La Consolata si è fatta coreana

Ridipinto in stile coreano il quadro della Madonna Consolata.

Lo scorso 20 giugno, anche noi qui in Corea
abbiamo celebrato solennemente la festa della nostra Consolata.

La
pioggia cadeva a dirotto quel giorno, ma in realtà è stata una vera e propria
benedizione perché da oltre un mese il paese stava soffrendo una siccità
terribile, che ha già distrutto molte coltivazioni e non ha nemmeno permesso a
molti contadini di piantare il riso.

Inoltre
pensavamo che la paura del Mers (Middle East respiratory syndrome), del
virus che ha contagiato molte persone, uccidendone quasi 30, e costringendone
migliaia a sottostare alla quarantena, frenasse la gente dal partecipare.
Invece, all’ora stabilita, alle 15, ci siamo ritrovati 200 persone nel salone
sotterraneo della nostra casa centrale di Yokkok.

La
festa della nostra tenerissima Madre è sempre una bella festa, con la gente che
partecipa attenta e commossa. Ma quest’anno c’era un motivo particolare che ha
colpito ancor di più l’attenzione dei nostri amici e fedeli coreani: lo «svelamento»
e la benedizione di un nuovo quadro della Consolata, dipinto in perfetto stile
coreano.

I
nostri amici e fedeli coreani, al vedere il nuovo quadro, sono tutti usciti in
un grande «oh!» di meraviglia, e davvero a loro piace molto: ce lo hanno detto
in tutti i modi possibili.

 

Un po’ di storia

Fin
dall’inizio della nostra presenza in Corea, ci siamo prodigati per fare
conoscere la nostra Consolata, quella originale, intendo. Poi, dopo diversi
anni, ha cominciato a far capolino in comunità l’idea di avee, prima o poi,
una versione «coreana». Si era fatto allora qualche timido tentativo, ma senza
grandi risultati. Qualche anno fa, in un’altra festa della Consolata, avevamo
addirittura lanciato una campagna di brain storming tra i nostri amici,
affinché ci dessero idee e suggerimenti su come sarebbe dovuta essere la
versione coreana della Consolata, ma anche in quell’occasione i risultati erano
stati piuttosto scarsi. La cosa, poco a poco, era finita nel serbatornio dei «sogni
irrealizzati». Fino all’anno scorso, quando il nostro missionario coreano Han
Pedro, durante un’eucaristia celebrata in uno dei santuari dei Martiri a Seoul,
ha avuto la buona sorte di conoscere personalmente la signora Shim Sun-hwa
Caterina: pittrice il cui nome è già molto noto nel paese e la cui arte molto
apprezzata nella Chiesa cattolica. Da quell’incontro provvidenziale e dal
susseguente rapporto di amicizia che ne è nato, il nostro desiderio di avere
una Consolata coreana ha ripreso forza e vigore. Abbiamo così chiesto alla
signora Caterina se poteva cimentarsi nell’impresa. E ha detto di sì.

Hanno
fatto seguito vari incontri, tra Caterina, padre Han Pedro e il nostro
superiore padre Pedro Louro, per presentare e far apprezzare all’artista il
quadro della Consolata nei suoi dettagli, e per rivedere e correggere diverse
volte, poi, le bozze di dipinto che la signora Caterina andava presentando.

Nel
frattempo, altri tasselli del mosaico sono andati provvidenzialmente al loro
posto: per esempio una corposa donazione da parte di una coppia di amici, e la
riflessione in comunità su come fare, una volta che fosse stato pronto il nuovo
quadro, per intronizzarlo solennemente all’entrata della casa di Yokkok, e per
la riproduzione dell’immagine in vari formati e materiali.

Alla
fine siamo arrivati alla bozza che ci soddisfaceva, e l’artista si è messa
d’impegno a «scrivere» l’icona della Consolata nella sua versione coreana.

 


Le parole dell’autrice

«Ho cercato di immergermi nei simboli dell’immagine della
Madre Consolata, e ho cercato di esprimere la stessa simbologia con lo stile
proprio delle immagini coreane. Il volto della Vergine l’ho reso con i
lineamenti teneri e leggermente arrotondati dei volti coreani, mentre lo
sguardo dolce della madre si fissa sul figlio Gesù. I capelli di Maria
Consolata stretti da una bella spilla tradizionale, dal colore oro, indicano in
lei la Madre celeste. Il colore del vestito tradizionale coreano della
Santissima Madre, salvando il senso simbolico della santità, è di un azzurro
oceano profondo, mentre la sua verginità è resa dalle parti in rosso. Il
riflesso dorato dell’anello esprime la sua fedeltà eterna, mentre la pietra di
giada simboleggia la sua mateità.

Gesù è
stato rappresentato in atteggiamento regale, simboleggiato dalla tunica verde
che ricopre l’indumento intimo e viene coperta a sua volta da un mantello
rosso. Un cordoncino tradizionale rosso ne completa l’abbigliamento».

 

A mo’ di conclusione

I missionari della Consolata sono arrivati in Corea ben
27 anni fa, nel 1988. Abbiamo potuto sperimentare sulla nostra carne come i
tempi per ogni cosa, in Corea, dall’imparare la lingua, all’assuefarsi a cibo e
cultura, sono molto lunghi. Anche i tempi per «mettere radici» in Corea,
dunque, sono stati molto lunghi. Ma, con l’aiuto della grazia del Signore,
crediamo proprio di averle messe, e abbastanza profonde. Il quadro della
Consolata «coreana» ne diventa per noi un po’ il simbolo e una bella evidenza.
Dopo tanti anni in Corea, finalmente la Consolata è diventata pienamente
coreana. Ora tocca alla Corea raccogliee il messaggio, e l’invito a diventare
sempre più «missionaria».

Diego Cazzolato

Diego Cazzolato




Le due piazze di Caracas

1. Un paese diviso
Colloquio col professor Giulio Santosusso

2. Anarchia, populismo e
bugie

Colloquio con padre
Pablo Urquiaga Feández

Indice:
1. Un paese diviso
2. Anarchia, populismo e bugie


1. Un paese diviso

Colloquio con il professor Giulio Santosusso

Il crollo del prezzo
del petrolio ha messo in ginocchio l’economia venezuelana. A questo evento
esogeno si aggiunge un clima interno di feroce contrapposizione politica,
acuita dalla decisione di Obama di dichiarare il paese una «minaccia» alla
sicurezza nazionale degli Stati Uniti. In questo scenario il Venezuela si appresta
alle elezioni parlamentari previste per il 6 dicembre. Analizziamo la
situazione attraverso due interviste. Entrambe fuori dal coro

Nato a Roma, una laurea summa cum laude in matematica,
Giulio Santosusso lascia l’Italia per il Venezuela nel lontano 1968. Dopo
essere stato professore presso l’Universidad de Oriente di Cumaná e l’Universidad
Simón Bolivar di Caracas, nel
1985 fonda la Editorial Galac, una casa editrice che si propone l’obiettivo di «appoggiare
la società nel cambio di paradigma verso l’economia della conoscenza». Egli
stesso è autore di due libri di successo: «Reinventar a Venezuela» (1992) e «Socialismo
en un paradigma liberal» (1999). A dispetto dell’età e del fisico minuto,
Giulio Santosuosso è una forza della natura.

Professore, a sentire
i principali media italiani e inteazionali il Venezuela è una dittatura senza
se e senza ma.

«È impressionante come i giornali abbiano perso la
capacità d’informare. E fanno realmente ridere

quando usano la parola “dittatura”. In Venezuela, negli
ultimi 15 anni si sono celebrate 19 elezioni e con un sistema elettorale che,
nel settembre 2012, Jimmy Carter, ex presidente degli Usa, ha dichiarato essere
il migliore del pianeta.

Mi chiedo: sono coscienti del fatto che stanno mentendo?

Siamo la prima dittatura nella storia del pianeta che
vuole che la gente sia istruita, colta. Non si può non ridere pensando che
esistono persone che chiamano dittatore un presidente come Chávez che affermava
“il libro libera” e che, nel suo programma televisivo (Aló Presidente),
suggeriva i libri da leggere (tra cui, una volta, anche uno mio). Un altro
dato, molto importante, secondo me. A inizio dicembre ci saranno le elezioni
per il parlamento. I candidati del Psuv (Partito socialista unito del
Venezuela, il gruppo principale della coalizione “Gran Polo Patriótico”, ndr) sono stati scelti lo
scorso 28 giugno dalla base attraverso le primarie alle quali hanno partecipato
quasi 3,2 milioni di persone. Dovevano scegliere tra 1.152 cittadini, dei quali
il 60% donne, e il 49% minori di 30 anni. Anche i partiti dell’opposizione hanno
fatto (il 17 maggio) le primarie, però con alcune “piccole” differenze: chi si
candidava doveva pagare 150.000 bolivares (equivalenti, al cambio
ufficiale, a 23.800 dollari); si sono presentati 110 candidati (dei quali
solamente il 10% donne) e in meno della metà delle circoscrizioni elettorali
(33 su 78). Per finire, hanno votato meno di 550 mila persone».

I media sostengono
però che il presidente Maduro e il suo governo imprigionano i propri avversari
politici…

«Le persone che stanno in prigione, chiamate dai mezzi di
disinformazione “prigionieri politici”, sono Leopoldo López, Daniel Ceballo e
Antonio Ledezma. Per colpa della loro chiamata alla protesta (guarimba), tra febbraio e
marzo 2014 ci sono stati 43 morti e più di 800 feriti. Ma c’è di più. La quasi
totalità dei morti erano sostenitori del governo o poliziotti!».

In un articolo del Corriere della Sera (6 giugno) Leopoldo
López viene descritto come un eroe senza paura e senza macchia.

«Ricordo che egli ha fondato il partito Primero Justicia (dal
quale è poi uscito) con fondi della compagnia statale Pdvsa di cui la madre era
una dirigente. Ma soprattutto, quando era sindaco di Chacao, ha partecipato
attivamente al golpe dell’aprile 2002. È uno dei primi responsabili delle
violenze del 2014. Gli aggettivi per questo “eroe senza paura e macchia” è
meglio che me li tenga in testa…».

Insisto su questo
tema. Su un altro quotidiano (La Stampa, 3 marzo), Antonio Ledezma è descritto
come un martire e Maduro come un affamatore.

«Prima di fare un’intervista, un giornalista dovrebbe
informarsi adeguatamente sulla persona alla quale rivolgerà le proprie domande».

Molti degli
oppositori di oggi appoggiarono a vario titolo il golpe del 2002.

«Che dire? In un eccesso di bontà, a fine dicembre 2007
il presidente Chávez amnistiò tutti. Lo ripeto sempre nelle mie conversazioni:
lui era un ingenuo».

La situazione
economica del Venezuela viene descritta come al limite del default. E ancora:
inflazione molto alta, carenza di beni di prima necessità, dollarizzazione
dell’economia. Come stanno le cose?

«I mezzi di disinformazione parlano della scarsezza, però
non riferiscono quasi mai notizie di segno opposto come il ritrovamento nei
magazzini di migliaia di tonnellate di un prodotto che scarseggia, volutamente
sottratto alla distribuzione. L’inflazione è senza dubbio molto alta, però la
grande domanda è: in che misura è indotta dalla speculazione? Una delle ipotesi
che si fanno è che molte imprese fissano i prezzi del prodotto usando il
dollaro parallelo come unità di misura (da cui la “dollarizzazione”
dell’economia), mentre li importarono con un dollaro a 6,3 bolivares (Bs).
Riguardo alla valuta americana, è poi importante leggere i numeri: più del 70%
dei movimenti in divisa si fanno con il cambio ufficiale a 6,3. Più del 20% si
fanno con il dollaro Sicad (per esempio: gli acquisti via internet e i dollari
per il turismo all’estero), che sta a 12 Bs. Infine, una quantità che non
arriva al 5% si fanno con il dollaro Simadi, che gira intorno ai 200 Bs. Però
chi vuole gridare alla pessima situazione economica del Venezuela usa il DollarToDay, una
pagina web in mano a gente dell’opposizione, che dice che il dollaro sta a più
di 400 Bs. A me piacerebbe molto sapere se veramente esiste gente che compra un
dollaro a 400 Bs. Neanche un narcotrafficante lo farebbe!».

Il Venezuela è uno
dei primi produttori mondiali di petrolio. Eppure non siete riusciti a gestire
adeguatamente questa ricchezza.

«Non sono affatto d’accordo! Io credo che la ricchezza
derivante dal petrolio sia stata gestita molto bene. I risultati lo dimostrano.
Per esempio, lo scorso aprile è stata consegnata la casa n. 700.000 della Gran Misión Vivienda.
L’obiettivo è che, entro il 2019, nessun venezuelano viva più in una baracca.
Una enorme quantità di barrios, specialmente quelli su colline pericolose, che con una
forte pioggia possono crollare, oggi non esistono più e tutti i loro abitanti
vivono in appartamenti donati dalla missione governativa (e completi di cucina,
scaldabagno, mobili, etc.). Quindici anni fa la povertà riguardava quasi il 50%
della popolazione, oggi il 27%. E poi uno dei numeri più importanti in
assoluto, è – io credo – l’investimento delle entrate petrolifere nel sistema
educativo. Nel 2005 l’Unesco dichiarò il Venezuela paese libero dall’analfabetismo.
Oggigiorno la percentuale di studenti universitari è la seconda a livello
latinoamericano e una delle prime a livello mondiale. In questi quindici anni
(dal 1999 al 2014), si sono spesi nell’area sociale – educazione, salute, casa,
etc. – ben 782 mila milioni di dollari, una cifra corrispondente al 62% delle
entrate statali. Guardando ai numeri, io dico che Venezuela è il primo paese
nella storia che sta trasformando in realtà la dichiarazione universale dei
diritti umani».

Il Venezuela importa
tutto o quasi tutto. È una grave debolezza, non crede?

«Non è vero che importiamo tutto o quasi tutto, ma è vero
che importiamo molto. Il problema è che finora abbiamo vissuto sulla cosiddetta
renta petrolera. Per fortuna, ogni medaglia ha due facce, e la faccia
(secondo me) positiva della discesa del prezzo del petrolio è che si comincia a
discutere sul tema. Ad esempio, si sta promovuendo molto l’agricoltura».

Tutti i principali
rapporti inteazionali attribuiscono al Venezuela altissimi tassi di criminalità.

«Il grande problema del Venezuela è di stare tra la
Colombia, il maggiore produttore di droga del pianeta, e gli Usa, il maggior
consumatore. La droga entra dalla frontiera colombiana, all’Ovest del paese, ed
esce dallo stato di Sucre, all’Est del paese, da dove va, si dice, a Trinidad e
da qui agli Usa e al resto del mondo. La grande maggioranza degli atti
delinquenziali è legato alla droga. Per esempio, la grande maggioranza degli
omicidi sono “aggiustamenti di conti” fra bande rivali, per il dominio del
territorio. Io vivo a Caracas da 45 anni, vado camminando da tutte le parti e
non sono mai stato testimone di un atto delinquenziale e una sola volta mi
hanno derubato del portafogli sulla metropolitana. Però, quando lo racconto,
molto spesso mi rispondono che sono una persona super fortunata! Quanto ai
sequestri, altro crimine molto diffuso, essi sono generalmente realizzati da
paramilitari colombiani. Altro dato importante: le inchieste dicono che la
percezione di insicurezza è maggiore della insicurezza reale».

Secondo il presidente
Obama il Venezuela è una minaccia per gli Stati Uniti…

«Quindici anni fa, gli Usa dominavano il mondo intero.
Oggi la maggior parte dei paesi va per un altro cammino, soprattutto grazie a
Chávez. La consacrazione definitiva del nuovo corso è avvenuta nella “Cumbre de las Américas” (il
vertice dei paesi americani, ndr), tenutasi a Panamá lo scorso aprile, durante la quale
tutti i convenuti si sono espressi contro il decreto esecutivo di Obama, al
punto che il presidente se n’è andato per non sentir parlare contro di lui. Una
vera e propria fuga, la dimostrazione palese di una disfatta».

Il Venezuela ha
sempre aiutato economicamente Cuba. Adesso Cuba ha fatto pace con gli Stati
Uniti, il nemico di sempre. Cosa cambierà per voi?

«Questa è una lettura sbagliata della situazione. Credo
sia molto importante spiegare meglio la relazione tra Venezuela e Cuba. Se è
vero che noi l’abbiamo sempre aiutata economicamente, è altrettanto vero che
Cuba ha sempre ricambiato con le missioni sociali. Pensiamo ai medici cubani.
Prima di Chávez la gran parte dei venezuelani non aveva mai fatto una visita
medica. Oggi tutti le fanno, a poca distanza della propria casa e gratis. Se si
provasse a calcolare il valore monetario di tutte le consulte mediche,
operazioni, protesi, etc., è possibile che quella cifra risulterebbe maggiore
dello sconto fatto a Cuba sul prezzo del petrolio venezuelano».

I rapporti con la
vicina Colombia sono piuttosto tesi. Come mai?

«La Colombia è un paese realmente misterioso. Tutti
quanti sanno che Alvaro Uribe Vélez è uno dei suoi principali narcotrafficanti,
collocato al n. 82 nella lista stilata dalla Dia, l’agenzia d’intelligence
statunitense, però lo hanno eletto presidente, e adesso senatore. È il creatore
dei paramilitari, e quindi il responsabile morale di centinaia di migliaia di
morti. L’attuale presidente, Juan Manuel Santos, ha occupato incarichi
importanti durante la presidenza Uribe, e questa è una confessione di disonestà.
Oggi ci sono in Venezuela circa sei milioni di colombiani che sono scappati dal
proprio paese per la povertà, la guerra civile, la violenza. Troppi di loro
svolgono però attività disoneste, ad esempio comprano prodotti in Venezuela e
li vanno a rivendere alla frontiera colombiana. Al presidente Maduro, che il 4
di giugno aveva detto che i colombiani “vengono qui portando necessità e povertà,
e cercando educazione, lavoro, salute e casa”, il presidente Santos ha risposto
dicendo che “Colombia genera
prosperidad y no exporta pobreza”».
Un’affermazione francamente ridicola».

Secondo Freedom House
in Venezuela i mezzi di comunicazione non sono liberi.

«Quando Orson Welles, nella sua famosa pellicola “Il
cittadino Kane”, parla della stampa come del “quarto potere”, non immaginava
che qualche decennio dopo sarebbe diventata il primo!

Le dichiarazioni sulla mancanza di libertà di espressione
in Venezuela sono realmente comiche e il fatto che tanti media occidentali le
ripetano in maniera automatica e acritica è un pessimo segnale. Come non
rendersi conto della contraddizione esistente nell’affermare che “in questo
paese non abbiamo libertà d’espressione” davanti a decine di giornalisti che
poi fanno domande sul tema? Non è forse questo un sintomo evidente di
“analfabetismo funzionale”?

Nel 2000 in America apparve un libro, The Twilight of American Culture (Il crepuscolo della cultura americana), di Morris
Berman, in cui, alla pagina 42, afferma che “il numero di adulti realmente
istruiti negli Stati Uniti è il 3% della popolazione”. Cioè il 97% è analfabeta
funzionale. Io ripeto sempre che a quel libro occorrerebbe cambiare il titolo
in The Twilight of
Occidental Culture, perché quello che l’autore
dice sugli Usa si applica a tutto l’Occidente.

Quando vado a fare il turista a Roma, passo sempre a
salutare un amico, proprietario di una libreria dove cinquanta anni fa compravo
molti libri. Lui mi dice: “Giulio, io sopravvivo vendendo guide ai turisti…
Nessuno più compra un libro…”. Qui in Venezuela è esattamente l’opposto: tutti
gli anni aumenta il numero di libri che si vendono».

Paolo Moiola

2. Anarchia, populismo e
bugie

Colloquio con padre
Pablo Urquiaga Feández





Lo avevamo
intervistato subito dopo la morte del presidente Chávez. Due anni dopo, Pablo
Urquiaga, parroco in un quartiere di Caracas, è più critico e disilluso. Contro
il populismo del governo e le manovre (sporche) dell’opposizione. Ma non ha
perso la speranza.

Padre Pablo Urquiaga Feández è
parroco della chiesa La Resurrección del Señor nel quartiere di
Caricuao, a Caracas. Lo abbiamo ricontattato a due anni dalla nostra prima
intervista (giugno 2013).

Padre Urquiaga, a sentire i principali media italiani e inteazionali,
il Venezuela è – senza alcun dubbio – una dittatura.

«Dittatura? Certamente no. Anzi, è vero il contrario. Parlamento e
governo fanno leggi che nessuno rispetta e ognuno fa ciò che gli pare. Nel
Venezuela del 2015 c’è anarchia. Mi pare che dittatura e anarchia siano
incompatibili, no? Il problema è che l’impunità genera corruzione e delinquenza
senza freni».

Che dire delle persone in carcere?

«Certamente ci sono “politici incarcerati” che però non è lo stesso di
“prigionieri politici” (il gioco di parole è evidente in spagnolo: “politicos
presos” e “presos politicos”, ndr). Io credo che in nessuna parte del
mondo dovrebbero esistere “prigionieri politici”, siano essi del governo o
dell’opposizione, a meno che non abbiano commesso delitti da essere provati
davanti alle competenti autorità».

La situazione economica del paese viene descritta come al limite del
default. E poi: inflazione molto alta, scarsità di beni di prima necessità,
dollarizzazione dell’economia. Come stanno le cose?  

«A partire dallo scorso anno la situazione economica si è deteriorata
in maniera considerevole. L’inflazione alle stelle e la scarsità di alcuni
prodotti di prima necessità hanno più di una causa: una è la mancanza di
produzione di alcun prodotti, un’altra è il contrabbando di alcuni prodotti
verso l’estero e infine c’è la “guerra economica” allo scopo di danneggiare il
processo rivoluzionario. Da una parte, il populismo cerca di compiacere il
popolo per guadagnare voti, non pretende lavoro e responsabilità nella
produzione e regala le cose senza esigere sforzo e sacrificio. Dall’altra,
l’opposizione s’approfitta dell’inefficacia e inefficienza di questo governo
per peggiorare la situazione. Anche se gli imprenditori hanno qualche valida
ragione; non si può produrre con tanta instabilità economica. Non si può
soffocare chi produce e senza produzione non si può distribuire come sarebbe
dovere dello stato e del governo».

Il Venezuela è uno dei primi produttori mondiali di petrolio. Tuttavia,
forse non ha saputo gestire adeguatamente questa ricchezza. La causa risiede
nella corruzione?

«La questione del petrolio non dipende soltanto dalla “corruzione
amministrativa”, ma anche dalla mancanza di efficacia nella gestione delle
finanze pubbliche. È certo che la maggior parte delle entrate petrolifere è
stata utilizzata per migliorare le condizioni di vita dei più poveri
(investimenti sociali). Allo stesso
tempo è certo che molte di queste entrate hanno arricchito dei falsi
rivoluzionari. Dovremmo “seminare” il petrolio. Voglio dire: sviluppare
un’industria petrolchimica come, grazie a Dio, si è finalmente iniziato a fare,
anche se troppo tardi».

Le statistiche dicono che il Venezuela e in particolare la sua capitale
hanno i più alti tassi di criminalità al mondo. Per le strade di Caracas lei si
sente insicuro?

«L’insicurezza è uno dei nostri mali più terribili anche se sappiamo
che essa è conseguenza dell’impunità e della mancanza di etica che corrompe
ogni cosa. Il populismo cerca di essere blando con coloro che commettono
crimini, soprattutto se appartengono ai settori popolari. Qui non si tratta di
fare vendetta, si tratta di applicare una “giustizia correttiva”. Per questo
abbiamo necessità di istituti correttivi e non di carceri (che alla fine si
trasformano in vere scuole del crimine). C’è molta insicurezza. Tanto che noi
abbiamo dovuto sospendere gli orari nottui delle nostre attività ecclesiali.
Quanto alla mia persona, mi sento tranquillo perché credo che Dio mi protegga».

Stando all’«ordine esecutivo» firmato dal presidente Obama lo scorso 9
marzo, il Venezuela costituisce una minaccia per la sicurezza nazionale degli
Stati Uniti.

«Senza dubbio oggi noi siamo più rispettati come repubblica sovrana e
indipendente. Con la maggioranza dei paesi le nostre relazioni si sono
rafforzate. Pensiamo alla Russia, alla Cina, all’Europa (Italia inclusa) e
soprattutto ai paesi latinoamericani con cui ci sono progetti in comune (Alba,
Mercosur, Petrocaribe, ecc.). Nonostante negli ultimi anni si siano deteriorate
le relazioni con Washington, il Nord America è importante per il nostro
commercio esterno e noi amiamo i suoi abitanti. Il Venezuela non rappresenta
una minaccia per nessuno e per nessun popolo. Però lo è per qualsiasi Impero
(sia di dove sia) che voglia dividerci o voglia convertirci nel proprio
“cortile di casa”».

Secondo il rapporto 2015 di Freedom House, il Venezuela è un paese «non
libero» (not free) per quanto attiene i mezzi di comunicazione. Nella
classifica mondiale si piazza al 176.mo posto. Lei come giudica la situazione
dei media venezuelani?

«Freedom House, Paolo? Chiunque viaggi in Venezuela e accenda
una radio o una televisione o compri un giornale si rende conto che nel nostro
paese c’è piena libertà di espressione. Anzi, io direi che c’è una sorta di
“libertinaggio d’espressione”, che non è la stessa cosa. Credo che non dovrebbe
essere consentito utilizzare un mezzo di comunicazione per dire qualsiasi cosa
passi per la testa. La libertà d’opinione non dovrebbe prescindere dalla
comunicazione vera dei fatti senza cioè alterarli od ometterli per meschini
interessi di parte. In Venezuela la maggioranza delle emittenti radio e
televisive sono in mano a imprese private che rispondono agli interessi
dell’opposizione. Quello che dico vale anche per i media in mano allo stato».

Pare che la gerarchia della Chiesa cattolica venezuelana sia sempre
schierata con l’opposizione contro il presidente e il governo. È così, padre?

«Alcuni dell’“alta” gerarchia (ma anche della “bassa”) si oppongono a
tutto ciò che fa il governo fino all’estremo di non essere capaci di
riconoscere quanto di buono è stato fatto per i più poveri. Alcuni di noi
stanno lavorando (senza per questo essere affiliati a qualche parte politica)
affinché si correggano le distorsioni e la situazione migliori, soprattutto per
coloro che hanno più bisogno. L’“opzione preferenziale per i poveri” non può
continuare a essere uno slogan, ma deve trasformarsi in fatti concreti».

Papa Francesco è stato molto importante per il nuovo corso di Cuba. Lei
crede che potrà anche aiutare a promuovere la pacificazione in Venezuela?

«Se ci fosse buona volontà da entrambe le parti, il papa potrebbe senz’altro
favorire una riconciliazione che sarebbe una vittoria per tutti. Non
dimentichiamo che il pontefice ha nominato un nunzio (mons. Aldo Giordano, ndr)
che ha dato prova di essere una persona di spessore con il suo comportamento
umile e semplice, vicino al nostro popolo e lontano dai privilegi. Papa
Francesco ha aiutato a chiarire che stare a fianco dei poveri non è comunismo,
ma puro cristianesimo».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Il microfono dei frati

Nata nel 1997, Rádio
Santa Clara è un’emittente Am di Floriano. I proprietari sono i frati minori,
che dall’Italia arrivarono nella città del Piauí nel 1967. Subito molto attivi
nel campo educativo e sociale, i francescani divennero ben presto
un’istituzione radicata e rispettata.

Floriano (Piauí). Davanti al mixer siede Paulo Henrique, tecnico del suono. «Frei
Erivelton non c’è» ci dice. I locali sono quelli di Rádio Santa Clara, una delle principali emittenti della città, «la prima
nel cuore della gente» (a primeira no coração do
povo), se vogliamo dare credito allo slogan.

Paulo
ci suggerisce di cercare il direttore, frei Erivelton Pereira de Passos, al convento
francescano, nel bairro Ibiapaba, non lontano
da qui.

Una storia italiana

L’entrata del convento, stretto tra la chiesa e la scuola
appartenenti allo stesso ordine francescano (Ofm), si trova davanti a una
piazzuola di palme e fiori sul cui selciato risalta una grande scritta: Paz e Bem, il saluto dei francescani.

Frei Erivelton è minuto e scattante. È brasiliano, ma parla un
ottimo italiano, perché la storia dei frati di Floriano è una storia italiana
che inizia nell’Irpinia, a metà degli anni Sessanta. I francescani di quella
regione decidono di aprire una missione nel Piauí, uno degli stati più
arretrati del Brasile.

Frei Antonio

Il primo ad arrivare nella città di Floriano è frei Antonio Curcio
nel 1967. L’anno seguente dall’Italia arrivano altri quattro confratelli, tra
cui frei Vincenzo Cardone. Saranno questi due frati – attraverso la fondazione «Nostra
Signora delle Grazie» (Nossa Senhora das Graças) – l’anima della missione francescana.

Subito dopo la costruzione del convento e della chiesa, frei
Antonio dà inizio alla sua opera più ambiziosa. In un paese dove l’istruzione
pubblica è troppo spesso scadente, nel 1969 fonda una scuola, il Colégio Industrial São Francisco de Assis, che guiderà fino alla sua scomparsa (avvenuta nel giugno 2012)1. L’istituto diventa ben presto uno
dei migliori della regione e oggi conta circa 600 alunni tra scuola primaria e
secondaria2.

Non è certo da meno frei Vincenzo (Vicente), attivissimo nel campo
sociale. Promuove ad esempio il sindacato dei lavoratori rurali e
l’associazione dei piccoli produttori agricoli. E, nel 1995, acquista
un’emittente locale, la futura Rádio Santa Clara.

Frei Vicente

Quando lo incontrammo, pochi mesi prima della sua scomparsa
(avvenuta nel luglio 2014), il francescano di Pietrelcina (il paese di Padre
Pio), già indebolito dalla malattia e dal peso dei suoi 88 anni, ci raccontò
delle difficoltà burocratiche che l’acquisto aveva comportato e dei costi per
mantenerla, ma era convinto della bontà dell’operazione. «Non abbiamo dati
ufficiali – ci spiegò -, ma secondo le nostre rilevazioni alcuni programmi sono
stati seguiti da un pubblico di 5mila persone». E aggiunse: «Ad un certo
momento mi si è anche presentata la possibilità di avere un’emittente
televisiva locale, ma non essendo sicuro delle forze disponibili ho desistito.
Però ammetto di averci pensato. Bisogna accompagnare i tempi».

Racconta frei Erivelton: «Rádio Santa Clara è nata ufficialmente
l’11 agosto del 1997. Fra’ Vicenzo aveva capito le potenzialità del mezzo per
la diffusione del messaggio cristiano e dell’evangelizzazione. Possiamo
raggiungere facilmente migliaia di persone, diceva. E aveva ragione: questa è
una radio Am e dunque può arrivare lontana. Fino a 100 chilometri da Floriano».

In un paese dove le antenne paraboliche si trovano anche nei
luoghi più impensati, chiediamo a frei Erivelton se la radio sia ancora uno
strumento di comunicazione diffuso. «Secondo una recente inchiesta, su 100
persone 95 vedono la televisione ma di queste 80 ascoltano anche la radio. E questa
è una buona notizia. Quanto a internet, essa è ancora sotto il 50%, anche per
problemi di collegamento. Di certo però la radio non può rimanere da sola,
slegata dai nuovi mezzi di comunicazione. Per questo anche Rádio Santa Clara ha
una pagina web e usa internet per trasmettere in streaming».

L’emittente mette in onda musica, informazione, sport e
intrattenimento. «Abbiamo – spiega il direttore – quasi 17 ore di
programmazione dal vivo. La radio inizia a trasmettere in diretta alle 5 del
mattino con le notizie giornalistiche».

Un’attività impegnativa che richiede un organico adeguato. «A Rádio
Santa Clara lavorano 15 persone: 7 persone fisse più 8 collaboratori. Non
abbiamo professionisti veri e propri, ma soltanto persone appassionate3».

Domandiamo al direttore se esista qualche programma particolare. «Forse
“Siga bem caminhoneiro”, un programma dedicato ai camionisti, una categoria molto
importante in un paese come il Brasile, enorme e privo di ferrovie».

Un cambio di mentalità

A
chiusura della nostra conversazione chiediamo a frei Erivelton un giudizio sul
Brasile. «Rimaniamo la nazione delle disparità in cui molti hanno niente e
pochi hanno tutto. E ciò è legato (anche) a un problema di mentalità: a troppi
va bene o non importa che le cose siano così. Il futuro nasce dal cambiamento
di questa mentalità. Prima la gente si conformava alla situazione (“è sempre
andata così”), adesso invece reagisce. Sicuramente non dobbiamo illuderci, ma
pian piano le cose stanno cambiando».

Magari
una radio serve anche per questo: ad aiutare le persone a cambiare mentalità.

Paolo Moiola
(Fine quinta puntata – continua*)

Paolo Moiola




Nyaatha è Beata

Da Nyeri, Cronache
della Beatificazione

Narrare un evento
come quello della beatificazione di suor Irene Stefani, a Nyeri, non è facile.
Ogni cerimonia avrebbe bisogno di pagine e pagine, le quali tuttavia non
riuscirebbero a trasmettere a chi non era presente i sentimenti e le emozioni
che hanno attraversato la vita di chi vi ha partecipato.

La cronaca dei tre
giorni – 22-24 maggio 2015 – potrebbe essere paragonata a un trittico, opera
pittorica divisa in tre parti autonome ma complementari, che, pur mostrando
forme e colori in tre spazi ben distinti tra loro, cerca di armonizzare una
scena, o un soggetto: nel nostro caso, la bellezza della vita e della missione di
Irene Stefani.

1. Gekondi, il villaggio
di Nyaatha

Vigilia
di Tutti i Santi del 1930, la piccola comunità cristiana di Gekondi, sugli
altopiani centrali del Kenya, era già in chiesa e si meravigliava del ritardo
del missionario per la messa. Quando finalmente arrivò, aveva il volto triste e
annunciò: «Carissimi, la notte scorsa alle 10,30 suor Irene, la vostra Nyaatha,
è stata chiamata nella casa del Padre». La sorpresa e il dolore si impadronì
dei presenti. Tutti cominciarono a piangere e a scuotere il capo sconsolati.

La
notizia della morte di suor Irene si propagò velocemente, e tutti – cattolici,
protestanti e «pagani» – si ritrovarono uniti in un profondo cordoglio.

Il 1°
novembre la salma composta nella bara fu trasportata, su un camioncino, da
Gekondi a Nyeri, per essere tumulata nel cimitero della missione del Mathari.
Una grande folla giunse per dare l’ultimo saluto alla mware mwendi ando,
«la suora che vuol bene a tutti». Il 2 novembre, il funerale fu un vero
trionfo.

Ottantacinque
anni dopo, il 22 maggio 2015, di nuovo una fiumana di gente si snoda sulle
strade che salgono verso Gekondi, non più per piangere la scomparsa di suor
Irene, ma per celebrare le meraviglie che Dio ha compiuto in quella giovane donna,
che aveva promesso di «Amare la carità più di se stessa» e che in questa terra,
domani 23 maggio, sarà proclamata Beata.

Alle
16,00, la chiesa dedicata alla Madonna della Divina Provvidenza e tutti gli
spazi attorno sono gremiti. Due maxi schermi permettono a tutti di seguire la
veglia di preghiera. La celebrazione inizia con una danza eseguita da un gruppo
di ragazzine che indossano i costumi di diverse etnie. Due di loro sono vestite
da musulmane. La danza vuole sottolineare una delle caratteristiche della vita
di suor Irene Stefani: l’accoglienza e l’attenzione verso tutti senza
distinzioni etniche o religiose.

La
veglia continua con la lettura tratta da Siracide 44 che tesse l’elogio degli
antenati. Al termine, un ritratto di suor Irene viene portato in processione e
deposto ai piedi dell’altare. Poi il sacerdote legge uno stralcio da
Matteo  28 che riporta il mandato di Gesù
agli apostoli: «Andate in tutto il mondo, battezzate, insegnate».

Dopo
avere ascoltato la Parola, vengono proposti flash della vita di suor
Irene alternati a canti. Inizia quindi la carrellata dei testimoni. Don
Rutilio
, parroco di Anfo per quarant’anni, ringrazia per l’esempio e la
vita di questa giovane donna consacrata a Dio e alla missione. La superiora
generale delle suore di Maria Immacolata di Nyeri, fondate da mons. Filippo
Perlo, Imc, sottolinea come suor Irene sia considerata la loro «mamma», perché
lei aveva accompagnato gli inizi della Congregazione insegnando alle future
suore, con l’esempio, cosa significasse consacrarsi al Signore.

Toccante è la testimonianza di tre persone che hanno
conosciuto suor Irene. John Mbutia (95 anni), ricorda che la missionaria
convertì suo nonno e suo zio e a lui, che faceva il chierichetto, insegnò a
rispondere, in latino, alle preghiere della santa messa. Per dimostrare che ciò
che dice è vero, con voce ferma e decisa, comincia a cantare in latino, come
suor Irene gli aveva insegnato, il Kyrie, il Gloria, il Santus.

Elizabeth
Wangui
, centenaria, racconta che suor Irene era molto buona e faceva
chilometri e chilometri per raggiungere i bisognosi e curare i malati, ma era
anche molto esigente verso le giovani a cui insegnava i principi della fede e
molti canti per onorare la Madonna. Poi, all’improvviso, con grande stupore dei
presenti, Elizabeth comincia a cantare l’Ave Maris Stella, in latino.

Elizabeth
ricorda che sua mamma fu mandata alla missione del Mathari, Nyeri, ad avvisare
la superiora che suor Irene stava male. Purtroppo, nonostante la lunga corsa,
quando questa arrivò a Gekondi, la missionaria era già morta.

Milka
Wambui Itunde
(95 anni), protestante, rammenta che era facile
scorgere suor Irene anche da lontano, perché indossava un grande cappello
bianco e rotondo (il casco coloniale) e un lungo vestito bianco che, per la sua
camminata veloce, svolazzava. Irene, continua Milka, conosceva bene la lingua
kikuyu, perciò la gente si confidava con lei. «Un giorno la missionaria seppe
che io, i miei fratelli e le mie sorelle avevamo una malattia che consumava le
dita dei piedi; subito, anche se non eravamo cattolici si affrettò a
raggiungere la nostra abitazione e a curarci. Toò parecchie volte finché
fummo guariti. Ho detto ai miei figli che senza le cure di suor Irene non avrei
potuto camminare!». L’anziana protestante termina la sua testimonianza cantando
un ritornello che l’assemblea ripete danzando: «Cosa posso fare per ripagare la
bontà di suor Irene?».

Prima
di terminare la veglia di preghiera, padre Gottardo Pasqualetti,
postulatore della causa di beatificazione, riassume i passi fatti per giungere
a questa meta, mentre padre Giuseppe Frizzi narra il miracolo di Nipepe,
Mozambico.

Infine,
madre Simona Brambilla, superiora generale delle missionarie della
Consolata, conclude indirizzando una lettera a suor Irene, che esprime
sentimenti di gioia e di ringraziamento.

I
canti ci accompagnano mentre, verso le 21, usciamo dalla chiesa di Gekondi e,
quasi «portati» dalla folla, scendiamo l’unica strada sterrata che porta ai
piedi della collina. La luce della luna, e ancor più la presenza di suor Irene,
madre misericordiosa, rischiara il nostro cammino.

2. Irene beata

L’ampia
area verde della Dedan Kimathi University alle porte di Nyeri, il 23
maggio 2015, è diventata una chiesa all’aperto e senza confini, sì perché le
persone che la gremiscono sono arrivate non solo dai vari angoli del Kenya
(Meru, Nanyuki, Loyangalani, Mombasa…), ma anche da altre nazioni dell’Africa,
Europa, America e Asia, per celebrare la beatificazione di suor Irene Stefani.

Alle
7 del mattino, per entrare nell’area assegnata alle suore si passa per parecchi
chilometri tra due ali di folla in attesa. Niente, neppure il calore del sole
riesce a fermare la gente che vuole essere testimone di un evento mai avvenuto
in questo scampolo di terra.

Dalla
zona dell’altare posto in alto, il colpo d’occhio lascia senza fiato: 300 mila
persone riempiono la spianata di prati verdi. I vestiti dai colori sgargianti e
caldi dell’Africa, le acconciature accurate, i canti accompagnati dai tamburi,
le danze, i volti sorridenti, contribuiscono a creare un’atmosfera di gioia e
ringraziamento.

La
bandiera del Kenya e quella del Vaticano sventolano ai lati dell’altare e nella
zona dove il presidente del Kenya, Uhuru Kenyatta, e i membri del suo governo
sederanno per partecipare alla cerimonia.

Alle
10,00, la danza di una cinquantina tra bambine e bambini del Children
helping children
(Infanzia Missionaria) accompagnate dai canti del coro
composto di 600 membri appartenenti a 49 Parrocchie della Diocesi di Nyeri,
apre il corteo dei Vescovi (28) e dei Sacerdoti (500 ca.).

Il
primo saluto è quello dell’arcivescovo di Nyeri, mons. Peter Kairo, che
descrive suor Irene Stefani come modello di virtù che ogni cristiano dovrebbe
imitare per seguire il Maestro.

Suor
Linda Hill, missionaria della Consolata, legge una breve biografia di suor
Irene. Poi l’inviato del papa, l’arcivescovo di Dar-es-Salaam, Tanzania, il
cardinal Polycarp Pengo, legge la Bolla papale della beatificazione in latino e
il cardinale di Nairobi, John Njue, la ripete in inglese concludendo che la
festa liturgica della Beata Irene Stefani, sarà il 31 ottobre, giorno della sua
morte.

Dopo
la lettura della Bolla, il prolungato battimani dei partecipanti e gli
armoniosi trilli di gioia delle donne risuonano e rimbalzano in ogni parte
dell’assemblea. Quando viene srotolata la tela che ritrae la nuova Beata,
mentre madre Simona ne porta all’altare il reliquiario, il coro intona un
ritornello, ripetuto più volte dalla gente: «Ni Baraka» (è una benedizione).

Il reliquiario consegnato da madre Simona al cardinal
Njue verrà  dato al parroco della chiesa
di Gekondi, segno della continua presenza della Beata su quelle colline dove
aveva annunciato con la vita che l’Amore non ha confini.

Poi
una lunga processione danzante porta la Bibbia verso il leggio. Dalla Parola,
in controluce, emerge il volto e la vita della nuova Beata.

La
prima lettura, da Isaia 52, 7-10, esalta la «bellezza» dei piedi e dei passi di
coloro che fanno risuonare la «buona notizia», che diventano messaggeri di
pace, di gioia e che proclamano la salvezza. La prima lettera di san Paolo ai
Corinti, 13, 1-13, descrive le caratteristiche della carità. Mentre il Vangelo
di Matteo, 25, 31-40, svela le azioni che identificano i seguaci del maestro.

Il
cardinal Njue, nell’omelia sollecita i presenti ad attualizzare il messaggio di
suor Irene: «Oggi, il Signore ci chiede di guardare la beata Irene Stefani, che
ci insegna ad amare e apprezzare la bellezza dell’umanità unita e in pace, ad
andare al di là delle diversità di cultura, nazionalità e religione. Non
importa da dove veniamo, o il gruppo etnico a cui apparteniamo, importa ciò che
siamo, che valori ci guidano; solo camminando in questa direzione diventeremo
come la nuova Beata: strumenti di pace e di unità. Sì, oggi è il momento di
guardare al passato e di sottolineare che cosa questa umile missionaria ha
fatto, ma è anche il tempo di guardare avanti e avere il coraggio di assumerci
le nostre responsabilità: tocca a noi curare e fare crescere il seme da lei
piantato, affinché porti frutto».

Il
cardinal Njue poi si rivolge ai giovani invitandoli a «coltivare i veri valori
e a impegnarsi nel tessuto della società per renderla migliore». Ai genitori,
invece, chiede di «assumere le proprie responsabilità nel crescere i figli in
maniera adeguata e saggia».

Chiudendo
l’omelia incoraggia le Congregazioni religiose a imitare la vita della Beata
affinché «la gente possa amare e servire Dio».

Al
termine della celebrazione vari membri del governo centrale e della Contea di
Nyeri si alternano per ringraziare e sottolineare gli aspetti significativi
della figura della nuova Beata. Il presidente, Uhuru Kenyatta, concludendo
questo grande evento nazionale sottolinea: «La beatificazione di suor Irene
Stefani ricorda a tutti i kenioti l’importanza dell’umiltà, la forza e la
potenza della misericordia e la bellezza dell’amore. Questa lezione non è per i
politici, ma ogni singola persona deve incominciare questo cammino, il solo
capace di cambiare la società, di portare pace e unità». Il presidente, con
forza poi ribadisce: «Il Kenya rispetta tutte le religioni perché non c’è una
fede superiore a un’altra, per questo continueremo a proteggere tutti, sicuri
che insieme saremo capaci di fare prevalere la tolleranza e la beata Irene ci
guiderà su questa strada».

Verso le 16,00, questa lunga giornata si conclude ed
entra nella storia e nei cuori dei presenti e di chi ha seguito l’evento in
diretta Tv oppure in streaming. L’augurio è che tutti siano toccati
dalla vita di questa umile missionaria che ha saputo scegliere e vivere
l’Amore, incarnando il proposito: «Gesù solo! Tutta con Gesù! Nulla da me!
Tutta di Gesù! Nulla di me! Tutta per Gesù! Nulla per me!».

3. Camminando con Suor
Irene

Il 24
maggio 2015, mentre a piedi, dietro le spoglie di suor Irene, percorro i 7
chilometri dalla parrocchia del Mathari a Nyeri, mi rivolgo alla mia Beata
consorella.

«Suor
Irene carissima, il tuo ultimo passaggio nella terra dei Kikuyu che, mentre eri
in vita percorrevi calzando i tuoi duri e scomodi scarponi chiodati per portare
il messaggio del Vangelo a tutti coloro che con libertà di cuore ti
ascoltavano, è stato un trionfo.

Quest’ultima
camminata non l’hai affrontata da sola, ma ti sei lasciata portare, prima a
spalle dai militari della British Army, commilitoni di coloro con i
quali avevi collaborato per curare i soldati feriti durante la prima guerra
mondiale. Poi, i tuoi resti sono stati posti su di un furgoncino sul quale sono
salite alcune tue consorelle, vescovi e rappresentanti legali. Mentre quattro
poliziotti a cavallo ti scortavano, una fiumana di gente: uomini, donne,
bambini, giovani e vecchi vestiti a festa, ti seguiva.

Umiltà,
povertà, obbedienza, preghiera, ospitalità, perdono, ma soprattutto la carità
è stata la molla, il “fuoco”, che ha acceso la tua vita e, per riflesso, tutte
le persone che ti hanno incontrato nel tuo rapido passaggio nel tempo e nella
storia. Oggi, sugli antichi sentirneri, ormai divenuti strade asfaltate, la gente
ti ripete, pregando e cantando, che ha capito il tuo messaggio: la carità non
si racconta, ma si vive con gratuità e diventa compassione, condivisione,
servizio.

La
tua vita, segnata da gesti discreti, semplici, ha rivelato che l’Amore è il
filo conduttore che si dipana e, nel tempo, tesse la nostra storia, come la
spola del tessitore che corre avanti e indietro sul telaio mentre il tessuto
cresce e il disegno, prima invisibile, si va completando.

I tuoi gesti non sono rimasti statici, incatenati a uno
spazio, o a un luogo, ma sono liberi e sono certa che lo Spirito che ti ha
spinta su e giù per le colline vicino a Gekondi per annunciare l’Amore di Dio,
muoverà anche chi ti sta accompagnando nella tua nuova “dimora”, a impegnarsi
per migliorare la propria vita e a lasciarsi toccare dalle necessità del
“prossimo”, come tu hai fatto, cara Nyaatha. Aiutaci a riappropriarci
della gioia della fede, della gioia dell’annuncio, della fierezza e
dell’audacia della testimonianza cristiana.

La
Chiesa, le tue consorelle, la gente del Kenya, non possono fare altro che
cantare con gioia: “Grazie Beata Irene!”».

Maria Luisa Casiraghi

Maria Luisa Casiraghi




Cooperazione senz’anima

Un libro,
un’esperienza di vita, una proposta concreta.
Un ex volontario. Uno
che ci crede. Ritorna in Africa dopo 15 anni e trova un sistema cambiato: sono venute meno le motivazioni di un tempo. Propone una
riflessione ad ampio spettro. Per un cambiamento: andare verso il futuro, ripartendo
dai valori di una volta.

Alberto Zorloni, classe 1961, è nato e cresciuto in montagna, e là
di quello che un tempo si chiamava «Terzo Mondo» non si parlava proprio, non si
conosceva nulla. A Milano, nel corso di un processo di ricerca su come
concretizzare i suoi ideali, entra in contatto con alcune Ong e gli si apre un
mondo. «Per me l’incontro con le Ong è stata una cosa fantastica. In esse si
realizzava una sintesi ideale tra i valori cristiani nei quali credevo (e
ancora credo) e gli ideali di giustizia propugnati, ma, negli anni ’70 del mio
liceo, poco praticati dalla tradizione di sinistra».

«Le
Ong, come le ho conosciute negli anni ’80, non solo erano l’unione teorica tra
questi due discorsi, ma lo erano anche in pratica. Davano la possibilità a
tanti giovani, come me, di partire per paesi lontani e impegnarsi in
realizzazioni concrete».

La prima partenza

E così
Alberto, diventato medico veterinario, decide di far seguire a questa «sintesi»
un impegno pratico, e parte volontario per un progetto nel Sud Kivu, in Congo
RD. È l’epoca dello Zaire di Mobutu: «Lavoravo in una zona poverissima –
ricorda – una situazione quasi di emergenza. Secondo me, non c’erano le
condizioni minime per un progetto di sviluppo».

«Ero partito con molto entusiasmo e molta carica e, pur
nelle mille difficoltà logistiche che ho trovato sul posto, è stato un periodo
molto bello». Alberto è grato a quella Ong per la preparazione ricevuta prima
della partenza: «Mi aveva offerto un corso di formazione ottimo. Quello che ho
imparato è stato poi fondamentale in tutte le esperienze africane. Tagliare i
fondi per una formazione seria ai volontari in partenza (come succede oggi, ndr) è un suicidio».

 
L’impegno in Italia

Poi
il rientro. Ma Alberto intende il volontariato internazionale come «un ponte a
doppio senso». Il suo impegno diventa parlare in prima persona dell’esperienza
vissuta, nell’ambito di quella che viene chiamata «educazione allo sviluppo»: «Quando
si tornava, bisognava contribuire a dare un’informazione corretta. E su questo
io ho investito molto negli anni ‘90. Ho fatto almeno una cinquantina di ore in
scuole di ogni ordine e grado della mia zona e mi ero trovato bene».

Ma non basta. Sempre in linea con i suoi valori di base,
Alberto si occupa di commercio equo e poi di finanza etica. Fonda insieme ad
alcuni amici un’associazione di volontariato. Oltre al volontario, fa il
veterinario, e completa la sua formazione professionale seguendo un corso di
medicina veterinaria tropicale al Anversa, allo scopo di migliorare le sue
competenze che mette a disposizione in brevi esperienze nei paesi del Sud.

«È stato un periodo di “successo”, anche se, come avviene
spesso in Africa, si fanno dei progetti che però non si traducono in vero empowerment»
(termine usato per definire un aumento della consapevolezza delle proprie
capacità e della possibilità di farle valere, ndr). Alberto lamenta però
che queste belle esperienze restano spesso circoscritte.

 
Ripartire

Alberto
rimane quindi nell’ambiente del volontariato internazionale, pur non
effettuando più missioni lunghe. Però l’idea di ripartire cova dentro. «A un
certo punto mi sono deciso: volevo ripartire per l’Africa. Dopo alcune
selezioni non andate a buon fine, finalmente una Ong mi propone un posto in
Etiopia, dove hanno urgentemente bisogno di un veterinario». Così Alberto
riparte, a 15 anni dalla prima esperienza. «Sono partito con un contratto di 13
mesi, ma mi sono trovato del tutto spaesato. I valori, la carica ideale erano
venuti meno, e al loro posto c’era tutta una serie di comportamenti, quasi un
teatrino, un castello di carta vuoto, fatto di rapporti scritti, relazioni,
budget, fund raising (raccolta
fondi, ndr). Si giocava a fare i manager». Alberto non accetta il nuovo
approccio della cooperazione, e inoltre vive anche una serie di disavventure
con l’Ong che lo ha assunto e il suo personale italiano in Etiopia.

«I
valori che provavo a propugnare, che erano state le Ong stesse a infondermi,
provocavano ilarità. Come se mi fossi vestito alla maniera dell’800 e,
vedendomi andare in giro, la gente si domandasse: “Ma da dove esce questo?”».

 
Il rapporto con gli africani

Con i colleghi etiopi, al contrario, Alberto instaura un
ottimo rapporto, e sperimenta un modo di lavorare molto arricchente. «Non sono
stato io a mettere in piedi un approccio partecipativo con i locali, ma sono
stati loro. Io sono semplicemente stato disponibile, e mi è piaciuto molto,
perché è stato qualcosa che hanno preso in mano loro. Mi hanno dato coraggio.
Io mi sono sentito strumento, ma mai oggetto. Strumento in un ruolo che
valorizzava la mia soggettività: l’apertura, la disponibilità alla cultura, ai
mezzi locali, anche se non ortodossi secondo noi occidentali, anche se non
facilmente inquadrabili nei nostri schemi. Io ero aperto al loro modo di fare,
e loro hanno “preso il potere”. Per me è stato molto bello, mi sono sentito
responsabilizzato e al tempo stesso valorizzato e questo mi ha restituito la
motivazione, che ormai pensavo di aver perso».

Alberto,
che è sul punto di abbandonare a causa dei comportamenti dei colleghi italiani,
decide di restare proprio grazie al rapporto instaurato con l’équipe locale. Con
alcuni di loro rimarrà in contatto anche dopo il rientro in Italia, e aiuterà
un giovane collaboratore molto promettente a studiare in Europa.

«Una persona molto in gamba. Lui è riuscito a valorizzare
me per quella che era la mia apertura ai sistemi locali, e io ho valorizzato
lui per quelle che erano le sue capacità».

I
problemi invece ci sono con gli italiani. «Era vero e proprio mobbing –
sostiene Alberto -. Perché il rappresentante dell’Ong nel paese faceva da padre
e padrone. Questo anche perché dall’Italia le attività in Etiopia erano seguite
da una persona che non parlava l’inglese, che quindi non poteva neppure leggere
progetti e rapporti».

Il
rappresentante si era fatto largo a gomitate, aveva lavorato in condizioni
eroiche, si era fatto una famiglia. In Italia l’Ong non sapeva niente, per cui
l’Etiopia, per quella Ong, era identificata con quella persona che aveva le sue
regole monolitiche. Tra esse c’era quella per cui il volontario che arrivava
per primo doveva diventare il capo progetto.

«Il
mio collega diretto, arrivato sei mesi prima di me, era un giovane neolaureato.
Il progetto da realizzare era in ambito veterinario. Per questi motivi il
responabile ero io, ma a loro due questo non andava giù. Pur senza mettersi
d’accordo, tendevano sempre a fare rilevare la mia inefficienza. Ovvio, ero
arrivato lì e non mi avevano detto quasi niente. Non sapevo neanche i nomi dei
villaggi. è stata un po’ dura
all’inizio. Ma lo staff locale ha fatto tutta un’altra scelta. Alla fine è
stata una bella esperienza per me».

Alla
scadenza del contratto c’è ancora la possibilità – e la necessità – di
continuare, e l’Ong propone un rinnovo ad Alberto, salvo poi fare dietrofront,
sotto le pressioni dei due colleghi italiani. Un epilogo un po’ triste.
Probabilmente Alberto si è trovato in una situazione particolarmente
sfortunata, perché normalmente le relazioni tra volontari espatriati, nei paesi
più diversi e complessi, sono molto buone e costruttive.

 
Un’idea, un libro

Alberto rientra in Italia e riprende il suo lavoro di
veterinario alla Asl di Domodossola. E intanto matura l’idea di scrivere un
libro. Ma poi va oltre, con un’idea per il futuro del volontariato
internazionale.

«Quando
ero in Africa scrivevo delle lunghe lettere a un indirizzario di diverse decine
di persone, con le quali avevo condiviso l’impegno negli ambiti di commercio
equo e finanza etica. Illustravo la situazione. Loro mi hanno sempre suggerito
di pubblicarle».

Alberto
inizia una collaborazione con l’Università di Pretoria (Sudafrica) che sfocerà
poi in un master di ricerca per approfondire i metodi tradizionali di cura dei
pastori nomadi dell’Etiopia, proprio sulla scia del lavoro effettuato in quel
paese. «È stato un periodo molto impegnativo. Nel 2009 ho ripreso in mano 18
lettere, e ho cercato di trasformarle in un libro. Inizialmente il testo aveva
una forte impronta storica, perché l’Etiopia ha una storia entusiasmante e io
ne sono un appassionato. Lo sottoposi allo storico Angelo del Boca, il quale mi
disse: “La parte storica è molto valida, ma
la tolga tutta”. Perché? chiesi. “Molte cose interessanti sono state scritte
sulla storia dell’Etiopia, diversi studiosi seri ci si sono cimentati. Al
contrario non ho mai letto una presentazione del volontariato internazionale
che fosse così scevra da tentativi di commuovere o raccogliere fondi, o di
mostrare interessi di parte, o di come siamo bravi. è piuttosto una critica dall’interno che propone un
cambiamento positivo. E dal punto di vista intellettuale è indipendente ed
emotivamente sofferta, in prima persona. Non come altre critiche fatte
guardando solo i conti e i bilanci”.». Così, dopo quasi sei anni di lavoro e un
paio di decine di versioni, è nato nel 2015 il libro «Ripartire da ieri, la
nuova sfida del volontariato internazionale» (ed. Emi, 2015), che oltre a
contenere parte della storia personale e professionale di Alberto Zorloni, in
particolare riguardante l’esperienza etiope, propone un nuovo concetto di
volontariato internazionale, che ha radici nel passato.

La proposta

«La
mia proposta è rilanciare il volontariato internazionale “partendo da ieri”, da
quelle motivazioni e da quella spinta valoriale che abbiamo lasciato cadere. E
non vale solo per questo ambito. Infatti, tornato in Italia, parlandone con
diverse persone, ho capito che è lo stesso in politica, nel sindacato, nella
scuola, nell’assistenza sociale. Non capiamo più dove stiamo andando, non ci
riconosciamo più in quello che stiamo facendo. È un libro in cui c’è una
riflessione arricchita anche dal confronto con altri. Questo è un primo punto:
il bagaglio di valori non è una zavorra che riduce l’efficienza, ma è qualcosa
grazie al quale si riesce a essere più efficienti.

Le
Ong devono cercare di esprimere motivazioni e ridare valore agli ideali,
cercare di staccarsi il più possibile da un arido elenco di dati. Riaprire il
discorso alle valutazioni del proprio lavoro, discutere su quello che si fa,
sul senso che ha. In Etiopia, quando cercavo di far ripartire queste
discussioni, mi dicevano “ma cosa me ne frega, è previsto nel budget, lo
facciamo e chiuso”.

Secondo punto: va finalmente messo in pratica il concetto
per cui il volontariato deve essere uno scambio. Io sono stato valorizzato
dagli africani, mi hanno aiutato. Vivo le cose in modo molto intenso, per cui
sono anche soggetto ad ansia, ma loro hanno saputo costruirmi attorno un
contesto, nel quale io mi sentissi sicuro, tranquillo e potessi operare al
meglio. Ho visto che anche questo è uno strumento che ti fa lavorare bene, più
efficace di altre amenità tecnologiche, come l’impiego del satellite o altro.
Una serie di strumenti avanzati possono essere utili all’Africa, per noi
invece, visto come stanno andando le cose nella società, sarebbe importante
avvalersi di questi strumenti relazionali, comunitari, che erano anche nostri
in passato. In Africa resistono ancora, anche se, di questo passo, pure gli
africani li stanno perdendo. Il tutto in un’ottica di scambio.

Io
come veterinario sul campo, ho avuto la fortuna di conoscere quell’Africa che
dicono non ci sia più. Conoscendo lo swahili, ho potuto relazionarmi con
persone la cui voce non si sente o non si è mai sentita.

In
generale i dirigenti di Ong africane o piccoli imprenditori della classe media
europeizzata, sono impostati sul nostro modello di società e vedono di buon
occhio l’arrivo di qualunque investimento. Ma con l’aumento delle già enormi
differenze tra ricchi e poveri, ho notato anche una maggiore presa di coscienza
da parte delle Ong locali. La società civile africana è cresciuta, questo è
positivo. Si sono resi conto che è in gioco la cultura, l’essere africani».

 


«Professione volontario»?

Ci
chiediamo se ha ancora senso la cooperazione internazionale. «Io sono per il sì.
Sono sicuro». Ma ormai è diventato un lavoro come un altro, senza le
motivazioni di ieri. Esistono pure dei corsi universitari per prepararsi. È
come se il volontariato si fosse professionalizzato.

«Ribalterei il discorso. Secondo me si è
deprofessionalizzato, perché le Ong hanno avuto una grande occasione per far
valere la propria maggiore professionalità, ad esempio il fatto di relazionarsi
in un certo modo con le persone, avere una visione che parte da determinati
valori. Quella dei valori non è una questione morale, è proprio uno strumento
che ti permette di lavorare meglio. Quindi una parte della professionalità,
anche quella di accontentarsi di stipendi bassi, che non incidano troppo sul
budget del progetto, è una caratteristica professionale perché avrai più fondi
da investire nelle attività aumentandone l’efficienza».

Alberto
non ha molti riscontri sul suo libro da parte del mondo Ong, nonostante la
tematica.

«Ho avuto tante risposte positive da parte di persone
comuni, anche gente che non si occupa dell’argomento o di Africa. Da parte
delle Ong ho avuto solo due feedback: uno diretto e l’altro tramite la presentazione del
libro sul sito istituzionale dell’organizzazione.

Al di
fuori di questo non ho ricevuto né critiche, né apprezzamenti, pur avendo
scritto a molti, comprese le federazioni di Ong».

 
Qualcosa di più

Le
riflessioni contenute nel libro di Alberto sono estese a livello ampio
all’intera società.

«Sento
la necessità di un nuovo umanismo. Ma non intendo fare una nuova associazione.

È un
cammino da fare a livello individuale, fin dalle più piccole cose: mettere
determinati valori in cima alla scala delle proprie scelte quotidiane, ad
esempio nel consumo, le scelte di sobrietà, ecc. Sono convinto che, se si dà
importanza a queste cose, se non le si considera delle bazzecole, ma cose
importanti per la nostra vita, ci si ritroverà concordi su obiettivi comuni.
Occorre un cambiamento di priorità di valori». Un cambiamento sulla lunga
scadenza ma con risultati in tempi ragionevoli: «Altrimenti si perde fiducia.
Penso a un nuovo che però riparta dal vecchio, dai valori che già c’erano».

 
Esperienze

«Mi
piacerebbe che tutte le persone, anche in altri campi, che sentono questa
esigenza, riuscissero a fare una cosa comune. Come un sito web in cui
presentare le esperienze che già funzionano in questo “ripartire da ieri”. Per
dare un messaggio che le cose si possono realizzare. L’importanza del fare, del
concreto. Vorrei che uscissero allo scoperto quanti condividono questo pensiero
e insieme si riuscisse a concretizzarlo, realizzando progetti in Africa in un
certo modo. Per me non è un sogno, deve essere una realtà».

Marco
Bell
o

Nota:

per volere dell’intervistato e coerenza con il libro, in
questo testo non si fanno nomi di persone o enti. Tuttavia i «non nomi», come
li chiama Zorloni, corrispondono a persone e fatti realmente accaduti.

Marco Bello




«Ci sono solo viaggi di andata»

Diario di un giovane da Isiro / 4

Anche prendersi la malaria
fa parte dell’esperienza di missione, così come veder morire chi non si può
curare, oppure contemplare la luna che sorride nella notte. Ecco le ultime
pagine del racconto di Tommaso della sua avventura «dell’essere, piuttosto che
del fare», in Congo RD. Dopo nove mesi di Africa che lo «hanno cambiato», è
tornato in Italia a inizio giugno.

17 Aprile 2015

«Neisu»
in lingua locale significa «cuore». In effetti, starci significa proprio vivere
nel cuore della foresta, e della vita della gente.

Durante
la settimana trascorsa a Neisu mi sono dato all’esplorazione, visitando i
diversi quartieri e soprattutto fermandomi a conoscere la gente.

Una
bambina di 7 anni si è presentata alla missione per chiedere aiuto per sé e per
i suoi fratellini: i loro genitori sono partiti da più di un anno, dicendo che
sarebbero andati a una matanga (funerale), e li hanno lasciati a una
nonna malata che non può sostenerli. La cosa che fa più tenerezza, e pena, è
l’attesa di quei bimbi che ancora sperano nel ritorno dei genitori. Comunque
abbiamo contattato il capo del villaggio in modo che risolvesse la situazione e
trovasse qualcuno a cui affidarli.

È la
stagione dei manghi: alberoni enormi gonfi di frutti. In missione ce ne sono
troppi, ne mangiamo due per pasto, e ancora sovrabbondano. Credo che presto mi
metterò a fae la marmellata. Per restare in tema di frutta, ho riscoperto
l’avocado: se si prende la sua polpa e si mischia con miele o zucchero sembra
mascarpone. E se aggiungi un po’ di caffè ti ritrovi il tiramisù. Forse
incomincio a essere in astinenza da cibo italiano.

Ho
assistito al giorno del grande mercato: una distesa dei più vari prodotti,
alimentari e non. Ho visto pure qualcuno che girava con un intero macaco morto
per venderlo. Sono stato molto criticato perché facevo foto o video. Il
problema è che la gente pensa che noi «bianchi» facciamo foto per andare in
Europa a dire che loro sono poveri per farci dare soldi. Questa cosa mi ha
fatto riflettere. Effettivamente è vero: queste foto, per noi, mostrano la
povertà, ma per la gente di questo villaggio è sbagliato e forse addirittura
offensivo chiamare «povertà» la loro quotidianità.

25 Aprile 2015

Come
dicono alcuni, «non hai vissuto veramente l’Africa se non hai preso la malaria».
Beh, ecco: ho ricevuto il battesimo dell’Africa. Tornato da Neisu, dopo un paio
di giorni, mi è salita una febbre da cavallo. La malaria è una malattia un po’
antipatica perché in certi momenti ti senti come in una sauna, in altri tremi
dal freddo. Comunque sono andato all’ospedale per fare gli esami del sangue: la
mattina ero in fase «tremo come una foglia», quindi immaginate la scena comica
per tenermi fermo e prelevare il sangue, poi sono entrato in fase «vulcano»
mentre mi visitava la dottoressa. Per far scendere la febbre mi hanno fatto
un’iniezione, e io sono svenuto come una pera. A quel punto ho iniziato simpaticissime
perfusioni di chinino: quattro ore per volta, per due volte al giorno, per due
giorni. Consiglio vivamente la perfusione nella fascia oraria tra mezza notte e
le quattro. Ad ogni modo, tra la dose di chinino e la valanga di farmaci presa,
ora sto bene.

Ho
capito cosa provano i locali martoriati dalla malaria più volte l’anno.  Immaginate chi ha a malapena i soldi per i
farmaci, o chi è solo. Moltissime persone, soprattutto bambini, di malaria
muoiono. Penso che le migliaia di persone che ancora oggi, nel 2015, muoiono
per malattie curabili (diarrea, malaria, febbre tifoide, ecc.) rappresentino
uno scandalo enorme e un’ingiustizia. Eppure tutto tace, nessuno fa nulla, e la
gente muore. È incredibile l’assenza dell’Africa nei nostri telegiornali. C’è un
disperato bisogno di pace. Come dice madre Teresa: «Se oggi non abbiamo la pace
è perché ci siamo dimenticati che quell’uomo, quella donna, quel bambino è mio
fratello o mia sorella».

 


08 Maggio 2015

La
povertà è una realtà che turba la coscienza, viene istintivo cambiare strada o
girare la testa dall’altra parte. Qui però la povertà è talmente grande e
diffusa che qualunque strada tu prenda, o dovunque giri la testa, la incontri.
Un giorno ho accompagnato Ivo a fare la spesa in un negozio. Mentre eravamo lì,
è comparsa una signora (un po’ fuori di testa) che ha iniziato a domandarci
soldi. La scena è durata una trentina di minuti: lei domandava soldi, noi
rifiutavamo, lei continuava a domandare soldi. In una realtà come questa non è
giusto dare a destra e a manca: oltre al fatto che non ce n’è per tutti, si
rischierebbe di creare una mentalità di dipendenza. Fatto sta che, nonostante
fossimo nel «giusto», rifiutare di donare 10 centesimi a quella donna, mentre
il bancone si riempiva di merce, mi ha, in un certo modo, infastidito. Forse
perché mi risuonavano nelle orecchie parole come: «Ero affamato e non mi avete
dato da mangiare», ma qui gli affamati li incontri ogni dieci metri.

Se
solo le ricchezze fossero incanalate nel modo giusto!

La
malaria, grazie a Dio, è passata e mi sono rimesso al 100%. Ora non potete
immaginare cosa provo quando a Gajen incontro i bambini che soffrono di
malaria, quando sento il loro corpo che scotta e vedo la stanchezza nei loro
occhi.

Non
so se vi ricordate di Jefthen, un membro della banda bassotti di qualche tempo
fa, guarito e rientrato a casa. Ho ricevuto la notizia che è morto: una volta
tornato nel villaggio ha preso la malaria, lo hanno curato con le medicine
tradizionali pensando che fosse un’infiammazione della milza (sintomo possibile
della malaria nei bambini). Di conseguenza la malaria è peggiorata velocemente
e l’ha ucciso. Mentre riguardavo foto e video del periodo in cui era a Gajen,
non ci potevo credere che fosse morto, e ho provato un certo senso di rabbia nel
pensare che era «morto per niente», che se avessero subito identificato e
curato la malaria Jefthen sarebbe ancora vivo. Morire per colpa dell’ignoranza è
una cosa che proprio non riesco ad accettare, eppure qua è «normale»: in quasi
tutte le famiglie che ho conosciuto, almeno un figlio è morto in situazioni
analoghe. Come direbbe padre Tarcisio: «Cosa non abbiamo visto in 40 anni di
Congo!». Anche io, in meno di un anno, ne ho viste veramente tante.

L’altra
mattina è arrivato un ragazzo (23 anni) che cercava un donatore di sangue per
suo figlio malarico. Era una specie di corsa contro il tempo, tra la vita e la
morte del figlio. Qui, i donatori vengono pagati. Questo significa che, se non
hai i soldi, stai senza trasfusione e muori. Negli ospedali non c’è una banca
del sangue, anche per le difficoltà di conservazione, per cui, se hai
un’urgenza, prima di tutto devi trovare il donatore, e poi trovare i soldi per
pagarlo. «Cosa non abbiamo visto…».

 
18 Maggio 2015

Al
centro è arrivato un piccoletto di due anni. È accompagnato dalla zia perché ha
perso la mamma quando aveva meno di un anno. Questo dolore lo ha segnato:
rifiuta di parlare, annuisce soltanto, e inoltre non gioca con nessun bambino. È
veramente una pena vederlo così.

Con i
bambini del quartiere ho organizzato una serata con balli intorno al fuoco. C’è
da dire che qui in «città», rispetto ai villaggi di Makpulu, non sono abituati
a farlo, quindi siamo finiti per ripetere sempre gli stessi 5-6 canti a
ripetizione. Comunque ci siamo divertiti un sacco, e mi hanno chiesto se
possiamo farlo ancora.

Sta
per iniziare l’ultimo periodo di questa esperienza. Dopo tutto questo tempo è
difficile immaginare di partire. Incomincio a sentire che non sarò qui per
sempre, e che quando me ne andrò continuerà tutto senza di me, che non sono
essenziale. Mi consola il fatto che la mia non è mai stata un’esperienza del
fare, quanto piuttosto dell’essere.

Padre
Tarcisio, per motivi di salute, da Kinshasa deve rientrare in Italia. Vi chiedo
di ricordarlo nelle preghiere, è una grande persona e qua tutti ne sentiamo la
mancanza.

 
26 Maggio 2015


Ora
capisco quando mi dicevano che «l’inizio della stagione delle piogge è il
periodo della malaria». Le pediatrie sono piene di bambini ricoverati che
purtroppo spesso vengono portati troppo tardi.

È
incredibile come, anche dopo diversi mesi, ogni giorno continuo a stupirmi di
questa realtà. Ciò che amo dell’essere all’equatore è che qualche volta, la sera,
quando guardo il cielo, vedo la luna che mi sorride.

Sono
esemplari i sacrifici che alcuni studenti fanno per pagarsi gli studi
universitari. Thérese, una donna che sta studiando medicina, ci da una mano
nell’orto in cambio di un aiuto. Mi ha detto che i soldi ricevuti li consegna
direttamente all’università. Quando finirà gli studi curerà di più la sua
bellezza e i suoi vestiti. È un grande sacrifico per una donna di qua, perché
l’esteriorità è molto importante. Sono storie difficili quelle di questi studenti,
soprattutto se si pensa che, nel paese in cui vivono, non sanno se gli studi
universitari che conducono con grandi sforzi daranno loro una vita migliore.

 
30 Maggio 2015

Lasciare
Isiro non è stato semplice, eppure nemmeno difficile come pensavo. È stato
bello salutare tutte le persone e scambiarci gli auguri di una buona vita.

Nella
sala d’attesa dell’aeroporto di Isiro contemplo la meravigliosa foresta che
riempie il panorama oltre le vetrate. Padre Andrés che mi ha accompagnato, mi
dice che per i missionari non ci sono viaggi di ritorno, ma solo viaggi di
andata.

Quindi
salgo sul piccolo aereo e compio serenamente a ritroso quello stesso viaggio
che qualche mese fa mi aveva traumatizzato. Noto un cambiamento: non ho voglia
di ascoltare musica isolandomi, contemplo la realtà dell’aereo: i passeggeri,
il personale, ecc., e faccio conoscenza con il mio vicino. È un libanese che
lavora a Isiro e sta rientrando a casa per le vacanze. Il tempo vola immerso in
questa «musica alternativa» che è l’umanità che mi circonda. Atterriamo a
Kinshasa. Nell’attesa dei bagagli mi si presenta uno dei tanti omini che ti
vogliono aiutare in cambio di soldi. Che soddisfazione poter sfoderare il mio
lingala: «Dio mi ha dato due mani per portare le cose, faccio da solo, grazie
papà». Dopo un primo momento di sconcerto, si mette a ridere e non insiste più.
Io e Alì (il mio compagno libanese) recuperiamo i bagagli e usciamo
salutandoci. Vado in strada da padre Santino e padre Mathias che mi attendono.
Arrivo alla missione di Saint Hilaire, nella periferia della grande e caotica
capitale del Congo. Stradine tutte uguali con case e persone ovunque, musica a
ogni angolo della strada a volume altissimo. Dopo la tranquillità di Isiro,
ammetto che Kinshasa mi traumatizza parecchio. Comunque la voglia di conoscere
anche questo ambiente è grande.

Accompagnato
dal giovane padre Mathias esploro il quartiere e l’organizzatissima parrocchia.
Anche qui è presente tra i giovani un gran numero di analfabeti e l’Aids è
tremendamente diffusa.

Un
giorno vedo un gruppo di ragazzi vicino a un semaforo, quando i taxi pulmini
rallentano, questi vi si aggrappano, e dopo un po’ scendono per tornare
indietro. Domandano di trasportare i sacchi di cibo (25-50 kg) dei passeggeri
in cambio di qualcosa. Se un passeggero accetta, loro rimangono attaccati al
pulmino e accompagnano a casa il cliente, altrimenti saltano giù.

Dopo
qualche giornata movimentata, ricevo un regalo inaspettato. La prima volta mi
avevano detto che era il «buongiorno dell’Africa», questa volta penso sia «l’arrivederci».
Dopo una notte passata in bagno per la nausea, vado all’ospedale a fare gli
esami, e l’esito è quello che ci aspettavamo: malaria. Unico problema: fra due
giorni devo prendere un altro aereo per tornare in Italia.

 
01 Giugno 2015

Fortunatamente
la malaria questa volta è molto meno forte della prima, allora decidiamo che
posso imbottirmi di farmaci e viaggiare comunque. La sera padre Symphorien mi
accompagna in aeroporto. La partenza è alle 4,40 della notte, ma noi ci avviamo
verso le 23,00 per evitare il rischio del banditismo, frequente in quegli
orari. Quando salgo sull’aereo finalmente posso dormire un poco. Arrivo a
Casablanca per aspettare il volo su Bologna: l’aeroporto mi disorienta, troppi
negozi, troppi cibi, troppa superficialità, troppi bianchi. Quando si fa l’ora
di imbarcarsi mi metto in fila e sento parlare i classici turisti italiani di
una certa età che si lamentano di ogni cosa: mi viene la nausea.

Sull’aereo
il mio posto è di fianco a Iole, signora italiana che torna da una vacanza in
Marocco. Ci presentiamo e mi dice che sembro suo figlio: ho in testa un
cappello uguale al suo. Scopro poi che suo figlio è morto, e che amava
viaggiare. Quando le dico che rientro dopo tanto tempo dal Congo si commuove.
Ci facciamo compagnia per tutta la durata del volo. Arrivati a Bologna ci
auguriamo buona fortuna e ognuno prosegue per la sua strada.

Con
la malaria di mezzo non ho ancora realizzato di essere rientrato in Italia.

Sono
qui ora. Il mio «viaggio di andata» mi ha portato alla mia nuova destinazione,
in questi giorni un’altra persona che non scorderò mai ha fatto il suo ultimo
viaggio di andata, padre Tarcisio: destinazione paradiso.

Tommaso Degli Angeli

Essere, piuttosto che
fare

Una secchiata d’acqua fredda, ecco com’è vivere il
ritorno alla vita occidentale. La semplicità, l’accoglienza, la povertà,
l’essenzialità, nel «nostro mondo», sembrano così difficili da vivere! Eppure
sono proprio le cose che ci renderebbero più felici.

L’esperienza in Congo mi ha
cambiato. È cambiato il mio modo di guardare le persone e le cose, è cambiato
il mio modo di vivere e percepire la realtà. Questa è soltanto un’intuizione a
caldo, sono sicuro che l’Africa illuminerà la mia vita con il tempo. Certamente
ora ho chiaro quali sono lo stile di vita e i valori che mi rendono felice. La
sfida sarà quella di viverli qui, anche con il rischio di non essere capito.

Mio dovere
sarà anche impegnarmi perché queste convinzioni non scoloriscano con il tempo.
Posso farlo perché in questo tempo non ho solamente partecipato alla vita, ma
l’ho vissuta.

Vorrei
evitare di passare buona parte della mia vita a cercare modi per impiegare il
tempo che mi sono affannato a risparmiare, vorrei stare dentro ogni momento, ed
essere piuttosto che fare. Ogni giorno essere consapevole delle cose bellissime
che ci sono in questo mondo e imparare qualcosa di nuovo su me stesso e sugli
altri. Mettere al centro delle relazioni le persone, togliendosi gli occhiali
del pregiudizio o del profitto, ed evitare che la finestra del nostro cuore
diventi uno specchio. Essere vero ed essere me stesso, avere la serenità di
sostenere uno sguardo e di entrare in contatto con un altro meraviglioso
universo misterioso. Vorrei evitare, preso dal vortice degli impegni
quotidiani, di dimenticare quella luce che è dentro di noi e di lasciarla
spegnere.

L’Africa mi ha regalato anche una
bellissima preghiera: «Signore, fa di me una lampada. Brucerò me stesso, ma darò
luce agli altri». Non siamo fatti per vivere soli. Nel «bruciare noi stessi»,
oltre a portare luce nel buio, illuminiamo, e quindi possiamo vedere i volti
dei fratelli intorno a noi.

I pensieri sono tanti, i ricordi e
le emozioni ancora di più. La riconoscenza per le comunità che mi hanno accolto
è enorme. Si conclude così questo viaggio che in realtà è stato la preparazione
per il viaggio più grande: la vita.

T.D.A.

Tommaso Degli Angeli




L’Angelo dei Carriers /4

Ultima puntata della vita a fumetti della Beata Irene Stefani, Nyaatha per la gente dell’altipiano centrale del Kenya.
Una vita spesa per amore, fino alla donazione totale di sé.







SULLA TOMBA DI UNA SUORA
4.000 battesimi – Vittima volontaria
da Missioni Consolata, aprile 1931
Abbiamo annunziato, nel numero di gennaio u. s. (1931), la morte della rev. suor Irene, Missionaria della Consolata al Kenya. Ora la Superiora di quelle Suore comunica alla Madre Generale di Torino le seguenti notizie sulla dolorosa perdita, notizie che crediamo bene di pubblicare perché siamo certi che faranno del bene ai nostri cari lettori.

Ven.ma Madre Generale,
Venerdì, 31 ottobre 1930, serenamente spirava nel bacio del Signore la nostra carissima Sr. Irene, dopo breve malattia. Si può dire senz’ombra d’esagerazione, ch’era una santa. Nel suo apostolato di ben 16 anni, ci fu sempre di edificazione sia come religiosa perfetta in tutte le virtù, sia come missionaria instancabile. I battesimi da lei amministrati in articulo mortis raggiungono i quattro mila, e Dio sa le fatiche, gli sforzi eroici per convertire le anime… I neri stessi, in questa ultima sua malattia, dicevano: «Mware Irene ci ha sempre tanto beneficati ed è per questo che sì è ammalata…». Infatti cadde sulla breccia.
Il 20 ottobre, festa di Santa Irene, sua patrona, era andata in visita ai villaggi indigeni per il catechismo, e s’incontrò in un vecchio, ammalato di peste polmonare abbastanza gravemente. Cercò allora di fargli un po’ di istruzione religiosa, ma l’infermo non ne volle sapere ed ella dovette lasciarlo. Cammin facendo, seppe di un’altra ammalata, pure colpita da peste polmonare. Senza indugio si recò presso di lei ed ebbe la consolazione di poterla battezzare. Dopo una giornata così piena e faticosa, ritoò alla Missione, ma, appena giuntavi, venne a sapere che il vecchio ostinato del mattino, si era aggravato assai e difficilmente avrebbe passato la notte. Suor Irene, non badando a stanchezza, accompagnata da un bravo catechista, ritoò dal poverino. Nella lurida capanna, al bagliore del focherello che scoppiettava vicino al moribondo, si fermò per ben tre ore, dopo le quali il trionfo su quell’anima era compiuto. Il vecchio accettava il battesimo e, al mattino seguente, l’anima di lui volava in seno a Dio.
Uscita dalla calda capanna, al fresco della notte, la sorella sentì un’impressione strana… ma, benché molto tardi, se ne toò a casa tutta felice per la grande vittoria riportata sul demonio.
Intanto, da quel giorno, la sua robusta salute fu scossa. Tuttavia ella proseguì nel suo pesante lavoro ed ancora dal mercoledì al giovedì 23 ottobre, passò parecchie ore accanto ad un altro infermo. Giunta a casa, ancora digiuna, alle 10 del mattino, essendosi il rev. padre assentato perché chiamato d’urgenza, attese e si comunicò alle 11,30.
La cara Sorella si consumava per lo zelo della gloria del Signore. Lavorò sino alla domenica 26, e poi la fibra cedette. Dopo la s. Messa si mise a letto con febbre a 40°. Al lunedì accorrevo presso l’inferma, ed al martedì, visto il caso abba­stanza grave e la febbre persistente, feci chiamare il dottore di Nyeri, il quale dichiarò la malattia polmonite lobare che, salvo complicazioni, non presentava pericoli…
«La morte è eco della vita», aveva scritto un giorno Suor Irene. Potrei scrivere molte pagine se volessi riferire quanto ci fu di edificazione in quest’ultima malattia. Era assetata di bene, viveva di abnegazione e di sacrificio, e nel delirio che le sopravvenne in ultimo spiegava il catechismo, parlava di Dio alle anime.
Al giovedì il male si aggravò tanto, che alle tre di notte si dovette amministrarle la Estrema Unzione, e poi per l’ultima volta ricevette il suo Gesù, che aveva sempre fe­delmente servito. Al venerdì sera, alle 10 e mezza, serenamente e placidamente lasciava questa valle di lagrime…
Fra moltissimi altri si ricorda il seguente mirabile atto di coraggio e di zelo compiuto da Suor Irene durante la guerra mondiale. Suor Irene da parecchio tempo stava preparando al battesimo un povero portatore indigeno gravemente ammalato in un ospedaletto da campo a Kilwa, nel Tanganyka. Un mattino non trovò più il suo ammalato, e, domandate informazioni, seppe che essendo morto nella notte, era stato portato con una cinquantina di altri cadaveri sulla spiaggia del mare, per risparmiare il disturbo della fossa e della sepoltura. La Suora provò un indicibile dolore, ma non volle credere che il Signore avesse lasciato sfuggire un’anima ormai così ben preparata al battesimo, e corse sulla spiaggia del mare per cercare quel poveretto nel mucchio terrificante di cadaveri. Non avendolo trovato alla superficie, con un coraggio sovrumano rimuove ad uno ad uno quei cadaveri, finché rinviene il suo catecumeno, lo estrae dolcemente, lo adagia sulla sabbia, ascolta il polso ed i respiro… Miracolo della carità! Il creduto morto era ancora vivo… Alle grida di aiuto accorrono alcuni infermieri indigeni, che riportano il moribondo all’ospedaletto, ove per mezzo di forti eccitanti vien fatto rinvenire ai sensi. Poté così ricevere il santo battesimo e meno di un’ora dopo se ne va in Paradiso.
Madre veneratissima, abbiamo perduto un tesoro, ma abbiamo acquistato una protettrice in cielo. Quindici giorni prima di morire, stimandosi – come ella diceva – inutile e buona a nulla, anzi solo capace a guastare le cose, aveva chiesto, per essere utile, di offrire la sua vita per il bene dell’Istituto. L’olocausto fu accettato e proprio due venerdì dopo, la vittima volava al Creatore.
I funerali furono un trionfo. Per desiderio comune venne tumulata a Nyeri, ed attorno alla salma fu un succedersi continuo di visitatori. I neri tutti vollero accostarsi alla loro «Mware Irene» che tanto li aveva amati e copiose lagrime scendevano dai loro occhi. Numerosissimi intervennero alla sepoltura ed ora la sua tomba è divenuta mèta di frequenti visite, godendo essi di inginocchiarsi presso la tomba della loro mware per contarle ancora le loro giornie e i loro dolori…

Suor Ferdinanda, M.C.

a cura di Gigi Anataloni




«Annunzia quanto ti dirò» Convegno Nazionale Missionario – Sacrofano 2014

IV CONVEGNO MISSIONARIO NAZIONALE /1
Sacrofano (Roma) 20-23/11/2014

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«
Annunzia quanto ti dirò»

Dopo la prima tappa, la preparazione durata un anno,
si è conclusa la seconda: la celebrazione del «IV Convegno missionario
nazionale 2014», organizzato nei giorni 20-23 novembre dall’Ufficio
nazionale per la cooperazione tra le Chiese della Cei
, dalla Fondazione
Missio
e dalla Fondazione Cum a Sacrofano (Roma). Inizia ora la
terza tappa: la continuazione. La sfida è narrare e testimoniare quanto
si è vissuto, passare dalle parole ai fatti. È l’impegno raccolto dagli 880
partecipanti provenienti da ogni angolo d’Italia: 520 giovani e adulti (di cui
50 volontari) impegnati con i Centri missionari delle varie diocesi d’Italia o
in associazioni di sostegno alla missione, 230 sacerdoti, missionari e fidei
donum
, e 130 religiosi e religiose.

Cominciato nel pomeriggio di giovedì, e concluso col
pranzo di domenica, il Convegno ha seguito un ritmo intensissimo, marcato da
preghiera, incontri, relazioni, lavori di gruppo, testimonianze e momenti di
festa. L’udienza con papa Francesco alle nove di sabato 22 ha scaldato il cuore
di tutti.

I relatori sono stati:

* il biblista mons. Ambrogio Spreafico, vecovo di
Frosinone e presidente dell’Ufficio nazionale per la cooperazione tra le
Chiese, che ha presentato una relazione dal titolo «Alzati e va’ a Ninive – La
Parola di Dio nella globalizzazione»;

* suor Antonietta Potente, della famiglia
domenicana, insegnante di teologia presso l’Università cattolica di Cochabamba
in Perù, che ha proposto una riflessione a partire dalle tentazioni di Gesù;

* il prof. Mauro Magatti, sociologo ed economista, e
la prof.ssa Chiara Giaccardi, sociologa, che – come coniugi e come
esperti – hanno affrontato il tema dell’incontro da un punto di vista
antropologico;

* il prof. Aluisi Tosolini, filosofo e pedagogista,
che ha presentato una fotografia del «battito della missione» oggi in Italia
attraverso la rilettura dei contributi arrivati negli scorsi mesi alla
commissione preparatoria del convegno;

* padre
Gustavo Gutiérrez
,
peruviano, uno dei padri storici della teologia della liberazione.

Pubblichiamo le prime tre parti del testo conclusivo del
Convegno, preparato dalla segreteria dello stesso. La seconda parte apparirà
sul prossimo numero di MC, riservandoci di tornare in futuro sulle singole
relazioni, per offrire ai nostri lettori materiale su cui continuare il cammino
del Convegno, e «far ricadere a livello locale (regionale e diocesano) quanto
vissuto a Sacrofano».

Gigi Anataloni


Linee e orientamenti pastorali per un rinnovato impegno
missionario «lontano» (fuori dall’Italia) e «ai lontani» delle nostre comunità
cristiane

A. LO SGUARDO INIZIALE

Ci sembra importante iniziare riaffermando brevemente gli
obiettivi generali che questo Convegno si era prefisso.

<
Riaccendere la passione e rilanciare la dedizione dei singoli e delle comunità
cristiane per la missio ad gentes e inter gentes, a
partire dai poveri, come paradigma dell’annuncio (missione «lontano»).

<
Studiare nuovi modi e stili di
presenza missionaria
nella nostra realtà (missione «ai
lontani»).

B. RIPARTIRE DALLA PAROLA

Vorremmo tornare sull’icona biblica che ha fatto da sfondo
al Convegno, quella di Giona, unendola a un’altra icona biblica, il racconto
evangelico della tempesta sedata nella versione di Marco 4. Proponiamo alcuni
spunti:

< «Alzati e va’ a Ninive, la grande città». Dio ci
chiama a «uscire» per andare verso la grande città, periferia ostile, abitata
da nemici. È Dio che chiama e manda, non siamo noi a scegliere.
Il problema di Giona è accettare di andare nella direzione giusta, non dove lo
spinge la paura. Ninive è la grande città, che fa paura a Giona e al mondo.
Giona non viene mandato per chiamare alla conversione. La parola che deve dire è
semplice: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta». Giona cioè deve far
emergere il male e la violenza della città. Certo il profeta si sarà chiesto:
chi sono io per andare a dire questo agli abitanti di Ninive? Noi siamo in un
mondo, dove il male è forte. Il male e la violenza sono il vero dramma di
Ninive
e del mondo. Lo abbiamo detto in questi giorni: la guerra, la violenza,
la povertà, l’abbandono dei vecchi, i profughi, le persecuzioni… in una parola:
la missio ad gentes è missio ad pauperes.

< Giona fugge. Questa missione fa paura. Ma senza coscienza
della forza del male non si capisce l’urgenza e la necessità della missione.
Per questo Giona deve sperimentare in se stesso la forza del male nell’abisso,
nel ventre di un pesce. Giona scopre così il bisogno di essere liberato,
salvato. Scopre che da solo non si può salvare, che esiste una forza
invincibile, che da soli non possiamo combattere.
Così è avvenuto ai discepoli di Gesù nel mare in tempesta. Erano sulla barca
con lui, ma con loro c’erano altre barche. Si potrebbero identificare le altre
barche con la vita dei tanti nella tempesta del mondo. C’è Gesù, ma c’è anche
la tempesta. Quel mare in tempesta è come quello di Giona. Paura, pericolo. Da
soli i discepoli non ce la fanno.
Gridano e Gesù li salva, fa tacere il mare e il vento.
Ma nel mondo si è persa la coscienza del male e della sua forza. Tutto è
anestetizzato, esorcizzato, giustificato. Tutto è normale, anche gli stranieri
che muoiono nel Mediterraneo o i vecchi abbandonati in istituto. Poca coscienza
del peccato, perché scarsa è la coscienza del male. Eppure non siamo liberi,
siamo al contrario pieni di paure che non riusciamo a vincere.
Solo nell’abisso, solo nella tempesta, i discepoli capiscono che c’è Ninive,
il male, ma che c’è anche Gesù.
Lui solo può vincere quella tempesta (che
rappresenta il male).

< La vita cristiana è lotta contro il male. Questa è
la missione ad extra e ad intra.
E il racconto della tempesta sedata, in Marco, giunge dopo le parabole del
seme, della Parola di Dio gettata nel campo del mondo. Il male la contrasta, la
vorrebbe soffocare. La missione fa rivivere la Parola annunciandola.
I Vangeli sono pieni di racconti di guarigione. Nel nostro tempo sono molte le
persone che vanno a Medjugorje, ai santuari, che si affidano a volte a
guaritori e santoni. Esiste una domanda di guarigione nella gente. La domanda è:
il Vangelo che noi viviamo e comunichiamo, guarisce, libera dall’abisso del
male?

< Senza andare
a Ninive, senza andare nelle periferie più ostili, non c’è missione.
I poveri ci evangelizzano, come ci ha detto in questi giorni Papa Francesco,
innanzitutto perché ci trascinano là dove il dramma del male è più forte.
Questa è la domanda della missione. Bisogna imparare a guardare con
compassione, entrando nella lotta per il bene.

Lasciamoci come icona finale quella che l’apostolo Paolo,
grande missionario del Vangelo alle genti, usa in Efesini quando esorta a
rivestirsi dell’armatura di Dio (Ef 6,10-20). Questa è anche una Chiesa in
uscita, una Chiesa che vive per la strada, incontra, ascolta, parla, dialoga,
lotta.

Il mondo non ha bisogno di una Chiesa dietro le barricate,
ma di una Chiesa che esce
e incontra,
perché la gioia del Vangelo raggiunga tutti, a cominciare dalle periferie più
lontane. Solo così sarà attraente.

Rivestiamoci allora di un nuovo entusiasmo e viviamo a
pieno la gioia e la bellezza della vita cristiana, senza pessimismi e lamenti.

C. QUELLO CHE NOI ABBIAMO UDITO, VEDUTO, CONTEMPLATO

Nell’elaborazione di questo nostro Convegno è stato scelto
di dare grande rilievo alla fase preparatoria e alla fase del post-Convegno. La
fase celebrativa che abbiamo vissuto non può infatti essere scissa dalle altre
due. E questo vorremmo sottolinearlo con forza: oggi non terminiamo il
nostro Convegno, ma iniziamo la terza fase del percorso
.

Riprendiamo i tre verbi da cui siamo partiti nel cammino
di preparazione: «Uscire, incontrare, donarsi», utilizzando come riferimento
quello da cui derivano tutti gli altri: uscire.

USCIRE.

< È la Parola di Dio la protagonista del cambiamento a
Ninive. Possiede una forza inaspettata. Ma non opera da sola: c’è bisogno di
qualcuno che accetti di uscire per andare alle periferie.

<
Uscire è rispondere alla chiamata di
Dio che ci chiede di andare al di là di noi stessi, del nostro individualismo
ed egoismo. In un mondo globalizzato, ma frammentato e tribale, la missione usa
una parola che unisce, crea comunione e aiuta a sognare la pace.

< Mentre viviamo la percezione di essere sotto assedio
perché non abbiamo ancora elaborato il lutto della fine della civiltà cattolica
(come abbiamo visto dall’analisi del materiale raccolto durante la fase
preparatoria), dobbiamo sfidare noi stessi per scegliere di uscire
dall’assedio.

< Uscire per correre il rischio di camminare in spazi
sconosciuti. Uscire per avere il coraggio di affrontare nuove domande e nuove
sfide.

Dal verbo «uscire», che dobbiamo imparare a declinare nel
nostro quotidiano, si dipanano, come in un lungo filo, altri verbi che sono
ricorsi in tutte le relazioni ascoltate in questi giorni.

Ma elencare questi verbi non esaurisce il processo che si è
messo in moto attraverso il Convegno. Ascoltare questi verbi è ascoltare una
storia che non avrà fine finché ci saranno narratori che avranno voglia di
raccontarla.

Immaginiamo quel vecchio gioco in cui un bambino comincia
una storia, che viene continuata dal suo vicino, e poi da un altro bambino, e
così via. Ecco, questo è quanto dobbiamo fare noi con le tante parole di questo
nostro Convegno, con i verbi che prendono slancio da «uscire». Non c’è nulla di
chiuso, nulla di concluso in queste righe che fanno da sintesi. Ciascuno di noi
è, anzi, invitato a riprendere questi verbi e a continuare il racconto.

< D’altronde, uno di questi verbi è proprio NARRARE.
Uscire dalle retoriche consuete per assumere nuove narrazioni. Evangelizzare è
narrare.
Per questo è tempo di testimoni che mostrino come l’eccedenza di fede sia
generatrice di vita. Quello che abbiamo sperimentato viene, così, detto
nuovamente, con una parola che racconta, che narra, in una prospettiva di
significato e di relazione.
Occorre trovare un linguaggio nuovo che non abbia come unico intento
quello dell’informazione, ma anche quello della narrazione, che è un’arte da
coltivare. Come l’antico griot africano capace di dare senso alla
memoria, alla tradizione, all’identità di un popolo.

< GUARDARE. Non è possibile fare a meno di uno sguardo
attento sulla realtà. Uno sguardo che sia capace di compassione. Giona non sa
guardare in questo modo, e la mancanza di compassione coincide con l’incapacità
di guardare oltre se stessi.
La missionarietà è coltivare uno sguardo nuovo e generativo, in grado di
cogliere il piccolo nel grande, di creare novità, e di ricomporre la
frammentazione in un mondo globale come quello in cui viviamo. Dobbiamo
cambiare il nostro sguardo per guardare la realtà, imparare a leggere i segni
dei tempi.

< E poi, ANDARE e STARE. L’uscire è un movimento
fatto di andare e stare. Che non sono due movimenti contrapposti, ma bensì
legati in un dinamismo che radica l’andare e apre lo stare. Allora andare non è
seguire l’itinerario tracciato da un altro, una strada prestabilita, ma essere
disponibili all’incontro
, a fermarsi per narrare, per testimoniare. E stare
non è rinchiudersi in se stessi in una dimensione intimistica, ma significa
stare con la porta aperta.

< ABITARE. Il quadro in cui stiamo vivendo in questi anni è quello
del villaggio globale, affiancato dalla città-mondo, in cui si concentra il 50%
della popolazione mondiale divisa tra luoghi di élite e luoghi di scarto. In
questo contesto abitare il mondo significa rendere reale una possibilità di
vita
.

Il rapporto tra centro e periferia non dipende più solo da fattori geografici.
Viviamo continue situazioni di frontiera, condizione che può essere luogo di
opposizione, ma anche di incontro.
Se utilizziamo uno sguardo nuovo, saremo capaci di abitare tempi, spazi e luoghi,
di far percepire la nostra presenza, abitare per esserci, dove la parte
importante del termine è la particella «ci».

< Guardare e abitare il villaggio globale, provoca
un’ulteriore azione inscindibile dalle altre due: DENUNCIARE. Non
possiamo solamente aiutare i poveri, gestire l’emergenza, ma dobbiamo
denunciare le cause della povertà
. La povertà dipende dall’uomo, è una
creazione dell’uomo. Non esiste solo l’aspetto economico, ma anche quello
spirituale, culturale e sociale. La povertà è multidimensionale. Siamo chiamati
a denunciare ingiustizia e oppressione, soprusi e violenze. Piccoli e grandi.
Partendo dai mille gesti quotidiani delle nostre giornate fino alle strutture
inique che governano il mondo.

< Ma dobbiamo anche FARE RETE.

Come Chiesa missionaria non possiamo che scoprirci come una grande rete
globale
.
Fare rete è l’azione chiave, elemento costitutivo su cui progettare e
concretizzare ogni nostro obiettivo e intento.
Viviamo nel tempo della società in rete, ma ci sentiamo incerti, fragili,
incapaci di controllare la realtà. La paura ci spinge a fare come Giona che
fugge. Invece noi siamo chiamati a camminare lungo tutte le strade delle Ninive
di oggi e scoprire che abbiamo già una grande rete globale che possiamo
utilizzare da un lato e servire dall’altro.

< Infine, STUDIARE.
Questa sollecitazione è emersa dai relatori, ma è emersa anche dai gruppi che
hanno lavorato insieme nei laboratori: il bisogno di formazione a vari
livelli
e la richiesta di orientamenti per concretizzarla.

Le parole chiave del Convegno sono quindi questi verbi che
abbiamo citato, ma i verbi sono lemmi grammaticali che hanno bisogno, per
connotare meglio l’azione che esprimono, di avverbi e di aggettivi. Per questo,
ci viene in aiuto Papa Francesco, con il discorso a noi rivolto durante
l’udienza privata di sabato 22 novembre.

Il Papa ha sottolineato come lo
spirito della missio ad gentes deve diventare lo spirito della missione
nel mondo
. «Una chiesa missionaria non può che essere in uscita: non ha
paura di incontrare, di scoprire le novità, di parlare della gioia del Vangelo».
E per questo – ha aggiunto – «vi chiedo di impegnarvi con passione».

Uscire significa superare la tentazione di parlarci tra
noi. Il Vangelo di Gesù si realizza nella storia. Gesù stesso fu un uomo di
periferia e la sua Parola è stata l’inizio di un cambiamento nella storia. «Tenete
alto nel vostro impegno lo spirito di Evangelii Gaudium» e siate testimoni «con
entusiasmo».

I nostri verbi quindi devono essere declinati «con
passione»
, «tenendo alto» e «con entusiasmo».

Un altro elemento da cui attingere per coniugare i verbi
chiave del Convegno, è indubbiamente il clima respirato, il tipo di interazione
che si è creata tra i partecipanti, che è stata certamente positiva. Non è
riduttivo definirla così: durante il confronto nei laboratori, si è infatti man
mano abbandonata la categoria del lamento, l’uso come filtro visivo della
fatica sperimentata quotidianamente, per lasciare invece spazio alla gioia
dell’incontro, dello scambio e al desiderio di ripartire. Alcuni spunti sono emersi dai
laboratori, ma altri sono venuti con libertà: ci sono stati ad esempio
rappresentanti di alcune diocesi che si sono riuniti spontaneamente per
riflettere, altri che si sono organizzati per proporre degli interventi comuni
in assemblea, dimostrando un forte desiderio di concretezza e la volontà di abitare
questo Convegno come gli spazi della nostra vita.

L’elenco dei verbi può forse apparire troppo schematico o
riduttivo. Ma leggiamolo come un’occasione di orientamento del nostro lavoro di
animazione missionaria, come, parafrasando Gianni Rodari, una «grammatica
della missione»
.


Continua il prossimo numero
con la quarta parte del documento:
«D. Quello che noi abbiamo narrato, ora lo desideriamo».


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Gigi Anataloni (a cura)




Le illusioni di Sofia

Ai confini dell’Europa (5): La Bulgaria

La Bulgaria è entrata
nell’Unione europea nel 2007, proprio in coincidenza con lo scoppio della crisi
economica. Afflitto da povertà, emigrazione e corruzione, il paese balcanico
contesta la propria classe politica. In attesa di tempi migliori.



Clicca sull’immagine per leggere testo integrale con i box nello sfogliabile pdf

La Bulgaria è membro a pieno titolo dell’Unione europea dal primo gennaio
2007. A certificarlo, fisicamente e simbolicamente, le bandiere blu-stellate
dell’Unione che sventolano accanto al tricolore bulgaro davanti alle facciate
di tutte le istituzioni, grandi e piccole. Sul tetto in elegante stile liberty
dell’ex palazzo reale, nel cuore della capitale Sofia, campeggia addirittura lo
spartito, scolpito in bronzo, dell’attacco dell’«inno alla gioia» di Ludwig Van
Beethoven, dal 1972 anche inno dell’Unione.

Sfortunate
coincidenze

A otto anni di distanza da quel sospirato
traguardo, i sentimenti nel paese restano però contrastanti, quasi schizofrenici,
e molti cittadini bulgari si chiedono ancora se e quando potranno sentirsi
davvero europei.

È nella distanza tra quel successo formale e le
aspettative in buona parte disattese, che – a venticinque anni dalla caduta del
muro di Berlino – si misura l’incompiutezza della transizione. Non che in
Bulgaria si guardi a strade alternative: la scelta europea non viene messa in
discussione, e l’opinione pubblica bulgara resta oggi una delle più pro Ue del
Vecchio continente, con percentuali di sostegno intorno al 70%.

I dati dell’Eurobarometro, che piazzano
regolarmente il paese in fondo a tutte (o quasi) le classifiche comunitarie,
con la Bulgaria ormai abbonata al poco invidiabile titolo di «membro più povero
dell’Ue», raccontano però di un’opportunità colta soltanto in parte. Anche
perché, per un’amara coincidenza, l’ingresso della Bulgaria nel club europeo è
coinciso con lo scoppio della crisi economica, che ha aperto la fase più
critica e complessa che l’Unione deve affrontare dalla sua fondazione.

«La tempistica è stata tutt’altro che fortunata, è
evidente. D’altra parte, i cittadini bulgari sono consapevoli del fatto che,
anche e soprattutto in tempi difficili, è meglio essere parte dell’Unione che
restae fuori», è l’opinione dell’analista politico Dimitar Bechev, già
direttore della locale sezione dello European Council on Foreign Relations (Ecfr). «Senza i fondi di coesione di Bruxelles la Bulgaria sarebbe in
recessione. Il denaro proveniente dalle casse europee ha permesso al paese di
rimanere a galla in un momento turbolento e difficile».

Cifre alla mano, in questi anni l’economia
bulgara sembra essersela cavata meglio di molti altri paesi europei, pur
partendo da livelli iniziali molto più bassi del resto del continente. Dopo il
periodo ruggente della prima metà degli anni 2000, che ha visto sostanziosi
investimenti esteri, crescita sopra il 6% annuo e disoccupazione in calo, lo
stop che ha segnato la fase più acuta della crisi è stato seguito da tassi di
crescita più bassi, ma comunque col segno positivo. Molto più problematico è
invece il capitolo della ridistribuzione della ricchezza, dato il divario
crescente tra la piccola minoranza agiata e una larga maggioranza che fatica ad
arrivare a fine mese, tra i centri più grandi e le periferie sempre più spopolate
e depresse.

Le luci della
capitale

Sofia, la città che «cresce ma non invecchia»
(così recita il motto inciso ai piedi dello stemma della capitale bulgara), è
il luogo dove si possono meglio vedere i cambiamenti positivi che hanno
accompagnato gli ultimi anni, anche grazie ai fondi europei. Molti problemi
restano, ma cospicui investimenti nelle infrastrutture hanno rapidamente
trasformato il volto della città: due linee della metropolitana sono state
completate, l’aeroporto ha un nuovo terminal, il centralissimo bulevard «Vitosha»,
reso pedonale, è diventato un lungo salotto a cielo aperto.

In città si concentra buona parte della vita
economica e sociale bulgara: i livelli di Pil pro capite sono comparabili, se
non superiori, a quelli delle regioni dell’Italia meridionale. Ecco perché la
capitale è una vera calamita per i giovani in cerca di opportunità che
difficilmente riescono a trovare nel resto del paese. È a Sofia che nascono
iniziative imprenditoriali in grado di essere competitive e innovative anche a
livello internazionale. Come la «Telerik», compagnia di produzione di software
pensata e sviluppata da giovani imprenditori bulgari, e recentemente acquistata
dall’americana «Progress Software Corporation» per la cifra record di 260
milioni di dollari.

Basta lasciarsi alle spalle le ultime luci della
capitale, però, per incontrare una realtà molto contrastante.

Emigrazione e
spopolamento

In direzione Nord si alza la lunga catena dei
Balcani che taglia la Bulgaria da Ovest a Est, dal confine con la Serbia alle
acque del mar Nero. Quando si scollina al passo montano di Petrohan, appare un
paesaggio, fisico e umano, profondamente diverso.

«La nostra vita è difficile, e l’Unione europea
non l’ha resa migliore», racconta nella sua modesta cucina, riscaldata da
un’arroventata stufa a legna, Danche Milanova, 69 anni, una vita spesa come
commessa e foaia nel villaggio di Bela Rechka. «Dei 130 leva (75
euro) di pensione che prendo, 80 se ne vanno per le medicine. Col resto, si
prova ad arrivare a fine mese».

Bela Rechka, come il resto della Bulgaria Nord
occidentale, è l’emblema estremo di quanto in questi anni è andato storto. Dopo
l’affossamento del sistema economico pianificato socialista, la regione non è
riuscita a trovare una nuova vocazione economica durante la turbolenta
transizione verso l’economia di mercato. Risultato: spopolamento ed emigrazione
massiccia diretta soprattutto all’estero.

La cittadina di Varshetz, tanto per fare un
esempio, si è guadagnata in questi anni il nome di «città delle badanti», a
causa delle decine di donne partite per l’Italia, la Grecia e la Spagna in
cerca di lavoro, quasi sempre nel campo della cura degli anziani. Nonostante le
loro rimesse, i dati macroeconomici fanno ufficialmente della Bulgaria Nord
occidentale la regione più povera dell’intera Unione europea, con un Pil pro
capite di appena 6.500 euro l’anno.

Una situazione drammatica, certificata da un
gioco di parole disincantato e un po’ cinico, che ha trasformato la Bulgaria
Nord occidentale («severo-zapadna» in
lingua locale) in Bulgaria Nord decadente («severo-zapadnala»). Altre aree del
paese non se la passano però molto meglio. Secondo un recente studio,
finanziato dalla fondazione tedesca Friedrich Ebert, il 50% dei cittadini
bulgari vive oggi sotto la soglia di povertà, «con forti deprivazioni materiali
e difficoltà a realizzarsi sul mercato del lavoro». Tra gli anziani e le
minoranze etniche, soprattutto quella rom, le cifre appaiono ancora più
drammatiche.

A una situazione sociale pesante, negli ultimi
anni si è aggiunta forte instabilità politica. Nell’ultimo anno e mezzo la
Bulgaria ha visto succedersi due elezioni politiche anticipate, proteste di
piazza durate lunghi mesi e ben quattro governi, di cui due tecnici nominati
direttamente dal presidente per superare momenti di crisi istituzionale.

L’ultima tornata elettorale, nell’ottobre 2014,
ha portato alla formazione di un governo di centro destra guidato dal populista
Boyko Borisov, al suo secondo mandato. Davanti al nuovo esecutivo, supportato
da una maggioranza tutt’altro che solida, si erge ora il difficile compito di
ridare energia al processo democratico in Bulgaria. I livelli di fiducia nella
classe politica sono oggi ai minimi storici.

«Sulla carta la Bulgaria ha tutti gli attributi
di una vera democrazia – elezioni libere, sistema multipartitico, media
diversificati e così via -. Ma se si va sotto la superficie, ci si accorge che
la libertà di espressione è in declino dal 2006, che l’amministrazione non è
trasparente, che esistono censura e propaganda nel mondo politico.
L’impressione è che il potere politico sia ermeticamente chiuso, al di là della
capacità di influenza di cittadini e società civile», sostiene preoccupato
Bechev.

Le proteste della
piazza

Proprio la distanza tra l’élite e i cittadini è
stata la molla profonda che ha portato alle proteste di piazza più durature
della storia recente del paese. Per mesi le strade del centro di Sofia sono
state il palcoscenico di manifestazioni quotidiane, scatenate prima da bollette
energetiche «impazzite» e poi dal tentativo del governo socialista, salito al
potere nella primavera del 2013, di procedere a nomine importanti (nello
specifico, quella a capo dei servizi di sicurezza) con procedure non
trasparenti e forte sospetto di «scambio politico» tra gruppi di potere. Le
proteste, rafforzate dall’occupazione dell’Università statale «Sveti Kliment
Ohridski» di Sofia da parte degli studenti, hanno portato a un lunghissimo
braccio di ferro che ha mostrato una nuova vitalità politica della base, ma anche
tutti i limiti dell’attuale assetto di potere. «Il sistema partitico bulgaro
non ha reagito in modo profondo alle proteste», sostiene Antoniy Galabov,
professore di Scienze Politiche alla New Bulgarian University di Sofia. «Questo
significa che i partiti sono ormai così cinici e autoreferenziali, che non
riescono a cogliere le chiare richieste di un sistema trasparente e
responsabile provenienti dalla società».

La classe dirigente bulgara, che presenta oggi i
tratti di un’oligarchia chiusa, è emersa e si è consolidata durante gli anni più
difficili della transizione economica e politica, e non ha problemi di
credibilità soltanto con i propri cittadini. Anche le istituzioni europee, col
passare degli anni, sono state sempre meno timide nel criticare apertamente la
gestione del potere in Bulgaria: sotto processo soprattutto l’incapacità di
contrastare in modo efficace criminalità organizzata e corruzione.

(su i “muri” che dividono il mondo, leggi «Un mondo di muri» sul sito di Popoli.)

Il ritorno del filo
spinato

La tensione latente tra Bruxelles e Sofia ha
trovato sfogo negli ultimi anni sull’accesso del paese all’area Schengen di
libero movimento. Nonostante la Bulgaria abbia raggiunto da tempo standard
tecnici sufficienti per esservi ammessa, la crescente resistenza da parte di paesi chiave come Francia e Germania – che
tentano di utilizzare la questione come leva per forzare Sofia a rilanciare la
lotta alla corruzione – hanno bloccato ogni possibile progresso, tanto che l’«obiettivo
Schengen», a lungo sbandierato come priorità assoluta, è oggi mestamente
scomparso dal discorso pubblico in Bulgaria.

La discussione sui confini e il loro
attraversamento è però tornata al centro dell’attenzione, in modo drammatico ed
inaspettato, a partire dalla metà del 2013. Spinti alla fuga dal deteriorarsi
della situazione mediorientale, e soprattutto dagli orrori della guerra civile
in Siria, migliaia di profughi e richiedenti asilo hanno infatti iniziato a
varcare il confine tra Turchia e Bulgaria, nella ricerca di una via di fuga.
Per molti, la Bulgaria, confine esterno dell’Unione europea, è soltanto una
tappa verso la destinazione sognata, di solito la Germania o i paesi
scandinavi, dove sperano di ricostruire la propria vita.

Il paese balcanico, terra di fortissima
emigrazione e relativa povertà, si è fatto trovare del tutto impreparato ad
accogliere la massa di disperati che bussavano alla sua porta. I pochi centri
di accoglienza sono diventati in breve sovraffollati e ingestibili, e il
rischio di una catastrofe umanitaria s’è presto delineato all’orizzonte. Col
passare dei mesi, la situazione si è lentamente normalizzata, ma il dibattito
interno su cosa fare ha assunto toni sempre più allarmati.

Per dare un segnale forte, il governo di Sofia ha
deciso di ordinare l’innalzamento di una barriera di rete e filo spinato lunga
più di trenta chilometri sul confine, per fermare o almeno controllare il
fenomeno, a imitazione di quanto già fatto dalla Grecia alcuni anni fa.

Nelle politiche di chiusura della «fortezza
Europa» la Bulgaria non è certo da sola, né la principale protagonista. In
questo angolo del continente, però, è difficile non cogliere l’amara ironia del
destino nel ribaltamento avvenuto in poco più di vent’anni. Fino al 1989
barriere e reticolati sui confini bulgari servivano a sbarrare la via a chi
tentava di uscire dal mondo ermetico del regime totalitario. Smantellati nel
nome degli ideali europei, oggi nuovi muri vengono nuovamente levati, sempre in
nome dell’Europa, ma per un obiettivo molto meno ideale: tenere lontano ospiti
sgraditi.

Francesco Martino


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Francesco Martino




Un sogno avverato

Le Suore di Maria
Immacolata arrivano in Italia
.
Fondate nel 1918 a
Nyeri, in Kenya, da monsignor Filippo Perlo, uno dei primi quattro missionari
della Consolata in Africa, le suore missionarie di Maria Immacolata sbarcano in
Italia. Frutto della missione italiana in Africa: segno della Chiesa che modifica,
e a volte inverte, le sue traiettorie.



Clicca sull’immagine qui sotto per aprire lo sfogliabile pdf

«Il nostro fondatore è
senz’altro felice di vederci aprire una comunità nella terra dei suoi antenati».

Fondate nel 1918 in Kenya da un missionario della Consolata, monsignor
Filippo Perlo, le suore di Maria Immacolata hanno aperto la loro prima missione
in Italia.

Incontriamo la loro Madre generale, suor Mary Isaac Waithira, al suo
arrivo a Roma per la costituzione della nuova comunità di tre suore pioniere
nella Diocesi di Termoli.

Una grande gioia

«Venire in Italia non è stato facile», dice suor
Isaac. «C’è voluto un cammino arduo per poter realizzare il sogno di venire
nella terra del fondatore. Ho sempre pensato: “Chi potrà portarci nella patria
del nostro fondatore e quando?”. Ho sempre sentito dentro di me che noi eravamo
debitrici ai primi missionari. Penso che anche mons. Perlo non fosse contento
di noi per il fatto che non fossimo ancora venute in Italia».

Suor Mary ci confida che sarà bello per la sua congregazione celebrare
il Centenario della loro fondazione festeggiando quello che lei definisce «un
magnifico sogno avverato». È convinta infatti che è il Signore ad aver aperto
loro la strada per l’Italia.

«Siamo riconoscenti ai missionari che sono venuti da noi, e vorremmo
restituire, nel piccolo modo a noi possibile, ciò che abbiamo ricevuto». Sul
suo viso si legge una gioia profonda, e una grande gratitudine verso il Signore
che le ha chiamate, e verso il vescovo, mons. Gianfranco De Luca, che le ha
ricevute nella sua Diocesi. «Vedere le mie suore in una comunità italiana è una
gioia indescrivibile. Non so come ringraziare il vescovo per averci accolte in
una delle sue parrocchie».

L’ora di Dio

All’avvicinarsi del Centenario, molte persone si
chiedevano perché le suore di Maria Immacolata non avessero nessuna comunità
nel paese natale di mons. Filippo Perlo. La Madre generale dice semplicemente: «L’ora
di Dio è la migliore. Lui ha voluto che questo grande passo nella storia della
nostra Congregazione si realizzasse ora. Sì, penso proprio che Dio l’abbia voluto
oggi». Senza nascondere la sua soddisfazione, la Madre dice che anche il modo
con cui sono state accolte nella diocesi, e ancor più nella parrocchia di
Guardialfiera, ha mostrato loro che era esattamente questa l’ora giusta del
loro arrivo.

«Sono molto contenta perché Dio ha reso possibile
il nostro essere qui. Il modo con cui il vescovo ci ha accolte è
inimmaginabile: non abbiamo mai avuto una tale accoglienza da nessun altro
vescovo».

Il loro fondatore diceva sempre di non aver paura
di uscire e andare in altri posti, perché Cristo avrebbe sempre aperto loro le
porte. «Aprendoci le porte dell’Italia, penso che il Signore ci stia offrendo
un’opportunità feconda per ripagarlo, servendo fedelmente quella comunità da
cui noi stesse siamo state servite in passato».

Un futuro luminoso di grandi sentimenti

«Oggi sogno di seguire i nostri fratelli missionari della Consolata a
Taiwan. Sarebbe bello essere presenti in Cina, in Asia, nell’America del Sud, e
in tutte le nazioni africane possibili: siamo missionarie chiamate ad andare, a
predicare la Buona Notizia dappertutto».

L’ottimismo di suor Waithira è lo specchio dell’ottimismo di tutta la
sua congregazione che vede nella loro venuta in Italia una chiave per aprire
nel futuro tante altre porte per altre nazioni e continenti.

«La nostra vita e il nostro sogno consiste in un autentico servizio al
popolo di Dio in tutta la terra e ora vedo che ciò comincia ad avverarsi».

Ella vede il futuro del suo istituto molto luminoso e prega il
fondatore di intercedere perché il Signore gli conceda di raggiungere gli
estremi confini del mondo.

«Mi sento molto realizzata e animata: riconosco le meraviglie di Dio e
in esse la conferma che egli concede tutto ciò che gli si chiede. Per questo il
nostro futuro è limpido e splendente».

Sfide e speranze

Ora che la nuova comunità si è stabilita, suor Mary Isaac, oltre che
delle speranze, parla anche delle sfide che le sue consorelle affronteranno.

«Le mie missionarie sono pronte per un duro
cammino. Vivere in Europa non è facile, ma è possibile perché la gente è buona
e ci darà la possibilità di servirla».

Pensa ad esempio al grande lavoro richiesto per
raggiungere i giovani: «Le suore dovranno sviluppare l’abilità di stabilire
contatti con la gioventù per mostrare loro la vera vita». E continua: «La gente
ha bisogno di vedere Cristo in loro; lo Spirito Santo sosterrà il loro
entusiasmo e lo shock culturale si cambierà in gioia: confido molto in loro»,
dice con un sorriso.

Una parola alle suore pioniere

Augurando ogni bene alle suore Lydia Macharia,
Mary Maguta e Piera Njoki, la Madre generale dice loro: «Voi siete state
benedette per aprire una nuova pagina nella storia della nostra Congregazione.
Siate forti come lo era il nostro fondatore; amate la gente; aiutate i vecchi;
visitate gli ammalati e accogliete la gioventù nel vostro convento. La gioventù
ha bisogno di persone che sappiano mostrare il Cristo; siate pazienti e non
stancatevi mai di servire».

Invocando poi benedizioni e preghiere per le tre
suore dice: «Prego che rimaniate forti in tutte le difficoltà. Preservate la
vostra identità di suore di Maria Immacolata e il Signore vi benedirà. Il
nostro fondatore, mons. Perlo, e Maria nostra Madre vi accompagneranno sempre».
E infine conclude: «Rimanete radicate profondamente nella grazia di Dio per
mantenere vivo quel nostro sogno dorato che si è ora avverato».

Joseph Caesar
missionario della Consolata

 


Suore di Maria Immacolata
 

Congregazione africana fondata a Nyeri, Kenya, da mons.
Filippo Perlo, nel 1918 per rispondere all’aspirazione di cinque ragazze ad
accogliere la chiamata di Gesù a seguirlo nella vita religiosa.

Attualmente le suore di Maria Immacolata sono presenti in
Kenya, Uganda, Tanzania, Stati Uniti d’America e Italia. Nella zona dell’Africa
orientale lavorano in dieci scuole primarie e tre secondarie, in tre
orfanotrofi, due ospedali e cinque dispensari. Foiscono anche la formazione
professionale attraverso tre centri e aiutano giovani uomini e donne poveri a
frequentare studi di livello universitario.(sistersofmaryimmaculate.org)


Mons. Filippo Perlo

Nato a Caramagna Piemonte (Cn) l’8 febbraio 1873, nel 1902
entrò nell’Istituto Missioni Consolata e partì per il Kenya, dove, in 22 anni,
diede un impulso formidabile allo sviluppo della Chiesa locale. Tra le iniziative,
anche la fondazione delle suore di Maria Immacolata di Nyeri. Alla morte
dell’Allamano nel 1926 divenne superiore generale dell’Imc. Durante la visita
apostolica del 1930 si ritirò a Roma. Morì il 4 novembre 1948.

Partito col primo drappello di quattro missionari
destinati al Kenya, padre Filippo Perlo raggiunse Tuthu, villaggio del capo
kikuyu Karuri, la sera del 28 giugno 1902.

Come
superiore del gruppo l’Allamano aveva scelto padre Tommaso Gays; ma il capo
naturale e motore trainante risultava a tutti Filippo Perlo, che l’anno
seguente fu nominato superiore.

Sapeva
trattare con le autorità locali e coloniali senza lasciarsi condizionare; con
intelligenza, diplomazia e un po’ di furbizia contadina, riusciva a ottenere il
massimo e concedere l’indispensabile. Sognava una rete di missioni, distanti
una giornata di cammino una dall’altra (secondo la regola imposta dal governo
coloniale), entro cui abbracciare tutta la regione dei Kikuyu […]. Capiva che
quello era l’unico modo per non restare esclusi a causa degli insediamenti
protestanti. A un anno e mezzo dall’arrivo in Kenya erano nate sette missioni,
un collegio per catechisti, una segheria e una fattoria agricola in embrione.

All’inizio
del 1904 i missionari si radunarono a Fort Hall (oggi Murang’a) e gettarono le
basi del loro metodo di apostolato: formazione d’ambiente, cura dei malati,
visite giornaliere ai villaggi, scuole, soprattutto di arti e mestieri,
formazione di catechisti. Principi e regole diventate punto di riferimento fino
ai nostri giorni. […] Il 14 settembre 1905, […] fu creata la missione
indipendente del Kenya e quattro anni dopo fu eretta a vicariato: padre Perlo
fu nominato vicario e consacrato vescovo.

Il
consolidamento del lavoro tra i Kikuyu mise le ali a mons. Perlo, deciso a
estendere l’attività missionaria ad altre etnie. Nel 1911 visitò la regione del
Meru, ancora sconosciuta; individuò varie località adatte in cui fondare nuove
missioni e, superati ostacoli e reticenze da parte delle autorità governative,
vi inviò i primi quattro missionari per iniziare l’evangelizzazione dei Meru.

[…]
Intanto l’attività dell’Istituto si estendeva all’Etiopia (1916) e Tanzania
(1919). Mons. Perlo metteva a disposizione i suoi migliori missionari; da
Torino veniva consultato o suggeriva nuovi progetti e mezzi per attuarli. Al
tempo stesso il vescovo escogitava per il vicariato una miriade di iniziative e
ne controllava strettamente l’esecuzione. Tra di esse la fondazione della
congregazione delle suore di Maria Immacolata di Nyeri (1918).

Alla
morte dell’Allamano divenne superiore generale dell’Istituto. Roma lo fece
ritirare dalla carica nel 1930. Morì [a Roma] nel 1948.

Adattato da
 MC, Speciale 100 anni, febbraio 2001.

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Joseph Caesar