pochi sogni

La genesi della
tragedia e la tristezza del presente
Le?colpe di Sihanouk,
l’acrobata

Quarant’anni fa – era
il 17 aprile 1975 – i Khmer Rossi di Pol Pot entrarono nella capitale Phnom
Penh. Rimasero al potere per tre anni e nove mesi, fino all’invasione del
Vietnam. Come troppo spesso accade, le tragedie legate a quegli eventi non sono
mai state spiegate con obiettività. Anche per questo, la Cambogia del 2015 è un
paese degradato e corrotto, che sta perdendo tutte le sfide.

La Cambogia celebra quest’anno il quarantesimo
anniversario dell’arrivo dei Khmer Rossi a Phnom Penh. Il 17 aprile 1975
iniziava il periodo che oggi viene ricordato come Samai Pol Pot, l’era di Pol
Pot (il cui vero nome era Saloth Sar, 1925-1998). Un termine, Samai Pol Pot,
che più di ogni altro indica la forza con cui i tre anni e nove mesi di governo
dei Khmer Rossi (fino al 7 gennaio 1979, vedi scheda storica a pag. 40)
vengono (erroneamente) attribuiti alla responsabilità di un solo uomo, Pol Pot,
appunto.

Quella del 17 aprile è, da sempre, una ricorrenza
rievocata in modo diverso e controverso da chi ha vissuto gli anni di «Kampuchea
Democratica», il nome ufficiale dato al paese dai Khmer Rossi a partire dal
1976, e da chi, invece, non ha conosciuto in modo diretto difficoltà e
sofferenze patite da padri o nonni. Secondo le statistiche delle Nazioni Unite,
più del 70% dei cambogiani ha meno di quarant’anni. Il che indica
l’assottigliarsi di quella fetta di popolazione che è stata diretta testimone
di un periodo storico di cui ancora troppo poco si parla e che non si è
analizzato con sufficiente obiettività. A rendere più delicata e problematica
la trasmissione della memoria è la cronica ritrosia psicologica con cui chi ha
subito il trauma della Samai Pol Pot parla tra le mura familiari delle proprie
esperienze. Questo ha portato una netta frattura nella società cambogiana
divisa appunto tra chi ha conosciuto Kampuchea Democratica e chi è nato negli
anni successivi.

Fatta questa premessa, va detto che il dramma del popolo
cambogiano non è iniziato con l’arrivo dei guerriglieri a Phnom Penh. Quello è
stato solo l’atto finale di una tragedia che ha avuto innumerevoli attori e
altrettanti scenari. A cominciare da Norodom Sihanouk (1922-2012), regista
degli eventi precedenti il 1975, uomo pieno di contraddizioni, sicuramente la
figura più ambigua del panorama politico cambogiano.

 

Il sovrano, la
guerriglia, gli Stati Uniti

Fu Sihanouk il primo a gettare benzina sul fuoco della
nascente (e allora ininfluente) guerriglia comunista sin dalla metà degli anni
Sessanta. Il suo governo, corrotto e inaffidabile, gestiva l’intera economia
del paese come fosse stata proprietà privata, mentre la repressione della
polizia, abbinata alle strette maglie della censura, garantiva il tacito
assenso popolare.

Solo un manipolo di intellettuali ebbe il coraggio di
opporsi. Facevano parte dei circoli della sinistra parlamentare e avevano
contatti con i guerriglieri comunisti, ma nessuno di loro era mai stato
coinvolto in azioni militari né aveva intenzione di partecipare alla lotta
armata. La simpatia che questi ideologi, conosciuti per la loro abnegazione e la
loro incorruttibilità, destavano tra i movimenti studenteschi e tra i
contadini, indusse Sihanouk a cercare ogni pretesto per eliminare la loro
scomoda presenza. Tre, in particolare, erano le figure più spinose per il
monarca: Khieu Samphan, Hou Youn e Hu Nim, che in seguito diverranno membri di
spicco tra i Khmer Rossi in forte contrapposizione, in particolare gli ultimi
due, con la politica di Pol Pot. Hou Youn e Hu Nim verranno assassinati dai
loro stessi compagni dopo il 1975.

Nel 1967 si concluse il primo atto della tragedia
cambogiana: Sihanouk costrinse i tre politici alla fuga con la minaccia della
prigione e dell’esecuzione capitale. Non si seppe più nulla di loro, tanto che
il popolo cominciò a soprannominarli «i tre fantasmi». Riappariranno solo dopo
il 1970, quando l’atto finale del dramma si starà avviando alla conclusione.
Nel frattempo furono proprio questi «tre fantasmi» a delineare le basi
ideologiche del movimento comunista, mutuandole dall’esperienza del loro
soggiorno in terra di Francia nell’immediato dopoguerra. E sarà poi Pol Pot,
anche lui reduce da un lungo (e scolorito) periodo francese, a stravolgere
quasi completamente la loro elaborazione ideologica, radicalizzandola al fine
di bruciare i tempi necessari per trasformare una società agricola e
sottosviluppata in un immenso campo collettivistico.

Nella visione di Hou Youn, Khieu Sampahn e Hu Nim, la
politica rurale che la Cambogia liberata avrebbe dovuto ricalcare e
intraprendere avrebbe dovuto essere quella maoista, con una ridistribuzione
delle terre e un generale trasferimento della popolazione dalle città alle
campagne. L’ascesa di Saloth Sar e Ieng Sary ai vertici del partito durante gli
anni Settanta, pur conservando gran parte delle idee espresse dai «tre fantasmi»,
scardinò il programma della loro attuazione, accelerando in modo insostenibile
le tappe.

Il sipario si riaprì il 18 marzo 1969, poche settimane
dopo che Washington e Phnom Penh ebbero riallacciato le relazioni diplomatiche
interrotte da Sihanouk. Quel 18 marzo 1969 sarebbe poi passato alla storia come
il giorno in cui iniziarono i bombardamenti «segreti» degli Stati Uniti sulla
Cambogia per stanare i Viet Cong dai loro santuari appostati lungo il confine.
Per quattordici lunghi mesi, i B-52 appartenenti a un paese straniero
lasciarono cadere tonnellate di esplosivo e napalm su villaggi che,
formalmente, non facevano parte di una nazione in guerra (la Cambogia, infatti,
si era sempre dichiarata neutrale cercando attentamente di evitare il
coinvolgimento nelle ostilità).

Decine di migliaia di persone, la stragrande maggioranza
delle quali innocenti e inermi contadini, furono vittime di uno dei più
inutili, criminali e vigliacchi atti di distruzione a cui la storia abbia mai
assistito. Inutili, perché la distruzione delle basi «Charlie» (così erano
soprannominate le basi dei Viet Cong), anziché costringere i guerriglieri a
uscire allo scoperto, li spinsero sempre più all’interno della Cambogia.
Criminali, perché niente può giustificare la morte di civili in una guerra (e più
le armi si fanno sofisticate e «intelligenti», maggiore è la sproporzione tra
le vittime civili – la stragrande maggioranza – e militari). Vigliacchi, perché
chi seminava morte e distruzione non era tenuto ad avere il coraggio di
guardare negli occhi chi moriva a causa sua.

La crescita e la
vittoria dei Khmer Rossi

Le bombe che «innaffiavano» le risaie cambogiane, si
trasformarono in sementi per il minuscolo e pressoché inerme movimento di
guerriglia locale, i semisconosciuti (allora) Khmer Rossi. Un termine, Khmer
Rossi (khmer krohom), coniato in senso dispregiativo da Sihanouk nel
1966, che, così come fu per i Viet Cong, si trasformò in un potente simbolo
propagandistico del movimento guerrigliero.

Lo stesso Sihanouk, nel 1955 in uno dei suoi rari momenti
di lucida saggezza, descrisse con sorprendente intuizione un eventuale paese
governato dai comunisti: «Non ci sarà felicità. Tutti lavoreranno per il
governo. Nessuno guiderà macchine o moto o indosserà bei vestiti: tutti
vestiranno di nero, tutti esattamente allo stesso modo. Non ci saranno cibi
gustosi da mangiare. Se tu mangerai più di quanto ti sia concesso, il governo
verrà a saperlo segretamente dai tuoi figli, sarai portato via e ucciso».

Alla fine degli anni Sessanta, i Khmer Rossi erano solo
duemila, tutti sotto la direzione del Partito dei Lavoratori della Repubblica
Democratica del Vietnam e tutti con mansioni di gregari. Il loro esercito (se
così si poteva chiamare) nel 1969, quando iniziarono i bombardamenti, contava sì
e no qualche decina di guerriglieri dotati di vecchi fucili, retaggio della
Seconda Guerra mondiale e totalmente inadeguati alla lotta armata.

Un anno dopo, il gruppo, a cui nel frattempo aveva dato
il suo appoggio re Sihanouk (incurante della sua stessa profezia), spodestato
il 19 marzo 1970 da Lon Nol con l’aiuto della Cia, aveva ancora tremila unità,
salite a diecimila alla fine del 1970.

Nel frattempo i bombardamenti, non più segreti perché a
Washington erano stati svelati a un attonito Congresso, furono sospesi, ma la
miccia comunista era stata accesa e nessuno sarebbe stato più in grado di
spegnerla.

Nel marzo 1973, quando la guerra si era allargata in
tutta la Cambogia, il Pentagono decise di dare avvio a una seconda campagna per
estirpare il «cancro rosso». Cinque mesi più tardi la cura venne di nuovo
sospesa dal Congresso, ma nel frattempo erano cadute al suolo 250.000
tonnellate di esplosivo.

Fu durante questa seconda fase che i Khmer Rossi
riuscirono a far fruttare tutta la loro potenza ideologica e politica. In breve
tempo collettivizzarono i territori liberati e, già nel 1974, l’esercito
governativo di Lon Nol si limitava a controllare solo le città più importanti.

La resa del 17 aprile 1975 fu, quindi, l’ultimo atto di
una serie di clamorosi errori sociali, politici e tattici commessi sia dagli
Stati Uniti, sia dagli stessi politici cambogiani susseguitisi alla guida dei
governi del paese.

Il 17 aprile 1975 tutta la nazione cadde nelle mani
dell’allora sconosciuto Saloth Sar, che l’anno seguente diverrà primo ministro
(mantenendo la carica di segretario del Partito comunista) col nome di Pol Pot.

Pochi giorni prima, i cittadini di Phnom Penh, stremati
e impauriti da una guerra imposta da stranieri, avevano visto un elicottero
atterrare sul tetto dell’ambasciata statunitense. Assieme a pochi eletti, vi
era salito anche l’ambasciatore John Gunther Dean. Tra le mani stringeva un
fagotto piegato alla bell’è meglio: la Stars and Stripes. La bandiera
era sventolata per la prima volta in una Cambogia relativamente felice,
prospera e pacifica. Quel giorno la lasciava devastata, miserabile e con un
futuro incerto: nessun cambogiano, allora, rimpianse la sua partenza.

La Cambogia, coinvolta suo malgrado nella guerra del Sud
Est asiatico, sembrò ritrovare la via della pace. Così non fu.

 

L’esperimento finì a
«S-21»

Kampuchea Democratica fu un esperimento unico e
drammatico. Tuttavia, a differenza di quanto la nostra idea ci porti a
immaginare, la vita sociale, i rapporti comunitari, gli orari di lavoro,
persino le libertà individuali dei cambogiani tra il 1975 e il 1979 furono
differenti da regione a regione a seconda delle autorità locali preposte al
controllo. All’indomani della vittoria del 17 aprile, i Khmer Rossi suddivisero
la Cambogia in sei aree: Zona Sudovest, Est, Nordest, Nord, Nordovest e Zona
Speciale, comprendente i territori attorno a Phnom Penh.

All’interno delle singole Zone esistevano vere e proprie
isole «autogestite» dove nei primi mesi della liberazione e, in certi casi,
ancora nel 1978, la gente viveva senza grossi problemi e traumi: i nuovi arrivati,
evacuati dalle città, ricevevano il medesimo trattamento riservato ai contadini
appartenenti al «popolo base» dividendo con loro lavoro e cibo senza subire
alcuna discriminazione. In certe aree la fedeltà dei contadini ai principi
della rivoluzione permetteva addirittura di evitare la presenza di militari
nelle vicinanze. In alcune province esistevano ospedali che, grazie alla scorta
di medicine e alla presenza di medici e infermieri se non professionisti per lo
meno esperti, funzionavano decentemente, garantendo riposo e adeguata
alimentazione ai pazienti. In altri distretti i bambini continuarono a
frequentare le scuole senza essere separati dalle loro famiglie. Vi erano
regioni in cui, se, al termine della giornata di lavoro, non si raggiungeva la quota
prescritta dai quadri, non era prevista alcuna penale e si riceveva la quantità
di cibo regolarmente prescritta.

Anche questa, comunque, differiva in quantità, qualità e
dieta da regione a regione. Nel peggiore dei casi si riceveva un barattolo
(circa duecentocinquanta grammi) di paddy a testa al giorno (riso non
brillato; cento chilogrammi di paddy foiscono in media sessanta chili
di riso) o, in mancanza di riso, farina d’avena con l’assoluta proibizione di
procurarsi alimenti alternativi. Altre testimonianze indicano che il cibo non
fu mai un problema, potendo ottenere tre barattoli al giorno di riso per
persona a cui si aggiungeva frutta, verdura e, in casi speciali, pezzi di
carne, mentre nel tempo libero si poteva pescare e raccogliere i prodotti della
foresta.

Perfino la nuova moneta rivoluzionaria, prima di essere
completamente abolita nel settembre 1975, ebbe altee fortune circolando in
regioni sempre più ristrette. Al suo posto fiorì il baratto, di cui si servì il
«popolo del 17 aprile» per comprare alimenti. Alcune testimonianze affermano
che la parità di scambi variava di zona in zona seguendo le fluttuazioni della
domanda e dell’offerta: un damleung (l’unità di peso cambogiana
equivalente a 37,5 grammi) d’oro garantiva settanta scatole di paddy
subito dopo la vittoria dei Khmer Rossi, scendendo a venti barattoli un mese più
tardi, mentre in altre zone con la stessa quantità d’oro si potevano ottenere a
scelta trentacinque chili di riso, venti di sale, cinque di zucchero, cinque di
prahoc (pasta di pesce fermentata) o un chilo di zuppa in polvere. Anche
le medicine, sempre più rare a trovarsi, avevano un preciso valore di scambio:
a Kompong Cham, una delle principali città cambogiane, prima che il baratto
fosse proibito, un chilogrammo di riso veniva barattato con una compressa di
aspirina, mentre se ne potevano ottenere sette per un fiala di vitamina B12; un
flacone di streptomicina poteva valere quindici chili di riso.

Anche l’orario lavorativo si allungava o restringeva
secondo il volere della dirigenza locale. C’erano comunità che lavoravano
ininterrottamente per dieci giorni per quattordici ore al giorno, riservando il
giorno di riposo a interminabili riunioni politiche di autocritica o di
denuncia. In altre, invece, erano rispettate le otto ore di lavoro con il
decimo giorno riservato alle proprie incombenze personali.

Neppure sulle restrizioni ideologiche imposte dal nuovo
regime c’era uniformità di vedute: mentre in molti casi si assistette a
esecuzioni sommarie di soldati del disciolto esercito di Lon Nol, di ex
funzionari governativi, di intellettuali, di dissidenti o di persone poco
inclini al lavoro manuale, in altri queste stesse categorie poterono
sopravvivere convivendo pacificamente con il resto della popolazione.

Solo dopo il 1976, con l’istituzione pressoché
generalizzata delle mense comuni, cominciarono a esserci i primi attriti su
scala nazionale, generalmente dovuti a un ricambio dirigenziale voluto dal
governo di Saloth Sar (Pol Pot).

Da quel momento le condizioni di vita in Kampuchea
Democratica divennero insostenibili per la maggior parte dei cambogiani. Le
purghe all’interno del partito falciarono i rivoluzionari più moderati e oggi è
possibile visitare alcuni dei simboli più nefasti di quel periodo: la prigione
S-21 a Phnom Penh (oggi Museo del genocidio) e Choeng Ek, dove i prigionieri
della S-21 venivano portati a morire. Qui, dove circa sedicimila persone
vennero torturate e, in seguito, uccise con le accuse più disparate che
andavano dall’attività controrivoluzionaria a essere spie della Cia o del Kgb, è
concentrata tutta la ferocia del governo di Pol Pot.

Le due zone in cui la popolazione fu sottoposta alle
condizioni più brutte e meno brutte furono rispettivamente la Zona Sudovest (di
Ta Mok) e quella Orientale (di So Phim).

La Zona Sudovest, posta sotto il comando di Ta Mok, un
comandante militare fedelissimo a Pol Pot, fu una delle regioni che implementò
con maggior vigore le direttive del governo centrale in materia di ordinamento
sociale e ideologico. Già prima della caduta di Phnom Penh, i contadini di
questa zona ebbero a lamentarsi dei metodi troppo rudi imposti dai loro capi,
giungendo anche a organizzare delle ribellioni che indussero il partito ad
allentare, almeno temporaneamente, la morsa. Per contro, la Zona Orientale,
amministrata dal moderato So Phim, alleggerì le misure radicali imposte alla
popolazione dal governo centrale garantendosi l’appoggio sincero dei cambogiani
sotto la sua giurisdizione attraverso un miglioramento delle condizioni di
vita, un ritmo di lavoro meno ferreo, una certa libertà di movimento, la
protezione dell’integrità dei nuclei familiari. Certamente la superiorità dello
stile di vita degli abitanti della Zona Orientale era dovuta anche al fatto che
le sue risaie foivano alla nazione una quantità di cereale seconda solo alla
provincia di Battambang, ma il governo di So Phim contrapposto a quello
intransigente di Ta Mok avrebbe potuto essere additato dal governo di Phnom
Penh come esempio da imitare. Invece il governo centrale interpretò il relativo
benessere come una prova della distorsione ideologica che stava infettando i
quadri del partito, intraprendendo una serie di azioni che, alla fine,
emarginarono So Phim dalla cerchia dirigenziale, decretandone prima
l’espulsione e poi la morte. A rendere insostenibile la posizione di So Phim,
contribuì anche la collocazione geografica della Zona Orientale, posta ai
confini con il Vietnam, cosa che induceva l’ala dura dei Khmer Rossi a credere
che Hanoi stesse infiltrando spie e collaborazionisti al fine di sottomettere
l’intera nazione cambogiana.

 

L’invasione del
Vietnam

Lo scontro fu inevitabile e il 7 gennaio 1979 le truppe
vietnamite entrarono a Phnom Penh decretando la fine di Kampuchea Democratica.

L’invasione vietnamita (perché di invasione si trattò)
portò il mondo occidentale a insorgere pressoché compatto contro quella che
esso considerava una guerra di espansione ai danni di un governo regolarmente
accettato sul piano diplomatico internazionale. A chi giustificava l’intervento
di Hanoi portando le prove della durezza del governo di Pol Pot, veniva
risposto che nessun paese aveva il diritto di imporre la propria politica a un
altro, anche se questo negava i diritti umani dei propri cittadini. Poche
settimane dopo, però, si consumò un altro dramma del tutto simile a quello in
atto nel Sud Est Asiatico: in Africa, le forze armate tanzaniane costrinsero il
dittatore ugandese Amin Dada a lasciare il potere, sostituito da Obote. Questa
volta il colpo di stato non venne condannato dall’Occidente che, anzi, mostrò
chiari segni di approvazione.

Il confronto tra i due avvenimenti venne portato come
esempio di faziosità dell’Occidente da chi riteneva giustificato il
rovesciamento cruento di Pol Pot.

Le Nazioni Unite continuarono per diversi anni a
riconoscere Kampuchea Democratica come legittimo e unico rappresentante del
popolo cambogiano. La guerra civile cambogiana si protrasse fino al 1998, anno
in cui Pol Pot morì dopo essere stato processato e accusato di tradimento dai
suoi stessi ex compagni.

Le regioni occidentali, assieme ad Anlong Veng, la
cittadina nella quale si era arroccata la dirigenza comunista, passarono sotto
il controllo di Phnom Penh che, per evitare il pericolo di una nuova rivolta,
vi incentivò il trasferimento di nuovi abitanti in modo da diluire la
componente fedele ai Khmer Rossi.

Ancora oggi un viaggio ad Anlong Veng e a Pailin,
l’altra città sul confine thailandese rifugio degli ultimi dirigenti khmer
rossi, rappresenta una sorta di deja vu nella storia cambogiana. Non è
raro incontrare gente che ricorda con nostalgia il periodo in cui erano i Khmer
Rossi ad amministrare la regione: i lavori di sviluppo agricolo intrapresi
sotto la direzione dei tecnici comunisti dopo gli anni Ottanta, avevano portato
un benessere diffuso e il livello di vita degli abitanti era decisamente
superiore a quello registrato nelle zone poste sotto il controllo governativo.
La vicinanza con il confine thailandese garantiva, inoltre, un rifoimento
pressoché continuo di qualsiasi tipo di manufatti e prodotti provenienti da
tutto il mondo.

 

Hun Sen,
padre-padrone

La resa dei Khmer Rossi nel 1998 obbligò la comunità
internazionale a chiedere a gran voce un processo per i crimini da loro
commessi tra il 1975 e il 1979. Un atto dovuto, ma che non ha mai fatto piacere
a nessuno.

Un processo equo coinvolgerebbe troppi attori che
dovrebbero dare spiegazioni sui loro comportamenti prima, durante e dopo
l’avvento dei Khmer Rossi al potere. L’Occidente e le stesse Nazioni Unite
dovrebbero, ad esempio, spiegare gli aiuti diplomatici, finanziari e militari
dati ai Khmer Rossi dopo il 1979; Sihanouk (morto nel 2012) avrebbe dovuto
spiegare a un’eventuale giuria (obiettiva) le sue acrobatiche manovre politiche
per restare aggrappato al trono regale sostenendo la dirigenza khmer rossa sin
dal 1970; Hun Sen, attuale primo ministro e da tempo padre-padrone della
nazione, avrebbe dovuto raccontare come aiutò Pol Pot a conquistare il potere e
come si trasformò nel suo più violento accusatore.

La scuola non è ancora pronta ad affrontare seriamente
il periodo di Kampuchea Democratica. Quattro decenni, se possono sembrare tanti
per la nostra percezione del tempo immediato, sono un’inezia per la storia e
per potersi confrontare con essa con obiettività.

La Cambogia post Khmer Rossi è corrotta nel suo interno.
Nell’animo, si potrebbe dire. Le speranze di ricostruire un paese nuovo, libero
e moralmente virtuoso, si sono infrante di fronte agli scogli del potere. Un
potere personificato in primo luogo dai politici: da Hun Sen, al governo
ininterrottamente dal 1993, ma anche dall’inconcludente Sam Rainsy, esponente
di spicco dell’opposizione.

Non sorprende, quindi, il disinteresse con cui i
cambogiani hanno seguito e stanno seguendo le fasi del processo (scheda a
pag. 40
). Fatto che dimostra quanta sfiducia vi sia nella nuova classe
dirigente.

 

Angkor, specchio del
degrado

La Cambogia, paese relativamente poco popolato (15
milioni di abitanti sparsi su 181 mila kmq), potrebbe essere una nazione tra le
più ricche del Sud Est Asiatico. Un sottosuolo ricco di rubini, un terreno
fertile e attraversato da innumerevoli corsi d’acqua, un mare e un lago, il
Tonle Sap, pescosi e alcuni dei siti archeologici più straordinari al mondo
potrebbero garantire un relativo benessere a tutta la popolazione.

Eppure così non è. La Cambogia non è mai riuscita a
superare lo stallo di Kampuchea Democratica.

L’evidenza dell’inefficienza e dell’incuria con cui le
autorità locali e nazionali (con la complicità della comunità internazionale)
trattano la stessa cultura khmer si manifesta ad Angkor, sito in cui ogni anno
si riversano più di due milioni di persone trasportate da pullman, tuc tuc, macchine private, motorette.
Una volta scese, le masse di turisti invadono i centri archeologici senza rispettare
le più elementari regole di educazione artistica e storica. Più che dai Khmer
Rossi e dalle guerre, Angkor è stato e continua a essere devastato
dall’inquinamento e dagli eserciti dei turisti, la maggior parte dei quali si
dimostra completamente disinteressata a tutto quello che il sito archeologico
rappresenta. Da parte loro i funzionari ministeriali si preoccupano solo di
accrescere il numero dei visitatori, visto che ognuno di essi paga la bellezza
di 20 dollari al giorno per visitare il sito.

L’esempio di Angkor, della corruzione dilagante e del
degrado morale a cui si è ridotta la società cambogiana rimangono i cavalli di
battaglia di chi cerca di rivalutare, se non Kampuchea Democratica, almeno la
classe dirigente Khmer Rossa. E, con la classe politica che oggi governa la
Cambogia, non è difficile trovare chi, seppur provocatoriamente, rimpiange il
passato.•

Tags: Cambogia, Khmer Rossi, Pol Pot, massacri, genocidio, Vietnam

Piergiorgio Pescali




Un milione e settecentomila

Le vittime dei Khmer rossi


Sul numero delle
vittime del regime khmer in tanti hanno giocato per proprie finalità. Nel
tentativo di avvicinare la verità storica, proviamo a fare qualche
considerazione e qualche calcolo. 

 

Sin
dalla caduta del regime di Kampuchea Democratica a Phnom Penh, sono state
emesse un’infinità di cifre sulle vittime causate dai tre anni e otto mesi di
potere Khmer Rosso. I numeri venivano arbitrariamente gonfiati o ridotti a
seconda della convenienza di chi foiva le cifre, privando di ogni coerenza i
supposti calcoli utilizzati per trarre il numero definitivo. Ad esempio, i
primi a fornire un numero ufficiale dei morti furono i vietnamiti. Ansiosi di
ottenere l’appoggio internazionale per la loro azione di invasione militare,
gonfiarono artificialmente le cifre, che ben presto raggiunsero i quattro
milioni (su una popolazione che, nel 1975, non raggiungeva gli otto milioni di
abitanti). Viceversa, stime più contenute indicavano i cambogiani periti tra le
ottocentomila e il milione di unità. A complicare ulteriormente i conteggi,
c’era il fatto che l’ultimo censimento ufficiale fatto in Cambogia risaliva al
1962.

Un primo calcolo «scientificamente» attendibile in
questo senso fu fatto da un gruppo di analisti solo alla metà degli anni
Novanta, acquisendo i pochi dati ufficiali redatti prima, durante e dopo
l’avvento di Pol Pot al governo ed elaborandoli con formule matematiche.

La base comune, accettata da quasi tutti i demografi,
per risalire alle perdite umane del periodo Khmer Rosso, fu la stima fatta nel
1970 da Jacques Mingozzi, secondo cui la popolazione cambogiana al tempo
ammontava a 7.363.000 unità1. La recrudescenza della guerra e i bombardamenti
statunitensi rallentarono il tasso di crescita, normalmente alto, nei
successivi cinque anni, tanto che alla metà del 1974, stime dell’Onu,
suffragate da calcoli di Ong straniere operanti nel territorio, contavano
7.890.000 cambogiani. Una cifra non irreale, tenuto conto che, nel marzo 1976,
la stessa Kampuchea Democratica fece ufficialmente sapere tramite Radio Phnom
Penh, che la popolazione che viveva sotto il suo controllo era di 7.735.279
persone2. Da quel momento non si ebbero più notizie attendibili
sulla popolazione del paese fino alla caduta del regime.

Nel gennaio 1979 si cercò di fare una prima stima della
popolazione cambogiana conteggiando le derrate alimentari distribuite, i capi
di vestiario, le case e i villaggi. Si arrivò così a formare un raggio di un
minimo di 6 milioni e massimo di 6,7 milioni di persone3,
con una prevalenza di stime verso il basso (6.130.000 abitanti, secondo l’Fbi)4.

Ben Kiean, nel suo libro The Pol Pot Regime, è
forse l’unico ad aver tentato di dare una stima scientifica sulle perdite
cambogiane durante Kampuchea Democratica, dividendo le vittime secondo i
criteri di classificazione del nuovo regime: «Popolo Nuovo» e «Popolo Base».
Alla prima classe sociale appartenevano 3.050.000 cambogiani, di cui, al 17
aprile 1975, solo 610.000 erano dislocati nelle campagne. A parte i vietnamiti
(10.000, tutti urbanizzati), il gruppo che subì maggiori perdite fu quello
cinese: 215.000 su un totale di 430.000 (50%) morirono prima della caduta del
regime. Dei due milioni di khmer residenti nelle città (principalmente Phnom
Penh) alla vigilia della liberazione, 500.000 (pari al 25%) perirono, a cui se
ne devono aggiungere altri 150.000 (su un totale di 600.000) residenti nelle
campagne. Il totale delle vittime del Popolo Nuovo fu di 879.000 (29%).

Una percentuale inferiore colpì il Popolo Base: su
4.840.000 componenti, 792.000 soccombettero alle privazioni del regime (16%).
Anche in questo caso i gruppi etnici non-khmer ebbero le perdite maggiori:
tralasciando i vietnamiti, furono i Thai e i Khmer Krom a subire i lutti più
numerosi, mentre i Cham musulmani ebbero il maggior numero di morti in assoluto
dopo i Khmer (90.000 vittime su una popolazione pre 1975 di 250.000 unità).
Solo i tribali, considerati da Pol Pot gruppo a lui fedele tanto da scegliere
le proprie guardie del corpo tra le loro file, ebbero una percentuale di morti
pari a quella che colpì i Khmer: 15%.

In totale, durante il regime di Pol Pot, su 7.890.000
cambogiani in vita il 17 aprile 1975, 1.671.000 morirono (21%). C’è però da
notare che non tutti furono vittime dirette delle violenze dei Khmer Rossi: la
maggioranza morì per affaticamento da superlavoro, stress psicofisico,
malattie, malnutrizione e denutrizione, mentre solo una parte (si stima circa 3-400.000)
caddero vittime delle epurazioni.

 

Rimpallo di
responsabilità

Anche il governo di Kampuchea Democratica è intervenuto
diverse volte sulla questione delle vittime perite durante il periodo di
potere. La prima menzione fu fatta da Pol Pot stesso nel dicembre 1979, quando
quattro giornalisti giapponesi ebbero la possibilità di intervistarlo in un
campo di addestramento nella giungla cambogiana. Il leader khmer affermò che «solo
diverse migliaia di kampucheani possono essere stati uccisi a causa di qualche
errore nel mettere in pratica la nostra politica di provvedere una vita decente
al nostro popolo». Le accuse di milioni di morti, rivolte al suo governo da
parte dei vietnamiti, vennero liquidate come montature5.
Subito dopo, l’11 e 12 dicembre 1979, a una televisione statunitense, l’Abc (American
Broadcasting Corporation
), ancora Pol Pot paragonava i vietnamiti a Hitler
denunciando la «guerra di genocidio» che stavano conducendo contro il popolo
cambogiano: «Hitler uccise gli ebrei e quelli che si opponevano a lui. Il
Vietnam uccide coloro che si oppongono al suo volere e la gente innocente che
non si unisce alla sua guerra contro la Cambogia».

In una terza serie di interviste, questa volta concesse
a dei giornalisti svedesi, Pol Pot minimizzò ulteriormente il numero dei
cambogiani uccisi durante il suo governo: «Il numero di persone morte a causa
dei nostri errori fu soltanto di poche centinaia».

Nel 1987 il portavoce dei Khmer Rossi, Khieu Samphan,
fece notare che meno di 3.000 persone morirono in Kampuchea Democratica come
risultato degli «errori» del regime. Khieu Samphan, però non negava che durante
la sua presidenza in Cambogia vi furono decine di migliaia di vittime, ma le
imputava al Vietnam: secondo lui furono ben 30.000 i cambogiani uccisi da «agenti
vietnamiti». 11.000 di questi infiltrati vennero poi scoperti e giustiziati. A
chi gli chiedeva giustificazione delle fosse comuni contenenti i resti di
centinaia di migliaia di cambogiani, Samphan rispondeva che nel 1980 «circa 1,5
milioni di persone morirono vittime degli aggressori vietnamiti»6.

Per anni i Khmer Rossi negarono ogni responsabilità di
uccisioni di massa, respingendo anche le accuse di aver gestito la prigione
S-21 di Phnom Penh. Solo all’inizio degli anni Novanta, con le prime defezioni,
alcuni leaders, come Ieng Sary, ammisero che sotto il regime di
Kampuchea Democratica si era creata una situazione di fobia verso chiunque
ostentasse un atteggiamento non in linea con le direttive del «Centro». Tutte
le colpe, però, venivano fatte ricadere su un solo uomo: Pol Pot. La definitiva
scomparsa del movimento Khmer Rosso, avvenuta alla fine degli anni Novanta,
scatenò una serie di scuse da parte dei maggiori dirigenti: Khieu Samphan e
Nuon Chea giusero a Phnom Penh e, in una conferenza stampa, si dissero
dispiaciuti per le enormi sofferenze causate «agli uomini e agli animali»
durante il loro governo. Successivamente anche Ta Mok, responsabile di migliaia
di esecuzioni, affermò che Kampuchea Democratica aveva dato origine a una serie
di violenze e uccisioni impressionante, facendo però ricadere la colpa sul solo
Pol Pot, Son Sen (già defunti) e al loro entourage.•

 
Note

(1)
Jacques Mingozzi, Cambodge: Faits et problèmes de population,
Parigi, Cnrs, 1973, pp. 226, 212.

(2)
The Party’s Four-Year Plan to Build Socialism in All Fields,
1977-1980
, Documento del Centro Cpk datato Luglio-Agosto 1976, in Chanthou
Boua, David P. Chandler e Ben Kiean, Pol Pot Plans the Future:
Confidential Leadership Documents from Democratic Kampuchea, 1976-77
, New
Haven, Yale University Southeast Asia Studies Coucil Monograph N°33, 1988, pp.
45-119, p. 52, tabella 1.

(3)
Afp Reports Figures on Kampuchea Population, Agence
France-Presse, Hong Kong, 22 Gennaio 1980.

(4)
Fbis, Asia Pacific, 24 Gennaio 1980, p.H4.

(5)
Sho Ishikawa, I Want to Join with Sihanouk, Lon Nol, Bangkok
Post, 11 dicembre 1979.

(6)
Ufficio del vicepresidente di Kampuchea Democratica in carica degli Affari Esteri – Khieu Samphan – , What
Are the Truth and Justice about the Accusations against Democratic Kampuchea of
Massa Killings from 1975 to 1978?
, luglio 1987.

Piergiorgio Pescali