Diocesi in stato di missione

Reportage dalla diocesi di Gurúe

Creata nel 1993, Gurúe è la diocesi più giovane del Mozambico; il suo primo vescovo, mons. Manuei Chuanguira Machado, si è dimesso nel 2009 per motivi di salute; gli e succeduto mons. Francisco Lerma, primo vescovo missionario della Consolata in Mozambico: egli eredita comunità in continua fioritura, ma con ministri e leader laici bisognosi di attenzione e formazione.

«Questo è il cuore del Mozambico» spiega sorridendo mons. Francisco Lerma, mentre mostra sulla mappa il territorio della diocesi di Gurúe, di cui è vescovo da poco più di un anno. Essa occupa infatti la parte nord della Zambezia, regione centro-settentrionale del Mozambico, tra l’Oceano Indiano a est e il Malawi a ovest.
Il termine Gurúe in sé non ha nulla di glorioso (significa «cinghiale» in lingua lomwe, gruppo macua tra i più numerosi), ma esso indica anche la catena montuosa con il monte Namuli, il cui mito occupa un ruolo importante nella cosmovisione e nel ciclo vitale della società ma-cua, l’etnia più popolosa del Mozambico.
Seconda montagna più alta del Mozambico (2.419 m), la cima avvolta nel mistero per l’immaginario popolare (anche perché è sempre coperta di nuvole, spiega mons. Lerma) il Namuli è il monte sacro per eccellenza, dalle cui cavee, secondo il mito, sono discesi i primi uomini e al quale dovranno tutti ritornare: per questo i morti sono sepolti su un fianco, con la faccia rivolta verso il monte sacro. Dicendo «io vengo da Namuli» i macua esprimono tutto il significato della loro identità personale e sociale.
tè per la regina elisabetta
Grazie ai suoi monti, la regione di Gurúe era un luogo di villeggiatura, al tempo della colonia, per i portoghesi che volevano fuggire dalle calure della pianura; ancora oggi offre varie attrazioni agli appassionati di trekking, di vita a contatto con la natura, di panorami riposanti e sempreverdi, grazie alle foreste di eucaliptus e alle grandi piantagioni di tè.
A cominciare dagli anni ‘30 del secolo scorso, il territorio di Gurúe si è affermato come il maggiore produttore di tè, apprezzato a livello internazionale, esportato in Inghilterra, Stati Uniti e Canada. Durante la guerra per l’indipendenza, soldati inglesi stazionavano nell’aeroporto di Nampula per proteggere le spedizioni del «Tè di Gurúe» verso il Regno Unito. Terra fertile, quindi, quella di Gurúe, e popolosa. La diocesi si estende per oltre 42 mila kmq (come Toscana e Lazio insieme) ed ha una popolazione di oltre 2 milioni di abitanti. Un primato non indifferente, come sottolinea mons. Lerma: «Siamo nella regione più popolosa del paese, insieme a quella di Nampula. Due province tenute d’occhio dai politici, poiché insieme contano più di 7 milioni di abitanti, un terzo della popolazione mozambicana: chi vince in Zambezia e Nampula comanda in Mozambico». Terreno fertile anche per la crescita della fede, benché l’evangelizzazione sia iniziata alla fine del 1800, solo nella cittadina coloniale, per opera dei francescani portoghesi. Il resto della zona rurale dovette attendere la metà del secolo scorso, dopo la firma del Concordato e l’Accordo Missionario tra Portogallo e Santa Sede nel 1940: l’Accordo permetteva ai missionari stranieri, e non solo portoghesi, di operare nelle cosiddette «province di oltremare».
E così nel marzo 1947 arrivarono i primi missionari Dehoniani italiani e si stabilirono nella parte nord della Zambezia, a quei tempi sotto la giurisdizione della diocesi di Beira, e fondarono le prime missioni di Alto Molocue e Nauela, Invinha, Ile e Mualama (1948), Mulumbo (1949), Namarroi e Gilè (1956). L’evangelizzazione era accompagnata e corroborata dalla promozione umana, mediante scuole, ospedali, dispensari, istituzioni di formazione professionale e sociale. Ben presto si rese necessaria una nuova organizzazione ecclesiastica: la Zambezia fu distaccata da Beira e divenne diocesi di Quelimane (1954), dalla quale fu distaccata la diocesi di Gurúe nel 1993.

AFFAMATI DI… «OSTIE»
«Su 2 milioni di abitanti, quasi la metà è cattolica: 45% circa, una media superiore a quella nazionale» continua mons. Lerma, sottolineando un altro primato di Gurúe. La diocesi conta 17 parrocchie con oltre 2.200 piccole comunità cristiane.
«In questa zona, Alto Molocue -continua mons. Lerma indicando la mappa della sua diocesi – abbiamo due “parrocchiette” con 300 comunità cristiane; qui ho fatto la prima visita, anche perché è la chiesa “madre” di Gurúe; vi sono rimasto per 15 giorni e ho amministrato 3.800 cresime; è da tenere presente che il mio predecessore ha cresimato fino a due anni fa».
Visitando la parrocchia di Invinha, il parroco mi ha raccontato che essa conta 180 comunità e nel 2010 ha avuto 10 mila battezzati tra bambini e adulti. Non credevo ai miei orecchi, fino a quando non ho sfogliato i registri dei battesimi: nel 1996 i battezzati sono stati oltre 7 mila.
La spiegazione di questo fenomeno è semplice e comune ad altre diocesi del Mozambico: nonostante la guerra abbia distrutto molte missioni e impedito la presenza dei missionari nelle loro comunità, la chiesa ministeriale ha funzionato; catechisti, animatori e altri ministri laici hanno continuato a radunare i cristiani, celebrare la liturgia della parola, portare l’eu-caristia, istruire i catecumeni, amministrare battesimi, presiedere i funerali, celebrare matrimoni…
Con la fine della guerra, nonostante la mancanza di strutture e personale missionario, la chiesa ha continuato a crescere. «La missione di Naburi, per esempio, è totalmente distrutta – continua il vescovo -. L’ho visitata nel gennaio scorso e vi ho incontrato comunità che da 25 anni non vedevano un prete. La gente si lamentava ripetendo la solita antifona: “Siamo senza ostia”, cioè senza celebrazione della messa. Per tutti questi anni hanno ricevuto la comunione eucaristica grazie al lavoro dei catechisti. Dopo la fine della guerra la parrocchia è cresciuta enormemente, passando da 17 a 90 comunità. Una crescita che richiede l’apertura di nuove parrocchie».
Un’altra esperienza indimenticabile e incredibile l’ho fotografata nella parrocchia di Mulumbo: parroco, suore e vescovo mi hanno mostrato due grandi secchi di plastica pieni di ostie da consacrare durante la messa domenicale, per essere poi ritirate dai catechisti e portate nelle 180 e più comunità di cui e formata la parrocchia.

GIOIE E GRATTACAPI
La crescita delle comunità cristiane ha favorito anche l’au-mento delle vocazioni sacerdotali e alla vita consacrata. Sono molte le congregazioni religiose che hanno membri originari dell’Alta Zambezia. «La diocesi di Gurúe conta 30 preti diocesani – continua mons. Lerma -; 25 sono impegnati in diocesi, due insegnano nei seminari interdiocesani e tre sono all’estero per specializzazioni. Siamo la terza diocesi del Mozambico per numero di preti diocesani in assoluto; ma in proporzione ne avremmo bisogno di almeno cento».
Altro personale missionario è costituito da un diocesano fidei donum argentino, 18 preti religiosi, 5 fratelli, 33 suore. «Gurúe è forse l’unica diocesi in Mozambico in cui il numero delle suore è inferiore a quello dei preti:
metà delle parrocchie non ha una presenza missionaria femminile» conclude sorridendo il vescovo, passando così a enumerare i problemi della sua diocesi: «La prima grande sfida riguarda la formazione di coloro che sono a capo delle nostre comunità: sono ammirevoli per il loro impegno, svolgono un lavoro da parroci a tempo pieno, ma chi li ha formati? Da 25-30 anni non abbiamo una scuola per preparare i catechisti».
Un’altra sfida per la diocesi è la mancanza di strutture essenziali per il funzionamento di una diocesi: l’episcopio è una modesta abitazione familiare; 14 abitazioni dei preti diocesani hanno bisogno di ristrutturazioni radicali; in 4 missioni gli edifici sono totalmente distrutti, così pure vari conventi di suore, abbandonati fin dai tempi della guerra civile; quasi tutte le chiese delle , antiche missioni hanno bisogno di restauri urgenti.
La mancanza di risorse economiche si riflette soprattutto sull’attività pastorale, come spiega preoccupato il vescovo: «Per motivi economici, 17 preti sono inseriti nel sistema scolastico nazionale, lasciandoli liberi per il loro ministero specifico solo sabato e domenica. In un anno ci sono 52 settimane, ma se si sottraggono vacanze, malattie o indisposizioni, rimangono poco più di 30 fine settimana: in un anno si possono visitare 40-50 comunità al massimo, le altre restano per mesi e anni senza vedere un prete».
Alle sfide ecclesiali si aggiungono quelle di carattere sociale ed economico, comuni al resto del paese, prima tra tutti il traffico di esseri umani, lungo la strada nazionale N.1, che attraversa il Mozambico da nord a sud, passando per il territorio della diocesi di Gurúe. «Il traffico c’è ed è evidente – spiega mons. Lerma -; abbiamo avuto vari casi in cui le persone trafficate sono morte nei container. Sono migranti somali, congolesi, nigeriani… il cui miraggio è il Sudafrica, ma molti si fermano nel paese, dedicandosi al commercio o vengono sfruttati nei mega progetti; tra le vittime ci sono molte donne, destinate alla prostituzione sia nel paese che in Sudafrica; il fenomeno riguarda anche i bambini, trafficati per i più svariati scopi, compreso quello degli organi; ma di questo non possediamo ancora prove documentali. Ne abbiamo parlato recentemente a Pretoria nell’Incontro dei vescovi dell’Africa australe (Imbisa), poiché il problema dei migranti e rifugiati coinvolge tutti i paesi di questa parte del continente. Stiamo studiando il problema, con l’aiuto di associazioni che si occupano di diritti umani».
Tale traffico è favorito anche dai mega progetti delle multinazionali che stanno sfruttando le risorse naturali in varie parti del Mozambico. La regione dell’Alta Zambezia è ricca di minerali e pietre preziose, specialmente i distretti di Ile e Gilé, dove si stanno riaprendo le miniere abbandonate dai portoghesi.
«Ciò che maggiormente mi preoccupa – continua il vescovo -è che in molte zone la gente sta abbandonando le coltivazioni tradizionali per sostituirle con quelle dal denaro facile, come il tabacco, e con nuove piantagioni di imprese multinazionali, come quelle del legname teck e prodotti per biocombustibili, di cui beneficiano solo le grandi imprese. Anche di questi problemi ci stiamo preoccupando a livello di conferenza episcopale».

LE CAPRETTE DEL VESCOVO
«Priorità assoluta è stata fin dall’inizio l’attenzione ai miei preti» confessa mons. Lerma. A un mese dalla presa di possesso della diocesi, egli li ha radunati per ascoltarli e fare il punto sulla situazione. La prima constatazione è stata la mancanza di una minima struttura di accoglienza e ha subito lanciato il progetto «Casa Diocesana» nella sede di Gurúe: un ampio salone-cappella, aule per uffici diocesani e 15 stanze capaci di ospitare una trentina di persone; il salone è già in funzione, il resto è ben avviato.
Un altro evento importante è stata l’Assemblea diocesana di pastorale, tenuta a Gurúe dall’8 all’11 marzo 2011, sul tema: «Diocesi in stato di missione: evangelizzare è un dovere di ogni cristiano». Vi hanno partecipato 67 delegati tra preti, laici e religiosi. Sono stati dibattuti i problemi pastorali della diocesi ed enucleati quattro temi fondamentali da realizzare nei prossimi tre anni: comunione diocesana, evangelizzazione e catechesi, formazione degli agenti di pastorale, autosostentamento economico».
La soluzione dell’ultimo è la base per realizzare gli altri. La diocesi non ha entrate di alcun genere; ma l’autosostentamento non è impossibile, come avveniva nelle missioni antiche: esse avevano vasti appezzamenti di terreno con cui fronteggiavano l’amministrazione ordinaria. Per promuovere l’autosostentamento il vescovo ha idee chiare e le ha già lanciate. Prima di tutto bisogna recuperare i terreni delle missioni e poi sfruttarli con varie iniziative, come piantagioni di cajù (anacardio) e allevamento di bestiame. Una missione ha recuperato e rimesso in funzione un mulino; la parrocchia di Invinha ha già iniziato a valorizzare 30 ettari di terreno con l’alleva-mento di una trentina di mucche. In questa missione sono accudite anche una dozzina di «capre del vescovo».
«Ogni volta che amministro la cresima la gente mi offre grana-glie, frutta, polli e capretti;
l’ultima volta ne ho ricevuti sette» spiega sorridendo mons. Lerma. Da tale usanza ha maturato un’altra idea per l’autosufficienza economica: «Ho proposto di aumentare la tassa annuale dei fedeli da 10 a 50 meticais; la maggior parte non ha denaro, ma tutti possono contribuire in natura: miglio, fagioli, riso, capre, pollame… il ricavato dalla loro vendita serve a creare un fondo per il sostentamento ordinario del clero e della diocesi; registrando con trasparenza ciò che entra e ciò che esce».
Questo per la vita ordinaria. Per i progetti straordinari bisognerà chiedere aiuto altrove. «Ma prima dovremo riconquistare la credibilità estea, specie con la Germania – spiega serio il vescovo -. Le organizzazioni inteazionali non ci danno più un centesimo, da quando il mio predecessore, colpito da un ictus nel 2001, non è stato più in grado di rendere conto dei finanziamenti ricevuti per vari progetti: questi non sono stati realizzati e i soldi non ci sono più. Ho spiegato la situazione ai donatori, chiedendo di mettere una pietra sul passato. Ho detto loro che non ho alcuna intenzione di indagare su dove sono finiti i loro aiuti: sono stato mandato qui come padre e pastore, non come giudice inquisitore. D’ora in poi useremo la massima trasparenza. È quello che ho chiesto anche ai miei preti. E qualche organizzazione mi ha ringraziato per la chiarezza e sincerità».

di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Confesssioni atomiche

Test nucleari e diritti degli aborigeni

All’indomani delle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki inizia la corsa agli armamenti nucleari. Ma la conoscenza degli effetti devastanti degli ordigni atomici è ancora limitata. Le super potenze si lanciano in sperimentazioni molto pericolose. La Gran Bretagna sceglie l’Australia come terreno per i suoi test.  Le radiazioni contaminano intere aree.  All’insaputa degli aborigeni e degli stessi militari che compiono le esercitazioni.

Australia: paese di canguri saltellanti e di pigri koala arrampicati sugli alberi, barriere coralline di incredibili colori, di deserti, dell’Opera di Sydney, numerosa comunità italiana. Certo non ci viene in mente di associare questa grande nazione all’inquinamento radioattivo. Invece proprio lì, nei passati decenni, si sono svolti esperimenti militari che hanno prodotto pesanti conseguenze sull’ambiente e sulla popolazione, in particolare quella aborigena.

corsa al nucleare
Subito dopo le esplosioni nucleari che distrussero Hiroshima e Nagasaki, ponendo fine al secondo conflitto mondiale, si sviluppò una fiera competizione tra il blocco occidentale e quello comunista per realizzare nuovi armamenti, in quella che è stata definita «Guerra fredda». Nel giro di pochi anni sempre più potenze si dotarono di bombe atomiche. Prima furono quelle cosiddette «a fissione», seguite da quelle «a fusione» (o all’idrogeno).
In queste ultime si sfruttava addirittura l’esplosione di una bomba atomica come quella di Hiroshima per indurre la fusione nucleare di nuclei leggeri di isotopi dell’idrogeno, in un processo analogo a quello che fa risplendere il sole. La potenza raggiungibile con questo secondo tipo di ordigni era teoricamente illimitata, ciò che comprensibilmente suscitò gli entusiasmi dei leader militari.
Ma affinché i militari potessero davvero fare totale affidamento sugli ordigni nucleari, era indispensabile verificarne le caratteristiche in tutti i possibili teatri e condizioni di impiego. Inoltre bisognava capire cosa le truppe avrebbero potuto fare su un terreno di battaglia che avesse visto l’impiego dell’arsenale atomico.  I soldati sarebbero riusciti ad operare con efficacia in un ambiente in cui fossero presenti rilevanti radiazioni a seguito dell’esplosione di un ordigno nucleare? O sarebbero invece caduti in uno stato di prostrazione e di incapacità? L’unico modo per chiarire questi punti importanti era di procedere a degli esperimenti, con cui appurare le varie questioni in sospeso.

Test «quasi» segreti
Tutte le potenze atomiche iniziarono quindi ad effettuare dei test, sia per meglio comprendere il funzionamento tecnico delle bombe, sia per verificare la loro compatibilità con lo svolgimento di normali operazioni militari di guerra. I test vennero svolti in territori poco o per nulla abitati. Nel caso della Gran Bretagna, considerando impossibile trovare una località adatta nella madrepatria, si decise di svolgere gli esperimenti in Australia.
Questo enorme paese aveva con Londra un rapporto di colonia dotata di autogoverno, soggetta -almeno in teoria – alla legislazione che il parlamento britannico aveva elaborato specificamente per lei.
È possibile capire facilmente quale fosse l’atteggiamento delle autorità militari e dei governi del tempo – inizio anni ‘50 – impegnati a sviluppare, perfezionare e impratichirsi con le armi nucleari. Ma anche quali fossero le priorità, le misure cautelative, le conseguenze inattese, per evitare le quali non si era certo fatto tutto il possibile. Il tema è trattato nel documentario
Australian Atomic Confessions, della regista australiana Katherine Aigner.

da londra a camberra
Per cominciare, chiediamoci perché i britannici decisero di testare proprio in Australia e non in casa propria. Questo immenso territorio presentava innanzitutto molte zone poco o per nulla abitate; in secondo luogo era stato una colonia che ancora aveva fortissimi legami con Londra. Gli australiani erano molto decisi a cercare di essere più inglesi degli inglesi e a fare la loro parte nella titanica sfida che vedeva l’Occidente capitalista contrapposto al mondo comunista. Gli australiani se l’erano vista brutta pochi anni prima, quando le forze armate giapponesi erano arrivate sulla loro porta di casa, avendo sbaragliato le truppe britanniche di stanza a Singapore. Lo sviluppo di un armamento nucleare era visto come essenziale per garantire che analoghe minacce all’integrità territoriale australiana non si riproponessero.
Ricordiamo anche come negli anni ’50 le conoscenze sull’effetto delle radiazioni ionizzanti sull’organismo umano avevano sì fatto molti progressi, specie studiando le vittime e i sopravvissuti dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, ma molto rimaneva ancora da scoprire. In particolare non era chiaro se dei soldati avrebbero potuto operare efficacemente su un teatro di battaglia ove, poco prima, fossero state fatte detonare bombe nucleari. Nemmeno era chiaro come e quanto gli edifici e altre realizzazioni tecniche avrebbero potuto resistere in caso di un’esplosione nucleare. I test sperimentali servivano anche per colmare questi buchi conoscitivi.

aborigeni inconsapevoli
I primi esperimenti vennero condotti sulle isole Monte Bello, al largo della costa occidentale dell’Australia. Altri ad Emu Field, nella parte occidentale dello stato dell’Australia del Sud. Un terzo gruppo infine nel sito di Maralinga, un nome che nella lingua degli aborigeni voleva dire, quasi profeticamente, «I campi del tuono», nel medesimo stato.
Se le isole Monte Bello erano disabitate, le zone dell’Australia del Sud erano popolate da gruppi di aborigeni nomadi. Nonostante gli sforzi delle autorità di evacuare le zone prossime ai poligoni militari, alcune famiglie aborigene non vennero individuate e si trovarono esposte alla ricaduta radioattiva (fallout) successiva alle esplosioni.
Queste sfortunate persone erano particolarmente vulnerabili, non avendo comprensione alcuna di quel che stava succedendo nei loro territori. Capitò così che alcune famiglie si recassero a prendere acqua da bere (una risorsa particolarmente scarsa in quelle zone) nei crateri vetrificati – e pertanto impermeabilizzati e capaci di trattenere le scarse piogge – prodotti dagli scoppi atomici e per questo quanto mai radioattivi.
Molti aborigeni si ammalarono e morirono, vittime di una nuova, subdola epidemia provocata da altri uomini.
«Al tempo dei test gli aborigeni si sono sentiti trattati alla stregua di animali da esperimento. Come conseguenze dell’esposizione alla ricaduta radioattiva dovuta ai test nucleari, molti morirono, altri ebbero malattie gravi, taluni rimasero ciechi» racconta la regista Katherine Aigner.
Pochi in Australia e altrove si preoccuparono, dato che, in quel periodo, sostanzialmente era nullo il peso politico degli aborigeni ed anzi venivano da molti considerati poco più che animali (vedi box).
Katherine Aigner ricorda con particolare emozione il racconto della professoressa universitaria di origine aborigena (una delle poche) Rebecca Bear-Winfield, nata con tre ovaie e incapace di procreare, dopo che sua madre venne esposta alla ricaduta radioattiva, che si presentava come una «nebbiolina nera». Secondo la regista non è esagerato parlare di un genocidio nei confronti della gente aborigena, dato che in tal modo si è andati a colpire anche le future generazioni.

Militari allo sbaraglio
Se il cinico sacrificio degli aborigeni può non sorprendere, visto il clima ideologico e culturale che si viveva in quegli anni a Camberra e dintorni, più scioccante è vedere con quale leggerezza venissero esposte alle radiazioni ionizzanti le truppe inglesi e australiane. Nel film di Katherine Aigner le interviste ai testimoni diretti non lasciano adito a dubbi: soldati, aviatori e altri addetti ai poligoni vennero inviati a lavorare in zone dove le dosi di radiazioni ricevute erano elevate e tali da causare alti rischi.
«I militari che parteciparono ai test confermano che ci fu una pesante mancanza di informazione anche per loro, figuriamoci per gli aborigeni! Comparvero molte patologie come cancri e altre malattie, non solo ai militari – continua la regista – ma anche ai loro discendenti. E se i soldati erano forse pure disposti a sacrificare la loro vita per la propria nazione, certo si sono alquanto preoccupati nel vedere che problemi gravi si sono presentati nei loro figli e nei loro nipoti. I danni sono avvenuti a livello del Dna, sebbene fossero stati rassicurati che non ci sarebbe stato nessun problema. Però questa era nient’altro che una grande bugia».
Personale australiano venne mandato a «ground zero», nel luogo esatto della detonazione atomica, meno di mezz’ora dopo lo scoppio, quando i livelli di radiazione erano alle stelle. Aerei da rilevamento attraversarono le nuvole di materiale radioattivo sollevate in atmosfera. Le contaminazioni furono talmente elevate, che gli aerei vennero seppelliti, non essendo possibile decontaminarli. I piloti furono lavati nel miglior modo possibile e poi rassicurati che nulla sarebbe a loro successo.
Sta di fatto che i veterani atomici subirono gravi danni alla salute e solo in rarissimi casi hanno visto questo riconosciuto come dovuto a cause di servizio.

Non solo Australia
Ma i test atomici non hanno causato problemi di salute solo ai militari. Buona parte del territorio australiano ha ricevuto ricadute radioattive, sebbene di varia intensità. Il pubblico è stato informato poco e male, ricevendo sempre l’assicurazione che «tutto è sotto controllo».
La ragione di stato e gli imperativi militari hanno portato a considerare i propri soldati e cittadini poco più che «strumenti usa e getta», sacrificabili, se necessario, in un gioco di potere planetario a fronte del quale venivano piegati e abbandonati gli stessi ideali e valori fondamentali di uno stato democratico.
E non si pensi che questo tipo di comportamenti spietati e cinici sia avvenuto solo in Australia. Ritroviamo infatti situazioni del tutto analoghe per i test effettuati dai cinesi nella provincia occidentale dello Xinjiang, popolata da irrequiete minoranze etniche, dai francesi in Algeria e in atolli quali Mururoa, Fangataufa e Hao, dagli americani nel Pacifico (Bikini, Eniwetok, Johnston, Christmas), dai sovietici in Kazakistan e in Siberia.
Fatti e storie sempre tenute nascoste al mondo e raramente denunciate.

di Mirco Elena

Mirco Elena




La croce e la spada

I rapporti tra Lega Nord e Chiesa cattolica

L’attacco all’unità nazionale e il rifiuto del diverso. In 20 anni la posizione della Lega è rimasta costante. E la strategia nei confronti della chiesa è chiara: aggressioni a gerarchie e associazioni impegnate nell’accoglienza. Ma anche prese di posizione in favore di «valori non negoziabili». Il cattolicesimo della Lega è pre-conciliare, tradizionalista e strumentale. In antitesi all’«essere cristiano» di oggi.
Ce lo racconta Paolo Bertezzolo autore di un interessante saggio sul tema.

«Lega Nord per l’indipendenza della Padania» recita il sito Inteet del movimento politico fondato da Umberto Bossi.
Vi navighiamo allo scopo di trovare lo statuto del partito citato nell’ultimo libro di Paolo Bertezzolo, «Padroni a Chiesa nostra. Vent’anni di strategia religiosa della Lega Nord», edito dalla Emi. Leggiamo nell’articolo 1 del testo attualmente in vigore, approvato nel marzo 2002: «Il Movimento politico denominato “Lega Nord per l’Indipendenza della Padania” […], ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana».
L’attacco all’unità nazionale, dichiarato dal movimento leghista a chiare lettere, costituisce uno dei principali motivi di contrasto tra la Lega e la Chiesa cattolica fin dalla fine degli anni ‘80, insieme al rifiuto xenofobo del «diverso», straniero, meridionale, rom, extracomunitario o islamico che sia.
Paolo Bertezzolo nel suo volume che ripercorre la storia del più longevo partito politico italiano presente oggi in parlamento, scrive anche di questo. E ne scrive perché la tesi del suo lavoro, ampiamente dimostrata, è proprio quella che negli ultimi 20 anni ci sia stata, e ci sia, una strategia leghista molto precisa nei riguardi della Chiesa. Attacchi alle gerarchie e ad alcune organizzazioni cattoliche schierate per l’unità nazionale e impegnate nell’accoglienza degli stranieri, ma anche ammiccamenti, espliciti corteggiamenti e forti prese di posizione in favore di alcuni «valori non negoziabili»: la famiglia tradizionale, l’obiezione all’aborto, le radici cristiane dell’Italia e dell’Europa, la difesa del crocifisso.
Fatto di attacchi, a volte molto violenti e spesso irriverenti, ma anche di dichiarazioni e atti di fedeltà alla «cristianità», l’atteggiamento leghista verso la Chiesa è lontano dall’essere contraddittorio: la Lega si fa amica della Chiesa e allo stesso tempo sua oppositrice al fine di mostrarsi come autentica detentrice della tradizione cristiana più della Chiesa stessa. Le apparenti contraddizioni trovano la loro coerenza nella volontà «totalizzante» della Lega di assorbire in sé tutte le caratteristiche identitarie delle comunità che vuole rappresentare, quindi anche quella religiosa. I valori religiosi ed etici diventano meri valori culturali con il fine di costruire l’identità «padana», di avere un sempre maggiore potere simbolico e consenso elettorale. In questa strategia, efficace nell’intercettare il sentimento «popolare», anche grazie ad un forte radicamento della Lega sul territorio, la Chiesa è costantemente sotto l’attacco di una pericolosa strumentalizzazione politica.
Bertezzolo con il suo ampio lavoro, oltre ad indicare in modo chiaro l’esistenza di una strategia leghista volta a conquistare il «terreno» della Chiesa, sembra volerla invitare a vegliare per non lasciarsi sopraffare. Ma anche a non lasciarsi vincere dalla tentazione di strumentalizzare a sua volta le posizioni leghiste più vicine alle proprie, al fine di promuovere a livello politico e istituzionale ciò che le sta a cuore, con rischi sul piano della fede e della fedeltà al Concilio Vaticano II. Se per un partito politico come quello «bossiano» infatti il fine (il consenso elettorale, il potere) giustifica i mezzi (invettiva anticlericale e vezzeggiamento «ultracattolico»), per la Chiesa, sembra dirci Bertezzolo, il fine (l’annuncio di Dio amore e salvatore del mondo) e i mezzi devono essere coerenti, pena il tradimento del Vangelo.

Innanzitutto ci dica qualcosa
di lei.
«Attualmente sono pensionato. Il mio lavoro è stato, prima di insegnante di storia e filosofia nei licei, poi di preside: ho diretto un liceo a Verona per una ventina d’anni. Mi sono sempre impegnato nel campo sociale, civile. Alla fine degli anni ‘70 sono stato presidente provinciale delle Acli (Associazioni cristiane lavoratori italiani) a Verona; sono stato impegnato in Pax Christi; ho avuto anche una fase di impegno politico che mi ha portato in parlamento per una legislatura a inizio anni ‘90.
Ho sempre cercato di conciliare l’attività professionale con quella dell’impegno civile».

Come nasce l’idea d’indagare  la strategia religiosa della Lega?
«È stata un’idea della casa editrice. Una proposta del direttore editoriale, Pier Maria Mazzola, che ho accolto con entusiasmo. Questo libro mi è stato molto utile, perché mi ha dato l’occasione di riflettere a fondo su più di vent’anni della storia civile, politica e religiosa del nostro paese».

Lei vive vicino a Verona. Come vede relazionarsi la Lega con la Chiesa locale?
«La Lega si sta diffondendo sul territorio a macchia di leopardo. Ci sono alcune realtà ecclesiali in cui è particolarmente presente e ascoltata, alcune in cui è assente, altre in cui vive situazioni di conflitto col parroco, coi laici impegnati. Però in generale assisto ad una sua progressiva espansione all’interno delle comunità parrocchiali, sia in Veneto che in Lombardia: le due regioni in cui la Lega è storicamente più presente».

Qual è la concezione religiosa della Lega Nord?
«Il leghismo è portatore di una visione cristiana tradizionalista, di tipo lefebvriano e, direi, anticonciliare, che si rifà al modello di cattolicesimo di Pio V, il papa della Lega Santa che nel 1571 batté l’impero ottomano nella battaglia di Lepanto. Questo a mio avviso crea un problema molto serio per la Chiesa, perché ritengo, come sostengono il vaticanista del Tg1 Aldo Maria Valli, e un dossier pubblicato da «Missione Oggi», che le posizioni del cattolicesimo leghista siano assolutamente inconciliabili con il cattolicesimo del Vaticano II. La Chiesa oggi si trova di fronte ad un bivio: far prevalere i cosiddetti valori non negoziabili, quelli connessi al grande tema della vita, oppure i valori della solidarietà, dell’accoglienza, dell’attenzione all’ultimo, quelli legati alla carità cristiana. Far prevalere le tendenze che portano verso un accordo con la Lega, o no?
Io credo che si sia espresso molto bene monsignor Luigi Bettazzi (vescovo emerito di Ivrea, ndr), il quale dice che la difesa della vita, l’attenzione alle tematiche bioetiche, non possono essere disgiunte dalla caritas. L’una non può stare senza l’altra. Prendendo solo uno dei due aspetti si tradisce il Vangelo.
La Lega è disponibile a difendere le tematiche del primo ambito, ma non le seconde».

Nel suo libro questo risulta molto chiaro: da un lato la Lega attacca, anche violentemente, la Chiesa quando essa è a favore dell’unità solidale dell’Italia e per l’accoglienza degli ultimi, immigrati. Dall’altro fiancheggia la Chiesa, ne prende le parti quando si tratta di difendere le radici cristiane, la famiglia tradizionale, di rifiutare l’aborto e così via.
«Certo. Su questo si rende evidente l’inconciliabilità della Lega con la Chiesa. La Lega non è assolutamente disponibile ad aprirsi alla caritas. Per essa è costitutivo il rifiuto del diverso e il richiamo all’identità dei popoli “padani”, anche se questi sono un’entità di difficile identificazione territoriale ed etnica.
Non per niente la Lega rimpiange Lepanto, perché ha una visione crociata del rapporto con la realtà territoriale, con le diversità culturali, con gli islamici. Per la Lega “gli infedeli” sono da combattere.
Da un punto di vista cristiano, invece, io non posso combattere l’infedele. Per fortuna questo l’abbiamo capito. Lo sancisce il Concilio, ma ce lo dice tutta la Parola di Dio: questo deve creare dei problemi con le posizioni leghiste».

C’è nella Lega una strategia precisa, una strumentalizzazione delle tematiche etiche, religiose, cristiane, a fini politici. Secondo lei c’è consapevolezza di questo nella Chiesa?
«In parte questa consapevolezza c’è. Faccio riferimento alle posizioni dei due grandi arcivescovi di Milano, che non a caso sono il primo e grande bersaglio – il cardinal Tettamanzi lo è tutt’ora – degli strali della Lega.
Sia Martini, sia Tettamanzi, hanno mostrato con lucida chiarezza e grandissima coerenza cristiana, l’inconciliabilità delle posizioni leghiste con l’essenza dell’annuncio cristiano, che è un annuncio di accoglienza. Dello straniero, del diverso. Questa non è nient’altro che la parola di Dio, il messaggio biblico: “Ricordati che tu sei stato straniero”. L’esodo ci appartiene come credenti.
Secondo me, invece, un’altra parte di Chiesa, compresi alcuni esponenti della gerarchia, vede con attenzione, anche se forse non con condivisione, le posizioni leghiste, perché funzionali a una difesa dei valori cristiani “più tradizionali”, e di quelli legati alle grandi questioni della bioetica.
Il segno di contraddizione passa da qui: noi possiamo sostenere la difesa intransigente dei valori della vita fino ad allearci con chi costituisce l’antitesi del messaggio cristiano dell’accoglienza?
Secondo me la grande sfida che la Chiesa ha presente oggi è: qual è il rapporto che deve avere con la realtà storica, temporale, quindi anche politica?  Come declinare i suoi valori dal punto di vista politico?
Su questo punto credo che vada fatta una grande opera: io vorrei il coraggio evangelico del confronto con la parola di Dio. Che cosa ci dice essa a questo proposito? È più importante una legge che, nel versante delicatissimo del “fine vita”, corrisponda all’interpretazione che la Chiesa dà di esso, o il fatto che il messaggio dirompente del Vangelo arrivi alle coscienze, lasciando che esse animate, vivificate dalla parola di Dio, si muovano con la libertà che spetta ai figli di Dio e che tutta la Bibbia riconosce loro?
Fino a che punto la testimonianza, il messaggio cristiano può e deve identificarsi con la legislazione dello stato, di uno stato che è pluralista?
La Chiesa che crede nell’utilizzo della legge, dell’istituzione, per far passare il proprio messaggio può arrivare ad un accordo con la Lega. Ma il messaggio che passa attraverso le leggi è il messaggio cristiano?
Io sinceramente temo di no.
Queste sono sfide grandissime oggi. Mi piacerebbe che i nostri vescovi, i nostri preti e noi laici ci confrontassimo su queste tematiche che sono quelle dell’annuncio del Vangelo».

Potrebbe, in poche battute, indicarci qual è la sostanza del suo libro?
«Ho voluto dimostrare che c’è un cammino storico, documentato a partire dalla fine degli anni Ottanta fino al dicembre del 2010, in cui la Lega non ha mai mutato le proprie posizioni, i suoi principi non negoziabili: come quello dell’affermazione di una realtà territoriale, chiamata a volte Padania, a volte Nord, da separare dal resto del paese e costituire come stato indipendente riconosciuto a livello internazionale, come dice l’articolo 1 dello statuto della Lega. E ho voluto mettere in luce come la Chiesa, nelle sue varie articolazioni, si è proposta nei confronti di questa sfida dirompente che rischia di squassare l’assetto istituzionale, politico, sociale, culturale, religioso, del nostro paese.
La Chiesa ha modificato il suo percorso, la Lega no. C’è una prima fase in cui la Chiesa si è opposta radicalmente e in toto alla Lega, seguita da una lenta evoluzione in cui, alla sua opposizione sempre intransigente e chiara sulle questioni dell’unità nazionale e dell’accoglienza dello straniero, si è affiancato un atteggiamento di attenzione, non dico consonante, e neanche simpatetico, se non in alcune frange della Chiesa, ma favorevole nei confronti della Lega, vista come baluardo della tradizione cattolica, e in particolare come forza politica utilizzabile nella battaglia sulle questioni bioetiche».

Verso la conclusione del libro scrive: «In gioco è la fedeltà al concilio».
«Se la Lega diventasse sul serio un interlocutore della Chiesa, questo avverrebbe a scapito del concilio: la Lega è infatti una forza esplicitamente anticonciliare.
Oggi l’essere cristiano è radicalmente messo in discussione. Il Concilio è l’annuncio della parola di Dio nel ventesimo e nel ventunesimo secolo: oggi non si può pensare all’annuncio di una fede cristiana, cattolica, che prescinda dal concilio.
La Lega mette in discussione proprio questo. Essa è a favore di un cattolicesimo tradizionalista, identitario. Concepisce il cattolicesimo come mera componente dell’identità territoriale che vuole costruire, il Nord, la Padania, con un carattere di forte esclusione del diverso, l’immigrato, l’uomo, la donna che proviene dal terzo mondo, l’islamico in particolare».

È impressionante la mole di dichiarazioni da parte di esponenti leghisti volte ad affermare il ruolo della Lega di autentica custode della tradizione cristiana, in contrapposizione ad una Chiesa invece spesso incolpata di tradire quella stessa tradizione.
«La Lega è un partito totalizzante. Su questo io non ho dubbi.
Ciò significa che si propone come soggetto che dà vita, in se stessa, a tutte le possibili espressioni del territorio, quindi la cultura – nella sua accezione identitaria, ricercata a volte in aspetti piuttosto grossolani – , ma anche la religione in quanto parte di un’identità etnica tutta da inventare. In questo senso quindi la Lega non è affatto pluralista né laica, e punta ad assorbire in sé anche l’espressione religiosa cattolica.
Quando la Lega si dice “cattolica”, lo fa in questo senso. Non per niente lo fa in chiave anticonciliare, perché il concilio è il trionfo della visione laica, pluralista, del rispetto delle altre confessioni religiose e dei non credenti».

Lei come vede il futuro del movimento leghista?
«La Lega in questo ultimo anno a livello istituzionale sta dimostrando una moderazione che non è propria della sua storia. Bisognerebbe capire che cosa questo significhi: se siamo in presenza di un’evoluzione moderata, cioè di una Lega che pur rimanendo una forza politica territoriale accetta di far parte di uno stato costituzionale, accettando la Costituzione italiana ed i principi che sono presenti in essa, compresi quelli della laicità e del pluralismo, o se, per l’ennesima volta, siamo in presenza di una scelta tattica. Oggi la Lega vive un momento politicamente molto debole, dovuto alla crisi del modello berlusconiano, e fà proprio un moderatismo tattico per attraversare il guado di questa difficile fase politica in cui deve comunque portare a casa dei risultati, come le norme sul federalismo.
Io mi auguro fortemente che sia in corso un’evoluzione del primo tipo, cioè la trasformazione della Lega, pur lenta e difficile, in una forza territoriale moderata, un po’ sull’esempio della democrazia cristiana bavarese: forza regionale, ma costituzionale e democratica. Però c’è ancora molto cammino da fare. Qualche segnale – io sono sempre ottimista – che possa farci pensare ad una evoluzione democratica della Lega non nego che ci sia. Ma viviamo una fase complessa, di transizione molto difficile, drammatica, del nostro paese».

di Luca Lorusso

Luca Lorusso




Vescovo di Parma, missionario per il mondo

San Guido Maria Conforti (1865-1931)

Il card. Angelo Rocalli vedeva in lui «l’espressione episcopale più distinta in Italia di quel felice movimento missionario suscitato dall’enciclica Maximum Illud di papa Benedetto XV; rappresentante di quella completezza del ministero sacro delle anime che associa il vescovo al missionario: vescovo di Parma, ma missionario per il mondo». La sua canonizzazione è fissata per il 23 ottobre 2011.

Era un intrico di vie che chiudevano il duomo di Parma come in una ragnatela. Il piccolo Guido Maria Conforti lo percorreva ogni mattina per recarsi a scuola. Spesso, nel tragitto, compiva una piccola sosta per entrare nella chiesa della Pace, dove un grande crocifisso dominava l’abside. «Io guardavo lui, e lui guardava me – scriverà piu tardi – e mi pareva mi dicesse tante cose».
Gioo dopo giorno l’immagine di quel crocifisso misterioso trovava uno spazio sempre maggiore nel cuore di Guido, fino a conquistarlo interamente. Entrato in seminario, il desiderio di dedicare la vita alle missioni si faceva sempre più insistente. Ma la salute cagionevole gli impedì di realizzare questo sogno. Diventato prete, il Conforti decise di dar vita a una famiglia missionaria.
Aveva 28 anni quando acquistò una casa in Borgo Leon d’Oro, dove poter radunare una piccola comunità per aspiranti al sacerdozio e alla vita missionaria. Monsignor Conforti, vicerettore in seminario e canonico del duomo, era prete da cinque anni.
Correva l’anno 1895 quando, agli inizi di novembre, un gruppo di ragazzi entrò nella casa: iniziava così la giorniosa avventura di quello che sarebbe diventato l’Istituto saveriano per le missioni estere. II giorno di nascita della nuova congregazione missionaria sarà ufficialmente stabilito, con il Decreto di approvazione emanato dalla Santa Sede, il 3 dicembre del 1895, festa di san Francesco Saverio, patrono dell’Istituto.

I primi due saveriani a partire per le missioni furono destinati alla Cina: era il 1899. Essi seguivano mons. Fogolla, vescovo francescano, che poi morirà martire e sarà beatificato nel 1946.
Dal «cenacolo» di Parma si staccava così il primo drappello di missionari al quale, nell’arco di pochi anni, si sarebbero uniti altri gruppi di saveriani, tutti con la stessa meta: la Cina. Per oltre mezzo secolo i figli di mons. Conforti ebbero come campo di apostolato quella terra.
Ben presto il fondatore si rese conto della necessità di un luogo piu vasto, dove poter accogliere i giovani che chiedevano di far parte della famiglia. L’eredità lasciatagli da suo padre si rivelò provvidenziale per la costruzione, a Parma, del vasto edificio che, in seguito, diverrà la casa madre dei saveriani.
Ma le vie dell’uomo non sono le vie di Dio. L’istituto saveriano contava solo sette anni di vita, quando un inatteso avvenimento venne a sconvolgere i progetti del fondatore: la nomina del canonico Conforti ad arcivescovo di
Ravenna.
Poi, nell’autunno del 1907, papa Pio X poneva amorevolmente sulle spalle del fondatore una nuova croce: la nomina a vescovo di Parma. Il mite Conforti, dalla salute fragile, ma dal carattere adamantino, era chiamato dal Signore ad essere pastore di due greggi: da quel giorno avrebbe dovuto aver cura dei fedeli della diocesi di Parma
e della famiglia saveriana.

Terminata la prima guerra mondiale, mons. Conforti decise di aprire una seconda casa dove poter ospitare i giovani che, sempre piu numerosi, facevano domanda di entrare a far parte della sua famiglia missionaria. Nel 1919 un piccolo gruppo di saveriani fondò a Vicenza la prima «casa apostolica». Tra loro si distingueva la dolce figura d’un missionario reduce dalla Cina, padre Pietro Uccelli, il cui ricordo tra la popolazione del vicentino è ancora vivo oggi, nutrito di affetto e venerazione.
Lo sviluppo della congregazione registrò negli anni successivi una fioritura di altre case di formazione in Italia, fino a raggiungere in breve una ventina di comunità. Nell’autunno del 1928 mons. Conforti ebbe la gioia di raggiungere i suoi figli in Cina. Un viaggio assai faticoso, che finì per minare in maniera irrimediabile la salute, gia così fragile, del fondatore.
II 25 ottobre 1931 mons. Conforti ordinò diaconi otto giovani saveriani. Dopo la cerimonia si sentì male: era in corso un’emorragia cerebrale che l’avrebbe presto portato alla paralisi. Per giorni la gente accorse all’episcopio per chiedere notizie: tutta Parma era in trepidazione. Il 4 novembre il vescovo chiese il viatico. Volle che lo rivestissero con il rocchetto e la stola, e gli mettessero l’anello episcopale al dito. Nel pomeriggio il male si aggravo. I presenti lo sentirono sussurrare: «Vedrò Dio, il mio salvatore!». La mattina seguente, un giorno di pioggia, le condizioni dell’infermo peggiorarono. Alle 13.55 dolcemente spirò.
Il popolo di Parma, alla notizia della morte di mons. Conforti, non ebbe esitazioni; tutti erano concordi nel dire: «È morto un santo!».

Negli anni ‘50, quando la rivoluzione comunista di Mao Tsedong in Cina si abbatté sulla chiesa come una bufera, i missionari vennero imprigionati; molti di essi subirono processi infamanti e battiture e, infine, furono tutti espulsi (1952-53). Cacciati dalla Cina molti figli del Conforti si dispersero nei tre continenti, dando vita a nuove missioni in vari paesi dell’Asia, America Latina e Africa.
Fu proprio dal continente africano che venne la prova necessaria e definitiva della santità del Conforti: nel 1965, Sabina Kamariza, una ragazza del Burundi, colpita da un tumore al pancreas, data per spacciata dai medici e ormai in fin di vita, guarì improvvisamente, dopo una novena di preghiere a mons. Conforti. La consulta medica dichiarò all’unanimità (cinque su cinque) tale guarigione «estremamente rapida, completa e duratura, inspiegabile in base alle nostre conoscenze scientifiche».

di Ettore Fasolini

Dati biografici

30-3-1865 nasce a Casalora di Ravadese (PR).
1872-1876 frequenta le elementari a Parma.
1876-1881 entra in seminario; legge una biografia di Francesco Saverio, che diventa suo l’ideale e darà il mome ai suoi missionari, detti appunto «saveriani».
1888 è ordinato sacerdote.
3-12-1895 inaugura il «Seminario emiliano per le missioni estere», riconosciuto, 3 anni dopo, come «Congregazione di S. Francesco Saverio per le missioni estere».
3-3-1899 saluta i primi saveriani partenti per la Cina.
1902 viene ordinato vescovo di Ravenna, ma dopo due anni rinuncia per motivi di salute.
1907 ristabilitosi, è nominato coadiutore del vescovo di Parma, con diritto di successione.
1912 consacra mons. Luigi Calza 1° vescovo saveriano e vicario apostolico di Chengchow (Cina).
1921 approvazione definitiva delle Costituzioni.
1928 settembre-dicembre: visita i missionari in Cina.
5-11-1931 muore a Parma.
17-3-1996 è proclamato beato.
23-10-2011 canonizzazione.

Ettore Fasolini




Tutto il potere ai malesi

Un paese lontano dalle cronache

L’etnia malese, maggioritaria e di fede musulmana, vuole continuare a guidare il paese asiatico senza interpellare le ampie minoranze indiane, cinesi e tribali. Ma una parte della società civile non sembra più disposta ad accettare la situazione e chiede più democrazia. Ed anche nel campo religioso i non-musulmani (in particolare, i cristiani) chiedono più libertà.

Due fattori, dibattito sull’identità religiosa e pluralismo politico, influenzano prepotentemente in questi mesi la vita della Malaysia, paese altrimenti caratterizzato da stabilità politica, sociale ed economica e di conseguenza da una scarsa presenza nelle cronache inteazionali.
Per lungo tempo alfiere di un islamismo laicista e moderato, sottoposto alla guida di personaggi forti ma insieme pragmatici, il paese è per conformazione geografica «ponte» tra Asia continentale e insulare, tra Asia meridionale e Estremo Oriente. Al centro, infine, di un’area che con l’eccezione del piccolo ma solido Singapore e del Brunei (che galleggia sul suo benessere garantito dal petrolio), vive profondi rivolgimenti e diverse ma ugualmente incerte vie verso il benessere.
Da anni la «restituzione del potere» ai malesi dopo i presunti privilegi goduti dalle altre etnie nel periodo coloniale e subito dopo l’indipendenza, si associa a concessioni all’identità islamica a volte denunciate come discriminatorie per le minoranze di origine tribale, indiana e cinese che raggruppano il maggior numero di cristiani. Le stesse minoranze che si oppongono con maggiore convinzione a un partito-stato (Umno, di cui diremo) che guida, con poche concessioni al dissenso, un paese federale di 28 milioni di abitanti al 53% di etnia malese e al 60% musulmani.

EQUILIBRI, COMPROMESSI, FRAGILITÀ
Con un reddito pro-capite nominale di quasi 7.000 dollari l’anno, i malaysiani vivono nella stragrande maggioranza al di sopra della soglia della povertà. Tuttavia esistono ampie disparità di reddito e di opportunità tra la parte continentale, ad esempio, e le vaste regioni di Sabah e Sarawak sulla grande isola del Boeo. Qui, in aree al centro di ampi interessi economici e di «frontiera» per chi si oppone alla deforestazione, agli abusi da parte delle grandi compagnie minerarie e all’inquinamento fluviale, si concentrano la maggior parte delle molte etnie tribali del paese (11 per cento della popolazione complessiva), come pure dei cristiani, in maggioranza protestanti. La presenza cinese (26 per cento) è equamente suddivisa nelle varie regioni, mentre quella indiana – erede di vecchie e nuove migrazioni e che assomma l’8 per cento dei malesi – si concentra nella regione peninsulare.
Già da questi dati appare chiaro come la stabilità del paese sia frutto di delicati equilibri e di alcuni compromessi sulle priorità, su cui predominano stabilità e sviluppo. Equilibri e compromessi che si ritrovano nell’organizzazione dello Stato e dei suoi poteri.
La Malaysia è una federazione di 13 Stati: Johore, Kedah, Kelantan, Malacca, Negri Sembilan, Pahang, Penang, Perak, Perlis, Sabah, Sarawak, Selangor e Trengganu, oltre all’area metropolitana della capitale Kuala Lumpur e all’isola di Labuan (quella di Emilio Salgari, leggere box) definite come «territori federali». Si tratta di una divisione amministrativa reale, dato che ciascuno Stato ha un proprio Parlamento con tanto di governo e primo ministro, in grado di legiferare su tutti gli aspetti non di competenza del Parlamento federale.
A complicare la situazione, c’è la nomina del capo dello Stato, che avviene ogni cinque anni a rotazione tra i sultani (che sono, ad un tempo, autorità politica e religiosa-islamica) di Johore, Kedah, Kelantan, Negri Sembilan, Pahang, Perak, Perlis, Selangor e Trengganu. I poteri del sultano non sono dissimili dal quelli di una monarchia costituzionale, sottoposti di fatto al governo in carica.
Il Parlamento che esprime l’esecutivo e insieme ne controlla le funzioni, è composto di due camere: un Senato eletto ogni sei anni che nella composizione mostra pienamente i delicati equilibri del paese; una Camera dei deputati di 192 membri eletti a suffragio universale ogni cinque anni.
Nei fatti, poi, la politica reale dipende da alleanze di gruppi e individui con legami territoriali, di clan, di interessi o di fede, che la politica parlamentare rappresenta solo fino a un certo punto. Ancor più sotto un sistema dominato per oltre quarant’anni da una coalizione, Barisan Nasional, con al centro un partito – Umno (United Malays National Organization) – che esprime in particolare gli interessi della componente malese e musulmana.

SHARIA (IN SALSA BRITANNICA)
Raggiunta l’indipendenza dalla colonizzazione britannica il 31 agosto 1957, il paese ha mantenuto una forte impronta anglosassone per quanto riguarda il sistema giudiziario – ma con uno spazio sempre maggiore all’uso delle consuetudini locali e, soprattutto della Sharia, la legge coranica -, burocrazia, gestione dei servizi pubblici. Al processo, sempre più profondo, di recupero dell’identità malese si associa quella del recupero dell’identità islamica maggioritaria per questa etnia. Questo sta aprendo incognite sull’eguaglianza scritta nelle leggi.
I particolarismi, tenuti sotto controllo con la forza o con la convinzione sono d’altronde nel Dna di questo paese, nato nel 1963 a sei anni dall’indipendenza, con la libera adesione di 11 Stati (tutti ex colonie britanniche), alcuni territori del Boeo (che precedentemente avevano prima cercato la via dell’autodeterminazione) e Singapore (dove vigeva, dal 1959, una forma di autogoverno). Una situazione difficile, da cui si sganciò prima il Brunei, nel 1962, poi Singapore nel 1965, in contrasto sul ruolo che la consistente comunità cinese avrebbe avuto in un paese che i leader stavano avviando verso un’identità soprattutto malese. L’insurrezione armata comunista, il confronto duro con l’Indonesia di Sukao fino al 1966 e le dispute territoriali con le Filippine per il Sabah fino al 1968, furono ulteriori minacce alla stabilità della neonata federazione che negli anni successivi si dovette confrontare con la rivolta dell’etnia cinese e con il tentativo di secessione delle regioni insulari. Lo stato d’emergenza con cui «Tunku» Abdul Razak cercò di gestire la situazione fu una pagina nera della storia  del paese, che mantenne però una sua sostanziale unità, rinsaldata dalle elezioni del 1974.
Sotto la guida dell’Umno, raramente contestata con qualche possibilità di successo dalle opposizioni (a loro volta assai divise quanto a programmi, definizione etnica e di fede), il paese si avviò a una più concreta identità malese, alzando considerevolmente (da 4 al 30 per cento) la quota delle imprese in mani malesi e applicando un sistema di quote garantite nelle università e negli impieghi pubblici ai bumiputra («figli della terra», ovvero i cittadini di origine malese e rurale).
Per evitare ulteriori tensioni – mentre nel Boeo già crescevano i contrasti tra cristiani e musulmani, i cinesi vivevano con sempre maggior disagio l’erosione del loro controllo su risorse ed economia e gli indiani una discriminazione percepita come crescente – fu giocoforza puntare verso un benessere che fosse concreto e anche condiviso. Non senza ostacoli. La ripresa della guerriglia comunista nella parte peninsulare, sostenuta soprattutto dall’etnia cinese, portò al deterioramento di rapporti con Pechino e per anni pesò sulla coscienza nazionale e sui diritti garantiti alla popolazione. Poche simpatie riscosse anche il sostanziale rifiuto di Kuala Lumpur di accogliere i boat-people vietnamiti, e ancor meno, in anni recenti, la crescita di un islamismo politico che tenta di ritagliarsi un ruolo parlamentare con il fine di ridefinire l’identità religiosa del paese.
 
IL GOVERNO E L’EGEMONIA CONTESTATA
Per la sua storia e per la sua identità, la Malaysia d’oggi è dunque una realtà complessa, che segue in ugual modo logiche consolidate e nuove vie.
La politica ha sempre visto una molteplicità di attori, un elemento coesivo (Barisan Nasional) e una leadership forte, in qualche modo autocratica, almeno fino all’uscita di scena di Mahathir Muhammad nel 2003 dopo 22 anni di premierato.
Con alcuni episodi che hanno segnalato insieme una difficoltà del partito di governo e, per contrasto, un ruolo più attivo dell’opposizione. Ad esempio, le elezioni del 1999, viste come un referendum pro o contro la politica di Mahathir, risultarono sorprendenti per la forte crescita del «Fronte Alteativo», che – sotto la presidenza del musulmano Fazil Noor – raddoppiò la presenza parlamentare, diventando maggioritario in due Stati. Una consultazione seguita da un’ondata di arresti di esponenti antigovernativi e ulteriori azioni legali verso il leader riconosciuto dell’opposizione, Anwar Ibrahim, già sotto processo per l’accusa di sodomia da lui sempre respinta e definita «politicamente motivata». Le grandi manifestazioni del 2007 anticiparono l’accesa contesa elettorale del marzo 2008 che mise alle corde l’Umno, che a stento mantenne la maggioranza parlamentare.
Una situazione che va ripresentandosi in questi mesi in vista del voto del 2013.
I manifestanti che, in una capitale in stato d’assedio, sono scesi in piazza il 9 e 10 luglio 2011 per chiedere libere elezioni sono stati affrontati con particolare durezza. Il movimento «Bersih», che associa un gran numero di organizzazioni della società civile ha deciso di sfidare apertamente il premier Najib Razak. Contro le migliaia di dimostranti (50.000 secondo gli organizzatori) che gridavano «riforma» e «potere al popolo» gli agenti in tenuta antisommossa hanno sparato gas lacrimogeni e usato gli idranti. Per sciogliere quello che è stato definito «un assembramento illegale», la polizia ha fermato 1.500 persone, poi rilasciate.
Il timore che la legge elettorale attuale favorisca il partito di governo sta portando alla convergenza tra l’insoddisfazione della politica, le richieste della società civile e le esigenze delle minoranze. In un paese aperto a investimenti e turismo, attento alla propria identità e all’ambiente, si pone oggi la scelta tra modeità e tradizione, tra dirigismo e scelte individuali, tra islamizzazione della vita pubblica e libertà di fede.

NEL NOME DI ALLAH
Alcuni eventi recenti hanno spinto la Conferenza episcopale cattolica malaysiana a iniziative, proprie o congiunte con altre comunità non musulmane, per chiedere che sia salvaguardata la libertà religiosa. L’indicazione della fede d’appartenenza nei documenti d’identità e l’estrema difficoltà a cambiarla – anche nel caso (raro) di conversione dall’Islam ad altra religione – è un elemento di discordia, come pure la generalizzata applicazione del funerale islamico su tutti i cittadini.
La sentenza della Corte suprema che il 31 dicembre 2009 aveva ritenuto legittimo l’uso del vocabolo «Allah» per indicare Dio nell’edizione in lingua malese del quotidiano cattolico The Herald non ha chiuso un confronto su questo tema che ha dato vita a iniziative violente degli estremisti musulmani, che nei mesi successivi e fino ad ora hanno trovato altri focolai. È vero che le azioni ostili contro i luoghi di culto cristiani sembrano più atti isolati di singoli fanatici piuttosto che espressioni di una strategia. Tuttavia, la loro frequenza e l’impunità degli attentatori inquietano gli stessi musulmani moderati.
Secondo il censimento del 2000, i cristiani di diverse confessioni in Malaysia sono il 9,1% della popolazione e tra essi i cattolici sono circa 750mila.
Molti nel Paese sono coscienti che a rischio non è solo l’integrità dei luoghi di culto, ma anche un ideale di convivenza che da tempo è sottoposto a forti pressioni e per questo l’avvio di normali relazioni diplomatiche tra Federazione malese e Santa Sede ha aperto nuove prospettive.
L’incontro del 18 luglio in Vaticano tra Benedetto XVI e il primo ministro malese Najib Razak potrà facilitare, secondo l’arcivescovo di Kuala Lumpur mons. Murphy Pakiam, «la creazione di un Consiglio interreligioso, la nascita di un ministero per i non-musulmani, un diverso atteggiamento nei confronti delle scuole cattoliche che sono state gradualmente nazionalizzate e su cui ora il governo ha il completo controllo».

di Stefano Vecchia

Stefano Vecchia




Boom economico, diritti in crisi


Il secondo paese d’Africa per abitanti vive una crescita economica tra le più alte al mondo. Ma il livello di vita nelle campagne resta molto basso. Le elezioni di maggio hanno confermato il partito al potere. E sui diritti la strada da percorrere resta lunga.

Arba Minch. Sono le quattro e trenta del mattino. Improvvisamente una voce irrompe nel silenzio totale. È un suono amplificato, un uomo canta una nenia, forse una preghiera. Difficile stabilire se si tratta di una lingua o di un semplice suono vocale.

È ancora buio quando il sacerdote ortodosso della chiesa St. Gabriel porta il microfono alla bocca e inizia la sua cantilena. Non smetterà, se non per piccole pause, fino alle tre del pomeriggio. Sono preghiere nell’antica lingua geez, che per l’amharico, lingua nazionale, corrisponde a quello che è il latino per l’italiano. È la festa di Yefilseta Tsom (il digiuno di Maria), dedicata alla Madonna. Dura sedici giorni ad agosto, durante i quali i fedeli sono chiamati a pregare al mattino presto e a digiunare fino al pomeriggio.

Siamo ad Arba Minch, a 450 km a Sud di Addis Abeba. Città di circa 110.000 abitanti e un elevato tasso di crescita di 4,5% annuo, che, a prima vista, sembra non avere nulla di speciale. Si divide in città bassa Sikela e città alta Shecha. Qui i quartieri si inerpicano sulla montagna. All’improvviso però la salita finisce e ci si ritrova su una rara balconata naturale che offre uno spettacolo splendido. La foresta tropicale ai propri piedi, di fronte la montagna chiamata Ponte di Dio che divide il lago Chamo dal lago Abaya, distesa d’acqua di 1162 km quadrati (oltre tre volte il lago di Garda), dalla quale spuntano isolette coperte di vegetazione. La città si adagia su questa falesia, ai piedi della quale l’acqua filtrata dalla montagna origina decine di sorgenti. Da qui il nome, Arba Minch, che in amharico significa «quaranta sorgenti».

Siamo nel bel mezzo della famosa  Rift Valley, la larga «vallata» che si estende dalla Siria al Mozambico, e segna la separazione naturale tra la placca africana e quella araba. In particolare, in Etiopia, separa l’altopiano etiopico da quello somalo.

Un paese «emergente»

In Etiopia vivono circa 96,5 milioni di persone di 80 etnie (cfr. MC aprile 2011), il che lo rende il secondo stato più popoloso dell’Africa, dopo la Nigeria. È anche una delle economie di punta del continente (e del mondo) con un Pil in crescita media del 10% negli ultimi 10 anni. Ha però la contraddizione di avere uno dei Pil pro capite più bassi (tra gli ultimi nove, poco superiore a Congo Rd e Niger)1. È in atto un vero boom economico, legato in gran parte a uno sviluppo di tipo infrastrutturale: costruzione di case, palazzi, strade e ferrovie (la prima metropolitana leggera in Africa sub sahariana è quasi pronta ad Addis Abeba). Mentre nelle campagne, così come nelle remote zone di montagna, e nelle aree desertiche la povertà è ancora da sconfiggere e l’accesso ai servizi (sanità, educazione, acqua) è tutt’altro che garantito.

L’Etiopia vive ancora una dipendenza strutturale dagli aiuti estei. Si valuta che siano in media tre i miliardi di dollari che entrano ogni anno nel paese come aiuto allo sviluppo2.

Ad Arba Minch il panorama urbanistico è in rapida evoluzione. Vediamo diversi cantieri, alcuni molto appariscenti: un grosso ospedale, un impressionante centro congressi, diverse infrastrutture dell’università (la Arba Minch University è nota in tutto il paese e conta oltre 20.000 studenti universitari) e perfino una chiesa ortodossa. Tutti edifici che spiccano per le loro imponenti dimensioni.

Anche la capitale Addis Abeba vive un’esplosione urbanistica senza precedenti. Oltre ai grossi edifici pubblici, orribili condomini prendono il posto delle baracche dei quartieri poveri.

Notevoli sono anche le dighe in costruzione: da quelle sul fiume Omo (la Gilgel Gibe III e pianificate le IV e V), molto criticate a livello internazionale per il loro impatto ambientale, alla Grande diga etiopica della Rinascita. Questa è un colosso sul Nilo Azzurro che, con la centrale idroelettrica collegata, è previsto produrrà 6.000 Mw di elettricità, la maggiore di tutta l’Africa. Il costo è di oltre 4 miliardi di dollari e la realizzazione è affidata all’italiana Salini-Impregilo Spa.

In Etiopia anche il turismo è in espansione. Grazie alla sua storia millenaria, il paese offre importanti siti storici, culturali e religiosi ma anche naturalistici ed etnografici: città antichissime come Lalibela e Axum (Aksum), parchi naturali e popoli speciali. I visitatori sono passati da 460mila nel 2010 a 681mila nel 2013. Non a caso, anche grazie alla diplomazia, il Consiglio europeo per il turismo e il commercio3 ha scelto proprio l’Etiopia come «migliore destinazione turistica mondiale 2015».

Alteanza senza alternativa

La coalizione di partiti al potere, il Fronte rivoluzionario democratico del popolo etiopico (Eprdf, sigla inglese), si è confermato egemone alle elezioni del 24 maggio scorso. Costituita intorno dal Fronte di liberazione del popolo del Tigray, i guerriglieri che nel 1991 rovesciarono il regime militare di Meghistu Hailé Mariam (1974-91), è al potere da allora. Importante è stata la figura del carismatico primo ministro Meles Zenawi, morto di malattia nel 2012, e intorno al quale il regime ha sviluppato un vero culto della personalità. Tanto che a tre anni di distanza è ancora celebrata la data della sua scomparsa, gli sono consacrati passaggi televisivi foto che lo ritraggono restano appese in negozi e uffici.

Per sostituirlo, il partito (ma era stato lui a sceglierlo) ha designato Hailemariam Desalegn. Di etnia wolayta del Sud, si distingue dai tigrini, gruppo di Meles, che controllano il potere, e per questo, figura più defilata, ma anche di equilibrio tra i diversi popoli.

Se nel precedente parlamento, solo uno dei 546 seggi era andato all’opposizione, l’assemblea uscita dalle ue quest’anno è monocolore. Anche i parlamenti regionali vedono solo 21 membri dell’opposizione su un totale di 1987 eletti.

Gli osservatori dell’Unione Africana (Ua, che ha sede ad Addis Abeba) hanno qualificato le consultazioni come «calme, pacifiche e credibili», che «hanno dato la possibilità al popolo di esprimersi». Da notare che gli osservatori dell’Unione europea e del Carter Centre non sono stati invitati, mentre quelli della Ua erano 59 su una popolazione di elettori di oltre 30 milioni.

Taye Negussie, professore di sociologia all’Università di Addis Abeba ha commentato: «Questo risultato era totalmente atteso, non c’è multipartitismo in Etiopia».

«L’Eprdf vede le elezioni come un’opportunità per coinvolgere la popolazione in un atto di partecipazione politica, sebbene non competitiva» scrive Jason Mosley, analista dell’istituto indipendente di studi strategici Chataham House di Londra4.

L’opposizione è frammentata e molti leader sono in esilio volontario perché temono ritorsioni.

I principali partiti sono il Forum etiopico unito federale democratico, che non è riuscito a creare una piattaforma, Il partito blu (Semawayi) a maggioranza islamica e Unità per democrazia e giustizia. In effetti molti oppositori politici sono stati perseguitati e arbitrariamente arrestati, mentre la tortura è ancora molto utilizzata, come denunciano Human Rights Watch e Amnesty Inteational5.

Media sotto controllo

La situazione della stampa è anche peggiore. Il regime controlla tutto l’apparato mediatico, internet e l’unica compagnia telefonica ed è diventato particolarmente repressivo da inizio 2014, molto probabilmente in vista delle elezioni di maggio. Pochi sono i giornali indipendenti e hanno vita dura. Solo nel 2014 sono state sei le testate indipendenti fatte chiudere e 30 i giornalisti che hanno lasciato il paese per paura. Nell’aprile 2014 sono stati arrestati nove blogger del collettivo Free Zone 9 e altri tre giornalisti. Il potere utilizza la dura legge anti terrorismo varata nel 2009, accusando media privati e operatori dell’informazione di essere in connivenza con i terroristi.

Una settimana prima dell’arrivo di Barak Obama il 27 luglio (prima visita di sempre di un presidente Usa in carica nel paese) per la Conferenza internazionale finanza e sviluppo, due blogger e quattro giornalisti tra i quali il noto Reeyot Alemu sono stati liberati. Come per dare un contentino agli Usa, che avevano criticato ufficialmente la detenzione degli operatori dell’informazione.

Alemu critica Obama per aver detto, nel suo discorso, che il governo etiopico è stato democraticamente eletto: «Non è eletto democraticamente, perché c’erano solo media governativi e la gente non ha potuto avere abbastanza informazione. […] Hanno anche arrestato molti leader dell’opposizione e giornalisti. Hanno vinto le elezioni usando violazioni dei diritti umani».

Quello che osserviamo è una presenza forte dello stato in tutti i settori della società. I funzionari pubblici e gli eletti ai vari livelli, sono tenuti d’occhio e al minimo problema vengono trasferiti. L’effetto positivo è sicuramente una riduzione della corruzione, molto al di sotto di quanto si trova in altri paesi del continente. Anche la criminalità è mantenuta a livelli bassi, e si circola tranquillamente nelle grandi città dove la sicurezza personale non sembra in pericolo.

«La società civile è debole e comunque ha poco margine di manovra», ci confida un operatore umanitario.

Più che associazioni, qui ci sono le cornoperative create dallo stato allo scopo di migliorare la produzione, ad esempio le cornoperative agricole.

«Le organizzazioni internazionali – ci confida – non possono dire che si occupano di diritti umani. Qui è un argomento tabù».

Guardiano per il Corno

L’Etiopia è il paese chiave per la geopolitica del Corno d’Africa, perché funge da stabilizzatore, tra la Somalia degli al Shabaab (che intervengono anche in Kenya) e l’Eritrea del dittatore Isaias Afewerki, da cui la popolazione cerca di fuggire con ogni mezzo. È inoltre un paese a prevalenza cristiana (seppur ortodossa) che si contrappone alle islamiche Somalia e Gibuti e, in parte anche Eritrea, influenzate dalla vicina penisola arabica. Gli Usa e l’Europa vogliono quindi mantenere buone relazioni con il governo etiope e scommettono sulla sua stabilità.

Proprio ad Arba Minch la prima cosa che si vede appena atterrati al piccolo aeroporto è un hangar protetto e con doppia recinzione di filo spinato e blocchi di cemento. Talvolta, da una porta esce un militare bianco, in divisa mimetica. Nel recinto alcune grosse antenne paraboliche in colore sabbia. È la base Usa dei droni, velivoli telecomandati da combattimento. Partono da qui, pilotati dall’altro capo del mondo, per andare a bombardare gli al Shabaab in tutta l’area del Coo. Il contingente Usa, alcune decine di persone, è alloggiato al Paradise Lodge, uno dei migliori alberghi della città, sulla falesia. Hanno una zona tutta per loro, lontana da occhi indiscreti e protetta da guardie locali.

L’Etiopia è anche terreno di concorrenza tra gli occidentali e la Cina. Questa, oltre a essere il modello economico del governo etiopico, sta attuando da oltre un decennio cospicui investimenti nel paese.

Ad Addis Abeba si vedono numerosi cantieri finanziati da banche cinesi e realizzati da imprese cinesi. Come l’estensione dell’aeroporto della capitale o la nuova sede dell’Unione Africana, dono del governo cinese a quello etiope. Molte strade del paese sono state rifatte dai cinesi, altre sono in corso d’opera.

Le chiese

La chiesa cattolica di rito latino è un’esigua minoranza. Lo 0,7% secondo un censimento del 2008, mentre gli ortodossi sono il 45% e i protestanti il 17%. C’è poi circa il 35% di musulmani.

«Le relazioni tra le chiese ortodossa e cattolica a livello ufficiale sono buone» ci racconta fratel Domenico Brusa, missionario della Consolata, in Etiopia da 30 anni, che raggiungiamo telefonicamente. «A livello di sacerdoti pure, anche se una parte del clero è più conservatore. E anche tra la popolazione».

«La diversità di rito talvolta è problematica. Nel rito ortodosso ci sono oltre 100 giorni di digiuno all’anno. E lo deve fare tutto il popolo. In una società sempre più veloce diventa difficile da rispettare. Il rito orientale è bello, dialogato, partecipato, ma più adatto a una società senza orari». Fratel Domenico ha potuto assistere a grandi cambiamenti sociali: «Il paese sta cambiando rapidamente, anche perché prima era fermo. Oltre alle costruzioni, anche in campagna si diffondono le macchine e la coltivazione in serra. Grandi terreni vengono venduti (si riferisce al land grabbing, si veda MC maggio 2015, ndr). Anche la popolazione cambia». Per cui, ricorda fratel Domenico: «Il consumismo si espande e i giovani si orientano diversamente».

E suggerisce: «Occorre dare più contenuto, altrimenti c’è il rischio che il rito resti un contenitore vuoto». Fratel Domenico, dopo aver girato tutte le missioni della Consolata del paese, lavora attualmente in quella di Gambo, dove è responsabile della fattoria che alimenta l’ospedale gestito dai missionari.

Lasciamo la città delle quaranta sorgenti. Prendiamo l’aereo, un turbo elica Bombardier Q400 che ci riporterà ad Addis Abeba. Godiamo ancora del caldo e della gentilezza degli etiopi di questa regione. In capitale è stagione delle piogge e, complice l’altitudine (2.400 metri) le temperature sono più rigide. Una militare donna, statunitense, uscita dalla base dei droni Usa, controlla scrupolosamente, a vista, le valigie dei viaggiatori.

Marco Bello

Note:

(1) Banca Mondiale, www.worldbank.org.
(2) Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo www.oecd.org.
(3) L’Éthiopie élue «meilleure destination au monde» par les professionnels du tourisme, Sabrina Myre, Jeune Afrique, 9 luglio 2015.
(4) Ethiopia’s elections are just an exercise in controlled political participation, Jason Mosley, The Guardian, 22 maggio 2015.
(5) Rapporti di Human Rights Watch e Amnesty Inteational, 2015.

Nell’archivio MC: Chiara Giovetti, La missione nell’Etiopia di ieri e di oggi, agosto-setembre 2013 e Etiopia, Gambo: agricoltura e sanità, novembre 2011. A. Vascon e N. Di Paolo, Caleidoscopio africano, aprile 2011.

Marco Bello




Italia/Perù: Torno laggiù e mi uccideranno


Ucciso il 25 agosto 1991 nei pressi di Santa, sulle montagne di Chimbote, in Perù, da due membri di Sendero Luminoso, don Alessandro Dordi verrà proclamato Beato il 5 dicembre prossimo.

Nato il 22 gennaio 1931 a Gromo San Marino, in alta Val Seriana, missionario fidei donum della diocesi di Bergamo, prima di partire per il Perù nel 1980 era stato al servizio della diocesi di Chioggia dal 1954, anno della sua ordinazione sacerdotale, quando andò ad aiutare le popolazioni del Polesine colpite dall’alluvione, al 1965, ed era stato prete operaio e cappellano dei migranti italiani in Svizzera dal 1965 al 1979. Nonostante le minacce esplicite ricevute da parte del movimento guerrigliero, decise di rimanere in Perù. Durante l’ultimo viaggio in Italia salutò i suoi famigliari dicendo loro: «Addio, adesso torno laggiù
e mi uccideranno».

Non ho conosciuto don Sandro, ma, considerando quello che è stato raccontato su di lui e i suoi scritti, mi piace pensare che, se fosse ancora tra noi, prendendo l’Evangelii Gaudium di papa Francesco tra le mani, avrebbe il volto luminoso di chi trova conferma a tutte le sue scelte, di chi, con meraviglia, scopre che da sempre è stato condotto dal Signore.

Quella domenica 25 agosto 1991 don Sandro aveva un appuntamento già fissato da tempo. Un pretesto per chi lo voleva uccidere, un segno per lui, prete contento di essere prete, pur con l’imbarazzo di non sentirsi all’altezza.

È stata questione di brevissimo tempo: l’impatto terribile con la durezza del cuore, lo smarrimento davanti alle armi, il desiderio di trovare una mediazione, «Per favore, non fatelo», la voce strozzata in gola davanti ai suoi aguzzini, e poi l’abbandono fiducioso.

Il silenzio che solitamente avvolge la morte, per don Sandro è rotto dall’intensità della sua testimonianza evangelica. Ucciso lungo la strada verso la parrocchia di Santa, ancora oggi continua il suo cammino nel sangue: sì, perché qualche ora più tardi, una suora bergamasca giunta sul luogo dell’assassinio, ha raccolto un pugno di terra impastato di sangue. Oggi è la reliquia più preziosa che portiamo con noi nella fedeltà al mandato missionario.

La missione nasce dalla dinamicità della fede.

Alessandro Dordi, figlio della terra bergamasca, nato il 22 gennaio 1931, respira da subito quel senso del dovere che scaturisce dall’essenzialità dell’esperienza cristiana e dalla sobrietà della vita di montagna. È il secondogenito di una famiglia che alla fine conterà 9 figli. La profondità di spirito che viene dall’ascolto della natura lo accompagnerà sempre, nell’austera vita del seminario e della formazione, nelle esperienze del Polesine, della Svizzera e poi del Perù, sicuramente tappa, quest’ultimo, in cui esprimerà tutta la maturità della sua adesione al progetto di Dio.

La comprensione della povertà come luogo teologico diventa sempre più concreta man mano che il servizio sacerdotale gli permette di immergersi nella storia degli uomini. I contesti in cui lavora sono davvero diversi: il Polesine segnato dall’alluvione del 1951 lo vede protagonista del quotidiano, capace di un ascolto che ricompone le contrapposizioni, pellegrino nelle case della parrocchia con il «cartoccetto» della cena, pedalatore instancabile per raggiungere un infermo o condividere un dramma familiare. Lo stupore sul volto di chi lo conosce sarà, anche dopo la sua morte, una prova di tutto questo. La Svizzera ridisegna i confini del ministero di don Sandro, ma non il suo cuore che vi farà l’esperienza del lavoro in fabbrica, della condivisione dei disagi dei migranti italiani, dell’ordinarietà della cura della fede. Anche le fratture dell’io, con le paure esistenziali dei momenti di fragilità, non risparmiano il respiro di don Sandro che, grazie alla paternità del vescovo, e all’affetto fermo della mamma, trova una risposta positiva alla sua ricerca di un servizio sempre più intenso.

In Svizzera, tra i migranti italiani si colloca il discernimento che lo spinge oltre oceano. È al termine di un viaggio di ricognizione con il confratello don Sergio, oggi arcivescovo di Santa Cruz de la Sierra in Bolivia, che una mano di grazia lo aiuta a trovare casa a Santa, nella diocesi di Chimbote in Perù. Adesso la missione assume le caratteristiche dell’ad gentes, proprio il paradigma dell’azione pastorale della Chiesa.

E la storia immerge volti e racconti nel cuore del missionario.

L’amicizia sincera e fraterna con Gustavo Gutierrez, padre della teologia della liberazione, è un po’ come lo scrigno da cui don Sandro attinge per impegnarsi senza limiti nelle opere e nella pastorale, nell’intento di proporre ai suoi fedeli una predicazione concreta, calata nella storia, capace di raggiungere il cuore e la vita della gente, dei poveri soprattutto. Camilla, sua fedele collaboratrice dai tempi della Svizzera, racconterà le sue liturgie quotidiane: dapprima cariche di silenzi, poi con poche parole che riconducono il Vangelo a una famiglia, un ammalato, un disoccupato, un senza Dio, un giovane e a chi può avere più bisogno di una Parola di Grazia. La liturgia non può che diventare storia, altrimenti si riduce ad archeologia. Ed è prendendosi cura dei piccoli e degli ultimi che la liturgia realizza la dimensione profetica che le è propria, e apre gli orizzonti della speranza. Sa bene don Sandro che non si tratta di trovare qualcosa di consolatorio davanti alle fatiche della vita, qualcosa come la promessa di un contentino finale se «farai il bravo». C’è di mezzo il Regno di Dio, una cosa talmente importante da disegnare la speranza di popoli interi, da segnare per sempre il cammino di ogni vita. Questa responsabilità lo accompagna nel pellegrinaggio del ministero lasciando emergere, di volta in volta, attenzioni e gentilezze proprie di un cuore grande. Infaticabile in Polesine, presente in Svizzera, libero in Perù.

La rivoluzione del Vangelo è portatrice di pace.

Don Sandro sperimenta l’odio sulla sua pelle. Anni dopo la sua uccisione, il suo esecutore, raggiunto in carcere dal Vescovo di Chimbote, ammetterà l’odio che correva nel sangue di quel Sendero luminoso che voleva far tesoro dei poveri a proprio beneficio e sentiva di dover combattere, fino al sangue, la verità del Vangelo.

Don Sandro rimane al suo posto, nonostante le minacce, la morte dei due frati polacchi all’inizio di quel suo ultimo mese di agosto del 1991, l’aria sempre più rarefatta, le scritte sul muro di cinta che recitano: «Straniero, il Perù sarà la tua tomba».

Emerge un tratto caratteristico di don Sandro, talmente disarmante da sembrare persino infantile: il cuore libero. Pronto a partire in un baleno per il Polesine dopo pochi giorni dall’ordinazione, ancora avvolto nella festa della rugiada del sacerdozio, capace di offrire agli emigrati italiani in Svizzera una disponibilità di attesa e fiducia, convinto di rimanere accanto al suo popolo peruviano con il sudore di sangue che solo la paura può generare ma che si terge con la fedeltà alla propria vocazione. L’obbedienza è per lui «croce e delizia»: un abbandonarsi alla fedeltà di Dio, un ritrovarsi inspiegabilmente protagonista di una storia più grande di quanto credesse. È il suo un protagonismo «umile», alla ricerca di quelle ragioni che appartengono al cuore e alle quali è impossibile ogni imposizione. Per questo il suo rapporto con i vescovi è sempre onesto, schietto, libero, persino «disobbediente» nella passione per la ricerca, quando si tratta di partire per il Perù. «Per essere utili a se stessi e agli altri – scrive a un amico – occorre avere dentro delle giuste motivazioni». E il suo cuore è capace di tanto che il Vescovo non ha timore di accompagnarlo con la sua benedizione.

Il missionario è una vita che annuncia.

Non ci piove, occorre buttarsi dentro a capofitto. «Per essere missionari – scrive in una lettera del 2 febbraio del 1982 – occorre essere umili, per questo si parla di scambio e servizio. È bene lavorare con molta discrezione, eliminando il comprensibile orgoglio di chi sa di più. Deve scomparire ciò che è proprio dell’italiano, dello spagnolo, del francese e dell’americano, per diventare solo membri del popolo che si serve… Noi missionari dobbiamo imparare a controllarci, a non fare confronti, a mostrare anche nelle critiche un grande amore per il popolo».

Segnato dalla vocazione missionaria, don Sandro chiede da subito di lasciare spazio a questo spirito universale negli anni degli studi teologici, quando nel 1952 viene accolto nel seminario del «Paradiso», la comunità sacerdotale missionaria nata nel 1949 dal cuore immenso di don Fortunato Benzoni e dalla sapiente profezia del vescovo Adriano Beareggi, presenza qualificante nella Chiesa di Bergamo. Preti «votati» alla missione a 360°, a servizio delle diocesi più povere di sacerdoti, presenti nei luoghi di migrazione, promotori della nuova evangelizzazione.

L’ordinazione, che avviene il 12 giugno del 1954 per don Sandro e per altri 26 giovani, tra i quali altri quattro, oltre a lui, della Comunità Missionaria del Paradiso, sigilla tutto questo anche grazie alle parole generose che il vescovo Giuseppe Piazzi consegna loro: «Il sacerdozio è il compimento dell’opera redentrice del Cristo, la quale si è operata sulla Croce… Il sacerdote che vuole fare del bene… che vuole convertire a Cristo… deve voler mettersi vicino alla Croce di Gesù, anzi salirvi sopra col suo sacrificio e con la sua sofferenza».

«È un martire», dice il vescovo Giulio Oggioni la mattina del 26 agosto 1991, giorno solenne per la Chiesa di Bergamo per il ricordo liturgico del suo patrono S. Alessandro, all’inizio della celebrazione di quel giorno, aggiungendo poi, il 1° settembre, nel momento in cui la salma di don Sandro viene adagiata davanti all’altare della cattedrale: «Don Sandro, sei tornato nella cattedrale dove hai ricevuto il ministero pastorale. Sei tornato quasi per dirci che come la chiesa cattedrale è la matrice di tutte le chiese diocesane, così essa è la matrice di tutto il nostro ministero in qualsiasi luogo lo si eserciti. Sei partito da qui, hai esercitato il tuo ministero in Italia e in Svizzera e ultimamente a Santa, in Perù, sempre però come presbitero della tua diocesi. Ho detto spesso che i presbiteri diocesani devono vedere nei loro missionari l’espressione più eccellente della loro missionarietà e tu, ora, sei tornato per dircelo non a parole, ma coi fatti. I due colpi mortali che ti hanno colpito al cuore e alla testa sono la testimonianza di amore e di fede, sono un insegnamento che difficilmente si cancellerà nel nostro cuore e nel nostro intelletto. Per questo sarai per noi una immagine e un modello di come si è ministri e servitori dei fratelli».

Oggi la Chiesa ci riconsegna don Sandro Beato: un uomo, un prete, un missionario, un martire, un impasto di testimonianza di fede, un invito. Sì, proprio l’invito rivolto a ciascuno di essere discepoli missionari, perché il seme dei martiri è fecondità di vita nuova, è la gioia del Vangelo, appunto un Vangelo di gioia.

don Giambattista Boffi
direttore del Cmd di Bergamo

Giambattista Boffi




Brasile. Pallottole spuntate?


Oltre undici milioni di brasiliani vivono nelle favelas. Una parte di esse sono territori dominati da banditi e narcotrafficanti, in cui la pacificazione è un’impresa difficile. Ne abbiamo visitate alcune a Rio de Janeiro, la città che nell’agosto del 2016 ospiterà i giochi olimpici.

Rio de Janeiro. Al primo impatto la sensazione è di incredulità. Il verde tropicale della foresta Tijuca fa da sfondo alle centinaia di case che si arrampicano sui ripidi pendii delle colline, si accavallano e incastrano l’una nell’altra. Il quadro che ne risulta è un caotico insieme di linee e colori che si inseguono a perdita d’occhio. Il Morro do Borel è una delle centinaia di favelas di Rio de Janeiro. Si stima che ci vivano oltre 20 mila persone e a questo, come agli altri quartieri della zona Nord della città, anche il gigantesco Cristo Redentore volta le spalle, rivolgendo lo sguardo verso i ricchi quartieri di Copacabana e del centro città. Dire con precisione quanta gente abiti in queste baraccopoli non è certo impresa semplice visto che alcune risultano tutt’oggi inaccessibili. Alcune si sono espanse così rapidamente da inglobae di minori e divenendo delle vere e proprie città nella città: è il caso del Complexo do Alemão, una delle favelas più grandi dell’intera America Latina. Solo in questa comunidade, così la chiamano i suoi abitanti, si calcola possano vivere oltre quattrocento mila persone, numeri impressionanti se si pensa che in tutto il Brasile si stima siano oltre undici milioni le persone che vivono in queste condizioni, pari al 6% dell’intera popolazione (Ibge 2013 su dati 2010).

Da sempre viste nell’immaginario collettivo come luoghi da cui stare alla larga per via dei pericoli legati ai trafficanti di droga, le favelas sono caratterizzate da storie, sofferenze e problemi assai diversi le une delle altre. Ad oggi la prima grande differenziazione tra questi quartieri è la presenza o meno delle Upp (Unidade de polícia pacificadora, Unità di polizia pacificatrice, sito web: www.upprj.com), un corpo speciale della Polizia militare che in questi anni, in vista degli appuntamenti inteazionali dei Campionati Mondiali di calcio (2014) e dei prossimi Giochi Olimpici (agosto 2016), ha iniziato un percorso di bonifica dal narcotraffico, cercando di mitigare la guerra per il controllo della droga. Ad esempio il Morro do Borel fino a qualche anno fa era considerato una delle favelas più pericolose di tutta la metropoli brasiliana, dal momento che la collina su cui sorge era contesa da due comandi differenti che, nel tentativo di prevalere l’uno sull’altro, erano soliti fronteggiarsi in violenti conflitti a fuoco dove il più delle volte a rimetterci la vita erano gli abitanti stessi del quartiere. Oggi invece camminiamo tranquillamente per le ripide strade della favela senza alcun timore e dove una volta sorgeva la «boca do fumo», la via adibita alla vendita e al consumo degli stupefacenti, troviamo decine di negozi e baretti affollati da cui viene diffuso a tutto volume il tradizionale funky carioca.

Narcotrafficanti

Ma sono ancora molte le comunidade che aspettano l’intervento dello stato per ripulire le loro strade da banditi e trafficanti, una di queste è la favela di Acarí all’estrema periferia Nord della città. Ci entriamo accompagnati da Marcelo, una sorta di istituzione della comunità in quanto allenatore della squadra di calcio giovanile che, proprio per il suo impegno con i giovani del quartiere, si è guadagnato il rispetto degli stessi trafficanti avendo in gioventù allenato molti di loro che in seguito hanno abbandonato gli scarpini per darsi ad attività illecite. Tutte le vie d’accesso alla favela sono presidiate da gruppi che, armi in pugno, controllano chi entra e chi esce. Naturalmente l’ingresso di uno straniero non passa inosservato e solo grazie all’intervento di Marcelo il nostro giro nella comunità può proseguire. I muri delle case sono vergati con le sigle del comando che controlla la zona e uomini armati a bordo di grosse moto fanno i corrieri rifoendo i clienti che si fermano all’entrata della favela. Marcelo ci accompagna nella casa di una giovane donna i cui due figli sono rimasti gravemente feriti alle gambe dallo scoppio di una granata. È all’ordine del giorno, nelle guerre dei trafficanti per il controllo dei territori, il coinvolgimento di giovani e bambini che si trovano per strada a giocare. All’ospedale di Rio de Janeiro i medici dopo aver visitato i due ragazzi, hanno tracciato un quadro clinico piuttosto preoccupante, ma le liste per le operazioni raggiungo i sei mesi d’attesa. Ad oggi nella favela di Acarí duecento malviventi tengono in ostaggio le vite di oltre quarantamila onesti abitanti del quartiere, palesando agli occhi di tutti la grande voragine lasciata da uno stato che, oltre a non riuscire a dare un’assistenza dignitosa ai suoi cittadini, troppo spesso non riesce a porre la legalità come alternativa per i giovani che vedono nel traffico di droga un facile modo per guadagnare fama, soldi, rispetto e naturalmente potere. E da lavorare lo stato ne avrebbe anche in quelle favelas pacificate dove la convivenza tra abitanti e agenti della Upp è spesso messa a rischio da incresciosi abusi di potere da parte delle forze dell’ordine che portano a violente reazioni della popolazione.

Pallottole vaganti

A parlarcene è Miramar, il responsabile della comunità cattolica del Morro do Borel, conosciuto in tutto il quartiere perché voce di «Radio Grande Tijuca» (sito web: rgt105fm.tk), l’emittente radiofonica che trasmette ormai da dodici anni dalla favela. Quando lo incontriamo all’interno degli studi della radio ci spiega come è cambiata la vita dopo la pacificazione, ci racconta ad esempio di quando le vie della comunità, affollate di persone che rientravano a casa da lavoro e da scuola, erano il luogo della quotidiana guerra tra trafficanti. Chi era per strada quindi doveva correre a ripararsi aspettando, anche fino a tardi, che il fuoco cessasse. «Non eravamo padroni delle nostre vite e dei nostri spazi, ma oggi fortunatamente tutto questo è cambiato e, da tempo, le armi dei trafficanti hanno smesso di sparare», racconta Miramar che poi aggiunge, «Il rapporto con la Polizia pacificatrice è però allo stesso tempo molto complicato: gli agenti della Upp che sono di stanza nella nostra comunità non ruotano mai con gli uomini dei commissariati delle altre favelas. Questo permette una più facile integrazione con gli abitanti del quartiere, però facilita anche la corruzione, per cui i trafficanti riescono ad avere mani libere in cambio di tangenti alle forze dell’ordine. Così, mentre i grandi criminali restano impuniti e continuano ad arricchirsi, la polizia conduce violente operazioni anti droga contro piccoli spacciatori che, nei tentativi di fuga, vengono spesso uccisi dal fuoco degli agenti. Capita anche che a finirci in mezzo siano i nostri ragazzi i quali, vittime di un dilagante razzismo, solo perché neri vengono identificati come spacciatori e coinvolti in violenti conflitti. Insomma ancora oggi i nostri figli non sono liberi di crescere e giocare per strada senza il rischio che un proiettile vagante possa colpirli». Miramar e il gruppo della comunità cattolica da anni sono impegnati in prima linea per cercare una mediazione nella difficile convivenza tra abitanti e agenti di polizia. In più, dal momento che il prete vive distante dalla comunità e raggiunge la piccola chiesa della favela solo la domenica mattina per celebrare messa, i fedeli si sono organizzati autonomamente creando una rete di aiuto e solidarietà che gira attorno alla radio di Miramar.

Spazzatura e amianto

I temi su cui lavorano sono svariati, ma tutti convergono sui principali problemi quotidiani che la gente deve affrontare, uno fra tutti quello dei rifiuti. Più che un problema quello della spazzatura è una vera e propria piaga che infesta le strade propagando per tutta la comunità un terribile fetore. Per di più i grossi cumuli di immondizia sono il terreno ideale di proliferazione di ratti e malattie. Le aree di raccolta rifiuti sono poche e male attrezzate, quindi, riversando la spazzatura per strada, si finisce inevitabilmente per intasare il già precario sistema fognario. A quel punto il primo giorno di pioggia le strade diventano dei veri e propri torrenti di liquami e acque nere che corrono rapidi giù per la collina finendo nei fiumi e contaminandone le acque. Miramar da tempo conduce alla radio un programma di sensibilizzazione sull’argomento: «Per risolvere il problema bisogna lavorare su un doppio binario, da un lato chiediamo a prefettura e comune di intervenire ampliando le aree di raccolta rifiuti e intensificando lo smaltimento, da un altro puntiamo soprattutto sulla sensibilizzazione dei nostri concittadini, spiegando loro quanto siano dannose alla salute le discariche abusive, e provando a introdurre il concetto di differenziazione dei rifiuti e riclico». Miramar prosegue raccontandoci di come, attraverso il programma, si mettano all’erta gli abitanti della comunità anche dai rischi legati all’esposizione all’amianto, un materiale che per via dei suoi costi estremamente bassi è largamente usato nelle coperture dei tetti e nelle cistee per l’acqua.

Nelle parole e negli occhi di Miramar, Detinha, Ruth e di tutti i membri della comunità cattolica, riusciamo a leggere la grande delusione e la rabbia di chi si sente completamente abbandonato da una società che li costringe alla ghettizzazione.

Abusi tra le mura domestiche

I pochi e sudati progressi nascono dalla cooperazione tra gli abitanti della comunità, tra questi anche i fedeli delle numerose comunità evangeliche, come Kennedy, uno dei tanti ragazzi che gestiscono il centro culturale Jocum. «Solo nella nostra favela ci sono oltre ventimila abitanti e non c’è nemmeno un presidio medico. Abbiamo sparso la voce chiedendo aiuto alle altre comunità, c’è stata una grande mobilitazione e così si è creata una rete di medici volontari che offrono la loro assistenza a tutti coloro che ne hanno necessità. Inoltre ogni sabato possiamo contare sulla preziosa presenza di uno psicologo». Proprio un supporto psicologico è quello che chiedono le molte donne vittime di abusi sessuali, una piaga sociale che colpisce anche giovani e giovanissime ragazze. Monica, maestra di un asilo della comunità e madre di tre figlie, ci racconta la sua drammatica esperienza di aver scoperto che suo padre aveva abusato diverse volte di una delle sue bimbe che in seguito aveva tentato il suicidio. «La vera angoscia incomincia quando ti rendi conto di essere impotente difronte a questi eventi, da un lato il tradimento da parte di un genitore, dall’altro la sofferenza di tua figlia, e tu nel mezzo non puoi contare su nessun aiuto, se non quello della tua comunità». Come Monica e sua figlia sono moltissime le donne vittime di queste situazioni, tanto che in alcune aree del Nord del paese i casi di violenze e stupri coinvolgono il 60% della popolazione femminile e quasi tutti avvengono all’interno delle mura domestiche.

Senza giustizia

Il teologo don Mario Antonelli, che per anni ha lavorato in?Brasile, ci mette a conoscenza di un aspetto ancora più inquietante di questo dramma femminile: «Capita spesso che durante la prima confessione le bambine raccontino degli abusi subiti come se si trattasse di una loro colpa, di un loro peccato. La totale diseducazione alla sessualità in una società dal radicato maschilismo è un vero e proprio cancro per questo paese».

Negli anni in cui i trafficanti controllavano la favela, questi reati contro donne e bambine erano puniti in maniere brutali in modo che le punizioni fossero di esempio per tutti. Naturalmente i trafficanti non erano spinti da un senso di compassione e umanità, quanto dall’esigenza di dimostrare che, all’interno della favela, solo loro erano padroni di ciascuna vita. Purtroppo oggi quelle punizioni esemplari rischiano di essere ricordate da molte famiglie come l’atto di una giustizia che lo stato invece non sa garantire.

Stefano Bertolino*

* Stefano Bertolino è fotografo e videomaker. Con due colleghi ha girato un documentario sui mondiali di calcio in Brasile (2014). A settembre è stato a Cuba per seguire la riapertura dei rapporti con gli Usa e il viaggio di papa Francesco.

Stefano Bertolino




El Salvador: L’avvocata deve morire


Il 14 marzo del 1983, tre anni dopo l’uccisione di monsignor Romero, viene
assassinata Marianella García Villas, avvocata e presidente della Commissione per i diritti umani. Aveva 34 anni. Un’associazione italiana si è recata in Salvador in cerca della sua tomba.

Tra le migliaia di martiri e vittime della repressione, in El Salvador la figura di Marianella García Villas, assassinata il 14 marzo 1983, è ben nota tra coloro che hanno partecipato alla lotta contro la dittatura militare tra il 1980 e il 1992. Marianella venne diverse volte in Italia a chiedere solidarietà per il proprio popolo. E un mese dopo la sua morte fu ricordata a Roma in Campidoglio alla presenza del presidente della Repubblica Sandro Pertini e della presidente della Camera Nilde Jotti.

Tuttavia su di lei non vi è, nel piccolo paese centroamericano, alcuna pubblicazione significativa, se non qualche testo in libri o riviste. Marianella non era una leader politica o una esponente sindacale o religiosa. Era una giovane donna che già da studentessa universitaria aveva capito da che parte stare: accanto al proprio popolo oppresso da una feroce dittatura militare.

E poi nessuno sapeva dove fosse la sua tomba. Solamente nello scorso mese di agosto, grazie all’interessamento e alla cocciutaggine di Enza D’Agosto, presidente dell’associazione «Marianella García Villas» di Sommariva del Bosco (Cuneo), una realtà da dieci anni impegnata in progetti di solidarietà con El Salvador, la tomba è stata ritrovata: si trova nel Cementerio de los illustres a San Salvador. Questo è il diario del viaggio verso la sua tomba.

Al cimitero di San Salvador

Venerdì 14 agosto assieme a Enza mi avvio verso il Cementerio de los illustres a San Salvador. Siamo accompagnati da Mia Perla, già magistrato della Corte suprema di Giustizia e vedova di Herbert Sanabria, cornordinatore della Commissione diritti umani (la stessa di cui fu presidente Marianella), assassinato dai militari il 26 ottobre 1987; da Guadalupe Mejía, responsabile del Codefam «Marianella García Villas», una realtà che si interessa di memoria storica (in particolare di vittime della violenza), e vedova di Justo Mejía, torturato e assassinato dai militari; da Miriam Medrano, autrice di un volume su Lil Milagro, una cara amica di Marianella che però, a differenza sua, scelse la strada della lotta armata contro la dittatura, pagando con la vita; e da un avvocato che conobbe Marianella. La tomba è nel settore delle vittime illustri, in una cappella che sopra l’ingresso riporta la scritta «Beneficencia Spagnola». La cappella era chiusa a chiave ed è stato necessario rivolgersi, i giorni precedenti, all’Ambasciata spagnola e al Centro spagnolo perché ci venissero ad aprire. Il custode del cimitero, incaricato dal 1990, ci conferma che in tutti questi anni mai nessuno ha chiesto di vedere la tomba di Marianella. Si scende nella cappella e a destra, in fondo, quella di Marianella è la tomba più in alto. Sulla lapide è scritto:

Marianella García Villas / 14 marzo 1983 / Recuerdo de su familia / En Dios cuya promesa ensalzo./ En Dios confio no temere. ¿Que puede hacerme el hombre? (Salmo 55, 11-12).

Marianella fu sepolta lì perché il padre era spagnolo. Si tratta di una cappella chiusa da una porta in ferro e anche da una più ampia cancellata con l’ingresso sempre chiuso a chiave. Per tutti, in particolare per gli amici salvadoregni che ci accompagnano e che hanno conosciuto Marianella, è una grandissima emozione.

La tomba dimenticata

Al funerale di Marianella, nel marzo 1983, parteciparono solamente tre familiari e alcuni giornalisti, tra cui una giovane Lucia Annunziata (nota giornalista italiana, ndr): il clima di terrore instaurato dai militari impedì la partecipazione degli altri familiari e di quanti condividevano con Marianella la lotta per i diritti umani e la pace. Poi i familiari più stretti ripararono all’estero e non fecero più ritorno nel paese poiché nel mirino dei militari. Oggi fuori dal Salvador vi sono probabilmente ancora fratelli o sorelle di Marianella, ma ogni ricerca è stata finora vana. Con il passare del tempo ci si dimenticò di Marianella e nel clima di terrore creato dal regime nessuno si mise a fare domande in merito al luogo in cui era stata seppellita.

Dopo l’omaggio alla tomba di Marianella, su cui abbiamo posto un fiore, Mia Perla ci porta a visitare la tomba di suo marito, Herbert Sanabria, in un altro settore dello stesso cimitero. Sulla tomba sono scritte queste parole:

La agonia de non trabajar por la justicia / es mas fuerte que la posibilidad cierta de mi muerte, esta ultima no es mas que un istante, / lo otro constituye la totalidad de mi vida.

Poco distante troviamo anche la tomba monumentale del maggiore Roberto D’Aubuisson, il mandante dell’assassinio di mons. Romero, uno dei capi degli squadroni della morte, poi tra i fondatori del partito politico di estrema destra «Arena», ancora oggi secondo partito in Salvador. Sulla tomba di D’Aubuisson è scritto: Roberto D’Aubuisson Arrieta / Presente por la patria.

Mai nessun processo venne fatto a D’Aubuisson, che morì nel proprio letto ed ebbe funerali cattolici, dopo essere stato anche presidente de l’Asamblea legislativa (il Parlamento).

A Bermuda, il villaggio del massacro

Con un taxi de confianza (di fiducia) raggiungiamo la parrocchia di Asunción, a Paleca, poco distante da San Salvador. Da qui con suor Ave, e con Nelson, un parrocchiano gentilissimo che ci fa da autista, partiamo in direzione Aguilares, il paese di cui fu parroco il gesuita padre Rutilio Grande, assassinato il 12 marzo 1977 assieme a un ragazzo e a un contadino che lo stavano accompagnando in un paese vicino per celebrare la messa. L’assassinio di Rutilio fu l’elemento che spinse mons. Romero a interrogarsi a fondo su ciò che stava avvenendo nel suo paese. Da quel momento in poi mons. Romero divenne la voce del suo popolo.

Da San Salvador a Aguilares sono quasi 50 km, su strada comoda a tre corsie, senza il traffico incredibile della capitale. Superato Aguilares, dove la piazza centrale davanti all’alcaldía (municipio) è dedicata a padre Rutilio e dove si vedono diversi murales con le figure del gesuita e di mons. Romero, ci dirigiamo verso Al Paisnal, paese di nascita di padre Rutilio. Sulla strada ci fermiamo nel punto in cui una cappella ricorda il luogo dove fu assassinato padre Rutilio con i suoi due accompagnatori: il sedicenne Nelson Lesmus e il campesino Manuel Solorzano. È un momento di grande commozione per tutti. Ad Al Paisnal, un piccolo ma ordinato paese, un grande murales raffigura Rutilio e mons. Romero e davanti al murale anche due statue che li rappresentano. Per le strade del paese e davanti all’alcaldía numerosi manifesti ricordano il 98° anniversario della nascita di mons. Romero e quello di padre Rutilio. Nella piccola chiesa, immagini dei due martiri. E, soprattutto, ai piedi dell’altare le tre tombe, di Rutilio Grande, Manuel Solorzano, Nelson Lesmus. Un animatore della parrocchia, nel presentarci il tutto, ci esprime il grande desiderio che, se padre Rutilio verrà beatificato (è ufficialmente iniziato il processo), la cerimonia avvenga qui, a Al Paisnal.

Non siamo lontani dal luogo in cui Marianella è stata arrestata il 13 marzo 1983, per cui ci siamo diretti verso il paese di Suchitoto (Dipartimento di Cuscatlán), ricco di esempi di architettura coloniale, una meta turistica in El Salvador. Qui chiediamo della località La Bermuda e, con non poche difficoltà, troviamo la strada: non più a tre corsie, la strada a un certo punto si addentra nella boscaglia diventando sterrata. Chiedendo indicazioni a quanti incontriamo, arriviamo a una semplice casa (per noi sarebbe una baracca), con un cartello davanti su cui a stento si legge «Hacienda Bermuda». La signora che vi abita, con nostra grande sorpresa, ci racconta tutto del massacro. Poi ci accompagna in visita al lugar de mártires (luogo di martiri). Solo un pannello ricorda che lì avvenne un massacro: Antiqua hacienda La Bermuda./ Tierra de lucha y de esperanza.

Il testo racconta che, a La Bermuda, il 13 marzo 1983 fu catturata Marianella García Villas. Fu trasportata in una scuola militare a San Salvador, brutalmente torturata e infine assassinata il giorno successivo, 14 marzo. Nell’operazione militare che portò alla cattura di Marianella furono uccisi una ventina di campesinos. La signora che abita lì vicino e ci fa da guida, ci indica nella boscaglia il luogo in cui avvenne l’assalto dei militari e dove sono ancora sepolti, in una sorta di fossa comune, i campesinos assassinati. Nessun segno a ricordare il fatto. La signora ci dice che lei e altri da tempo stanno chiedendo che i corpi siano riesumati e sepolti con dignità e che sia posto qualcosa di più significativo a memoria del massacro. Tutti gli anni, il 14 marzo, varie persone si riuniscono in questo luogo a commemorare Marianella e gli altri caduti.

La Comunità «Marianella García Villas»

Proseguiamo sulla strada sterrata nel bosco, ricco di cafetales (piante di caffè), alla ricerca di una comunità che ci dicono essere poco più avanti. Dopo poche centinaia di metri troviamo uno spiazzo e una semplice chiesetta. Siamo arrivati nella comunità che porta il nome di Marianella García Villas. Su un muro che dà sulla piazzetta un grande murale raffigura Marianella e una targa ricorda il suo sacrificio.

Nella chiesetta si sta preparando una cerimonia religiosa: è la festa del maís, una festa di ringraziamento. Non c’è il sacerdote, poiché viene solo per la messa la domenica mattina. Fanno tutto i laici: una donna spiega il significato della festa, un uomo legge e commenta le letture, alcuni intervengono poi a offrire la loro riflessione. Al termine della celebrazione ai presenti vengono offerti atol, una bevanda a base di maís, e pannocchie di maís cotte. Veramente una cerimonia segno di una chiesa viva e piena di dignità.

Un membro del direttivo della comunità ci spiega che complessivamente sono una sessantina le famiglie che ne fanno parte e che lì vivono, per lo più in modeste baracche, o semplici casupole, sparse nella boscaglia. C’è anche una radio parrocchiale, «Radio Positiva», che così è presentata in uno striscione appeso davanti alla sede: La voz del más humilde / de los salvadoreños y salvadoreñas / tiene derecho de informar, /de opinar y de ser escuchada.

Il ritorno a San Salvador è pieno di gioia per tutto quanto visto e incontrato. Tuttavia, il giorno dopo suor Ave ci telefona per ringraziarci della giornata e, con grande tristezza, ci fa sapere che davanti alla chiesa della sua parrocchia di Asunción, dove siamo stati due volte, la sera era stato ucciso un ragazzo mentre stava giocando a pallone in strada. È la violenza comune il grande problema del Salvador di oggi.

Anselmo Palini

L’autore – Anselmo Palini, docente di materie letterarie, con l’Editrice Ave ha pubblicato, tra l’altro, Oscar Romero. Ho udito il grido del mio popolo (Roma 2010) e Marianella García Villas. Avvocata dei poveri, difensore degli oppressi, voce dei perseguitati e degli scomparsi (Roma 2014). La cronaca dettagliata del suo recente viaggio in Salvador è reperibile sul suo sito web:

www.anselmopalini.it.

In archivio: Anselmo Palini, San Romero de las Americas, Missioni Consolata, maggio 2015, pag. 32-34.

Anselmo Palini




Il Sultano del Bosforo

Ai confini dell’Europa (6): la?Turchia

Da 12 anni la Turchia è nelle mani di Erdo?an e dell’Akp, il
partito di ispirazione islamica. Sulla spinta della crescita economica del paese, il
presidente e il suo governo si sono rafforzati. In un crescendo di autoritarismo
e intolleranza.

 

 

 

«La
Turchia oramai non è più la vecchia Turchia. La nuova Turchia deve distinguersi
con qualcosa di diverso». Motivando con queste parole la costruzione della
nuova residenza presidenziale (Ak Saray, «Palazzo Bianco»), costata 500 milioni
di dollari, il presidente Recep Tayyip Erdo?an foiva una sorta di corollario
dei tredici anni al potere del «Partito della giustizia e dello sviluppo» (Akp,
di ispirazione islamica). Un potere manifestato anche attraverso i simboli, da
lasciare ai posteri quale marchio della propria «grandezza»: «Questo edificio è
una necessità per il nostro paese. (…) Il nostro obiettivo è quello di lasciare
in eredità un’opera che duri nel tempo, proprio come hanno fatto i nostri
antenati».

Dalla laicità dei
militari all’islamismo di Erdo?an

È difficile prevedere quello che diranno i posteri del
periodo di governo dell’Akp e di Erdo?an (già premier per 11 anni e oggi
presidente) la cui figura sovrasta da tempo quella del proprio partito. Restano
comunque alcuni dati di fatto: che con l’Akp la Turchia ha visto scardinare un
attore stabile della politica turca – i militari – e ha assistito ad un periodo
di prosperità economica, di fermento sociale e di visibilità in politica estera
come non era mai avvenuto dalla fondazione della repubblica. Negli ultimi anni
però l’iniziale ottimismo suscitato dai successi del governo turco ha subito
una drastica inversione di tendenza, mettendone sempre più in primo piano il
carattere autoritario e insofferente verso qualsiasi posizione critica. Un
atteggiamento favorito dall’incontrastato sostegno di una larga parte degli
elettori nei confronti di Erdo?an, che, nell’agosto del 2014, lo ha portato a diventare
il primo presidente della Turchia scelto direttamente dai cittadini (e non dal
parlamento come accadeva in precedenza). In tutto questo, negli ultimi anni è
emersa in maniera sempre più evidente l’influenza di una visione politica di
stampo islamo-sunnita, mentre la retorica religiosa, intrisa di affermazioni al
contempo moraleggianti e nazionalistiche, è stata spesso utilizzata dal governo
per ottenere maggiore credito e credibilità.

Eppure, gli uomini che nel 2001 fondarono l’Akp – tra cui
lo stesso Erdo?an e il suo predecessore Abdullah Gül – definirono da subito
l’orientamento del partito quale «conservatore democratico», smarcandosi dalla
linea intransigente dell’Islam politico turco da cui provenivano e che, nel
ventennio successivo al golpe del 1980, aveva dovuto scontrarsi con l’establishment
militare, assurto a difensore della laicità – considerato il cardine della
repubblica – pagando con crisi di governo, la chiusura di due partiti, fino ad
arrivare al golpe bianco del 1997.

Ma il successo ottenuto negli anni dall’Akp non è stato
solo frutto di questa nuova impostazione politica bensì di una combinazione di
elementi diversi. Sul fronte interno è riuscito, da un lato, a dare voce e
identità a buona parte della società turca che si riconosce in una cultura
conservatrice e che si è vista a lungo emarginata dal sistema politico
kemalista; dall’altro, grazie alla retorica sull’importanza del pluralismo,
Erdo?an ha conquistato inizialmente numerosi intellettuali liberali che hanno
riconosciuto nell’Akp la possibilità di rompere con il passato segnato dalle
repressioni del potere militare e di avviare un reale processo di
democratizzazione nel paese. A tal fine ha contribuito l’impegno assunto dal
governo islamico moderato di realizzare, a partire dalla prima legislatura, le
riforme politiche e sistemiche necessarie a far sì che la Turchia aderisse
all’Unione europea.

Crescita economica e
neoliberismo

Il tutto è coinciso con un momento di ripresa economica
del paese. Forte della sua netta maggioranza parlamentare il governo dell’Akp
ha messo in atto provvedimenti improntati su un forte neoliberismo, le cui basi
erano già state gettate dall’esecutivo precedente. Tali provvedimenti, grazie
all’unione doganale vigente da 15 anni con l’Ue e l’avvio nel 2005 dei
negoziati di adesione nel gruppo dei ventotto, hanno permesso l’ingresso di un
ingente flusso di capitali stranieri in Turchia. La crescita annua media del 5%
– toccando picchi del 9% tra il 2010 e il 2011 – la quasi decuplicazione delle
esportazioni, la triplicazione del Pil e l’aumento del reddito medio registrati
nel primo decennio di governo Akp hanno contribuito ad accrescere la fama del
suo successo economico.

Lo stretto rapporto del governo con le comunità religiose
musulmane più influenti del paese, tra cui il movimento Hizmet di Fethullah Gülen
(considerato oggi suo acerrimo nemico, come vedremo tra poco), ha reso anche
possibile l’emergere di una nuova classe imprenditoriale di stampo conservatore
organizzata in diverse associazioni tra cui la Müsiad (Associazione degli
uomini d’affari indipendenti) e la Tukson (Confederazione degli
industriali e imprenditori), che risultano particolarmente attivi nelle
principali città anatoliche dove nel tempo si è assistito in maniera sempre più
evidente a un intreccio di interessi e scambio di favori tra il mondo degli
affari e le amministrazioni locali (gestite dall’Akp), sempre sotto l’egida
dell’esecutivo.

L’emergere
dell’autoritarismo

Il consenso dell’Akp, che dal 2002 non ha mai perso
alcuna prova elettorale, anche a causa
dell’assenza di un’opposizione politica valida, è cresciuto negli anni portando
con sé anche una trasformazione nel modo di porsi del partito. Mentre la prima
legislatura è stata caratterizzata dalla ricerca da parte dell’Akp di trovare
legittimazione e riconoscimento, a partire dalla seconda – va ricordato che nel
2008 rischiò la chiusura perché accusato di essere anti-laico –  si è assistito all’acuirsi del conflitto con
i vertici dell’esercito. Dopo la vittoria politica ottenuta con la nomina di
Abdullah Gül – al tempo alleato fedele di Erdo?an (ora escluso dalla scena
politica e su posizioni più critiche verso l’attuale capo di stato) – alla
presidenza, e i maxi processi condotti contro centinaia di ufficiali
dell’esercito ed esponenti della società civile di posizioni nazionaliste –
accusati di aver ordito un colpo di stato -, i militari si sono visti
estromettere completamente dalla politica, situazione che ha consolidato
definitivamente il potere dell’Akp. Con il terzo governo Erdo?an (2011-2015) il
carattere autoritario del partito ha iniziato a emergere in maniera più
evidente.

Se la situazione creata dall’avvio di riforme politiche e
dalla crescita economica avevano permesso alla società civile di diventare
sempre più visibile e attiva, già a partire dal 2006, la nuova legge
antiterrorismo è stata utilizzata per arrestare diversi attivisti di origine
curda e della sinistra, mentre le riforme avviate sotto la spinta dei negoziati
con Bruxelles hanno subito una battuta d’arresto. Nel frattempo viene avanzata
la proposta di scrivere una nuova costituzione – in sostituzione di quella
attualmente in vigore e figlia dell’ultimo golpe militare – che negli intenti
dovrebbe accontentare tutti i settori della società. Tuttavia i quattro partiti
presenti nel parlamento – oltre all’Akp, il partito repubblicano Chp, quello
nazionalista Mhp e quello curdo Bdp – non sono riusciti a trovare un’intesa e
il progetto è stato momentaneamente accantonato. Anche le cosiddette «aperture»
del governo nel riconoscere maggiori diritti ad alcuni settori minoritari della
società come gli Aleviti – musulmani eterodossi vicini per alcuni aspetti allo
sciismo, che rappresentano una «minoranza» di circa 20 milioni di persone –
sono rimaste inconcluse perché l’esecutivo non ha voluto accogliere le
richieste avanzate. Per quanto riguarda i diritti delle donne, invece, è
prevalso un atteggiamento patealistico e patriarcale che emerge costantemente
nei discorsi dei politici. Risulta così un’immagine della donna che acquista
importanza e rispettabilità solo in quanto madre e membro della famiglia. Le
leggi promulgate negli ultimi anni per proteggerle dalla violenza maschile,
seppur in linea con gli standard inteazionali e di per sé bastevoli a
tutelarle, non vengono applicate secondo la norma anche a causa di una rete di
omertà che si estende dai politici alla magistratura fino alle forze
dell’ordine.

Proteste di piazza e
scandali insabbiati

Sul piano dei diritti dei lavoratori si è iniziato a
pagare le conseguenze di una politica di sfrenato liberismo, nel quale lo
stipendio minimo resta a tutt’oggi sui 300 Euro mensili e le misure di
sicurezza sul lavoro restano, nella maggior parte dei casi, completamente
inadeguate, come si è visto in occasione dell’incidente della miniera di Soma
in cui hanno perso la vita 301 lavoratori (13 maggio 2014). Il settore edile,
considerato il motore dello sviluppo economico del paese, è entrato senza
criterio anche nei centri storici delle città, sconvolgendo il tessuto sociale
e urbano. Non a caso, le proteste che nell’estate del 2013 hanno mobilitato in
tutto il paese, ma soprattutto a Istanbul, migliaia di persone, erano nate per
la preservazione di un parco, il Gezi Park, per poi allargarsi e diventare una
contestazione delle politiche oppressive e autoritarie di Erdo?an.

Le manifestazioni di massa di Gezi Park, del tutto
inaspettate per il governo, nonostante le critiche sulla violenza con cui sono
state sedate, hanno avuto l’effetto di accentuare il carattere autoritarista
del governo. Mentre la censura sulla stampa, da sempre presente nei media mainstream, è
diventata più pressante – oltre un centinaio di giornalisti hanno perso il
lavoro in quel periodo -, l’esecutivo ha iniziato a prendere provvedimenti per
delimitare l’ambito dei social media, che si sono dimostrati un meccanismo di
comunicazione micidiale durante le proteste, fino a bloccare, l’anno scorso,
Youtube e Twitter per alcune settimane.

La maxi operazione anti-corruzione del dicembre 2014, che
ha coinvolto quattro ministri dell’esecutivo e diversi esponenti del mondo
degli affari vicino al governo, nonché il figlio dello stesso Erdo?an,
all’epoca ancora premier, avrebbe potuto costituire un duro colpo per il leader
e i suoi uomini. La vicenda, tuttavia, si è risolta in un nulla di fatto a
livello processuale per i nomi coinvolti, mentre i magistrati e gli agenti
della polizia che avevano condotto l’operazione sono stati destituiti
dall’incarico, trasferiti se non addirittura radiati dalla professione. L’esecutivo
ha accusato un proprio vecchio alleato, Fethullah Gülen, capo di «Hizmet»,
potente movimento religioso (oltre che sociale e culturale), in esilio
volontario negli Stati Uniti, di aver ordito un complotto per rovesciarlo,
utilizzando la propria influenza sulle forze dell’ordine e la magistratura. La
vicenda, oltre a sollevare numerosi e legittimi interrogativi sull’affidabilità
di queste due istituzioni, ha anche messo in luce la lotta di potere tra gruppi
legati da una visione religiosa simile, ma con obiettivi sociali e politici
diversi. Una lotta questa che prosegue tutt’oggi e con ambiti di scontro ancora
più ampi.

Politica estera: le
scelte di Ankara

Anche in politica estera, soprattutto grazie alla
filosofia «zero problemi con i vicini» dell’attuale premier Ahmet Davuto?lu (già
ministro degli Esteri), tra il 2008 e il 2009 la Turchia ha rappresentato un
paese in ascesa. Mentre venivano aboliti i visti con diversi paesi confinanti e
si instauravano i primi contatti ufficiali con la regione autonoma curda
dell’Iraq, Ankara estendeva la propria rete diplomatica con gli stati africani.
Grazie al sostegno di questi, nel periodo 2009-2010 la Turchia è diventata
membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Si riprendeva anche
il dialogo diplomatico con l’Armenia, fino ad arrivare nel 2009 alla firma di
protocolli che hanno tracciato un iter per riavviare i rapporti tra i due
paesi. Inoltre Ankara, membro della Nato dal 1952, mantenendo una posizione
equidistante dai vari attori politici regionali, si è posta come mediatrice nei
conflitti del Medioriente (tra Israele e Palestina e tra Israele e Siria),
arrivando a diventare un «modello» per diversi paesi nella regione perché
rappresentava un esempio di unione tra democrazia e Islam benedetta da un
notevole successo economico.

Questo quadro inizia tuttavia a scricchiolare nel 2011,
dopo l’inizio delle cosiddette «primavere arabe», per poi crollare. Il governo
dell’allora premier Erdo?an abbandona l’equidistanza per assumere una posizione
pro-sunnita, sostenendo i gruppi ideologicamente più vicini alla propria
posizione come i Fratelli musulmani. L’idea dell’ «Inteazionalismo della
Fratellanza», promosso dal governo Erdo?an, nelle cui intenzioni la Turchia
dovrebbe assumervi il ruolo di leader, subisce varie battute d’arresto. I
rapporti con Assad, un tempo «fratei», si deteriorano rapidamente dopo
l’inizio delle proteste, ma il governo siriano non cade, come invece auspicava
Ankara e, intanto, il presidente dell’Egitto ed esponente dei Fratelli Mohammed
Morsi, sostenuto dalla Turchia, viene destituito dall’incarico in seguito a un
golpe militare (3 luglio 2013).

Profughi e jihadisti

Mentre Ankara accoglie circa un milione di profughi
siriani, Erdo?an preme nell’arena internazionale affinché Assad venga cacciato.
Nel frattempo fornisce sostegno logistico e di armi ai gruppi che combattono
contro Damasco. Per quanto il governo turco lo neghi, diverse testimonianze e
resoconti apparsi sulla stampa locale (come il quotidiano Cumhuriyet) e
internazionale, indicano che questo aiuto sia rivolto anche ai gruppi jihadisti
salafiti come al Nusra, Ahrar al-Sham e lo Stato islamico (già Isis).

La posizione assunta dalla Turchia a Kobane, cantone
siriano a maggioranza etnica curda e de facto autonoma, è stata a riguardo
molto indicativa. Ankara, che non vuole ai propri confini un’altra regione
autonoma curda come quella irakena, ha evitato di dare appoggio ai miliziani
curdi in lotta contro lo Stato islamico, che ha tenuto sotto assedio la città
per oltre quattro mesi. Dopo aver assistito ai bombardamenti della coalizione
anti-Isis guidata dagli Stati Uniti e al rifoimento di armi da parte di
Washington ai combattenti curdi, la Turchia ha permesso in extremis il
passaggio dei peshmerga irakeni dal proprio territorio con armi pesanti,
destinati a Kobane, che hanno contribuito alla cacciata dei jihadisti dal
cantone curdo (gennaio 2015). Ora, in Yemen, la Turchia ha dichiarato di
appoggiare l’operazione militare avviata dall’Arabia Saudita contro i ribelli
sciiti, dimostrando ancora una volta che la sua visione in politica estera
tendente a sostenere il fronte sunnita non è cambiata.

Il sogno di Erdo?an

Mentre Erdo?an aspira a trasformare il sistema
parlamentare turco in uno presidenziale in cui si prospetta una pericolosa
concentrazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario nelle proprie
mani, le crepe all’interno della società turca e tra gli stessi alleati
dell’Akp tendono ad allargarsi. Con la crescita economica ferma al 3% da un
paio di anni, la disoccupazione che ha raggiunto il valore più alto degli
ultimi 5 anni e l’aumento esponenziale delle morti sul lavoro; con leggi che
accrescono il potere della polizia e dei servizi segreti, limitando
l’indipendenza della magistratura e la libertà di espressione, sembra difficile
che ai posteri restino in eredità solo i palazzi di marmo di Ak Saray.

Fazila Mat*

* Nata a Istanbul, Fazila Mat ha vissuto a lungo tra Roma e Milano. Da diversi anni è
corrispondente per la Turchia dell’Osservatorio sui Balcani e Caucaso.
Collabora come giornalista con quotidiani ed emittenti italiane e straniere. È
coautrice di #GeziPark, cornordinate
di una rivolta (Alegre Editore,
2013).

Tags: Islam, Turchia, Curdi, Minoranze, Diritti umani, Medio Oriente

Fazila Mat