Myanmar storia millenaria porti e caserme


Enormi complessi militari. Vaste zone disboscate per le piantagioni di caucciù. Pagode disseminate ovunque e molto frequentate. Turisti e lavoratori stranieri in cerca di spiritualità, storia e opportunità economiche. Il Myanmar si ricollega al mondo anche attraverso mega progetti di sviluppo (poco sostenibile). Mentre la gente locale si ingegna per uscire dalla miseria. Terza e ultima tappa del viaggio di Claudia in Birmania.

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Moulmein, Mon State. In due ore di navigazione sul fiume, da Hpa An raggiungo l’antica Moulmein, prima capitale della colonia britannica. Mi fermerò alcuni giorni, la città è piacevole, ricca di pagode e moschee. Qui la foce del fiume si confonde col mare, che rimane nascosto da un’isola molto grande, visitabile solo con una guida. Nei numerosi villaggi si mantengono vive attività di artigianato molto antico.

Il padrone della guest house di Moulmein, una volta lavorava in miniera, come geologo. Quando ha perso il lavoro è entrato in depressione, come i suoi colleghi che ho incontrato a Loikaw. Si è quindi rivolto alla pratica buddhista della meditazione, e, nel momento in cui ha ristrutturato la bella casa di famiglia sul lungomare, costruita da un commerciante inglese nei primi anni dello scorso secolo, ha creato al primo piano una piccola cappella.

A pochi chilometri dalla città, vi è un centro di meditazione che attira gente da tutto il mondo. Dedico una mezza giornata alla visita di questo complesso di padiglioni, sale con colonnati, ville per gli ospiti. Tutto è immerso in un grande parco. La strada per arrivarci costeggia grandi complessi dell’esercito, delimitati da mura e immersi nel verde. Caserme, scuole speciali, ospedale militare.

Sul viale alberato che conduce alla sala di meditazione femminile, incontro Vivien, califoiana, che mi dà i primi ragguagli: «Qui bisogna restare almeno dieci giorni. La vita è dura, sveglia alle 4,30, colazione alle sei, pranzo alle 10,30, poi nulla fino al mattino successivo. Sei sessioni di meditazione al giorno, si dorme e si mangia gratis, il luogo è finanziato dalle donazioni. Immagino siano cospicue, vista la cura con cui è mantenuto l’elegante complesso».

Ritoo in città e passo in cattedrale per salutare il vescovo Raymond Ray Po, che avevo conosciuto 20 anni fa. Anche lui ha i capelli grigi come me, ma il sorriso sul suo largo viso di Karen è sempre dolcissimo. Giustamente è stato coinvolto nelle trattative di pace con le tribù ribelli, che hanno portato al cessate il fuoco.

La cittadina di Ye

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Tutti, anche il vescovo, mi avevano detto di evitare la cittadina di Ye, troppo calda e poco interessante. Però io devo sostarvi per interrompere il lungo viaggio verso Dawei (conosciuta anche come Tavoy). Lascio Moulmein attraverso un territorio completamente disboscato per fare spazio a vaste piantagioni di alberi di caucciù. Certo deve essere un privilegio appartenere alla casta che comanda e possiede queste proprietà, nonostante pare siano in crisi per il crollo dei prezzi.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Al mio arrivo scopro che Ye è una città vivace, con un bel lago, tante pagode dorate e alberi maestosi. Trovo alloggio da David, un americano della Florida, arrivato due anni fa dalla Thailandia dove viveva con Winnie, originaria di questa provincia, e la figlia di sei anni, Emma. Non desidera ritornare in patria. Ha comprato una casa con vista sul lago e la sta trasformando in guest house. Mi trovo bene, con la bambina che gioca e la moglie che cuce a macchina davanti alla mia stanza. Arrivano altri ospiti: Laura è una giovane americana che sta viaggiando da mesi in Oriente alla ricerca di luoghi di meditazione. Due settimane fa il padre l’ha raggiunta a Bangkok da una cittadina dello stato di Washington. Si fermeranno solo un giorno perché l’anziano padre ha problemi di salute ed è costretto a ritornare a Bangkok.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Mentre David taglia piastrelle per finire il bagno, scendo in paese e trovo piacevole anche il tessuto urbano, fatto di case di legno curate, botteghe, pagode e monasteri. Verso sera mi fermo sul marciapiede davanti al monastero delle monache dove una donna scodella mohinga (la zuppa tradizionale a base di pesce, cipolle e legumi) in ciotole e sacchetti per una fila di clienti che la porteranno a casa. Mi siedo al tavolo con altre dame e comunichiamo a gesti. Quando mi alzo per pagare, scopro che la mia vicina lo ha già fatto per me ed è sparita.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Hpa An e Ye sono due nomi insoliti di due città che ricorderò legate a momenti magici, con gente laboriosa e ospitale.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Tutti sono al lavoro, nei cantieri stradali, nei campi, nelle piantagioni, e vedo un certo benessere, dovuto a queste attività.

La sera David insegna inglese ai giovani che ne hanno bisogno. Ha a disposizione un’aula del liceo, dove sono presenti anche due insegnanti locali, desiderosi di collaborare. Coinvolgono anche me, Laura e il padre, professore di inglese in un college. Siamo felici perché sentiamo interesse da parte di questa gente, da tanti anni chiusa al mondo.

I bambini ci stanno a guardare dalle porte aperte sulla via e alla fine della lezione ci travolgono con il loro entusiasmo.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Fisheries

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Stamattina, andando in stazione, ho incontrato Soe Soe, un farmacista molto gentile. Mi invita a casa sua, e conosco la moglie cinese e i tre ragazzi. Soe Soe ha studiato a Yangon e si è laureato nel 1988. Oggi è sabato e, non avendo impegni, mi propone di andare alle fisheries (le pescherie). Usciamo da Ye in moto e attraversiamo le risaie oramai secche, e file di palme da zucchero, con le scale di bambù che consentono agli uomini di arrampicarsi per raccogliere il succo. Ci avviciniamo alla costa dove vengono fatti seccare i gamberetti su grandi teli azzurri. Le donne li lavorano con un rastrello. I ragazzi riempiono sacchi e li caricano.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Entriamo nel villaggio dove Soe Soe è molto conosciuto perché lo rifornisce di paracetamolo. C’è un forte odore di pesce secco. In un capanno le donne fanno la prima selezione di gamberetti. Passiamo alla sala macchine dove si separa la polpa dal guscio, che viene poi tritato per fae mangime o concime. In un altro capanno buio rimbomba un suono di martelli. Le ragazze battono i filetti di pesce secco. Qui si usa far seccare anche le meduse, utili per una certa zuppa.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Quando mi vedono, le ragazze si aprono al sorriso, scompare l’aria mesta che avevano prima, ma continuano il lavoro.

Nel porto canale si sta lavorando per riparare le barche dei pescatori che trascorrono la stagione della pesca al largo, su grandi zattere di bambù, molto rudimentali. Come unico riparo, una piccola tenda. I pescatori vengono rifoiti di acqua e cibo dalle barche di appoggio.

A Dawei (© Claudia Caramanti)
A Dawei (© Claudia Caramanti)

Pasqua a Dawei

Lascio Ye la mattina di Pasqua (2015, ndr), insieme a Laura e Maury. La strada è in rifacimento. La stanno allargando, e il lavoro è intenso. Dobbiamo guadare i numerosi fiumi in secca perché i ponti in cemento devono essere ultimati. Per la prima volta vedo anche pale meccaniche al lavoro: fin’ora, per la costruzione di strade, avevo visto solo ragazzine che portano ceste di pietre.

A Dawei si dovrebbe realizzare il progetto di un porto profondo che consentirebbe alle navi container di evitare lo stretto di Malacca e Singapore. Una zona industriale sarà collegata alla Thailandia da un’autostrada, già in costruzione: Bangkok è molto vicina. La regione del Thanintharyi, in cui mi trovo, è strategica, molto ricca di risorse naturali, e la sua gente è attiva e laboriosa.

Aprile è uno dei mesi più caldi, e Dawei si prepara per il «water festival» (la festa delle acque), che tra una settimana avrà qui la sua celebrazione più festosa.

Prima di lasciare questa città giardino dalle belle case coloniali, in cui palazzi e alberghi ne stanno già cambiando l’aspetto, vorrei trovare la chiesa cattolica, e non è facile. Seguendo musica e canti, trovo il tempio indù dove è in corso una processione. Alcuni carri decorati sono trascinati da uomini che hanno uncini agganciati al dorso e alle guance. Non vedo segni di ferite, ma è impressionante. Proseguo verso la moschea, incontro musulmani biancovestiti e chiedo loro indicazioni. Loro sanno dove si trova la chiesa di Nostra Signora del Soccorso, dietro il mercato coperto, nascosta da alberi frondosi.

Padre Matthew sta preparando nel cortile la cena di Pasqua per i donatori che sostengono il convitto per 120 studenti provenienti da villaggi remoti, abitati da Karen che, anche qui, hanno sofferto le violenze dell’esercito governativo. Ho chiesto se fosse possibile trovare una bici in affitto, e una donna mi ha ceduto la sua per mezza giornata. Non ha voluto denaro, poi ho saputo che ha il marito malato in casa, lavora di giorno, e la sera apre una cucina sul marciapiede accanto alla sua abitazione. Ho cenato da lei: un piatto di noodles per pochi centesimi.

A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)
A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)

Maung Ma Kan

Impossibile costeggiare il mar delle Andamane: gli estuari dei fiumi lo impediscono. Con un moto taxi dobbiamo superare le colline per arrivare a Maung Ma Kan, il villaggio di pescatori dove trovo alloggio da Julien e sua moglie Zema, una giovane, intraprendente signora di Dawei. Julien è francese di stirpe contadina, nato in un villaggio del dipartimento della Lot. Sin da piccolo il nonno lo aveva portato a pescare nei torrenti. Il mare era lontano, allora, ma la tecnica appresa e la passione per la natura gli sono serviti quando ha deciso di trasferirsi in Thailandia.

A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)
A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)

Appena è stato possibile, la coppia ha lasciato Phuket, dove si erano conosciuti, e da otto mesi hanno aperto un piccolo ristorante con qualche capanno ombreggiato da palme e circondato da uno spazio verde vicino al mare. La lunga spiaggia grigia è bordata da una fila di casuarine (piante tipiche della zona, ndr) e tettornie di bambù per le merende delle famiglie.

Mare basso, acqua calda, riesco a fare nuotare le due bambine che vivono con Zema e Julien. Hanno perso la mamma, forse è andata in Thailandia a lavorare, non ho capito. Chiamano Zema zia, e me nonna. Pyiu Pyiu ha dieci anni, Elisa ne ha appena compiuti tre.

Il villaggio di Maung Ma Kan ha un grande mercato dove la mattina robuste dame preparano cibi squisiti per la colazione. Il settore del pesce è interessante, con grossi molluschi che fuoriescono dalle conchiglie, le nere aquile di mare, i barracuda, i pesci seccati. Tutto è esposto per terra.

Da noi arrivano alcuni giovani francesi e due ragazze di Monaco, gente simpatica con cui parlare la sera. Si fermano pochi giorni e con le moto vanno a cercare le spiagge remote, di sabbia bianca con le rocce. Vanno verso Sud e anche verso Nord dove, a dieci km da qui, dovrebbero iniziare i lavori per il porto di Dawei.

A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)
A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)

Julien dubita che sia possibile realizzare un porto profondo in questo mare sottile.

Sono arrivati i russi. La sera li vedo scaricare grosse sacche nere da un pullmino, poi cenano al tavolo sotto la pergola, separati da noi. Due di loro mi sembrano guardie del corpo, sono giganteschi, muscolari. Uno ha uno sfregio sul viso: inquietante. Gli altri due sono normali ma ben solidi, tipo Putin. Rimangono qui quattro giorni per la pesca d’altura, fatta col fucile in apnea. Julien li porta alle isole in barca e ritorna la sera sfinito, con le prede e il filmato. L’ultima sera riesco a parlare con loro: lo sfregiato non è quasi mai uscito dal bungalow. Vengono da Irkutzk, in Siberia, abitano in Cambogia, sono stanchi di Sihanouk-ville, e stanno cercando un mare ricco e un posto tranquillo.

Ingenuamente, parlando di Siberia, cito un libro di Dostoevskij che sto leggendo, non ne sanno nulla e neppure conoscono Tolstoj.

Claudia Caramanti
(terza puntata – fine)

A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)
A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)




Guatemala misericordia e new media


Dopo gli anni dell’orrore e dei massacri, padre Rigoberto si impegna nel recupero della memoria storica. Per una pace effettiva. Aperto sul fronte della comunicazione, utilizza la radio e i social media. Fino a essere chiamato a capo del dipartimento di comunicazione delle conferenze episcopali latinoamericane.

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Ordinato 22 anni fa, padre Rigoberto Pérez Garrido, guatemalteco, ha lavorato a lungo nella diocesi del Quiché, nel Nord Ovest del suo paese. Una delle regioni più martoriate dal conflitto armato durato 36 anni (1960-’96). La guerra civile guatemalteca ha visto il confronto tra diversi governi militari e la guerriglia. È stata particolarmente sanguinosa per la popolazione civile, causando 200.000 morti e almeno 450.000 rifugiati in Messico.

Parroco di piccole comunità, come quella di Nebaj, padre Rigoberto si è integrato nella pastorale dei diritti umani, partecipando al progetto di Recupero della memoria storica cornordinato da monsignor Juan Gerardi.

«La diocesi del Quiché fu militarizzata, e soffrì tutti i problemi tipici di una guerra. Restò senza guida, perché il vescovo, monsignor Juan Gerardi dovette andare in esilio in Costarica, e pure diversi missionari dovettero partire a causa della repressione crudele che la Chiesa stava vivendo negli anni ’80. Le chiese parrocchiali e le cappelle furono chiuse o distrutte da squadristi e militari.

Nel 1987 fu nominato vescovo monsignor Julio Cabrera Valle. Questi iniziò un lavoro di recupero della Chiesa e lo fece a partire dalla ricostruzione umana e sociale delle comunità. Invitò esperti di pastorale, sacerdoti, religiose e religiosi da diversi paesi del mondo, che si integrarono nella missione. In questo modo fu possibile essere presenti, nei diversi luoghi della diocesi.

Durante il periodo più duro, era rimasto solo un sacerdote guatemalteco, originario del Quiché, che sopravvisse perché protetto dalle comunità. La guerra si intensificò, con costi sociali molto alti e pesanti limitazioni ai diritti umani della gente.

Il processo di costruzione della pace iniziò nel 1986 con il primo “governo civile”, e la creazione della Costituzione della Repubblica, che voleva superare la dittatura iniziata negli anni ’40».

E qui la Chiesa assunse un ruolo molto importante.

«La Chiesa fece mediazione tra le parti, per assistenza, appoggio al processo di pace, che stava nascendo. Monsignor Juan Gerardi toò nel paese. Era partito perché aveva subito tre attentati e le squadre della morte dello stato lo avevano sequestrato. Si inserì nella diocesi di Città del Guatemala e creò l’ufficio dei Diritti umani dell’arcivescovato. Lavorò con mons. Pròspero Penado del Barrio e fu parte della commissione di vescovi, con il cardinal Rodolfo Quezada Toruño, come delegati della Conferenza episcopale al processo di pace».

E arrivò la pace

Monsignor
Padre Rigoberto Pérez Garrido durante l’intervista con Paolo Moiola.

Quindi nello specifico si trattava di aiutare le vittime della guerra. Ma non solo.

«Fin dal 1994 si intensificò una pastorale di difesa dei diritti umani – prosegue padre Rigoberto -. Nel 1996 furono firmati gli accordi di pace. Monsignor Gerardi guidava questo settore in quanto era un conoscitore speciale, diretto, delle preoccupazioni di tutta la gente che aveva vissuto la repressione.

Il lavoro consisteva nell’accompagnamento di rifugiati, sfollati interni, ritornati, nel contatto con rifugiati all’estero, soprattutto in Centro America. Facendo tutto questo dal punto di vista dell’impegno della Chiesa per il Vangelo, come attività pastorale.

Alla fine del 1994 si propose che la Chiesa creasse la Commissione per il chiarimento storico, con mons. Gerardi alla testa, iniziò così il Progetto del recupero della memoria storica (Remhi, Recuperaciòn de la memoria històrica). Voleva essere uno studio, un’analisi, sulla situazione reale che il paese aveva vissuto per valutare quale potesse essere la via per la pace, e per aprire il cammino al processo di riconciliazione, che era necessario.

Dal ‘95 al ‘98, si aggiunse anche il lavoro della commissione ufficiale di chiarimento storico delle Nazioni unite che riprendeva il lavoro di quella di Gerardi. Il 24 aprile 1998 fu pubblicato il risultato della ricerca Guatemala nuca mas (Guatemala mai più). Cinque tomi su impatto, meccanismo dell’orrore, storia, nomi delle vittime. Furono il prodotto del lavoro realizzato da 700 animatori della riconciliazione, che raccolsero testimonianze e interviste. Monsignor Gerardi fu assassinato il 26 aprile, appena due giorni dopo».

Un sacrificio importante, che fa di questo vescovo un martire.

«Mons. Gerardi, alla presentazione del lavoro aveva detto: “Conoscere la verità fa male ma senza dubbio è un’azione salutare e liberatrice”. Lui conosceva i pericoli e i rischi, ma tutti ne vedevamo la necessità. I vescovi impegnati in questo lavoro continuarono a essere convinti che non era stato un cammino sbagliato, e neanche un sacrificio senza senso. Quel lavoro apriva un percorso per le nuove generazioni in Guatemala. Fu un lavoro profondamente evangelico.

Da lì continuammo con altri impegni, come il processo di recupero di resti dei morti durante la guerra. E ancora si incrociavano testimonianze arrivate da diversi luoghi del paese e dall’estero. Potemmo accedere agli archivi Usa. Si fecero anche altri studi, sulla militarizzazione, sui cimiteri clandestini. Fu una cosa che realizzai io con una squadra. I risultati furono impressionanti. Monsignor Cabrera disse che il Guatemala, e il Quiché in particolare, sono un unico enorme cimitero clandestino. Vivevamo su un territorio pieno di fosse comuni e resti di vittime del conflitto armato».

Nebaj, chiesa (© Francesca Rosa)
Nebaj, chiesa (© Francesca Rosa)

Un lavoro difficile ma necessario

«Creammo squadre tecniche di esumazione, per restituire i resti alle famiglie e favorire una riconciliazione che portasse a una pace reale. Era la richiesta della popolazione ed era l’aspetto centrale della nostra azione pastorale. Difficile da soddisfare, perché richiedeva strumenti tecnici e legali.

Le squadre erano composte da membri della società civile. Le prime esumazioni furono paradigmatiche perché mostrarono la dimensione delle violazioni dei diritti umani. Volontari giunti da Europa, Usa, Messico e Centro America, furono parte di queste équipe, insieme a gente indigena delle comunità. Io stesso andavo con loro scavando nelle fosse, recuperando i resti, le ossa. Ma avevamo molta paura di fare questo lavoro, perché si lavorava su braci ancora accese.

Infatti, nel 2002, a Nebaj, mi incendiarono la casa parrocchiale e, nello stesso periodo, monsignor Cabrera fu trasferito. Lui era quello che aveva sposato maggiormente la teologia indigena. Tutto questo ci indebolì. Ma cercammo di reagire in modo positivo. Realizzammo una marcia e una consultazione a livello delle comunità, per valutare se avevamo fatto male qualcosa e cambiare. La popolazione ci confermò il cammino che stavamo facendo».

Cotzal - memoriale (© JuanjoSagiPhoto)
Cotzal – memoriale (© JuanjoSagiPhoto)

La potenza della comunicazione

E da lì nacque in padre Rigoberto l’idea di utilizzare i mezzi di comunicazione per promuovere la pacificazione.

«Con l’appoggio di un gesuita esperto nei media realizzammo una prima radio comunitaria, allo scopo di parlare di riconciliazione, costruzione della pace, evangelizzazione e accompagnamento.

Iniziammo la ricostruzione della casa parrocchiale, che fu molto più grande, con uffici di servizio, e una biblioteca. E pure la costruzione di cappelle, che erano state bruciate durante la guerra per castigare le comunità cristiane e mettere in crisi la loro fede. Costruimmo circa 70 cappelle.

Nel 2008 il nuovo vescovo mi chiese di tornare a Santa Cruz (capoluogo del Quiché), in una piccola parrocchia, e mi incaricò della radio diocesana.

In seguito abbiamo creato la rete di radio cattoliche del Quiché, con l’idea dell’unificazione per avere più forza. Iniziai a dare un appoggio alla comunicazione a livello nazionale. Poi mi incaricarono dell’ufficio comunicazione sociale della Conferenza episcopale guatemalteca. Ero parroco a San Antonio Ilotenango. Cominciai a partecipare agli incontri centro americani sui media, dove insistevo sulla questione dell’integrazione o “comunione” delle piattaforme delle diverse conferenze episcopali, per avere direttrici chiare di comunicazione che aiutassero alla costruzione della vita, come aveva fatto monsignor Romero».

Così nell’estate del 2015 lo hanno chiamato come segretario esecutivo del dipartimento di comunicazione e stampa del Celam (Consiglio episcopale latinoamericano), e si è trasferito a Bogotá.

«Il Celam è un organismo di comunione delle Chiese latinoamericane attraverso le conferenze episcopali. Ci occupiamo di comunicazione intea, divulgazione di quello che il Celam fa. Comunicazione istituzionale, ma anche su quello che la Chiesa vive in ogni paese, al servizio del popolo».

Nebaj-Acul (© Francesca Rosa)
Nebaj-Acul (© Francesca Rosa)

L’importanza dei new media

A livello di America Latina c’è una grande diffusione dei nuovi media. Le nuove tecnologie, gli smarthphone, i social network, sono entrati nell’uso comune della gente. Il loro ruolo si affianca a quello dei media tradizionali, come la radio, molto seguita in queste latitudini.

«Le nuove tecnologie facilitano molto, rendono un poco “pazza” la vita perché fanno aumentare il numero di cose da fare, però permettono di lavorare superando gli spazi.

Questi sono strumenti di comunicazione, ma l’importante è cosa e come le persone comunicano. Non si può dimenticare che è tutto un processo di sviluppo.

È importante che i media “tradizionali” abbiano uno spazio in quelli nuovi, come radio, tv e giornali sono presenti in internet.

Ci dobbiamo chiedere: come i media possono servire al mondo, alle società, ai paesi? Quale efficacia hanno nella costruzione o distruzione della vita? Per scatenare guerre o costruire la pace, per promuovere uno sviluppo degno o per rafforzare il sistema di disuguaglianza che produce sofferenza?

Quelli della comunicazione sono gli strumenti privilegiati con i quali possiamo costruire un mondo migliore, la società sognata da tutti noi che abbiamo un cuore umanitario.

Sulle nuove tecnologie, che rendono possibile la comunicazione immediata, dobbiamo contare e dobbiamo imparare a utilizzarle al meglio, nel tentativo di costruire i migliori contenuti, necessari per ogni ambito umano.

Per l’America Latina, questi media sono importanti. Producono un risveglio enorme. C’è una riflessione profonda che sta accompagnando lo sviluppo dei new media. Perché essi possono prendere direzioni che invece di aiutare, attaccano la vita. Per questo è importante analizzare il loro sviluppo e prendere coscienza che stiamo comunicando, ma anche come questi media devono intervenire in politica, società, economia. È una realtà da valutare costantemente.

Facebook e Twitter e altri social network sono potenti in America Latina. Si può dire che la rivoluzione tecnologica sta generando una democratizzazione dei media. Arrivano a un numero sempre maggiore di persone e inoltre generano una comunicazione a doppia via. Le reti sociali, danno spazio a ogni persona, che può uscire dall’anonimato. È evidente che i media non devono considerare la popolazione solo come consumatori, per questo parliamo di umanizzazione dei media».

Nebaj, cofradia (© Francesca Rosa)
Nebaj, cofradia (© Francesca Rosa)

L’attenzione del Papa

«I media possono creare comunione. La Chiesa cerca di andare al loro ritmo, affinché il Vangelo sia annunciato anche attraverso di essi.

Il messaggio per la giornata mondiale della comunicazione, intitolato quest’anno “Comunicazione e misericordia”, affronta un tema centrale e attuale rispetto alla situazione mondiale.

Il Papa parla dell’importanza dei media digitali, che si stanno sviluppando sempre di più, e ha invitato ad abitare la strada digitale, il mondo digitale, che è ormai un nuovo mondo di interrelazioni e comunicazione, anche molto complesso. Sono già milioni i bambini, giovani e adulti che sono costantemente connessi tra loro senza conoscersi, magari solo attraverso un’immagine. Sono nuove realtà, che ci sfidano. Dobbiamo entrare nelle questioni, tenendo conto del fatto che possono trasformarsi in incontri pericolosi, ma anche in spazi in cui il Vangelo può essere la notizia che ci umanizza, ci permette di relazionarci con i valori di comunione, frateità, solidarietà e dignità umana».

Anche in Guatemala, il mondo digitale è «abitato».

«Sì, sempre di più. Abbiamo molti vescovi che usano Facebook. Per ora in modo spontaneo e per fare esperienza. Inizialmente abbiamo paura di tutto quanto è nuovo, che ci costringe a relazionarci in una maniera distinta rispetto a prima. Pian piano però impariamo questo nuovo modo di vita.

In Guatemala i bambini e i giovani comunicano con questi mezzi.

A Nebaj, fino a pochi anni fa, non c’erano neppure i telefoni fissi: solo poche case lo avevano. Poi iniziarono i telefoni pubblici. I bambini che scendevano dai villaggi della montagna, non avevano mai vito un apparecchio, e quando scorgevano qualcuno parlare in un telefono pubblico ridevano, perché sembrava che parlasse con un pezzo di ferro. Poi apparirono i cellulari e le comunicazioni si moltiplicarono.

In seguito abbiamo aperto uno spazio internet, e da quel momento la comunicazione è diventata sorprendente. Per la gente questo spazio è stato importante. Ad esempio pensando alla questione delle migrazioni, esso ha ravvicinato coloro che sono andati a lavorare negli Usa con chi è rimasto. La gente piangeva quando, tramite Skype, facevamo vedere loro i parenti lontani. Tenendo conto che queste persone stanno via anni senza poter ritornare. Ecco come questi sistemi hanno una valenza umana».

Guatemalan new President Jimmy Morales (L) waves next to his wife Hilda Marroquin during his inauguration ceremony in Guatemala City, on January 14, 2016. Morales, a former TV comic elected Guatemala's new president on a wave of public revulsion against widespread graft, took office in a ceremony attended by leaders from the Americas. AFP PHOTO / Luis ECHEVERRIA / AFP / LUIS ECHEVERRIA
Guatemalan il nuovo presidente Jimmy Morales (L) con sua moglia Hilda Marroquin durante la cerimonia di inaugurazione in Guatemala City, il 14/01/2016. / AFP PHOTO / Luis ECHEVERRIA

Guatemala il presidente attore

Il Guatemala vive un periodo politico particolare. Il presidente Otto Perez Molina è stato arrestato con gravi accuse di frodi. E questo anche in seguito a grandi manifestazioni pacifiche dei movimenti sociali guatemaltechi.

Si sono poi tenute le elezioni a settembre 2015 e, a sorpresa, è stato eletto l’attore comico Jimmy Morales, che si è insediato il 14 gennaio scorso.

«A inizio 2015 ci si rese conto che il presidente e la sua vice erano a capo di una struttura, chiamata “la linea”, che frodava tra il 50 e il 60% delle entrate tributarie della nazione e lo ripartivano tra di loro, creando un forte impatto negativo sul paese. Grazie al valore del direttore della Commissione internazionale contro l’impunità (Cicig) dell’Onu e di un pubblico ministero colombiano si sono potuti smascherare.

Il processo fu appoggiato dalla cittadinanza, che iniziò a scendere in piazza, ad aprile, in modo pacifico e costante. Fino a ottenere un fatto unico nella storia del Guatemala, ovvero il cambio di queste figure e il processo giudiziario. Le manifestazioni sono state convocate dai giovani, attraverso le reti sociali e appoggiate dalle università, diversi settori civili e dalla Chiesa.

La cittadinanza che manifestava stabilì criteri chiari, e si applicarono meccanismi per assicurare manifestazioni pacifiche e attive, nel senso gandhiano, per non dare pretesti alla violenza e quindi alla repressione. C’era un servizio d’ordine di persone che giravano in bicicletta per vedere se tutto era a posto.

All’inizio la partecipazione fu timida, ma poi fu crescente. Fu utilizzata musica, arte, poesia, creatività.

Furono convocate le elezioni e la cittadinanza, cercava un cittadino retto, corretto e onesto, che occupasse temporaneamente la carica di presidente, affinché ci fosse tempo per costruire strutture politiche. Ma il rischio era rompere lo stato di diritto. La gente non sapeva chi eleggere e Jimmy Morales, attore senza alcuna esperienza nel settore, è il risultato di un contesto di delusione profonda della gente per la politica.

C’è una coscienza della popolazione, che è cresciuta, ha superato la paura e sta cercando nuovi percorsi per la ricostruzione del sistema nazionale. Ma c’è ancora molto da camminare».

Marco Bello

 

MC e il Guatemala:

gennaio 2013, Simona Rovelli;
maggio 2011, Paolo Moiola;
luglio 2009, Ermina Martini;
– marzo 2004, Paolo Moiola (un precedente incontro con padre Rigoberto).




Ecuador. Microfoni appassionanti

 


Diritti, cittadinanza, dignità, diversità, sviluppo sostenibile sono le principali parole d’ordine di «Radialistas Apasionadas y Apasionados». I «Radialistas» non sono un’emittente, ma un centro di produzione di programmi radiofonici a contenuto sociale ed educativo, distribuiti – gratuitamente – in tutta l’America Latina. Siamo andati a trovarli nella loro sede di Quito.

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Quito. La prima cosa che si nota all’apertura della porta è una folta barba sale e pepe. Appartiene a José Ignacio López Vigil, cubano dalle molte esistenze. Siamo nella sede di Radialistas, un’associazione senza scopo di lucro nata nel 2001 per produrre e distribuire programmi radiofonici su tematiche sociali ed educative.

«Radialistas, sì – ci fa subito notare il padrone di casa -, ma anche Apasionadas y Apasionados». «Quando presentammo il nome ci dissero che era troppo lungo. Noi rispondemmo che era lungo come la nostra passione e i nostri obiettivi». Una passione che per José Ignacio nasce e cresce negli anni successivi all’abbandono di Cuba da parte della sua famiglia.

Restituire la parola

«Al terzo anno della rivoluzione castrista – racconta -, le cose iniziarono ad avvelenarsi. Venivano dette nefandezze di ogni tipo sul futuro della gente e del paese. Mio padre, che era giornalista, come tanti altri cattolici entrò in panico e ci portò tutti in Spagna».

Qui José decide di entrare nella Compagnia di Gesù. Va in Repubblica Dominicana, in Venezuela, in Ecuador. Nel 1973 diviene sacerdote gesuita. A Santo Domingo chiede e ottiene di lavorare in una radio, che da tempo è divenuta una sua passione.

«Un giorno alcuni contadini vennero a domandarmi di essere intervistati perché un latifondista aveva rubato loro la terra. Lo feci e il giorno seguente mandai in onda il servizio, che mi costò l’immediata cacciata dall’emittente. Quell’esperienza costituì per me il punto di svolta. Mi accorsi del potere della parola popolare quando si fa forte. Restituire la parola alla gente comune è senza dubbio la missione più importante di qualsiasi radio che si definisca comunitaria».

José Ignacio si sente stretto nelle vesti di sacerdote. Esce dalla congregazione e torna a casa in Spagna. «Lì, assieme a mia sorella Maria, anche lei uscita dal proprio ordine religioso (e oggi caporedattore a Envío, la rivista dell’Università Centroamericana di Managua), scrivemmo Un tal Jesús, uno sceneggiato radiofonico sulla vita di Gesù di Nazaret nell’ottica della teologia della liberazione». La radionovela, scritta nel 1979 e registrata nel 1980, è una bomba. Una bomba di critiche e di successi.

«La mandammo in onda – racconta José Ignacio – per la prima volta nel 1981, in Costa Rica. Ben presto il presidente della conferenza episcopale latinoamericana, Alfonso López Trujillo, inviò un prete domenicano per investigarla. Venne stroncata. A quel punto, tutte le conferenze episcopali, dal Messico in giù, condannarono l’opera, senza averla ascoltata né letta. Eravamo accusati di aver fatto un danno alla fede e soprattutto alla gioventù latinoamericana».

L’ostracismo dei vertici ecclesiastici non ferma però la diffusione della radionovela. Tanto che, ancora oggi, a distanza di 35 anni, Un tal Jesús viene trasmessa da emittenti di molti paesi. O viene scaricata (con audio e testi) dai siti di Radialistas.

La «passione» costa

José Ignacio lavora in vari paesi latinoamericani, sempre al seguito della sua passione per la radio. Nel 2001, assieme ad altre tre persone, fonda Radialistas Apasionadas y Apasionados, divenendone il cornordinatore.

«Produciamo micros – noti anche come radio clips – di 4-5-6 minuti. Alcuni più drammatici, altri più umoristici. Poi, attraverso internet, li inviamo a emittenti dell’America Latina e del Caribe. In pratica, siamo un centro di produzione che alimenta la programmazione di moltissime radio».

I temi trattati vanno dai diritti di cittadinanza alle relazioni di genere, dallo sviluppo sostenibile alle tecniche di abilitazione radiofonica. Scorrendo il vasto archivio di Radialistas, si scoprono lavori di altissima valenza educativa. Ad esempio, i 10 capitoli sul tema degli abusi sessuali ai danni dei minori (No al abuso sexual infantil). Oppure i 5 di Sueños rotos (Sogni infranti), sceneggiato radiofonico dedicato al problema della gravidanza delle bambine. La vicenda di Jessica e Roni – drammatica, ma molto comune in tutti i paesi latinoamericani – viene raccontata con delicatezza e partecipazione emotiva.

Né viene dimenticata la storia latinoamericana. Come i 20 capitoli di 500 años, basati su «Le vene aperte dell’America Latina», il capolavoro di Eduardo Galeano.

Se affrontare queste tematiche è difficile, ancora più complicato è trovare i soldi per portare avanti i progetti. «Sì, i costi sono alti – conferma José Ignacio -. Per fortuna, quasi la metà del nostro bilancio è coperto dai finanziamenti di Cafod, un’organizzazione cattolica inglese, che fa parte di Caritas Inteational e che mai ha cercato di condizionare il nostro lavoro. Il resto lo dobbiamo trovare noi attraverso la vendita di alcuni servizi: seminari di formazione, corsi online, pubblicazione di guide, sempre con riferimento alla comunicazione radiofonica».

Tra le guide sul «fare radio» e sull’«insegnare a fare radio» ci sono quelle firmate da José Ignacio, come Manual urgente para radialistas apasionados e Pasión por la radio. Libri posti in vendita per l’autofinanziamento, ma al tempo stesso scaricabili gratuitamente da internet.

Lavorando per molti paesi, lo sforzo di Radialistas non poteva limitarsi alla lingua spagnola. E così la maggior parte dei testi sono tradotti anche in portoghese. «E?poi – precisa José Ignacio -, nella nostra piattaforma internet chiamata “Radioteca”, nata nel 2006, si trovano gli audio di moltissime produzioni, che sono quindi ascoltabili in vari idiomi, dal portoghese all’inglese, fino ad alcune lingue indigene, come quechua, aymara, guarani, mazteco e altre ancora».

Da donne a protagoniste

La produzione più recente di Radialistas riguarda la trasformazione in radionovela di «Laudato si’», l’enciclica di papa Francesco dedicata al dissesto ecologico del pianeta. Una realizzazione che ha coinvolto molte persone: soltanto gli interpreti che hanno dato la loro voce ai protagonisti (uomini, animali, piante, elementi naturali) sono stati una trentina. A dirigere il tutto è stata Tachi Arriola, una peruviana di Iquitos, tutta verve e sorrisi, che lavora a Radialistas fin dalla fondazione, occupandosi principalmente di diritti della donna.

«Io credo – ci spiega con un ampio sorriso – che la comunicazione, per essere democratica, non soltanto debba comprendere le donne, ma anche il loro protagonismo. Le donne, cioè, sia come fonti d’informazione che come attrici. Dato che la comunicazione è potere, noi cerchiamo di utilizzare questo potere per diffondere i diritti». Anche quelli più controversi e dibattuti come i diritti sessuali e riproduttivi.

Sul tema, Tachi ha da poco terminato Comunicación de colores, una guida multimediale, con testi e video, sul come trattare, dal punto di vista giornalistico, le diversità sessuali. Una scelta molto coraggiosa in paesi dove il sentimento machista è ancora una solida realtà e l’omofobia assume spesso connotati violenti. Il primo capitolo inizia così: «Siamo diversi, valiamo allo stesso modo» (Somos diferentes, valemos igual).

«Io credo – commenta Tachi – che se le donne sono escluse e violentate, lo sono ancora di più le persone omosessuali e transessuali».

Liberare la cultura

José Ignacio ci accompagna a vedere lo studio di registrazione, che sta nello stesso appartamento: è una sala insonorizzata con alcuni microfoni, un computer e un mixer. «Ecco, in questa piccola stanza facciamo le registrazioni.  Tutte le nostre produzioni le mettiamo poi in internet con derechos compartidos. Perché noi non crediamo nel copyright, brutta invenzione del capitalismo. La cultura non deve essere confinata, ma liberamente distribuita».

È, questa, una delle tante sfide che ogni giorno Radialistas si trova ad affrontare. Con molta fatica, ma sempre con un’enorme passione.

 

Paolo Moiola
(fine 6.a puntata – continua)




Iran donne ai tempi del mehrieh

 


«E date alle vostre spose la loro dote», recita il versetto 4 della Sura IV. Questa dote si chiama «mehrieh» e sta causando qualche problema. Diario (sorprendente) dalla quotidianità iraniana.

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Teheran. Sono passati trentasette anni da quel gennaio del 1979 in cui lo scià abbandonò il paese. Trentasette anni di potere teocratico, in cui la Guida spirituale e il clero hanno avuto a disposizione ogni possibile mezzo per educare generazioni di iraniani secondo i migliori dettami della religione islamica: il pieno controllo su scuole, università, mezzi d’informazione, manifestazioni pubbliche, leggi. E un capillare apparato di propaganda. Trentasette anni sono un periodo sufficiente per trarre un bilancio. Chissà quali benefici risultati hanno avuto sulle giovani generazioni l’azione congiunta di tutte queste forze, nonché l’esempio personale e la parola di migliaia di religiosi presenti in tutte le istituzioni.

Sul vagone delle donne

Un mio giovane conoscente mi ha confidato: «Quando incontro una ragazza spesso mi trovo in imbarazzo, non riesco a capire se ci siamo già visti prima. Per me sono tutte uguali, non distinguo le facce: stesso trucco, stesso naso». Siamo a Teheran, la capitale, ma il discorso può valere anche per le altre città del paese.

Lavorando lontano da casa, ho la necessità di utilizzare spesso il metrò per lunghi viaggi da un capo all’altro della città, e salgo regolarmente sui vagoni riservati alle donne, all’inizio o alla fine di ogni treno. Mi sfilano davanti decine di volti, soprattutto di ragazze. Gli iraniani sono una nazione giovane e il popolo del metrò conferma questa tendenza: le persone di una certa età sono una netta minoranza, di anziani se ne vedono pochi. Con i miei cinquantasei anni mi trovo nella fascia alta, tra le passeggere che dovrebbero essere oggetto di una certa attenzione; i capelli brizzolati che spuntano dal foulard, le rughe e le borse sotto gli occhi non lasciano alcun dubbio.

Sulla banchina, in genere parecchio affollata, le persone in attesa tentano di disporsi in corrispondenza dei punti in cui si apriranno le porte del treno. Quando mi capita di trovarmi davanti alla porta, prima di salire tento sempre di fare uscire le passeggere, ma mi tocca sopportare una notevole pressione da dietro e sui fianchi, e mi succede anche di sentire irate esortazioni da parte di chi vorrebbe, invece, entrare subito per accaparrarsi un posto. C’è sempre qualcuna che scappa in avanti e, a forza di spintoni, si fa largo tra il flusso contrario. Mi è capitato spesso, scendendo, di trovarmi ad affrontare un simile arrembaggio. Una volta, mentre cercavo di sfondare il muro di passeggere in entrata per guadagnare l’uscita, ho infilato il piede nell’intercapedine fra vagone e banchina, e sono caduta indietro lunga distesa. Ho temuto seriamente di venire travolta. Fortunatamente non è stato così e ne ho riportato solo un grosso livido alla gamba.

L’accaparramento dei posti è frenetico, la turba delle donne si riversa dentro e, in un attimo, ogni posto è occupato, anche quelli non previsti, perché qualcuna, ancora in piedi, chiede a quelle sedute di stringersi e da sei posti se ne ricavano sette. Le vedo ora lì sedute, studentesse di scuola o universitarie per lo più, trentenni, quarantenni, qualche cinquantenne; indossano stretti spolverini, o ampi chador neri, larghe sciarpe appoggiate appena a metà testa, o severi maghnaè (sorta di foulard-passamontagna, stretti sotto il mento), labbra rosse, fondotinta, occhi cerchiati di matita nera, mascara a badilate, sopracciglia curatissime e ripassate col colore. I nasi sono quasi tutti piccoli e regolari, qualcuno è coperto da una spessa garza. Credo che non ci sia posto al mondo in cui ci si sottoponga con più frequenza a operazioni di chirurgia estetica per rifarsi il naso: le donne, come gli uomini. Ma la mia attenzione di solito cade sulle unghie dagli smalti sgargianti, quadrate, rotonde, a punta, a volte di una lunghezza inquietante. Come si fa a vivere, a lavorare, con unghie così? Come deve essere limitata la sfera delle attività consentite e quanto tempo ci deve volere per mantenerle così perfette! Chi se lo può permettere? Nella casa dei genitori è forse possibile condurre un’esistenza a misura di simili unghie, ma poi? Così, in previsione di lasciare il nido paterno, le ragazze si mettono alla ricerca di un buon partito.

Per evitare la polizia religiosa

Le questioni di cuore ormai sono diventate questioni di soldi. Ci si cerca e sceglie secondo parametri ben precisi: si guarda con che macchina vai in giro, che cellulare hai in mano, come sei vestito. Nelle strade alla moda dei quartieri residenziali a Nord di Teheran, dove si concentrano i milionari locali, il giovedì sera (il nostro sabato sera) si fanno le «vasche» con le automobili. Funziona così. Se sei ricco/ricca prendi la macchina del papà, altrimenti te ne fai prestare una da un amico/amica benestante. Così, al volante dell’ultimo modello di Mercedes, Bmw, Land Cruiser, ti metti a girare in cerca di qualcun altro/altra al volante di un’auto altrettanto prestigiosa. Quando lo/la trovi tiri giù il finestrino e avviene lo scambio dei numeri di telefono. Questo sistema ti evita di essere fermato per strada dalla polizia religiosa, che vigila affinché non avvengano contatti tra coppie non sposate, e ti assicura che la persona con cui ti incontrerai poi in un luogo privato disponga di una buona base economica.

Naturalmente, qui siamo ai punti più alti della scala sociale; non tutti sono in condizione di fare le «vasche» con la Mercedes, ma il principio della ricerca di una buona sistemazione attraverso il matrimonio è prioritario per tutte le classi sociali.

L’origine del mehrieh

La legge islamica prevede che il contratto di matrimonio contenga obbligatoriamente l’indicazione di un regalo, mehrieh, che il marito s’impegna a fare alla moglie. Mehrieh può essere una somma in denaro, una proprietà, o altri beni, come oro, giornielli, ma anche oggetti di uso quotidiano. Sono l’uomo e la donna con le relative famiglie a stabilie l’entità e la natura. L’impegno può essere assolto dal marito all’atto del matrimonio, o rimandato a un momento successivo, di comune accordo. In ogni caso, la moglie in ogni momento della sua vita matrimoniale può chiedere di avere il suo mehrieh. Quando è nata, questa istituzione, che trae origine dal Corano («E date alle vostre spose la loro dote», recita per esempio il versetto 4 della Sura IV), aveva lo scopo di garantire alla moglie un aiuto in caso di divorzio o di morte del marito. Ciò era giustificato dalla tradizionale subordinazione all’uomo della donna, dalla sua esclusione dalle fonti di reddito, dalla sua penalizzazione nella divisione dell’eredità di famiglia, dalla sua inferiorità rispetto alla legge, che rende il divorzio più facile per il sesso maschile. Il mehrieh, soprattutto se di valore consistente, è ancora visto come un mezzo per scoraggiare i mariti dal divorziare, perché in quel caso devono versare alla moglie quanto pattuito: l’obbligo è categorico e chi non lo assolve finisce in prigione. A parte che non pare una buona idea legare a un ricatto la tenuta di una relazione, e compensare con il denaro le anacronistiche sperequazioni stabilite dalla legge islamica nei confronti delle donne, vediamo quali risvolti ha assunto oggi questa istituzione.

Il peso delle monete (d’oro)

Fino alla generazione dei miei genitori, in Iran i divorzi erano una rarità, ma ciò non vuol dire che i mehrieh fossero ingenti. Al contrario. Al tempo la cosa era vista più come una formalità piuttosto che come il procacciamento di una rendita da parte della moglie. Tanto è vero che le donne non pensavano di fae richiesta e il suo valore era spesso puramente simbolico. Lo stesso vale, più o meno, per la generazione seguente, vale a dire le famiglie formatesi a cavallo della rivoluzione e negli anni immediatamente successivi. Dagli anni Novanta il numero di divorzi ha preso gradualmente a salire, mentre cresceva l’entità del mehrieh. Si è anche stabilita la consuetudine di definirli in termini di monete d’oro. Il numero delle monete d’oro che la futura moglie chiedeva di indicare nel contratto matrimoniale ha cominciato a lievitare: cento, duecento, trecento, mille! È partita una gara al rialzo, la consistenza del regalo promesso dal marito è diventata oggetto di vanto e segno di eccellenza. Una figlia non doveva avere meno dell’altra, l’amica meno dell’amica. Semmai di più. È addirittura diventato di moda chiedere un numero di monete d’oro corrispondente all’anno di nascita della donna. Quest’anno il calendario islamico segna 1394: se si segue questo criterio, il conto diventa molto salato. Le carceri si sono riempite di uomini impossibilitati a pagare. Altri hanno tentato la fuga all’estero. La fuga, tuttavia, non mette al riparo la famiglia del marito, che deve rispondere, per quanto può, in vece del congiunto. Tanto che il governo è dovuto intervenire con una legge che ha portato a 110 il numero massimo di monete esigibili dalla moglie, se il marito non è in grado di dare di più. Al prezzo attuale dell’oro, si tratta di circa 27.500 euro, in un paese dove lo stipendio medio è intorno ai 350 euro. È stato anche cancellato il rischio del carcere per il marito che dimostri di non poter pagare in un’unica rata il debito. Lo pagherà con modalità decise dal tribunale. Ciononostante, il numero dei divorzi è cresciuto in modo impressionante, soprattutto negli ultimi dieci anni. Le statistiche ufficiali dicono che l’anno scorso a Teheran ogni 100 matrimoni si sono registrati 70 divorzi. Questo indica che i soldi non tengono insieme una coppia, al contrario possono diventare proprio il motivo della sua separazione. Sono molte le donne che, dopo le nozze, si rivolgono al tribunale per avere un mehrieh che il marito non è in grado di pagare. Inutile dire che questo tipo di richieste hanno come esito il divorzio. Di storie simili se ne sentono spesso. Un mio conoscente, chiamiamolo Abbas, ha recentemente celebrato le nozze del figlio. Qualche tempo fa lo incontro. Non è più lui, sembra invecchiato di dieci anni. Decide di sfogarsi. Dopo quattro mesi di matrimonio la giovane nuora ha citato in giudizio il marito per avere il mehrieh. Quando Abbas ha tentato di far ragionare la ragazza è stato investito da una serie di oscenità. «Non ha avuto nessun rispetto dei miei capelli bianchi, mai sentito niente del genere». Abbas fa il tassista, la sua non è una famiglia benestante. Si può ben capire che una simile richiesta li abbia messi in crisi.

È chiaro che questa visione commerciale del matrimonio non porta buoni frutti. Un altro mio conoscente, chiamiamolo questa volta Jafar, e la moglie Mahnaz erano sposati da una decina d’anni, anche se il ménage era pesante. Non c’erano problemi economici, lui guadagnava bene: una macchina a testa, cellulari, vestiti quanti se ne volevano, viaggi anche all’estero, ma, finito il primo periodo di attrazione, i due avevano scoperto di avere poco da dirsi e solo l’abitudine li teneva insieme. Ognuno godeva della propria indipendenza. Lui si ricavava lo spazio per passare tempo con gli amici e corteggiare altre donne. Lei aveva le amiche, civettava con altri uomini, andava a trovare la sorella all’altro capo del paese, aiutava la madre che aveva un negozio di abbigliamento. Da tempo entrambi pensavano al divorzio, Mahnaz si comportava in modo da indurre Jafar a prendere l’iniziativa, così avrebbe avuto l’intero mehrieh e in più gli alimenti che l’uomo deve continuare a pagare alla moglie se è lui a voler divorziare. Jafar, invece, faceva di tutto per spingere la moglie a liberarsi di lui chiedendo il consenso al divorzio, così si sarebbe negoziato sul mehrieh, come poi è avvenuto. Adesso Jafar versa all’ormai ex moglie, a titolo di mehrieh, l’equivalente di una moneta d’oro al mese (ne avrà per cento mesi), convive con un’altra donna e non ci pensa proprio a risposarsi. Mahnaz abita con la madre, anche lei divorziata, ed è in cerca di un marito ricco. Questa volta dovrà accontentarsi di un vedovo, o di un divorziato, magari con figli. Nessun altro se la prenderà.

Sempre più donne scoprono che il mehrieh può diventare un buon business. Ci si sposa e poi lo si esige dal marito, oppure si chiede il divorzio. In questo caso, la donna deve rinunciare a una parte di mehrieh. Mentre, se il matrimonio non è ancora stato consumato, il suo valore è ridotto del 50%. Certo, il marito deve acconsentire, ma si può trovare il modo per indurre l’uomo ad accettare. Ogni tanto le cronache riportano storie di donne che sposano diversi uomini in poco tempo, solo per accumulare mehrieh.

È anche per questo che la durata media dei matrimoni è scesa precipitosamente: il 30% dei divorzi avviene entro un anno dalle nozze. Chi è reduce da un divorzio, poi, ci pensa bene prima di risposarsi e le convivenze aumentano.

Maria Chiara Parenzo*
(fine prima parte – continua)

* Maria Chiara Parenzo, nome di fantasia, vive e lavora in Iran.

Archivio MC:
Angela Lano, L’Ayatollah e il presidente, dossier, in MC agosto-settembre 2013;
Maria Chiara Parenzo, Ogni giorno è Ashura, in MC marzo 2014.




Brasile. Il morbo che segrega


Venga chiamata «hanseniasi» o «lebbra» (come un tempo), questa patologia non soltanto produce gravi conseguenze sul fisico delle persone colpite, ma porta anche alla loro segregazione. Abbiamo incontrato un’operatrice sanitaria che segue la patologia nel Piauí, uno degli stati brasiliani più colpiti. Il Brasile, dopo l’India, è il secondo paese al mondo per numero di nuovi casi registrati ogni anno.

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Floriano (Piauí). La lebbra può deturpare, mutilare e sfigurare chi ne è colpito. E può portare all’emarginazione dei malati e dei loro familiari. A tal punto spaventosa ed escludente che, in Italia, venne emanata una legge, la numero 4 del 1974, per vietare (con l’articolo 3) l’utilizzo del termine «lebbra», sostituito da «morbo di Hansen», dal nome dello scopritore del batterio che la provoca.

Leggendo le statistiche della Organizzazione mondiale della sanità (Oms), si scopre che il Brasile è il secondo paese con il maggior numero di nuovi casi di lebbra dopo l’India: 31.064 contro 125.785 nuovi casi su un totale mondiale di 213.899 nel 20141. Le stime, inoltre, parlano di 1-2 milioni di persone con disabilità irreversibili legate al morbo di Hansen2.

Sul tema abbiamo rivolto qualche domanda a Olívia Dias de Araújo, specialista in salute pubblica e professoressa d’infermeria presso la Università Federale del Piauí, a Teresina. La professoressa sta attualmente seguendo un progetto sull’hanseniasi – denominato «IntegraHans-Piauí» e cornordinato dalla dottoressa Telma Maria Evangelista de Araújo3 – a Floriano, piccola città dove, in questi anni, il numero dei malati ha raggiunto livelli preoccupanti.

Professoressa, l’hanseniasi si riscontra soprattutto in persone e ambienti poveri. Si può parlare di una correlazione di causa-effetto tra indigenza e malattia?

«Anche se l’hanseniasi oggi riguarda i paesi più poveri e, all’interno di questi, gli strati più svantaggiati della popolazione, non si sa con certezza quale sia il peso di variabili quali l’alloggio, lo stato nutrizionale, infezioni concomitanti (come HIV e malaria), o precedenti infezioni causate da batteri. Il ruolo dei fattori genetici è stato valutato per un lungo periodo di tempo: la distribuzione della malattia in conglomerati urbani, famiglie o comunità con corredo genetico comune suggerisce anche questa possibilità».

Anche a causa del suo aspetto esteriore (piaghe, deformità del corpo, piedi e mani in particolare), il malato di hanseniasi ha sempre sofferto di uno stigma sociale che lo ha emarginato dalla comunità. Questo è vero ancora oggi?

«Il coinvolgimento dei nervi periferici è la caratteristica principale dell’hanseniasi. Questa condizione può evolvere in disabilità e deformità fisiche. Disabilità e deformità sono causa di svariati problemi per il malato: riduzione della capacità lavorativa, limitazione della sua vita sociale, insorgenza di problemi psicologici, rifiuto da parte della società. Pertanto, la risposta è: sì, ancora oggi la lebbra provoca stigma sociale e pregiudizi».

Così, per evitare lo stigma e l’esclusione sociale, le persone con hanseniasi cercano di nascondere la propria malattia.

«È vero. Per paura e vergogna i malati nascondono la propria condizione anche a familiari e parenti. Ci accorgiamo di questo in tutte le classi sociali e a tutti i livelli di istruzione. D’altra parte, è realtà che, una volta scoperti, i malati sono evitati ed esclusi anche da molte persone della propria cerchia familiare e sociale».

Il Brasile è di gran lunga il paese americano con più casi di hanseniasi.

«L’hanseniasi sta gradualmente restringendosi a un piccolo numero di paesi. La maggioranza (l’81% circa) di tutti i nuovi casi oggi si verifica in soli tre paesi: India, Brasile e Indonesia.

Il Brasile si trova al secondo posto al mondo per numero totale di nuovi casi. In America, è l’unico che non ha raggiunto l’obiettivo globale di eliminare la lebbra. Per intenderci, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha stabilito che l’hanseniasi si considera eliminata quando si registra al massimo un caso ogni 10 mila abitanti.

In Brasile, la situazione epidemiologica4 è molto eterogenea a causa della grande variabilità del “tasso di prevalenza”5 nelle varie regioni del paese. Mato Grosso, Tocantins, Maranhão, Pará e Piauí hanno il maggior numero di casi. Invece, negli stati brasiliani del Sud la lebbra è praticamente inesistente».

Secondo lei, il governo brasiliano combatte in maniera adeguata l’hanseniasi?

«Secondo la mia personale percezione, il Brasile si sta impegnando nella lotta con strategie corrette, ma anche commettendo errori, che finiscono con il compromettere il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Oms. Il governo federale sostiene che oggi siamo vicini all’eliminazione dell’hanseniasi. La realtà è diversa: i casi di lebbra sono più numerosi di quanto dicano le statistiche ufficiali, perché ci sono situazioni nascoste in alcune regioni dove la malattia è endemica. Il problema è che, senza un miglioramento delle condizioni generali di vita, sarà difficile arrivare alla scomparsa dell’hanseniasi».

Lei sta seguendo un progetto (IntegraHans) contro l’hanseniasi qui a Floriano. Come mai è stata scelta questa cittadina?

«Perché la città di Floriano è un comune storicamente iperendemico per quanto concee l’hanseniasi. Lo dimostrano i numeri. Esso ha un coefficiente di prevalenza della malattia sei volte superiore a quello ideale: sei casi ogni 10.000 abitanti. Negli anni 2001-2014 la città ha notificato 1.083 casi di lebbra, piazzandosi al secondo posto nello stato del Piauí, preceduta soltanto dalla capitale Teresina, pur risultando la quinta città come popolazione a livello statale. Pertanto, Floriano presenta una situazione preoccupante».

Cosa fare per aiutare i malati e per evitare la propagazione della malattia?

«Per aiutarli sarebbe importante investire fortemente nei servizi igienico-sanitari di base, migliorare le condizioni abitative e l’alimentazione, fornire un’istruzione pubblica di qualità e un accesso ai servizi sanitari a tutti i livelli, includendo il diritto alla riabilitazione.

Invece, per evitare nuovi casi, un’alternativa è quella di fare ciò che stiamo facendo con il progetto IntegraHans: una ricerca attiva dei contatti familiari e sociali dei pazienti, posto che queste persone sono esposte a un rischio sette volte maggiore di contrarre la malattia. Soltanto così potremo spezzare “la catena epidemiologica”. Senza un miglioramento della qualità della vita e delle condizioni sanitarie il ciclo della malattia non si chiuderà».

Lei fa visita ai malati nelle loro case. Durante queste visite ci sono state situazioni che l’hanno particolarmente colpita?

«Diverse situazioni mi hanno molto segnato in questo periodo. Ricordo soprattutto due casi. Quello di un uomo al quale non era nemmeno consentito l’accesso all’Unità sanitaria di base per il trattamento delle sue lesioni. Lo abbiamo trovato in una situazione disastrosa: una grave condizione di malnutrizione, ferite ai piedi con osso esposto, alcolismo, un odore insopportabile. È stato triste constatare che il sistema sanitario che lo avrebbe dovuto accogliere e curare semplicemente lo aveva escluso. Lo abbiamo portato a Teresina, affidando il suo caso ai responsabili comunali. Così, oggi, è vivo e vegeto.

Un altro caso emblematico riguarda due sorelle le cui vite sono state distrutte a causa della lebbra. Vivevano vicino a una scuola, che è stata chiusa a causa dei casi di lebbra scoppiati nella loro famiglia. Una delle sorelle vive ancora confinata nella sua casa, senza neppure aver imparato a leggere o scrivere. Stigma e pregiudizio sono immensi. Una situazione devastante. Personalmente non ho mai sentito una cosa così triste e spaventosa. L’essere umano è crudele».

Come operatrice sanitaria e come persona, qual è la sua maggiore speranza?

«La mia più grande speranza è che il “Sistema unico di salute” (Sus)6 – a cui sono orgogliosa di appartenere e di cui sono un ferreo difensore – funzioni come prevedono le sue linee guida: con completezza, universalità, equità ed efficienza; con professionisti e amministratori impegnati e condizioni adeguate di lavoro. Come persona, per la nostra gente del Nord-Est e dell’intero Brasile, spero che vengano sradicati l’analfabetismo, la fame, la povertà e la grande disuguaglianza sociale esistente».

Paolo Moiola
(con Rosa Maria Duarte Veloso – Faesf)


Note

(1) World Health Organization, Weekly epidemiological record, 4 settembre 2015, n. 36.
(2) Dato riportato da www.salute.gov.it
(3) Al progetto partecipano l’Università federale (Ufpi), il governo del Piauí, le città di Floriano e Picos, e due organizzazioni europee: la Nhr (Paesi Bassi) e la Ciomal (Svizzera).
(4) L’epidemiologia è la disciplina che studia la distribuzione e la frequenza delle malattie.
(5) Le misure di frequenza delle malattie distinguono la prevalenza e l’incidenza: la prima misura l’insieme di tutti i casi in un determinato momento per una determinata popolazione; la seconda riguarda il numero dei nuovi casi.
(6) Il Sus è il sistema di salute pubblico dello stato brasiliano. È stato istituito con la Costituzione federale del 1988 (articoli 196-198).

Siti

  • – www.aifo.it
    È il sito dell’Associazione italiana amici di Raoul Follerau, attiva contro la lebbra dal 1961.
  • – www.ilepfederation.org
    È il sito della federazione internazionale delle Ong che combattono contro l’hanseniasi.



Tanzania streghe e stregoni


La stregoneria continua a esistere e a fare danni. Sia quando viene praticata, sia quando viene combattuta. Per questo i missionari si muovono con cautela. Facendo anche attenzione a non sbagliare bersaglio, come in passato a volte accadeva. Ad esempio, i «medici tradizionali» non sono stregoni. Anzi, essi hanno un ruolo e una funzione positivi.

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Le morti si susseguirono una dopo l’altra, con ritmo impressionante, nella casa di Makene, un facoltoso anziano della tribù dei Wasukuma in Tanzania.

Dopo la celebrazione dell’ultimo lutto rituale, il figlio maggiore di Makene interrogò il genitore: «Padre, un tempo i nostri capi come punivano gli stregoni?». Seguì un lungo e inquietante silenzio. Poi l’anziano Makene indugiò su alcune considerazioni. Infine il figlio maggiore e i suoi fratelli se ne andarono senza proferire parola. Ma in cuor loro avevano deciso: bisognava sopprimere subito quel losco stregone, responsabile di tutti gli oscuri mali che avevano funestato la loro casa. Il giorno successivo i figli di Makene fecero irruzione nello «studio dello stregone» proprio mentre stava trattando una paziente. Lo stregone venne immobilizzato in un lampo, portato fuori e impiccato ad un albero sotto lo sguardo compiaciuto di tutti.

Quello era uno stregone davvero singolare. Anni prima era un sacerdote cattolico: padre Joni. Invaghitosi di una giovane donna, stava per abusae. Ma lei resistette. Non solo, con un sasso colpì sul volto l’aggressore. La notizia fece il giro del villaggio, e il prete divenne il bersaglio della derisione generale. Ebbro di rabbia e di vergogna, si disse: «Io sono figlio di uno stregone pagano. Perché dovrei seguire la religione straniera dei bianchi? Ne abbraccerò un’altra: l’islam, ad esempio». Detto, fatto. Il prete gettò la tonaca alle ortiche e divenne un seguace di Muhammad. Partì per il Senegal, dove sposò una ricca musulmana, dalla quale ebbe cinque figli. Però non si accontentava solo della propria moglie. «Passeggiava» pure con altre donne. Troppo.

Un pomeriggio la consorte, con l’aiuto di alcune amiche, aggredì il marito, lo denudò da capo a piedi e lo minacciò: «Amore mio, sta’ bene attento! Se continui a disonorarmi, ti sgozzo come un maiale». E gli puntò al collo un coltello affilato.

Il libertino ebbe paura e fuggì ritornando in Tanzania, non prima però di aver sottratto alla famiglia un’ingente somma di denaro.

In Tanzania l’ex padre Joni si dedicò alla stregoneria, facendo soldi a palate. La sua prima impresa fu l’assassinio di quella donna che, un tempo, non solo aveva resistito alle sue voglie, ma lo aveva svergognato come nessun altro. «Scovate quella strega – ordinò ai suoi manutengoli – e portatemi qui su un piatto il suo basso ventre». Così fu.

Medicine e sacrifici

Questa vicenda è narrata dallo scrittore tanzaniano, Gabriel Ruhumbika, nel suo libro del 2001 «La piaga endemica degli indigeni»1. Qual era a quel tempo la «piaga endemica» del Tanzania? La stregoneria, appunto, piaga diffusa ovunque. La popolazione la temeva più degli artigli delle bestie feroci, più della lebbra, più dell’aids. Pertanto gli stregoni, se individuati, potevano anche essere linciati coram populo, come era toccato allo spregiudicato personaggio ex padre Joni.

Tali esecuzioni erano pure un sacrificio espiatorio e propiziatorio per i benestanti che continuavano a frequentare gli stregoni, che promettevano di accrescere la loro fortuna.

D’altro canto, i ricchi (uomini di affari, generali dell’esercito e della polizia, papaveri del governo ecc.) erano i primi a bussare dallo stregone per ottenere, a pagamento, «la medicina» che avrebbe garantito loro potere e prestigio. Talora la medicina consisteva in «arti umani», tra cui dita e organi sessuali di persone albine.

Il traffico della stregoneria prosperava clandestino, indisturbato e criminale. A volte i clienti dello stregone dovevano pagare le sue prestazioni persino con il «sacrificio cruento» di un loro figlio.

Il sospetto uccide

Questo e altro viene illustrato dal libro di Gabriel Ruhumbika. Ma oggi, dopo quindici anni, qual è il panorama della stregoneria in Tanzania?

Il governo si è impegnato a sanare questo morbo contagioso, con l’intento soprattutto di fermare gli omicidi, perché a fae le spese sono spesso persone innocenti ed innocue, vittime di pregiudizi: donne con gli occhi rossi, portatori di handicap, albini ecc.

La legge sanziona con pene la pratica della stregoneria. Tuttavia il fenomeno, invece di diminuire, cresce. È sintomatico che nel 2010 le uccisioni legate alla stregoneria fossero 579, mentre nel 2012 erano salite a 630.

Ecco i nomi di alcune persone giustiziate, perché ritenute stregoni: Lorenza, anni 70, di Geita: uccisa e bruciata dagli abitanti del suo villaggio; William, 68 anni, di Mbeya: soppresso dai suoi stessi figli; Gaetano, 60 anni, di Iringa: squartato e fatto a pezzi da ignoti2.

Sovente è lo stesso stregone ad accusare altri di stregoneria, decretandone la fine. La vicenda segue questa trafila: un individuo, afflitto da malore, ricorre allo stregone per trovarvi rimedio; se l’interessato peggiora e addirittura muore, lo stregone può ravvisare in un «nemico» la causa del male; allora il «nemico» può essere eliminato con qualsiasi mezzo.

Oggigiorno la stampa del Tanzania si sofferma su diversi casi di stregoneria. Ad esempio: il quotidiano Mwananchi (Il cittadino) ha scritto che il mercato all’aperto di Mbeya è stato più volte bruciato per ragioni di stregoneria. Ma c’è di più nella regione di Mbeya: il sospetto di stregoneria fa sì che si siano seppellite persino persone ancora vive e vegete3.

Bussare a due porte

Circa la stregoneria, la Chiesa cattolica si appella alla Bibbia. Plagiare persone, evocare spiriti o «battere assicelle» (kupiga bao), erano atti che si compivano pure nella terra di Israele, «nazione eletta» di Dio. Ma erano severamente proibiti dall’Onnipotente.

Il libro dell’Esodo 22,18 recita: «Non lascerai vivere colei che pratica la stregoneria». Il Deuteronomio 18,10-12 precisa: «Non si trovi in mezzo a te chi immola, facendoli passare per il fuoco, il figlio o la figlia, né chi esercita la divinazione o il sortilegio o la magia; né chi faccia incantesimi, né chi consulti gli spiriti o gli indovini, né chi interroghi i morti, perché chiunque fa queste cose è in abominio al Signore».

Nel catechismo della Chiesa cattolica, al n. 2117 si legge: «Tutte le pratiche di magia e stregoneria… sono gravemente contrarie alla virtù della religione. Tali pratiche sono ancor più da condannare quando si accompagnano all’intenzione di nuocere agli altri o quando si ricorre all’intervento di demoni. Anche portare amuleti è biasimevole…».

Né si scordi il Secondo Sinodo dei vescovi dell’Africa, svoltosi a Roma nel 2009, secondo il quale la stregoneria esercita una forte attrazione. L’incertezza di fronte all’ambiente, alla salute, al futuro dei figli, nonché il timore di spiriti malvagi, inducono la gente a ricorrere a pratiche contrarie all’insegnamento di Cristo. L’aderire, nello stesso tempo, a due fedi diverse ed opposte (paganesimo e cristianesimo) è una grossa sfida4.

Più esplicitamente, la sfida investe il cristiano tanzaniano che, alla domenica mattina va a messa in chiesa, e nel pomeriggio bussa alla porta dello stregone. Ecco «l’aderire, nello stesso tempo, a due fedi diverse ed opposte».

Stregoni, medici tradizionali e missionari

Da sempre i missionari hanno combattuto la stregoneria (scontrandosi con gli antropologi), perché hanno ritenuto e ritengono che il fenomeno sia causa di divisioni all’interno della comunità, fomentando odi e vendette a non finire. Tuttavia, il missionario, specie nel passato, di fronte alla stregoneria ha fatto spesso di ogni erba un fascio. Non sempre ha saputo distinguere tra «stregone» (sorcerer in inglese e mchawi in swahili) e «medico tradizionale» (medicine-man e mganga wa kienyeji). Il primo era ed è una figura essenzialmente negativa, mentre il secondo può effettivamente guarire da varie malattie.

Detto questo, i missionari della Consolata sanno come comportarsi. E recentemente si sono sentiti gratificare anche da Tarcisio Ngalalekumtwa, vescovo di Iringa e presidente della Conferenza episcopale del Tanzania. Ai cristiani della parrocchia di Sadani il vescovo ha infatti raccomandato: «Fratelli, rifuggite con coraggio dalla vendetta e dalla stregoneria. Queste sono piaghe che incretiniscono, impoveriscono e trasformano in figli delle tenebre»5.

Anche il citato Ruhumbika sostiene che la stregoneria sia «il grande inizio della povertà». A parere dello scrittore, in Tanzania è in atto una guerra contro la stregoneria e «alla fine si conseguirà la vittoria»6. Tuttavia non basta reprimere. Bisogna proporre un’alternativa alla stregoneria.

Per i missionari l’alternativa è l’istruzione e la formazione. Senza scordare che un certo Gesù ha sconfitto il mondo, compresa la sua stregoneria. Egli sarà con i suoi fratelli tutti i giorni sino alla fine della storia7.

Francesco Beardi
(missionario in Tanzania)

Note

1 – Autore e titolo originale del romanzo in lingua swahili: Gabriel Ruhumbika, Janga sugu la wazawa, Dar Es Salaam 2001.
2 – Cfr. Taarifa ya haki za binadamu, 2012, LHRC & ZLSC 2013, pp. 34, 192.
3 – Cfr. Mwananchi, 13 novembre 2013.
4 – Cfr. Africarne Munus, 93.
5 – Cfr. la rivista Enendeni, machi-aprili 2014.
6 – G. Ruhumbika, op. cit., pp. 187, 193.
7 – Cfr. Giovanni 16,33 e Matteo 28,20.




Italia alcol non abusare


Ogni anno oltre tre milioni di persone nel mondo perdono la vita a causa dell’alcol. Ma il problema non riguarda solo il singolo individuo. Da qui la creazione di «club» in cui intere famiglie si riuniscono per superare insieme le difficoltà.

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C’è Franco, 68 anni, ex dirigente di una multinazionale, andato in crisi con il sopraggiungere della pensione; Maria, caduta in depressione in seguito alla morte del marito; Giulia e Gianni, che dopo molti tentativi hanno dovuto rassegnarsi a non avere figli; e poi Marcello, che ha solo 17 anni ma già da sette si ritrova ogni settimana con il padre e gli altri membri del club. Un club «speciale» dove si può ridere e scherzare, ma anche piangere e sfogarsi; dove tutti fanno amicizia e finiscono per brindare ai successi l’uno dell’altro: ma sempre, rigorosamente, senz’alcol. Stiamo parlando dei Cat, i Club alcologici territoriali fondati negli anni ‘60 dallo psichiatra crornato Vladimir Hudolin e presenti oggi in oltre 30 paesi del mondo.

Metodo ecologico-sociale

Nell’ospedale psichiatrico di Zagabria dove lavorava, Hudolin si era accorto che molti pazienti erano alterati non perché «matti», ma perché sotto i fumi dell’alcol. Si convinse allora che i bevitori non erano malati da trattare con i farmaci (o, peggio ancora, viziosi da disprezzare), ma persone che avevano sviluppato un’abitudine di vita scorretta, portatrice di sofferenze fisiche, psicologiche, relazionali. Per uscie, il bevitore doveva quindi cambiare le sue abitudini modificando il proprio stile di vita. Il che poteva avvenire in modo tanto più facile e duraturo quanto più nel processo di cambiamento era coinvolta l’intera famiglia. Nasceva così il metodo ecologico-sociale. Sociale perché, attraverso le famiglie, produce un effetto positivo sull’intera società: infatti i problemi alcol correlati (patologie fisiche e psichiche, incidenti d’auto o sul lavoro, violenze domestiche, ecc.) interessano il 75% della popolazione. Ed ecologico perché, per una vita più sana, occorre ripulire non solo l’ambiente ma anche la cultura (vedi box), liberandola dagli aspetti che favoriscono l’impiego di sostanze dannose. Esistono infatti in tutto il mondo tradizioni che favoriscono il consumo di alcol, ad esempio alcune popolazioni latinoamericane consigliano alle puerpere di bere birra per aiutare la produzione di latte. Anche in Italia ci sono credenze, soprattutto d’origine contadina, molto radicate: «Avevo 5 anni e il nonno nei giorni di festa insisteva per farmi bere lo spumante, dicendo: dai che ti fa bene, prima inizi e più ti rafforzi», racconta Mario, che da adulto ha dovuto rivolgersi ai club per risolvere quello che per lui era diventato un problema.

Lo spazio per i bambini

Oggi in Italia i club alcologici sono 2.050, e raggruppano 20.000 famiglie. La partecipazione di queste, spiega Stefano Alberini dell’Acat, l’associazione dei club, «costituisce una differenza significativa rispetto ad altri gruppi di auto mutuo aiuto (che spesso, inoltre, tendono a considerare il bere come una malattia a tutti gli effetti, nda)». Il coinvolgimento dei familiari nei club hudoliniani avviene quasi in maniera naturale: «È raro che un bevitore prenda l’iniziativa di chiedere aiuto, per vergogna o perché nega il problema anche a se stesso. Nella maggioranza dei casi sono proprio i familiari a contattarci e, specie all’inizio, sono loro che cominciano a frequentare il club per primi».

Ma come funziona la vita dei club? Ognuno comprende da 2 a 12 famiglie che si riuniscono a cadenza settimanale, bambini inclusi, insieme a un facilitatore detto «servitore insegnante» (lo si può diventare dopo una specifica formazione, aperta anche a chi è già membro di un club).

Negli incontri ognuno si esprime in libertà, racconta come ha trascorso la settimana, condivide dolori e difficoltà, ma anche conquiste e progetti per il futuro. «Ci si concentra sul qui e ora, evitando di rivangare gli aspetti penosi del passato e cercando di far emergere le risorse e le forze positive» spiega Alberini, da 26 anni servitore insegnante a Guastalla (Re). Le regole del club sono poche ed essenziali: puntualità, divieto di fumare o usare il cellulare durante gli incontri, ascoltare gli altri senza giudicare, rispetto della privacy e segretezza su quanto viene detto.

Potrebbe stupire la partecipazione dei bambini, visto lo «spessore» dei discorsi e degli argomenti affrontati, e visto l’orario (in genere i club si riuniscono dopo cena per un’ora e mezza, due). In realtà la loro presenza è molto positiva: «Portano freschezza, allegria e serenità», dice Franco, membro di un club di Livoo, e lo è sia per gli adulti che per loro stessi. Lo conferma Alessio, che oggi ha 20 anni e frequenta un club dall’età di 8. «A casa stavo male, mio padre beveva ed era spesso assente, non aveva mai tempo per me o per mia madre, rientrava tardi ed erano continui litigi. Anche mamma aveva iniziato a bere. La prima volta che siamo andati al club, a fine serata il servitore insegnante ci ha detto di buttare tutte le bottiglie che c’erano in casa, e noi l’abbiamo fatto. Ero piccolo, e durante gli incontri mi facevo i fatti miei, giocavo, disegnavo, però ogni tanto tendevo l’orecchio. Capitava anche che intervenissi, rimproverando mio papà se lo sentivo raccontare bugie…». Un’esperienza che, alla fine, è stata positiva per tutta la famiglia: il papà di Alessio ha smesso di bere, diventando poi lui stesso servitore insegnante di club. E Alessio (che, inutile dire, è astemio) ne ha seguito le orme: da un anno è facilitatore di un club, e da cinque fa sensibilizzazione nelle scuole sui rischi legati ad alcol, fumo, gioco d’azzardo.

Famiglie solidali

Ma se qualcuno è meno fortunato e non ha familiari che possano (o vogliano) partecipare al club? «Questo è stato il mio caso», racconta Bianca, 51 anni, che frequenta un club a Torino. «Ho iniziato a bere dopo la morte di mia madre, anche lei con problemi di alcol, e sono andata avanti per otto anni. A un certo punto ho sentito di aver toccato il fondo e, malgrado un’enorme vergogna, mi sono rivolta a un club. Ho trovato però incomprensione e ostilità da parte di mio fratello e di mio padre che, visti i trascorsi familiari, mi hanno liquidata dicendo di aver “già dato”». Nel club Bianca ha trovato una seconda famiglia, che l’ha aiutata a ricostruirsi una vita. «Adesso non bevo da quattro anni, ho di nuovo un lavoro, e c’è stato anche un riavvicinamento con mio padre. Ma, certo, non avere vicini i miei cari mi ha reso tutto più difficile».

In casi simili, all’interno del club è prevista la figura di «familiari solidali» che affiancano la persona sola: possono essere amici o altre famiglie del club. «Si tratta di una forma di cittadinanza attiva, quella solidarietà intesa come interdipendenza fra individui di cui parlava Giovanni Paolo II nella Sollicitudo Rei Socialis: non una vaga compassione o un superficiale intenerimento per chi si ritiene “portatore” del problema, ma un’autentica condivisione, perché comprendo che potrei essere io a trovarmi al posto dell’altro», spiega Alberini. «Come dice la Sollicitudo, tutti siamo responsabili di tutti. E alla fine, come sanno bene i servitori insegnanti e i membri del club, partecipare agli incontri è per ciascuno fonte di benessere e arricchimento personale, e occasione per sviluppare nuove amicizie». Spezzando il cerchio della solitudine in cui l’alcol imprigiona.

Astinenza e sobrietà

L’approccio hudoliniano punta non tanto all’astinenza, cioè la rinuncia all’alcol, quanto alla sobrietà intesa come percorso di crescita e maturazione. «Se, ad esempio, uno smette di bere ma continua con i suoi vecchi comportamenti, in famiglia e fuori, significa che non è ancora sobrio», spiega Alberini. A cambiare stile di vita dovrebbe essere l’intera famiglia, sia smettendo di bere, per rispetto e sostegno alla persona, sia cercando di intervenire sulle dinamiche relazionali che sono causa/effetto del problema.

Non bisogna però pensare che i club siano la panacea per tutti i mali. Roberto, 60 anni, la maggior parte dei quali passati a bere, ci racconta: «Sono in un club da un anno e mezzo, e adesso sto bene, ma ho dovuto seguire un lungo percorso in cui è stato fondamentale l’appoggio che ho trovato al Sert (Servizio per le tossicodipendenze). Non credo che ce l’avrei fatta solo attraverso la solidarietà e l’amicizia che si creano nei club o in altri gruppi di auto aiuto». Dietro l’angolo c’è poi sempre il rischio di ricadute, anche dopo molto tempo. «Sono stato 15 anni senza bere, poi un giorno, convinto di aver superato definitivamente il problema, sono entrato in un bar per un bicchiere. Ma dopo il primo non sono riuscito più a fermarmi», racconta Giovanni. «Per fortuna l’esperienza passata mi ha fatto risuonare un campanello d’allarme, e dopo una settimana ho deciso di tornare al club, che avevo lasciato da un paio d’anni. Lì sono stato accolto a braccia aperte e ho potuto ricominciare».

Ma se è vero che i club non risolvono tutto, è anche vero che vantano percentuali di successo molto alte: l’astinenza media (superiore ai 3 anni) per quanti li frequentano regolarmente è infatti del 73%. «Un risultato notevole, visto che solo il 20% di chi si rivolge ai servizi pubblici riesce a smettere di bere», osserva Alberini. «Inoltre, in tempi di crisi e tagli alla sanità, un metodo come quello dei club, praticamente a costo zero, andrebbe diffuso in maniera capillare su tutto il territorio».

Stefania Garini




A mani nude

 

Un cantiere sul fiume Yamuna a Kalindi Kunj, periferia sud-est di Nuova Delhi. Lo Yamuna e’ considerato uno dei fiumi piu’ inquinati al mondo.
Un cantiere sul fiume Yamuna a Kalindi Kunj, periferia sud-est di Nuova Delhi. Lo Yamuna e’ considerato uno dei fiumi piu’ inquinati al mondo.

I Valmiki, fuori casta, sembrano avere il destino segnato. Vuotare le latrine private. Qualcuno cerca di opporsi e liberarli da una vita tra le più degradanti. Ma la tradizione è più forte della legge. E della religione. Reportage dall’India.

Fino al matrimonio, Meena non era mai stata del tutto cosciente di essere una Dalit, ovvero un’intoccabile. Per l’esattezza, una Valmiki, cioè membro di un gruppo di fuoricasta che occupa i gradini più bassi nell’intricata gerarchia sociale induista. Lo erano i suoi genitori, ma lei si era sempre presa cura dei fratelli minori e non li aveva mai seguiti nei loro giri mattutini.

Uno scorcio della stazione di Old Delhi, usata da molti come tornilet a cielo aperto
Uno scorcio della stazione di Old Delhi, usata da molti come tornilet a cielo aperto

Una volta diventata madre, ha cercato lavoro, ma ha scoperto che non c’erano possibilità per una Valmiki come lei, se non pulire latrine. Per 15 anni, ogni giorno, ha così percorso le strade di Ramnagar, un sobborgo alla periferia Est di Nuova Delhi, reggendo sulla testa una cesta di vimini traboccante di escrementi umani. Lavorava per dieci famiglie della zona e cominciava il suo giro all’alba. Le facevano trovare la porta posteriore aperta. Lei si dirigeva in silenzio verso la latrina di casa e raccoglieva le feci aiutandosi con una scopetta o, a volte, a mani nude. Poi si spostava in un’altra casa. A fine mattina, svuotava il contenuto della cesta in una fogna aperta.

In cambio, ogni famiglia le versava 20 rupie al giorno (meno di 50 centesimi di euro, ndr), ma non sempre. A volte pagavano in ritardo, altre non pagavano affatto. Ma tutti le lanciavano i soldi a distanza.

La prima volta

Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi
Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi

Il primo giorno lo ricorda bene. Il tanfo proveniente dalla sua stessa pelle le ha aggredito le narici, lei ha provato a reprimere i conati di vomito, ma invano. Le vertigini l’hanno sopraffatta, e il contenuto della cesta le si è riversato addosso. I passanti le giravano al largo, guardandola furtivamente e procedendo oltre. Trattenendo il respiro fin quasi a soffocare ha raggiunto una pompa d’acqua nel cortile di una casa. Alle prime gocce spillate, è sbucata la padrona, che le ha urlato contro. «Quella donna apparteneva alla casta dei Brahmini, e quella era l’acqua con cui lavavano il tempio», ricorda oggi Meena. «Una come me l’avrebbe contaminata».

Come lei, secondo un rapporto del 2014 di Human Rights Watch, esistono tuttora nel paese almeno 300mila famiglie. Donne e uomini che sopravvivono con la pratica della raccolta manuale di rifiuti umani, nota come «manual scavenging». E questo nonostante una legge approvata dal parlamento indiano nel settembre 2013 l’abbia messa al bando, e una sentenza della Corte suprema del marzo 2014 abbia richiamato gli stati indiani a far rispettare la legge e ad avviare programmi di «riabilitazione» per i raccoglitori manuali.

Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi
Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi

Secondo Bezwada Wilson, fondatore e leader di Safai Karmachari Andolan (Ska), un’organizzazione che si batte per l’eradicazione della pratica della raccolta manuale, le leggi non bastano. «L’India si muove sempre in due opposte direzioni: il rispetto della Costitutione e la nostra cultura. E quest’ultima ruota attorno al sistema delle caste, che permea tutta la società indiana».

Figlio di raccoglitori manuali lui stesso, Bezwada ha abbracciato la battaglia contro la discriminazione di casta dopo aver letto «L’abolizione delle caste», un pamphlet scritto da Br Ambedkar nel 1936.

Oltre le caste

Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi
Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi

Una foto del primo intellettuale dalit indiano campeggia nell’ufficio di Bezwada, a Nuova Delhi, e in case dalit in tutto il paese. Il tema delle caste è stato al centro di una polemica, cruciale per le sorti dell’India, che Ambedkar, sconosciuto all’estero, ebbe con il ben più noto Mahatma Gandhi. Per quest’ultimo le caste erano il collante della società indiana, mentre per il primo cristallizzavano le strutture di potere, legittimando sopraffazioni e abusi.

Meena, un’ex manual scavenger di Nand Nagri che oggi conduce un risciò- taxi. New Delhi.
Meena, un’ex manual scavenger di Nand Nagri che oggi conduce un risciò- taxi. New Delhi.

Negli ultimi decenni, personalità dalit sono emerse nella politica indiana, ma le violenze di casta continuano, e i dati, quelli noti per lo meno, sono raggelanti: secondo l’Ufficio nazionale delle statistiche sul crimine, tredici Dalit sono assassinati ogni settimana, e almeno quattro donne dalit sono stuprate da membri di caste superiori ogni giorno. «Lo stupro di una donna dalit non è sempre percepito come un crimine», spiega Bezwada. «Per alcuni uomini di casta superiore, stuprare una Dalit è addirittura un modo per purificarla».

Soprattutto nel Nord dell’India, i Dalit sono associati ad attività che hanno a che fare con la materia organica, residuale: tagliano i capelli, trattano i cadaveri, conciano le pelli, puliscono latrine.

La raccolta manuale dei rifiuti umani è l’aspetto più evidente che alimenta l’intoccabilità, attraverso il contatto con liquami impuri che grondano tra i capelli, impregnano gli abiti, scivolano sulla pelle. La questione dei raccoglitori manuali s’intreccia così sia con la condizione dei fuoricasta che con le problematiche dell’igiene.

Meena, un’ex manual scavenger di Nand Nagri a casa sua. New Delhi.
Meena, un’ex manual scavenger di Nand Nagri a casa sua. New Delhi.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), circa la metà della popolazione indiana pratica ancora la defecazione all’aperto. Nelle aree rurali e nelle baraccopoli urbane, dove mancano fogne e fosse asettiche, le famiglie usano latrine a secco o le cosiddette wada, aree comunitarie che richiedono una pulizia manuale. Quando nel 2014, Narendra Modi è stato eletto primo ministro, ha annunciato una campagna nazionale per modeizzare la situazione sanitaria indiana. Da allora, le amministrazioni locali hanno messo a disposizione della popolazione dei fondi per l’acquisto di articoli sanitari. Ma sono molte le famiglie in povertà che riscuotono il contributo senza però cambiare le proprie abitudini igieniche, e continuano ad affidarsi ai Valmiki.

Puro e impuro

Una donna Dalit, ed ex manual scavenger, impegnata in un’attivita’ di riabilitazione creata dall’organizzazione per i diritti umani Safai Karmachari Andolan (SKA) a Ghaziabad, a nord di Delhi. Qui le donne lavorano in una cornoperativa sociale che produce borse per ottenere un reddito.
Una donna Dalit, ed ex manual scavenger, impegnata in un’attivita’ di riabilitazione creata dall’organizzazione per i diritti umani Safai Karmachari Andolan (SKA) a Ghaziabad, a nord di Delhi. Qui le donne lavorano in una cornoperativa sociale che produce borse per ottenere un reddito.

Secondo l’antropologo Assa Doron, non è solo una questione di latrine: la dicotomia tra puro e impuro è alle fondamenta dell’induismo. La pratica dei raccoglitori manuali appare difficile da sradicare perché crea, attraverso la degradazione e l’umiliazione dei Valmiki, la base materiale della rigida piramide sociale induista. Ma la religione è solo una delle lenti attraverso cui osservare il fenomeno.

A Durga Kund, un sobborgo di Varanasi, cuore della spiritualità induista, lo conoscono tutti come Safai Basti, il quartiere dei raccoglitori manuali. L’agglomerato di case basse sorge a poca distanza dal tempio principale, celebre per l’intonaco rosso fuoco che si staglia sul cielo dell’Uttar Pradesh, ma è distinto dall’abitato circostante come un’isola in mezzo al mare. Su quasi la metà delle centinaia di abitazioni spicca una croce. Molti dei Valmiki che vivono nella baraccopoli ammettono che, con la conversione al cristianesimo, speravano di sfuggire ai propri obblighi di casta. Come Saroch, oggi 40enne, rimasta orfana quando aveva 14 anni.

Una donna Dalit, ed ex manual scavenger, impegnata in un’attivita’ di riabilitazione creata dall’organizzazione per i diritti umani Safai Karmachari Andolan (SKA) a Ghaziabad, a nord di Delhi. Qui le donne lavorano in una cornoperativa sociale che produce borse per ottenere un reddito.
Una donna Dalit, ed ex manual scavenger, impegnata in un’attività di riabilitazione creata dall’organizzazione per i diritti umani Safai Karmachari Andolan (SKA) a Ghaziabad, a nord di Delhi. Qui le donne lavorano in una cornoperativa sociale che produce borse per ottenere un reddito.

Racconta di aver provato a ribellarsi, rifiutando di seguire le orme dei genitori, ma nella comunità cominciò a circolare la voce che praticasse la magia nera. Si avvicinò così a una chiesa evangelica, immaginando che abbracciare una nuova fede avrebbe cambiato la sua vita. E invece rimase una Valmiki anche tra i nuovi confratelli cristiani, incapace di scrollarsi di dosso la sua identità di casta e trovare un lavoro diverso.

Inoltre, essendosi convertita, perse anche il diritto ad accedere al sistema di quote previsto nell’amministrazione pubblica per i Dalit. Saroch, anche se cristiana, riprese in mano la cesta di vimini dei genitori.

Una mamma pulisce la sua bimba nella sua casa a Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.
Una mamma pulisce la sua bimba nella sua casa a Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.

Il sistema delle caste che plasma il presente e il futuro dei Valmiki va così oltre l’induismo: riguarda anche cristiani, musulmani e, in misura minore, buddisti. È stato addirittura rinvigorito dall’apertura del paese al libero mercato. Come spiega Ramesh Nathan, segretario generale del Movimento nazionale dalit per la giustizia, l’ondata di privatizzazioni degli anni ’90 ha creato un sistema di appalti che premia gli imprenditori capaci di tagliare al massimo i costi. Un caso esemplare è quello della rete ferroviaria indiana, un gigante di 65.000 km su cui 14.300 treni trasportano 25 milioni di passeggeri ogni giorno. Gli scarichi l’hanno resa la latrina a cielo aperto più grande del mondo. Per ripulire i binari, le società private impiegano la manodopera più economica sul mercato: gli uomini valmiki. La servitù di casta si sposa così con la logica neoliberista.

Difficile uscie

Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.
Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.

Per le donne valmiki, impegnate soprattutto nella pulizia di latrine in case private, Ska ha avviato dei programmi di sostegno economico. A Ghaziabad, un villaggio a Nord di Delhi, una trentina di donne cuciono borse vendute nel circuito del commercio equo e solidale. L’età è varia, ma condividono esperienze simili. C’è chi ha praticato la raccolta manuale dall’adolescenza e chi ha cominciato dopo il matrimonio perché così faceva la famiglia del marito. Hanno abbandonato da poco l’attività ma molte continuano a soffrire l’umiliazione degli avanzi di cibo lanciati in una busta, o dell’acqua negata, o della loro stessa identità ridotta alle ceste che trasportano sul capo.

Nelle manifestazioni organizzate per richiamare l’attenzione del governo sul dramma delle donne valmiki, quelle ceste hanno alimentato dei falò, ma c’è chi non esclude la possibilità di tornare al lavoro di raccoglitrice manuale: anche chi si dice felice della nuova attività non riesce a liberarsi dal timore di essere prigioniera di un destino già tracciato.

Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.
Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.

Lo stesso fatalismo è espresso da Leela, che abita a pochi passi dalla casa in cui Meena vive con il marito e una figlia a Ramnagar. «Perché non sono riuscita a trovare un altro lavoro? Forse perché non era destino». Continua a pulire latrine nella zona, aiutata talvolta dalla figlia e dal figlio, mentre il marito lavora per una società che si occupa della manutenzione delle fogne. Un tempo si accompagnava a Meena, ma da un anno Meena ha preso un’altra strada: grazie all’aiuto di Ska ha ricevuto un risciò elettrico per il trasporto passeggeri. Leela nota che la vita di Meena è cambiata: sembra più sicura di sè e, anche se continua a subire discriminazioni, non ha più paura. «Dopo aver bruciato la sua cesta di Valmiki – dice Meena – non è certo il traffico di Nuova Delhi a spaventarmi».

Gianluca Iazzolino


Gianluca Iazzolino, africanista, è collaboratore di MC. | Eloisa d’Orsi, fotogiornalista freelance, collabora con diverse testate. I suoi ultimi lavori riguardano le frontiere in area Schengen (www.eloisadorsi.com).




Guerra, minerali e code di maiale

 

 Gli stati dell’Unione birmana da sempre in guerra sono quelli con maggiori risorse. Sembra impossibile che paesaggi tanto belli, abitati da gente tanto vivace e attiva, siano stati, e in certi casi siano ancora, teatri di guerra e violenze.
La seconda parte del racconto di viaggio della nostra corrispondente si snoda nelle terre meno turistiche, perché più colpite dal regime, in cui si attende con speranza il cambiamento.

Ho deciso di spostarmi nell’estremo Sud Est del Myanmar, nella regione del Thanintharyi, al tempo degli inglesi conosciuta come Tenasserim. Sull’aereo che mi porta a Myeik incontro Leon, ingegnere cinese. Siamo gli unici visitatori di questa antica città di commerci, famosa da secoli per il suo porto. Raggiungiamo insieme la guest house, poi scendiamo a piedi verso il lungomare. La vista del fango nero, dell’immondizia e della plastica sul bordo mare mi urta. L’aria è calda e umida, il cielo grigio, ma la gente è vivace e attiva. Lo si deduce dal traffico di moto che rende difficile attraversare le strade.

Incontriamo Michel, ragazzo dall’aspetto sveglio, che si offre di accompagnarci nei dintorni. Visitiamo gli allevamenti di aragoste, esportate in Cina, Hong Kong e Singapore, e di pipistrelli, venduti a caro prezzo. Queste sono attività che, con le miniere e la pesca, danno ricchezza alla città.

Michel, il suo vero nome è Thu Yain Tun, lavora da quando aveva dieci anni. Ha imparato a fare il falegname e il meccanico. Dato che era bravo a scuola, lo hanno mandato per tre anni a Yangon: ora parla benissimo l’inglese e dà lezioni, anche nella scuola della Chiesa battista.

LOIKAW (25)

Tenasserim

La regione Thanintharyi è ricca di minerali preziosi come oro e platino. Al tempo della colonia, la sua produzione di zinco copriva il fabbisogno indiano. Per molti anni è stata off limits per gli stranieri perché in pochi conoscono l’inglese. John Kin Maung, un anziano ottantaseienne, invece lo parla molto bene. «La mia famiglia era originaria del Tamil Nadu, India – mi spiega -. Gli inglesi avevano bisogno di forza lavoro, non riuscivano a far lavorare i birmani, che non erano motivati». John ricorda con piacere la sua Convent school. «Quando c’erano gli inglesi tutto funzionava bene e le scuole cattoliche davano una buona istruzione. Quelle statali invece sono tuttora di livello molto basso. Si è cominciato a insegnare l’inglese quando la figlia del generale Ne Win, che studiava medicina, aveva voluto andare a Londra e si era scoperto che non era preparata». Scuote il capo e mi invita a casa sua, dove abita con figlia e nipoti. La sera, prima di cena, un gruppo di giovani si raduna per fare conversazione in inglese. Sono ragazzi svegli, curiosi. Hanno tutti lo smartphone e ci mettiamo a cantare le vecchie canzoni americane dei pionieri.

Per il fine settimana sono previste due celebrazioni. La prima è l’Union day, giornata simbolo di un paese diviso. Domani sarà il 13 febbraio, anniversario della nascita del generale Aung San, padre di Aung San Su Kyi.

Scopro che John ha una moglie che vive a Nay Pyi Taw, la nuova faraonica, assurda capitale del paese. Dopo 12 anni di carcere duro, nello stesso periodo in cui Aung San Su Kyi era ai domiciliari, lei ora è parlamentare del partito National League for Democracy. «Non ci vediamo molto. Raramente mia moglie viene a Myeik».

Matrimonio karen

MIEYK-Mergui_Padre Gregory(33)Gregory è il giovane vice parroco di Myeik. Nato in un villaggio karen della regione che ha visto violenze inaudite durante la dittatura, a dieci anni fu inviato a Yangon per studiare. Il padre fu ucciso dall’esercito governativo un decennio fa nel suo villaggio, mentre cercava di difenderlo.

Ci sono sette moschee a Myeik, porto importante da almeno cinque secoli. La grande pagoda dorata sulla collina fin dall’alba è meta di fedeli che pregano e porgono offerte al Buddha. Oggi sono invitata a un matrimonio karen nella Chiesa battista, quella che è riuscita a fare più proseliti nel paese sin dall’ottocento. Arrivo che la cerimonia è già terminata e si sta facendo colazione, nel cortile tra la chiesa e il dormitorio dei ragazzi. Sono i Pwo Karen, tutti in costume bianco rosso e blu. Amici e parenti sono arrivati da Yar Aye, una delle isole che punteggiano la costa Sud Est del Myanmar e formano l’arcipelago Mergui. Sono agricoltori e pescatori e hanno viaggiato per otto ore su barche veloci. Con la marea bassa non si può partire: il mare qui è molto basso, oltre che caldissimo.

La mamma della sposa è una bella donna dall’aria serena: ha sei figli. La maggiore, di 39 anni, vive sull’isola e dirige la scuola per i sei villaggi. Gli altri figli hanno studiato e trovato lavoro a Yangon.

myieik karen wedd MIEYK (111)

Loikaw, stato Kayah

Dall’aeroporto di Yangon sono partita per Loikaw, la capitale dello stato Kayah, il più piccolo del Myanmar, ma il più ricco di tradizioni ed etnie: Kayah, Kayoh, Karenni, Pa O, Kayen, Shan. Il bimotore a elica con 18 passeggeri si alza in volo su una coltre di polvere rossiccia, il colore di questo paese durante la stagione secca. Sorvolando Yangon noto la rete di canali che consente l’irrigazione delle risaie, verdissime.

Brenda è una giovane olandese, unica straniera, oltre me, sul volo: lavora per una Ong che opera a Loikaw, città aperta ai visitatori individuali da pochi mesi. La città si trova a circa 1000 metri di altitudine, circondata da monti e ricca di orti e giardini. Fa caldo, siamo sui 36°, ma verso sera la temperatura si abbassa molto. Esco dalla Guest house dell’Amicizia in cui sono alloggiata e sulla via principale trovo pronta una grigliata di spiedini vari: verdure, patate, pesci e code di maiale. La cuoca è abile, spennella gli spiedini con una salsa piccante e il prezzo molto basso: un dollaro.

U Soe Htwe è il padrone di casa che mi accoglie con grande gentilezza. È molto prudente nel parlare della difficile situazione di questa regione. U Soe aveva studiato ingegneria a Yangon, e nel 2002, ma a causa della guerra, ha dovuto lasciare il suo lavoro nelle miniere dello stato Kayah. Le due figlie sono riuscite a emigrare negli Usa, dove lavorano come infermiere, e la casa di famiglia è stata trasformata in pensione. Dei figli maschi, uno lavora a Nay Pi Taw, l’altro è rimasto in casa, con la famiglia. La moglie di U è una signora molto attiva in un’associazione per la promozione della donna birmana, ed è spesso in viaggio per Nay Pi Thaw. Nella locanda, immagini di Aung San Su Kyi sono appese ovunque. Gli altri ospiti sono quasi tutti operatori di Ong e volontari. I soli turisti sono una giovane armena di Boston e un canadese con i quali combino una gita nei dintorni. Il nostro autista è un geologo colto, che ha perso il suo lavoro in miniera anch’egli nel 2002. Ci porterà nelle vallate dove vivono le donne Padaung. Qui anche le bambine portano gli anelli al collo e vivono molto meglio delle loro sorelle senza anelli. Hanno case pulite e vendono monili e sciarpe colorate. Stanno anche asfaltando la strada che porta nei loro villaggi sulle montagne, rimasti isolati finora. Non vedo turisti.

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Chiese

Loikaw ha alcune belle pagode, ma quello che colpisce è il numero delle chiese cattoliche. Una nuova cattedrale è stata costruita in stile locale, con decorazioni dorate, in contrasto con la semplice chiesa dei primi missionari.

Frequento la parrocchia di san Giuseppe, situata non lontano dall’ospedale nuovo, donato dai giapponesi. Partecipo alle funzioni del pomeriggio e conosco il parroco, padre Giulio, un Karen molto ospitale che mi offre gustose fette di mele e si propone di portarmi a visitare i villaggi dove i missionari del Pime, molti anni fa, hanno portato il Vangelo. «Arrivavano a piedi, da Taungoo, 500 km di strade impervie. Si era ai primi del Novecento. Hanno vissuto come i nostri contadini, lavorando la magra terra di queste montagne». Terra povera per coltivare, ma ricchissima di minerali, oro e pietre preziose.

Padre Galbusera è morto nel 2000, aveva 89 anni. La prima tappa la faremo nel villaggio in cui operò, dove troviamo la sua tomba ricoperta di fiori bianchi. Visitiamo alcune chiese, incontriamo i parroci. Avevo notato povertà nei villaggi, ma quando facciamo visita alla zia di Giulio, mi rendo conto del dramma di questa gente. Non c’è acqua, né luce, mentre nei grandi complessi militari che troviamo lungo la strada arriva luce, telefono, tutto. La zia ha 86 anni, un viso nobile, asciutto come tutto il corpo. I piedi credo non abbiano mai visto scarpe, veste una maglia piena di macchie, un loungji e un turbante. Ha avuto dieci figli, di cui quattro morti. Una figlia si avvicina, anche lei ha dieci figli di cui due morti. Un pronipotino le salta in grembo, li fotografo. Lei ci offre un sacchetto di foglioline. Si raccolgono da un albero e si cuociono col curry.

Nonostante tanta presenza cattolica, alcune piccole pagode spuntano sulle cime di questi monti ricchi di minerali. Gli stati birmani in guerra da anni sono proprio quelli più dotati di risorse naturali. Gli inglesi sapevano che questa era la loro colonia più ricca.

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Hpa An, stato Kayin

Ritoo a Yangon e prendo il bus per Hpa An, la capitale del Kayin, altro piccolo stato da sempre in guerra, abitato dai Karen. Mi aveva detto qualcuno: vai nel Nord, sulle montagne, a Hpa Pom, ti siedi in riva al fiume, e vedrai tutti i tipi di pietre preziose. Pare sia vero.

Continuo a conoscere persone che lavoravano nel settore: geologi, ingegneri minerari e altri che hanno perso il lavoro nel 2002, all’inizio della guerra.

Questa regione del Myanmar è meravigliosa. Siamo in una piana alluvionale, percorsa da un grande fiume, il Thanlwin, che scende dalle montagne della Cina, e finisce il suo corso nel mare delle Andamane. Nelle fertili risaie a perdita d’occhio vedo case coloniche ombreggiate da grandi alberi che ricordano il Tirolo. Le famiglie hanno tanti bambini che ci salutano. Pare impossibile che questo territorio sia stato per anni devastato dalla guerra. Le montagne sono guglie di calcare in cui si aprono profonde grotte in parte ricoperte da vegetazione dove gli abitanti hanno creato luoghi di culto buddhista. Ne ho vista una, grandiosa, dove si trovano stupa dorati, migliaia di buddha di ceramica, piccoli e grandi, serpenti sacri e le immagini dei Nat, gli spiriti ancora venerati dal popolo. Una lunga fila di monaci di pietra si allinea lungo la strada che conduce dalla grotta alla fonte miracolosa. La popolazione è buddhista-animista, ma il conducente del mio taxi sostiene di essere buddhista-cattolico. Al tramonto scendo sulla riva del fiume, quando i pescatori rientrano nei villaggi. Come la mattina, anche la sera si alzano fumi dalle case. Si bruciano i rifiuti, le foglie secche, e si accendono i fornelli per cuocere e friggere il cibo.

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Domenica delle Palme

Con qualche difficoltà riesco a trovare la chiesa cattolica della città. Mi siedo in un banco accanto a due giovani, Claire e Aye Pyone, che mi offrono le palmette che hanno intrecciato per la festa. Sono l’unica straniera e dopo la messa si avvicina un giovane prete, padre Ignazio. Ha trentanove anni ed è nato in un villaggio remoto nel Nord dello stato Kayin. La mamma è morta giovane, non si sa di cosa, perché non esiste assistenza sanitaria. Il papà era catechista e si recava nel villaggio materno, Le Too Po, per insegnare i canti. Là si sono conosciuti i suoi genitori. I villaggi e il Knu (Karen National Union) devono gestire le scuole, dove si parla la lingua kajin, molto diversa dal birmano. Qui gli alberi di teak sono stati tagliati da molti anni e non ricrescono più. Hpa An è diocesi dal 2009, prima dipendeva da Yangon. Davanti alla chiesa ci sono due belle case, una per le suore e l’altra per gli studenti dei villaggi remoti.

Campi profughi

Faccio colazione alla Guest House con ceci e chapati che la giovane moglie del padrone ha comprato al mercato. Khin Myo Thite è musulmana e appartiene al gruppo etnico più antico, i Mon, che ha dominato per secoli il paese. «Mio marito non sa l’inglese, appartiene alla generazione che non ha avuto la scuola superiore a causa della guerra». Da un anno la frontiera con la Thailandia, molto vicina, è stata riaperta. Arrivano da Bangkok giovani con zaino in spalla, e Khin dà loro una sistemazione e le indicazioni di cui hanno bisogno. Esco per andare a comprare frutta al mercato. Il pozzo davanti alla moschea è sempre attivo, con donne e uomini che riempiono i bidoni d’acqua. Sono in compagnia di Lillian, medico inglese che lavora da anni nei campi profughi in Thailandia. «Conosco il popolo del Myanmar – mi dice -, ora voglio conoscere il paese e rimango fino all’ultimo giorno consentito dal visto».

Parliamo dei campi profughi, dove vivono ancora molti birmani che sono stati cacciati dai villaggi. Vivere in un campo significa avere cibo, acqua e sanità, ma non è una vita normale. Difficile avere un lavoro, svolgere un’attività. Chi ha lasciato gli orrori della guerra non vuole più ritornare a casa.

Claudia Caramanti
(fine seconda parte – continua)

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L’atlante della giustizia ambientale


Nel mondo assumono sempre maggiore importanza i cosiddetti conflitti ambientali. Popolazioni locali, organizzazioni, singoli cittadini, reti di studiosi si oppongono a progetti «di sviluppo» dannosi per il territorio e rischiosi per la sostenibilità della vita sulla terra.
Da due anni esiste un atlante on line che offre un colpo d’occhio complessivo sui conflitti in corso nel mondo, e informazioni specifiche su ciascuno. Ecco il punto sui dibattiti riguardanti la giustizia ambientale e la sua rilevanza nel contesto globale.

Il rapporto di Global Witness del 20121 lancia un allarme sugli elevati livelli di violenza contro attivisti, cittadini e comunità rurali impegnati su tematiche ambientali e conflitti territoriali. Il titolo del rapporto, Deadly Environment (ambiente mortale), risveglia indignazione e ribellione nel lettore. Le cifre, negli ultimi anni, raggiungono il doppio zero: nel 2011, si è avuta la media di una vittima a settimana. I casi e numeri indicati nel report sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno complesso e diffuso, che sta coinvolgendo nuovi spazi, luoghi fisici e simbolici, e unendo gruppi sociali in una causa comune.

01 philippe leroyer Demonstration against the Notre Dame des Landes airport - 22Feb14, Nantes (France

Repressione crescente

Tanto in America Latina, Africa e Asia, come in Europa e Nord America, persone che si oppongono a attività estrattive come miniere, pozzi di petrolio e gas flaring2, a dighe, ma anche a discariche inquinanti e a grandi progetti di infrastrutture, subiscono una crescente repressione da parte di governi e milizie, in collusione con compagnie private e statali. Questi attivisti denunciano gli impatti sociali e ambientali del sistema economico estrattivo capitalista e il suo elevato metabolismo sociale. Nel suo ultimo libro3, Naomi Klein chiama Blockadia quelle azioni di opposizione, quei territori resistenti, come le remote foreste canadesi dove comunità di first nation (abitanti originari) bloccano la strada e impediscono la costruzione di oleodotti e gasdotti.

Piazza Taksim contro Erdogan

Turchia, Istanbul, Taksim Gezi Park 2013: gli abitanti della città sul Bosforo scendono in strada per difendere il parco cittadino più famoso della città, e mostrare la loro contrarietà al centro commerciale che dovrebbe sorgere al suo posto. In gioco non ci sono solo gli alberi del parco, ma una visione, un’idea politica di ciò che Istanbul deve offrire ai suoi cittadini. La contrarietà al mall e alla speculazione edilizia nell’area circostante si manifesta tra persone di diversa età ed estrazione sociale che, forse, mai nella loro vita precedente avevano pensato di scendere in strada o di partecipare ad azioni dimostrative. Per la prima volta in Turchia si trovano dalla stessa parte, e devono affrontare una dura repressione dello stato e delle forze dell’ordine. Nella discussione, emergono aspre critiche che mettono in difficoltà il governo di Recep Tayyip Erdogan.

Contro il bene comune

Dinamiche simili sono avvenute negli ultimi anni in Francia presso l’area dove sarebbe dovuto sorgere il nuovo aeroporto di Nantes, ribattezzata Zona da Difendere (Zad, dall’acronimo francese), a Stoccarda in merito alla paventata ristrutturazione della stazione dei treni, per non parlare della Val Susa e della decennale opposizione al Tav. Trasporti e infrastrutture, ma anche energia e industria estrattiva, sono al centro di intensi dibattiti e opposizioni in Europa, tra sostenitori di una politica espansiva e di grandi appalti per rilanciare l’economia e coloro che si oppongono a questa ideologia di sviluppo per i suoi impatti sociali ed ecologici e alla dominazione di potenti lobbies economiche e politiche.

Notizia dell’inizio del 2015, per esempio, è il cosiddetto Piano Junker, che sta investendo 315 miliardi di euro in grandi infrastrutture in Europa, con la creazione di un nuovo Fondo europeo per gli investimenti strategici (Efsi) e il coinvolgimento della Banca Europea degli Investimenti (Bei). Trasporti ed energia sono due colonne portanti del piano e rappresentano la maggior parte dei progetti candidati, cosiddetti di «interesse comune» (Pic). I criteri decisionali e di valutazione dell’opportunità o meno di aprire cantieri, e da parte di quale impresa, non sono chiari e certamente non sono frutto di una discussione democratica e informata in ciascun paese membro.

I trattati di cosiddetto «libero» commercio dell’Unione europea con partner di altri continenti, come il Ttip (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, cfr MC ottobre 2015, p. 64) con gli Stati Uniti o il Ceta (Accordo economico e commerciale globale) con il Canada, sono un altro cardine del meccanismo che porta le istituzioni a smettere di perseguire il bene pubblico a favore della concentrazione della ricchezza in mano di pochi.

Nuove forme di mobilitazione

Critiche al modello di accumulazione di ricchezza e impunità si stanno diffondendo in modo trasversale tra gruppi sociali distinti: l’opposizione alle esplorazioni per fracking4, per esempio, ha fatto il suo ingresso nei salotti della classe media in Polonia, mentre il caso della miniera di oro a Ro?ia Montan?, che prevederebbe la rimozione di diverse montagne nel territorio degli Apuseni (Monti del tramonto), parte della catena dei Carpazi occidentali, ha risvegliato la società civile rumena in quello che è considerato il più grande movimento civico del paese dopo la rivoluzione del 1989.

Tali mobilitazioni creano forti legami nazionali e inteazionali, e spesso azioni congiunte, tra comunità locali che subiscono le conseguenze sociali e ambientali di una stessa attività, o gli abusi di un’impresa.

I progetti di Enel-Endesa, per esempio, sono stati contestati dalla Patagonia cilena (contro i progetti idroelettrici nella regione australe) al Guatemala (contro la centrale idroelettrica di Palo Viejo), alla Colombia (contro quella di El Quimbo). Ma anche in Spagna, per la rete d’alta tensione (Mat), e in Italia, sul Monte Amiata (Grosseto) e a Porto Tolle (Rovigo). La rete italiana Stop Enel sta intentando un cornordinamento fra i comitati in Italia, e scambi con comunità estere che vivono nelle località coinvolte dai progetti dell’azienda.

La rete di Oilwatch attenta al tema dell’estrazione di petrolio, o l’alleanza Gaia sulle alternative all’incenerazione dei rifiuti, o ancora la Campagna Internazionale contro l’Impunità delle Multinazionali, sono altri esempi di azioni di pressione congiunte su governi, istituzioni e imprese private a livello globale.

Mining conflicts in Latin America_EJAtlas

L’atlante globale della giustizia ambientale

Per fornire nuovi strumenti e metodologie di ricerca, accademici e organizzazioni per la giustizia ambientale hanno creato l’«Atlante Globale della Giustizia Ambientale» (Ejatlas, Environmental Justice Atlas), all’interno del progetto di ricerca Ejolt (Environmental Justice Organizations, Liabilities and Trade), cornordinato dall’Università Autonoma di Barcellona. L’atlas è stato lanciato online nel marzo 2014, ed è in costante espansione; oggi conta più di 1.600 casi di conflitti socio-ambientali in tutto il mondo5. Vi si trovano informazioni circa mobilitazioni, campagne, petizioni e conflitti a livello locale, su progetti industriali, infrastrutture urbane, centrali elettriche per le quali si siano registrate istanze d’opposizione e forti critiche da parte di comunità locali, residenti dell’area, comunità scientifica o internazionale.

L’Ejatlas dimostra che esiste una presa di coscienza presso comunità in tutto il mondo rispetto alla difesa di un ambiente che non è costituito solo da parchi naturali e zone delimitate da conservare, ma è il fondamento della vita e della sua continuità. Descrive i tratti comuni di tanti movimenti sociali che vedono nello sfruttamento ambientale i rapporti di potere tra governi, imprese e comunità locali, in linea con il fenomeno che Henri Acselrad, professore della Universidade Federal do Rio de Janeiro (Ufrj), chiama environmentalization (ambientalizzazione) delle lotte sociali. L’Ejatlas dimostra infine che non si tratta di movimenti «nimby» (not in my backyard, non nel mio cortile), come alcuni sostengono (tra cui il think tank italiano Nimby Forum), ma di genuini movimenti di solidarietà tra comunità anche molto distanti e diverse tra loro, benché certamente la mobilitazione di solito inizi per ciascuno nel proprio territorio, per ragioni di affezione emotiva e conoscenza delle sue caratteristiche. L’Ejatlas rende più evidente che quanto risulta nocivo alla salute a Ponte Galeria (frazione di Roma Capitale), lo è anche nella discarica di Dandora a Nairobi, e che la repressione violenta di cittadini della Val di Susa segue la stessa logica di controllo e imposizione che sta dietro la costruzione di dighe nei territori indigeni del Guatemala.

Fracking Frenzy_EJAtlas

Recuperare i saperi locali

Molti studiosi, tra cui l’economista ecologico Joan Martinez Alier, cornordinatore scientifico dell’Ejatlas, sostengono che sia già in corso un’alleanza tra movimenti ambientalisti e coloro che spingono verso una ridefinizione dei rapporti economici, produttivi e commerciali ispirati da concetti di equità sociale e rispetto. Se pensiamo alle proposte della Decrescita, così come a quelle dell’agroecologia, della riconversione urbana, ai gruppi di co-produzione tra famiglie e agricoltori, questo diventa evidente.

Lo storico italiano Marco Armiero, osservando che la convergenza fra giustizia ambientale, il movimento altermondialista, e le comunità di base è avvenuta già da tempo, al di là delle pubblicazioni scientifiche, sembra lanciare un appello al mondo accademico perché ne prenda coscienza e inizi a parlarne. Uno degli obbiettivi principali del progetto è proprio quello di superare, nell’ambito della giustizia ambientale, la visione dicotomica tra il sapere «scientifico» e quello «popolare», soprattutto in relazione a questioni vitali e a volte incerte come gli impatti socio-ambientali, oltreché sanitari ed economici, di un mega progetto minerario o energetico o dei trasporti, e così via. Infatti gli interessi corporativi e politici, insieme a un sapere troppo «istituzionale», hanno drammaticamente negato la partecipazione dei diretti interessati alle decisioni, silenziando i saperi locali, propri ad esempio di culture indigene, comunità montane, di piccoli pescatori, di agricoltori, che custodiscono un grosso patrimonio di conoscenze sul territorio e sulle sue fragilità. Recuperare tali saperi, riconoscere la loro dignità e integrarli nei criteri «scientifici» ufficialmente riconosciuti, deve essere un obiettivo del mondo accademico e universitario, e la metodologia di ricerca in Ejolt spinge in questa direzione. Una volta che tale frontiera tra saperi si vedrà sfumata, si indebolirà anche il sistema che concede potere a un attore piuttosto che all’altro, agli investitori di una grande multinazionale del petrolio piuttosto che al rappresentante scelto democraticamente di una comunità, ad esempio, nel Delta del Niger.

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Per una geografia dell’eguaglianza

L’uso delle mappe è considerato di estrema importanza per la visualizzazione di questo sapere e di una geografia dell’ineguaglianza. Se diamo un’occhiata all’Ejatlas, scopriamo storie sconcertanti che riguardano anche paesi insospettabili, come quella dell’uccisione di un giovane nell’ottobre 2014 durante la repressione di una pacifica manifestazione presso la diga di Sivens nella democratica Francia. Il logo dell’Ejatlas, che rappresenta un mondo «rovesciato», simboleggia proprio la messa in discussione dello status quo del sapere e del potere geopolitico. Esponenti della cartografia critica hanno fatto notare come le mappe siano state strumento di oppressione e conquista di territori attraverso la costruzione di un determinato sapere geografico. Secondo il geografo Nietschmann, «è stato conquistato più territorio degli indigeni attraverso mappe che con armi». Ma possiamo sperare che le mappe aiutino ora a riformulare il sapere per rispettare una maggiore giustizia ambientale. L’Ejatlas dà il suo contributo in tale direzione.

Daniela Del Bene


NOTE:

1 Http://www.globalwitness.org/sites/default/files/A_hidden_crisis.pdf

2 È la pratica di bruciare il gas naturale in eccesso estratto insieme al petrolio. Ogni anno se ne bruciano nel mondo 140 miliardi di metri cubi: realizzare infrastrutture per utilizzarlo, infatti, comporterebbe un notevole costo. Si tratta di una quantità di gas pari al 30% di quello utilizzato dall’Unione europea, superiore al consumo attuale annuo dell’intera Africa.

3Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile (titolo originale: This chan­ges eve­ry­thing. Capi­ta­lism vs. the cli­mate), Milano, Rizzoli, 2015.

4 La tecnica del fracking, o della fratturazione idraulica, consiste nel liberare gas o petrolio contenuti nel sottosuolo in rocce impermeabili tramite la loro fratturazione. I rischi ambientali di questa tecnica sono molti: consuma enormi quantità di acqua; nel processo vengono impiegate sostanze chimiche che possono contaminare le falde sotterranee; non sono completamente evitabili fughe di gas metano, che si disperde nell’atmosfera.

5 Tra i partner del progetto che maggiormente hanno contribuito alla mappatura dei casi attuali e storici, il Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali (Cdca), che ha pubblicato anche una mappa dell’Italia, Fiocruz e la Rete Brasiliana di Giustizia Ambientale hanno contribuito su salute e ambiente in Brasile, l’Osservatorio Latinoamericano sui Conflitti Minieri ha contribuito sull’espansione del settore in America Latina e Caribe, il World Rainforest Movement su sfruttamento forestale e piantagioni, Accion Ecologica dell’Ecuador e Oilwatch su estrazione e inquinamento da attività petrolifere, per nominae solo alcuni.


Daniela Del Bene
Dottoranda in Scienze Ambientali presso l’Università Autonoma di Barcellona e co-editrice dell’Ejatlas, membro della Xarxa per la Sobirania Energetica (Xse), Catalogna, Spagna.


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Un atlante costruito con il contributo di tutti

L’Atlante globale della Giustizia ambientale (Ejatlas), nell’ambito del progetto Ejolt (Environmental Justice Organizations, Liabilities and Trade), cornordinato dall’Università Autonoma di Barcellona, è nato per costruire una base di dati a livello globale tramite una piattaforma online costruita in maniera congiunta tra ricercatori, organizzazioni locali ed esponenti di movimenti. I singoli conflitti ambientali sono narrati attraverso una ricca scheda tecnica che include le ragioni economico-produttive alla loro base, le tendenze degli investimenti nel settore, gli impatti del progetto, gli attori del conflitto e le caratteristiche della mobilitazione da parte degli oppositori.

Chiunque sia interessato a contribuire alla mappa mondiale e ha accesso a dati su vertenze locali, può iscriversi alla pagina web http://ejatlas.org/accounts/new o contattare il gruppo di ricerca dell’Ejatlas all’indirizzo ejoltmap@gmail.com.

Per contribuire all’Atlante italiano, può inserire i propri dati nella pagina web http://atlanteitaliano.cdca.it/accounts/new. I dati relativi a ogni caso vengono raccolti attraverso una scheda di circa 100 voci, contenenti sia dati qualitativi che quantitativi, e esaminati attraverso un processo di moderazione e validazione delle informazioni. Una volta geolocalizzato sulla mappa, il caso viene pubblicato online e reso disponibile al pubblico per commenti e feedback. In qualsiasi momento il caso potrà venire aggiornato o arricchito di ulteriori informazioni. In alcuni casi poi, dati geografici vengono applicati alle mappe per permettere analisi spazio-geografica e mappe tematiche.

Daniela Del Bene


ejatlas-logoEJAtlas

Questo è il primo articolo di una collaborazione fra la rivista Missioni Consolata e l’Ejatlas. Nei prossimi numeri verranno pubblicate storie e analisi di alcuni dei conflitti ambientali che compaiono nella mappa. Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’atlas le relative schede informative.

www.ejatlas.org
www.ejolt.org
http://atlanteitaliano.cdca.it