Timor est piccoli imprenditori crescono


Un piccolo paese, indipendente dal 2002, con appena 1,2 milioni di abitanti, in maggioranza cattolici, cerca di uscire dalla povertà e dall’isolamento. Vi raccontiamo le storie di alcuni giovani imprenditori locali.

«Adoro cucinare all’aria aperta. Mi piace che le persone possano vedermi mentre preparo i miei piatti. Questo crea un rapporto più diretto tra me e loro». A bordo di un pick up di seconda mano Cesar Gaio passa le sue giornate lungo le ventose strade che costeggiano il mare di Dili, fermandosi nelle zone più affollate per vendere deliziosi wrap. Una piccola cucina a gas montata sul retro del furgone gli basta per preparare questi sandwich fatti con morbido pane basso arrotolato intorno a un ripieno di patate dolci viola e pesce fresco. La scritta «Dilicious Timor» che si legge sulla fiancata del camioncino è la stessa che si trova sull’insegna del piccolo ristorante che ha aperto alcuni mesi fa, sempre vicino alla costa, nella capitale di Timor Est. E anche nel suo locale vengono serviti esclusivamente piatti preparati con prodotti freschi del luogo.

Cesar Gaio ha 32 anni, le idee chiare e la voglia di costruire qualcosa di stabile per sé e per il suo paese. È uno dei sempre più numerosi giovani imprenditori che, tra mille difficoltà, hanno deciso di scommettere sulle risorse e la popolazione locale per avviare attività che possano trascinare l’isola in cui è nato e cresciuto fuori dal baratro del sottosviluppo e della povertà in cui secoli di dominazione portoghese e 25 anni di occupazione indonesiana l’hanno sprofondata. La sua storia, raccontata dal sito latestnews24, dimostra che gli abitanti di Timor sono chiamati ad affrontare quotidianamente problemi di ogni sorta ma non hanno perso la speranza nel futuro.

Un caffè da Gally

L’anno scorso Gally Soares Araujo ha lasciato il suo ben retribuito lavoro da impiegato statale e, con i soldi messi da parte, ha aperto Kaffe Out, un piccolo bar costruito con mattoni rossi che offre diversi tipi di pregiati caffè, accompagnati da torte di carota e altri dolci, nel centro di Dili. A 29 anni Gally ha sentito il «bisogno di iniziare a fare qualcosa di mio». E siccome a Timor Est l’industria del caffè ha un enorme potenziale ancora poco sfruttato ha deciso di investire in questo settore. Nel suo locale, arredato in modo essenziale e colorato, particolarmente richiesta è la miscela prodotta nella zona del Monte Rameleau, che con i suoi 2.962 metri è la montagna più alta di tutta l’isola (curiosità: in passato è stata la vetta più alta di tutto l’Impero portoghese). Nella lingua locale, il tetum, il rilievo è chiamato Tata Mailau, che significa letteralmente «Il nonno di tutti». «Il particolare microclima della zona consente di coltivare un eccellente caffè, che ha un aroma molto particolare», ha spiegato Gally alla Bbc. «Penso che si possa veramente dare un contributo al cambiamento di cui il paese ha bisogno. Quando le Nazioni Unite hanno concluso la loro missione di pace nel 2012 abbiamo capito che avremmo dovuto iniziare da soli a ricostruire. Ed è quello che stiamo facendo».

Invasione straniera

Non tutti gli imprenditori hanno scommesso sul settore del cibo e della ristorazione. Rui Carvalho ha utilizzato i suoi risparmi e ha venduto alcuni terreni di famiglia per aprire nel 2009 Rui Collections, una boutique di moda made-to-order. L’azienda produce principalmente tais, un panno di cotone tradizionale che viene utilizzato per confezionare abiti, scarpe e borse. «Quando vedo le donne che vivono nelle zone rurali, che non sanno leggere, non sanno contare e non hanno neppure gli strumenti per produrre il tais mi accorgo di quanto sia difficile la strada che abbiamo davanti», ha sottolineato Rui nel corso di un’intervista a latestnews24. «Ma sono molto orgoglioso di quello che sono riuscito a realizzare fino ad ora con tanti sacrifici». L’imprenditore ha 42 anni e da quando ha avviato la sua attività ha potuto assumere più di una dozzina di dipendenti, in maggioranza vedove, giovani che avevano abbandonato la scuola e persone in difficoltà.

Quella di Carvalho è stata una scelta particolarmente coraggiosa in un paese in cui l’80% degli 1,2 milioni di abitanti vive di agricoltura, quasi sempre di sussistenza, e meno di 200mila persone hanno un impiego effettivo. Ma anche gli altri «colleghi» devono dimostrarsi molto determinati, essendo chiamati a fronteggiare difficoltà enormi collegate alla povertà diffusa, alla carenza di infrastrutture e alla mancanza di istruzione. Ostacoli cui si è aggiunto nell’ultimo periodo quello della concorrenza proveniente dall’estero.

La catena statunitense Burger King, ad esempio, ha deciso di raddoppiare entro i prossimi cinque anni i punti vendita presenti sull’isola, portandoli a otto. Beard Papa, franchising giapponese specializzato in bignè alla crema, ha appena aperto un negozio a Dili e ne avvierà altri quattro a breve. L’australiana Gloria Jean’s Coffee ha in programma di espandere la sua per ora modesta presenza e anche l’olandese Heineken ha iniziato le procedure per costruire una fabbrica di birra in loco. La speranza degli imprenditori stranieri è quella di attrarre non solo i turisti ma anche gli abitanti più giovani, inevitabilmente influenzati dallo stile di vita e di consumo occidentali.

Basta paura e rassegnazione

Filipe Alfaiate gestisce Empreza Diak, un’organizzazione che ha trascorso gli ultimi cinque anni cercando di incoraggiare l’imprenditorialità locale come una forma di cambiamento sociale. Secondo lui il popolo di Timor Est ha davanti a sé una sfida epocale, quella di riuscire a creare un’economia di mercato in grado di reggersi sulla domanda intea. Impresa di per sé non facile per un paese così piccolo, e resa ancora più complicata da decenni di sfruttamento da parte di potenze straniere che hanno contribuito a rendere le persone rassegnate e avverse a ogni tipo di rischio.

«Dopo tutto quello che hanno passato, gli abitanti di Timor preferiscono aggrapparsi a quello che già hanno. Questo li porta nella maggior parte dei casi a scegliere la sicurezza di una paga mensile, per quanto misera, piuttosto che assumersi il rischio legato all’avvio di una nuova attività», ha sostenuto Alfaiate alla Bbc.

Negli ultimi tempi però la situazione ha iniziato a cambiare. «I giovani hanno cominciato a capire che non ci sono abbastanza posti di lavoro per tutti. La metà della popolazione dell’isola ha meno di trent’anni e quindi una mentalità più aperta rispetto alle precedenti generazioni. Sempre più persone si stanno orientando verso scelte imprenditoriali, assumendosi dei rischi per avviare nuove attività che possano portare a un cambiamento e a uno sviluppo».

Per Alfaiate il primo scoglio da superare è proprio di tipo culturale. «Serve un grande cambiamento nel modo di pensare. Per secoli gli abitanti di Timor sono stati abituati a coltivare i campi, producendo cibo appena necessario al proprio sostentamento». Il piccolo sviluppo dell’economia avvenuto di recente è stato legato quasi esclusivamente al turismo e alla presenza del personale delle Nazioni Unite. «Si importano cose e si vendono. Quello che è necessario sono invece persone pronte a scommettere sulle risorse e sui lavoratori del luogo. Per essere un imprenditore nella nostra isola serve un mix di grande talento, accesso al credito e sostegno a livello locale. Ci vorrà del tempo ma le cose si stanno muovendo nella direzione giusta. Ci sono possibilità di crescita concrete, anche se ancora limitate».

L’ottimismo di Alfaiate è confortato dai numeri. Florencio Sanches, il capo dell’ufficio governativo incaricato di registrare nuove imprese ha dichiarato, sempre alla Bbc, che i giovani imprenditori negli ultimi anni sono andati aumentando, anche grazie allo snellimento delle procedure burocratiche, che ha reso più facile per gli abitanti avviare un’attività. Dal 2013 sono state costituite 11mila nuove imprese, in grandissima parte proprietà di persone sotto i trent’anni, mentre nel lustro precedente le registrazioni erano state in tutto 5mila.

La vera svolta, però, secondo Sanches si vedrà solo se si riuscirà a garantire alla popolazione un più ampio accesso al credito. «Il governo dovrebbe impegnarsi a sviluppare politiche che incoraggino banche e istituti a prestare denaro alle persone». Servono tassi e condizioni agevolate per l’ottenimento di finanziamenti, «senza i quali a Timor non potrà mai svilupparsi un tessuto imprenditoriale abbastanza robusto per consentire la nascita di un’economia locale solida». Anche volendo però, l’esecutivo non potrà fare tutto da solo. «Abbiamo bisogno della partecipazione del settore privato. Devono essere studiate in breve tempo delle soluzioni, perché solo risolvendo questo problema potremo dare alla nostra isola la speranza di un futuro migliore».

Paolo Tosatti*


Cronologia essenziale

Dai portoghesi agli indonesiani

XVI-XX Secolo – Timor Est è sotto il dominio del Portogallo, che sfrutta l’isola a fini commerciali.

1975 – Il 28 novembre fazioni filo-comuniste presenti nel paese dichiarano l’indipendenza da Lisbona. A dicembre il timore di vedere un governo comunista indipendente all’interno dell’arcipelago indonesiano porta il governo di Jakarta a invadere Timor Est su vasta scala, con il supporto dei governi occidentali.

1976 – Il 17 luglio l’Indonesia dichiara Timor Est come la propria 27esima provincia con il nome di Timor Timur. Inizia un lungo periodo segnato da scontri tra l’esercito clandestino degli indipendentisti, le forze regolari indonesiane e le milizie civili anti-indipendentiste. Nei combattimenti vengono spesso coinvolti anche i civili.

1996 – José Ramos-Horta, rappresentante del Fretilin, il partito che conduce la lotta clandestina contro l’occupazione, si vede assegnare, insieme a monsignor Carlos Filipe Ximenes Belo, il premio Nobel per la pace per il proprio impegno in favore dell’indipendenza del suo paese.

1999 – Dopo oltre 20 anni di occupazione il 30 agosto gli abitanti dell’isola votano in favore dell’indipendenza in un referendum organizzato dalle Nazioni Unite. Timor diventa così la prima nazione a raggiungere l’indipendenza nel XXI secolo. Nel paese si scatena un’ondata di violenze che si interrompe solo a seguito dell’intervento della forza di peacekeeping Interfet («Inteational Force for East Timor») formata da 10mila uomini di 17 paesi, Italia compresa. Successivamente subentrano le Nazioni Unite con Untaet prima e Unmiset poi.

2002 – Il 20 maggio Timor Est diviene indipendente. Xanana Gusmão, leader del movimento di guerriglia indipendentista Falintil, viene eletto presidente.

2006 – Nel mese di marzo metà delle forze armate si ribella al primo ministro Mari Alkatiri, che le aveva forzatamente congedate. I soldati ribelli si rivolgono a Gusmão che, sconfessando l’operato del premier, assume il comando dell’esercito. Il paese precipita nella guerra civile. L’intervento di 2000 soldati australiani, 500 malesi e di alcune unità neozelandesi e portoghesi limita i danni nei confronti della popolazione.

2007 – Il Nobel Ramos-Horta viene eletto capo di stato. Xanana Gusmão diventa primo ministro.

2008 – L’11 febbraio un gruppo di militari ribelli tenta un golpe, attaccando Ramos-Horta, che resta gravemente ferito, e Gusmão, che esce invece illeso dall’attentato. Il colpo di stato non ha comunque successo.

2012 – Taur Matan Ruak, ex leader della guerriglia antindonesiana, viene eletto presidente.

2015 – Il 2 febbraio Xanana Gusmão rassegna le dimissioni dalla carica di primo ministro. Gli subentra Rui Maria De Araujo.

2016 – A fine marzo prende possesso della diocesi di Dili il nuovo vescovo Virgilio Do Carmo Da Silva.

Pa.To.




Brasile: l’aquila sul tetto


Padre Pietro Parcelli ha lasciato il Brasile nel 2014 dopo lunghi anni di servizio missionario. Per gli amici la parola «lasciato» è un eufemismo, perché di fatto il suo cuore è ancora là, più precisamente a Salvador, capitale dello stato di Bahia, dove, nella zona di Novos Alagados, anni fa ha aiutato a nascere il progetto «Kilombo do kioiô». Qui condivide alcuni ricordi di un viaggio compiuto nell’agosto 2015.

Quella mattina del 5 agosto, appena entrato a Kilombo, sono rimasto colpito da un uccello grande e robusto che dal tetto osservava ogni cosa con occhio sicuro e senza timore. Ho subito pensato che fosse un uccello rapace proveniente dal bosco vicino, parte del parco di San Bartolomeo, uno dei pochi resti della famosa «Mata Atlantica» (la foresta atlantica di cui si parla su MC 4/2016, pag. 22, ndr). Denys, la direttrice del Kilombo, che mi stava vicina, ha detto: «Vedi, è un’aquila». «Un’aquila? Da dove viene? – ho domandato io – È rara un’aquila da queste parti». «Sì, è un’aquila che viene dalla Mata Atlantica».

Dopo diversi mesi, l’immagine dell’aquila mi torna alla mente come una specie di simbolo che rappresenta in modo particolare gli ultimi 15 anni della mia vita.

Il cammino del Kilombo

È stato nel 1999 che sono sbarcato nella favela di Novos Alagados, nel territorio della parrocchia di São Brás, come un «estranho no ninho», un «uccello fuori dal nido». Accompagnato da un gruppo di giovani parrocchiani visitavo le famiglie. In mezzo alle palafitte, ponti di legno, viuzze, ho visto la fame. Nello sguardo timido delle matriarche, molte abbandonate dai mariti, scorgevo il pianto nascosto suscitato dalla notte che veniva senza aver niente da dare da mangiare ai bambini.

La povertà, la mancanza di strutture sanitarie e la fame mi hanno fatto alzare in volo, come l’aquila della Mata Atlantica, in cerca di soluzioni. E nel piccolo salone in fondo alla chiesa di Aparecida, in riva al mare, abbiamo cominciato a riunire il primo gruppo di mamme. Potevamo fare poco, ma quel poco doveva essere immediato e concreto: consegnavamo mensilmente una consistente cesta di alimenti e, allo stesso tempo, alimentavamo la fede delle famiglie invitandole alla celebrazione domenicale e a una riunione settimanale. È stato così che la Consolata ci ha mostrato che potevamo fare la differenza nella vita di quelle persone, con l’aiuto di amici e benefattori. Col sostegno a distanza di molte generose famiglie italiane abbiamo cominciato ad aiutare uno, due, anche fino a cinque dei figli di quelle mamme che non avevano mezzi per saziare le loro creature.

Siamo andati avanti così con entusiasmo. Ma il problema era enorme e il 2000 fu particolarmente duro. C’era il dubbio di non avere le ali adatte per un volo così alto.

Spiccare il volo

Il 2001 ha invece portato nuova energia. Il progetto cominciava a spiccare il volo: nasceva in un piccolo spazio il «Kilombo do kioiô».

I kilombos erano le comunità in cui si rifugiavano gli schiavi africani che fuggivano dai loro padroni quando il Brasile era dominio portoghese. Il kioiô è una pianta tipica della regione, usata nella medicina e nella cucina locale. In fondo al giardino della casa che avevano comprato per il progetto, c’era proprio una pianta di kioiô. Ecco battezzato il rifugio dove realizzare la nostra missione: offrire un destino differente a chi vive schiavo della fame, dell’abbandono, dell’ignoranza e della mancanza di prospettive.

La cesta di alimenti che offrivamo a molte famiglie era per loro una consolazione, e questo l’abbiamo potuto constatare in diversi momenti. Una mattina ero in macchina con due giovani, dopo aver consegnato la cesta a una mamma ammalata. A un certo punto, quattro giovani armati di pistola ci hanno fermati gridando di scendere dalla macchina. Sentivo le urla delle persone: «È il padre missionario, lasciatelo stare, è il missionario». I giovani che erano con me, pieni di spavento, mi hanno detto di uscire dall’auto e di buttare la borsa a terra. «Che c’è là dentro?», mi ha urlato uno degli assalitori. «Ci sono le cose per la Messa», ho risposto. Dopo aver dato un calcio alla borsa si sono dileguati.

Insegnare a volare

Quando il governo brasiliano ha iniziato il progetto «Fame zero», abbiamo capito che era arrivato il tempo di cambiare: non più distribuire cibo, ma insegnare a procurarsene. È nato così il gruppo di alimentazione che oggi conta quarantacinque mamme. Esse vengono nel Kilombo per imparare a cucinare e a fare pane, a confezionare torte dolci e salate. Il ricavato della vendita dei prodotti aiuta a mantenere le attività del Kilombo. È un’iniziativa che insegna un mestiere queste donne che guadagnano anche un po’ di soldini per mantenere la famiglia. Le spese delle materie prime e del centro sono in parte coperte da un contributo delle mamme, che ogni mese versano parte dei loro guadagni, e dalla generosità di benefattori e istituzioni che ci aiutano a portare avanti il lento cammino di formazione umana e professionale che coniuga rendimento e dignità.

Sotto le ali

Quasi tutte le donne con cui lavoriamo abitano in zone dominate dal traffico della droga. Da loro è venuta la richiesta di fare qualcosa per togliere i figli dalla strada. È così che nel 2011 abbiamo spiccato un altro volo, senza poter prevedere dove saremmo arrivati. È nato il doposcuola del Kilombo. Rispetto alla scuola statale, qui ogni attività è preceduta dalla preghiera e si svolge in un clima più dinamico e alternativo, stimolando la creatività. La preghiera è sempre rivolta alla patrona del Kilombo: Nossa Senhora Consolata.

La missione del doposcuola è di migliorare le conoscenze acquisite dai ragazzi nella scuola statale, perché il livello educativo nella zona è molto basso. È facile incontrare bambini che a dieci anni non sanno leggere né scrivere. E per evitare che la fame fosse un ostacolo alla resa nell’aula scolastica, abbiamo cominciato a offrire una merenda abbondante.

Il Kilombo segue direttamente 66 bambini divisi in cinque classi. Al mattino sono 32 ragazzi dagli otto ai tredici anni, divisi in due classi. Al pomeriggio sono 34 dai sette ai quattordici anni, distribuiti in tre classi. Ogni classe è accompagnata da un’insegnante e una vice. Le attività sono molto diversificate: mensilmente i bambini hanno lezioni di salute dentaria; sono visitati regolarmente da narratori di fiabe e storielle, importanti per i bambini; ricevono formazione su alimentazione, igiene e salute; sono addestrati al primo soccorso da volontari dell’Università Federale della Bahia; mentre gli insegnanti partecipano a corsi di aggioamento finanziati dalla Fondazione Roberto Marinho, sostenuta della Rede Globo, il più grande gruppo di radio e televisione del Brasile.

La capoeira

La capoeira è praticata con entusiasmo nel Kilombo. È un’arte marziale con un sistema di attacco e difesa di carattere individuale, molto simile a una danza. Bambini, adolescenti e giovani sono aiutati dalla pratica di questo sport a sfuggire alla droga e alla criminalità.

Durante la mia visita dello scorso agosto, guidato dal suono del berimbau, strumento a corda che è utilizzato per segnare il ritmo della danza, ho camminato con i ragazzi fino al parco S. Bartolomeo, un’area ricca di ricordi della cultura afrobrasiliana, localizzata a 500 metri dal Kilombo. Siamo arrivati alla cascata di Oxum (Oxum è un orixa, cioè una delle divinità del Candomblé, religione afro brasiliana), e là è iniziata la ruota della capoeira. Il canto degli uccelli si è sintonizzato con le battute dei tamburi, mentre i movimenti acceleravano in una sincronia perfetta. Per loro il cielo non sembra avere limiti.

Anche le nonne volano

Nel 2014 è arrivata una nuova ispirazione: coinvolgere nelle attività del Kilombo anche le nonne della comunità. Si è cominciato con una settimana di attività nel mese di luglio, mese dedicato alle nonne qui in Brasile. Il risultato è stato così entusiasmante che, nonostante la difficile situazione economica, abbiamo deciso di aprire le porte alle donne anziane. Sono quindici signore con più di 50 anni di età, che sono invitate a partecipare al progetto di alimentazione del Kilombo. È un tempo di terapia e socializzazione, attività molto importanti nella situazione di abbandono in cui vivono. Così abbiamo spiccato un altro volo.

Durante la mia visita della scorsa estate, in una casetta vicino al Kilombo, ho conosciuto Luzia, una giovane di 22 anni, cieca, con deficienza mentale e un solo polmone. Sua madre, donna Val, aveva preso la varicella quando era incinta della bambina. Nonostante il consiglio medico di abortire, ella aveva voluto aprire le ali e accogliere Luzia. Lo sforzo di accudire la figlia è immenso, ma l’amore vince ogni barriera. Val prepara la merenda per i bambini del Kilombo. A volte arriva un po’ in ritardo, ma nulla le toglie il sorriso e la sua volontà di vincere.

In un’altra visita sono andato a casa di Marta, una delle mamme del Kilombo. Il figlio Jomarley di dieci anni, con paralisi celebrale, è stato abbandonato dal padre. Marta si fa in quattro per dar da mangiare a Jomarley e Taiana di dodici anni.

I rapaci

Tutte queste attività, prima di realizzarle, sembravano un sogno davanti alla realtà in cui si trovava il Kilombo. E ancora di più oggi, davanti alla crisi del Brasile di questi ultimi mesi. Una nonna del progetto mi ha detto: «Prima con un real (moneta brasiliana) compravi sei panini, ora due». Ma nonostante i rapaci della crisi e dell’inflazione, vogliamo continuare a sognare nuovi voli.

Padre Pietro Parcelli, missionario della Consolata,
in collaborazione con Diniz Vieira, giornalista,
e Adenilza Cruz,  direttrice e cofondatrice del  Kilombo do kioiô.




Marocco: oltre l’Atlante


Da Marrakech alle montagne lussureggianti di vegetazione, alla valle delle rose, alle dune del deserto. Attraversando la catena montuosa del Grande Atlante. Un racconto di viaggio e di incontri, con una piccola lezione di tolleranza religiosa.

Hamed vive solo, su una duna del deserto dopo Touroug (villaggio berbero nella zona di Merzouga, regione di Meknès-Tafilalet, ndr), alle falde del Jebel Gougnant. I monti, intorno, del colore della sabbia, sono ricchi di fossili. Lui raccoglie le rocce e le spezza, liberando i preziosi reperti che dimostrano come queste zone un tempo fossero immerse nel mare. Oltre a lui, molti altri si dedicano alla stessa attività. Il commercio dei fossili è una delle risorse più importanti del luogo. Hamed, tuttavia, non li vende alle ditte che li portano nei redditizi mercati delle città. Attende i turisti che passano di qua e contratta con loro. Ha quindici anni. Di giorno lavora, la sera si ritira nella sua tenda che, bassa sulla sabbia, si intravede più in là, quasi al limite della duna. Anche noi, dopo aver trattato un po’, compriamo qualcosa.

Solidarietà berbera

Riprendiamo quindi il viaggio, a bordo del fuoristrada di Hassan, sul quale stiamo visitando questi luoghi, all’inizio del Sahara. Alla guida, tuttavia, oggi non c’è Hassan. Per impegni di famiglia, ha momentaneamente affidato noi e il suo prezioso mezzo al fratello più giovane, Abdullah.

Ci siamo accorti che, prima di lasciare Hamed, il ragazzo venditore di fossili, Abdullah ha confabulato un po’ con lui e si è preso una banconota. Gli chiediamo cosa si siano detti. «Hamed ha bisogno di pane – ci risponde Abdullah -, è rimasto senza. Mi ha chiesto di portargliene diverse pagnotte, e mi ha dato i soldi per pagarle. Ma sono molti di più di quelli che servono». «Quindi toerai da lui, più tardi», gli rispondiamo. Ma la guida ci fa osservare, ridendo, che è impegnata con noi e non può farlo. Senza che gli chiediamo altre spiegazioni aggiunge che ha promesso di portare l’ordine e il denaro ad alcuni suoi amici che compreranno il pane e lo porteranno ad Hamed con i soldi avanzati. «Dunque conosci bene Hamed», gli chiediamo. «No, non l’avevo mai visto prima». Nel deserto, spiega, tra i berberi, ci si comporta così. Chiunque, quando ha bisogno di qualcosa, sa di poter contare sull’aiuto degli altri. Non c’è neppure l’ombra del sospetto che uno possa approfittae, mancando di parola o abbandonando l’altro nel bisogno. «Io oggi lo aiuto perché lui ha bisogno di me, e so che, anche se non ci conoscevamo prima, quando ci incontreremo di nuovo, pure tra dieci anni, e fossi io ad avere bisogno di lui, Hamed si ricorderà di me e mi aiuterà».

«Io amo la vita»

Abdullah è un ragazzone espansivo e gioviale. Ogni volta che incrociamo un altro fuori strada che porta i turisti lungo queste piste, si scatena: strombazza, si sbraccia, lancia giorniose grida di saluto, rivolte agli autisti, che sono tutti suoi amici. Quando ne incontra qualcuno che lo è più degli altri, si ferma, incurante di noi. Lo stesso fa l’altro e i due si corrono incontro, si abbracciano, ridono e parlano rumorosamente tra loro. Del resto, non si vedono ogni giorno e i turisti possono ben pazientare.

Abdullah si lancia in spericolate manovre sul dorso delle dune. Sale, scende, compie giravolte degne di un campione. E ride tutto contento. «Io amo la vita», ci grida. Così anche noi ci lasciamo influenzare. Gli chiediamo i nomi dei radi alberi e delle splendide piante fiorite che incrociamo. Sulle prime gli diamo retta, ma poi capiamo che se li sta inventando: a ogni risposta, aggiunge squillanti risate.

Acqua nel deserto

In questo deserto sabbioso incontriamo tende davanti alle quali nonne magre, col volto asciutto e rugoso su cui sono ancora visibili i segni di una fiera bellezza, sorvegliano bimbi dagli occhi nerissimi e luminosi. Attendono le mamme, che si sono recate in un’oasi piuttosto lontana a lavare i panni.

Ogni tanto sono visibili le tracce di altri nomadi. Hanno lasciato qua e là, sotto piccole tettornie molto rustiche, dei vestiti, del cibo per gli animali, della legna accanto a bassi foi di mattoni essiccati al sole, sicuri che quando toeranno, troveranno tutto in ordine, conservato per la sosta. Non lontano da questi segni antichi si scorgono le condutture di un moderno acquedotto. Il Marocco sta cercando di portare l’acqua anche nel deserto. Con incentivi allettanti incoraggia i giovani a coltivare i terreni resi fertili. Nelle tappe precedenti del nostro viaggio abbiamo infatti visto ampie macchie verdi, in cui crescono cereali, viti, olivi, interrompere le zone aride.

«Il vero Marocco»

La giornata in giro con Abdullah è la quinta dal nostro arrivo in Marocco. Il viaggio è iniziato a Marrakech, dove siamo stati accolti da Hassan, l’esatto contrario dell’estroverso fratello. È serio, preciso, di poche parole. Da molti anni ha la responsabilità della famiglia, perché è il primogenito, e il padre, un beduino arabo, è morto che lui era ancora piccolo. Per mantenere la madre, che è berbera, e due fratelli, ha organizzato una propria agenzia di guide, che accompagnano i turisti desiderosi di conoscere il Marocco al di là della catena montuosa del Grande Atlante, abitato dai berberi: «Il vero Marocco», continua a ripeterci.

Questa è davvero una terra affascinante, dove si può conoscere un popolo antichissimo. I berberi sono considerati «autoctoni». Si sono adattati agli arabi, dopo che questi avevano conquistato le loro terre attorno al 683 d.C., e ne hanno assunto la religione, ma non la lingua e la scrittura, che ancora oggi difendono con orgoglio. Da alcuni anni hanno vinto la loro battaglia perché il berbero fosse riconosciuto come lingua ufficiale dello stato, accanto all’arabo, e insegnato nelle scuole. Di queste ne vedi in ogni centro urbano. Sono quasi sempre di recente costruzione, prova di un investimento notevole del governo che, negli ultimi anni, ha puntato sulla cultura e sui giovani per conquistarsi un futuro. L’istruzione in Marocco è obbligatoria per tutti. Le scuole sono aperte a maschi e femmine e le classi sono miste. Ma quando escono, al termine delle lezioni, i giovani si dividono secondo la tradizione, sui due marciapiedi opposti della strada.

Nella Medina di Marrakech

A Marrakech abbiamo alloggiato nella Medina (il quartiere antico, ndr), in un riad, abitazioni tradizionali urbane che un tempo ospitavano grandi famiglie. Parecchi riad, come il nostro, sono stati trasformati in piccoli alberghi molto suggestivi, curati, con un’ottima cucina. La Medina di Marrakech è bellissima, come tutti i centri storici delle grandi città marocchine. Vi spicca la moschea Koutoubia, il cui minareto segna la massima altezza cui possono giungere gli edifici modei.

La città è sorta nell’XI secolo in un’oasi in mezzo al deserto. Sullo sfondo spicca la catena montuosa del Grande Atlante e, intorno, il verde lussureggiante dei palmeti. La parte modea ha un aspetto molto ordinato, con grandi viali divisi da aiuole fiorite e contornati da case tutte della medesima altezza e dello stesso colore marrone: colore della terra, come abbiamo imparato nei giorni successivi. Tutte le costruzioni della regione berbera, realizzate con mattoni di terra cotti al sole.

Marrakech è la città residenziale e dei grandi alberghi dove si trovano le abitazioni dei molti europei che qui fanno affari o semplicemente vogliono godere di un ottimo clima. Yves Saint-Laurent (famoso stilista francese morto nel 2008, ndr) era uno di loro. Abitava in un palazzo che porta ancora il suo nome, il cui giardino, il Majorelle Garden, aperto al pubblico, è uno splendido «orto botanico» ricco d’acque, con piante rare provenienti da tutto il mondo.

La Medina, invece, racchiusa da possenti mura color ocra, si sviluppa attorno alla piazza Jamaa el Fna, centro vitale della città. Qualcuno, poco benevolmente, l’ha definita una scenografia cinematografica. In realtà, a parte i venditori di acqua, gli incantatori di serpenti, i giocolieri – improbabili figure tradizionali a beneficio dei turisti -, non c’è nulla di artificioso in questa spettacolare, enorme piazza contornata di caratteristici palazzi e animata da un’attività frenetica.

Lavoratrici di argan

Il giorno dopo, con Hassan, abbiamo attraversato il Grande Atlante. Il paesaggio ricordava quello delle nostre montagne: foreste di pini e lecci, prati fioriti, mucche e greggi al pascolo, centri abitati addossati alla costa. Non pareva di essere in Africa. Dopo il passo di Tizi-n-Tichka, che raggiunge i 2260 metri, abbiamo attraversato diversi paesi dove abbiamo incontrato cornoperative di donne che si dedicano alla lavorazione artigianale dell’argan. Vi si potevano trovare tutti i prodotti ricavati da questi semi, da quelli alimentari ai cosmetici ai medicamenti. La pianta di Argania spinosa è molto diffusa nel Sud del Marocco, in un’area che nel 1998 l’Unesco ha dichiarato «riserva della biosfera».

Acqua di rose

Al termine dei lunghi tornanti, abbiamo raggiunto la pianura. Era già deserto, pietroso e rosso, punteggiato di cespugli verdi e contornato, in lontananza, da alture. I centri abitati si confondono col paesaggio di cui ripetono i colori, ai quali si aggiunge il verde degli alberi, soprattutto acacie e ulivi, che vi crescono intorno. Superata Ouarzazate, a Sud Est di Marrakech, ci siamo diretti a Skoura lungo la valle del Dades che, dopo Kelaat Mgouna, immette nella sorprendente «valle delle rose». L’acqua del fiume permette di coltivare questo fiore che non eravamo preparati a incontrare in pieno deserto. Lo annunciavano ghirlande di petali, intrecciate a forma di cuore e appese agli alberi lungo la strada. Il paesaggio si faceva bellissimo, verde per la presenza delle migliaia di piante di rosa in mezzo alle quali crescono le più consone palme e le solite acacie. La rosa è la materia prima dell’economia locale. Si potevano visitare le piccole aziende artigianali che la lavorano, per produrre l’«acqua di rose»: bevanda, cosmetico e profumo.

Il nome di Dio

Abbiamo ripreso il viaggio e, verso sera, saliti sull’altopiano desertico che domina la città di Boumalne, siamo arrivati all’albergo in cui peottare. Mentre si faceva buio, dalla terrazza oata di rose rosse, la vista spaziava sulle case ocra della città, immerse nel crepuscolo dorato e, più in là, sulla vallata verde cupo circondata da montagne sassose. Era magnifica.

Il mattino ci siamo avviati a Tinerhir, che sorge in una grande oasi attraversata dal fiume Todra. Qui abbiamo conosciuto Rashid. Volevamo tentare l’acquisto di qualche prodotto artigianale. Così Hassan ci ha portati nel suo negozio. Ci ha accolti sorridente sulla porta d’ingresso, vestito dell’abito tradizionale berbero: una tunica blu, con una grande fascia bianca che scendeva dal turbante, anch’esso bianco, e si avvolgeva attorno al collo scendendo poi sulle spalle. Abbiamo ingaggiato con lui un’estenuante trattativa per un piccolo tappeto tuareg. Ci piaceva, oltre che per i colori, perché costruito con tre tecniche diverse di tessitura. La prova era dura e pareva non risolversi finché Rashid, stranamente, ha cambiato discorso, chiedendoci da dove venisse il berretto che tenevamo in testa. Ci siamo convinti che avesse abbandonato l’idea di concludere l’affare, visto che non cedevamo sul prezzo. Invece, sorprendendoci, ci ha detto che gli piaceva molto il berretto e che ci avrebbe venduto il tappeto accettando la nostra offerta se vi avessimo aggiunto anche quello. Si è messo a ridere. Abbiamo accettato la proposta e siamo diventati amici. Ci siamo poi abbandonati a discorsi impegnativi. Rashid, oltre che un uomo allegro e gioviale, si è rivelato molto colto. Abbiamo parlato di fedi e di religione, e ci ha dato una piccola e preziosa lezione. A un certo punto, infatti, alzando la mano destra, unendo l’indice e il pollice e tenendo diritte le altre tre dita, ci ha detto: «Vedi, in questo modo la mano indica il nome di Allah in arabo. Ma se la giro verso il basso, senza mutare la posizione delle dita, il nome di Dio diventa scritto in ebraico. Non c’è troppa distanza tra noi». Siamo rimasti affascinati e contenti. Rashid ha ripetuto un’idea che in Marocco, e nella regione dei berberi, si trova ben radicata: la tolleranza tra le religioni. Nella medina di Marrakech c’è ancora il quartiere ebraico, come anche in altre grandi città del paese. Si trovano pure chiese cristiane, soprattutto al Nord e nei centri della costa. Hassan non perdeva occasione, durante il viaggio, di dirci che lo stato riconosce libertà di culto a tutti, che è «laico» e tollerante, che non c’è, tra la sua gente, il «fondamentalismo religioso», come ci esprimiamo noi europei.

Paolo Bertezzolo
(fine prima parte)




Iran: più mondo meno cielo

La religione islamica e i suoi precetti vengono associati al governo. Per questo, appena possibile, gli iraniani trasgrediscono. Nella quotidianità, apparenza e realtà divergono in maniera sostanziale.

Teheran. Metrò: io sono ancora in piedi, con la borsa dei libri, il mio strumento del mestiere (sono insegnante). Molte delle giovani passeggere sedute davanti a me hanno lo sguardo fisso ai cellulari, qualcuna chiacchiera con la vicina, dorme, o si rifà il trucco. Magari prova la nuova matita per le labbra appena acquistata da una venditrice ambulante. Ci sono stuoli di venditrici e venditori che percorrono con le loro borse i vagoni del metrò. Il commercio è particolarmente attivo in articoli femminili, in cima quelli per il trucco. A vedere le quantità che se ne consumano, si ha l’impressione che l’Iran debba detenere il record delle vendite in questo settore. A volte le venditrici sono così numerose che devono aspettare il proprio tuo per reclamizzare la propria merce e passare con i borsoni, facendosi largo tra le passeggere in piedi.

Oggi sono particolarmente sfortunata, mi sa che mi faccio tutta la tratta in piedi, circa cinquanta minuti di viaggio. Meno male che siamo all’inizio della giornata e le forze sono fresche. Vedo liberarsi e subito rioccuparsi i posti intorno e dietro di me, ma non quelli davanti, che mi darebbero una sorta di diritto a sedermi. Però sono in buona compagnia. Un po’ più in là un’altra signora cinquantenne aspetta invano che le ceda il posto qualche signorina, poco cambia che sia vestita alla moda o porti l’islamico manto nero. Anche in Iran, e forse più che altrove, l’abito non fa il monaco. Questo non vuol dire che nessun posto venga mai offerto a persone più anziane. A me è successo molto raramente, ma ho notato che ciò accade più di frequente a signore in chador e più in carne di me. Chissà, forse è perché danno più nell’occhio. Ci sono volte, tuttavia, in cui la mancanza di attenzione verso le donne più anziane ha del sorprendente. Un mezzogiorno nel nostro vagone è entrata una signora ultrasessantenne. Persone di quest’età sono un’eccezione e si notano subito nella folla delle giovani. È rimasta parecchio tempo in piedi, visibilmente affaticata, prima che una madre quarantenne con la figlia adolescente, sedute davanti a lei, scendessero e le liberassero un posto. Nel frattempo molte signorine erano scese e altre avevano trovato posto lì intorno, ma nessuna si era offerta di far sedere l’anziana signora.

Quando vado al lavoro stare in piedi non mi pesa molto e quando too, dato che salgo quasi al capolinea, ho maggiori probabilità di sedermi. Nelle sere in cui c’è più ressa, però, so in partenza come andrà a finire, perché a fine giornata la stanchezza rende la competizione per quel bene così scarso ancora più agguerrita. Una sera che ero riuscita a sedermi, alla fermata successiva ho visto salire una ragazza con le stampelle accompagnata da un’amica. Ha percorso il corridoio tra le due file di posti, tutti occupati, ed è andata ad appoggiarsi nell’angolo tra i sedili e la porta. Mi sono guardata intorno: da parte delle passeggere nessuna reazione, io avrei potuto essere la madre di tutte loro, ma era impossibile non cedere il mio posto alla ragazza con le stampelle. Non perché sia particolarmente brava, ma perché non avrei potuto comportarmi in modo diverso. Se l’educazione, religiosa o meno, non si traduce in gesti elementari di attenzione verso gli altri, allora a che serve?

La forma e la sostanza

Come è noto, il rispetto per gli anziani, l’attenzione verso i deboli, sono valori insegnati da tutte le grandi religioni, sono i pilastri delle società tradizionali, e l’Iran non fa eccezione, anzi. In città, come in campagna, qui è ancora normale dare del «voi» ai genitori. Questi valori sono anche ufficialmente predicati. Quindi fa ancora più specie vedere con sempre maggior frequenza comportamenti che vanno esattamente in direzione opposta. Eppure, a pensarci, non è così strano. Il fatto che la religione sia associata a tutto ciò che è pubblico, ufficiale, governativo, ha incoraggiato il formalismo: si mostra ciò che non si è, si appare in un certo modo perché conviene, ripaga in termini di carriera, reputazione, o perché non si può fare altrimenti. È chiaro che ciò porta a uno svuotamento di contenuti: i valori diventano dei gusci vuoti da esibire quando la circostanza lo richiede, ma quando si è in metropolitana, per la strada, in qualsiasi situazione non ufficiale, o in ambito privato, ci si può permettere di ignorarli.

Anche se si tratta di un punto di osservazione molto particolare, le impressioni raccolte durante i miei viaggi in metrò mi sono sembrate degne di nota proprio perché si sono concentrate sul comportamento delle donne in un ambito protetto da altri sguardi (sono vagoni destinati solo a loro, tanto che alcune rimangono a capo scoperto) e dove, quindi, esse si sentono abbastanza libere di mostrarsi quali sono. Anche in strada, tuttavia, un altro ambito dove l’anonimato è quasi sempre garantito, si possono vedere scene interessanti. Gioi fa, ad esempio, dalla vetrina di un negozio ho assistito alla lite di due fidanzati, impossibile non sentire quello che si stavano dicendo. Lui aveva scoperto che lei se l’intendeva con un altro e ora alla suocera, che era presente, spiegava perché non aveva più intenzione di chiedere la mano della figlia. Questa, montata in furia nel vedersi rifiutata, dopo aver chiesto alla madre di tenerle la borsetta, si è messa a tempestare di pugni il fidanzato. Qualcuno dentro il negozio sarebbe voluto andare in aiuto del giovane, ma poi si è optato per la neutralità.

Certo, un simile comportamento fa più impressione in una donna. Una scena a ruoli invertiti sarebbe apparsa più prevedibile. Ma dobbiamo cominciare ad abituarci a questo sconvolgimento di ruoli anche in Iran. In compenso, tra i ragazzi si manifesta una vanità molto femminile. Li vedi per strada, compiaciuti del proprio aspetto, pantaloni attillati, depilati, profumati, freschi di parrucchiere, naso rifatto, palestrati. Il culto del muscolo, e spesso del muscolo facile, fa prosperare le palestre e l’industria degli integratori alimentari.

La propaganda del regime e l’Islam

Anche in Iran, dunque, il Mondo trionfa e il Cielo attrae sempre meno. C’è una fuga dai valori tradizionali e questo vuoto, come da noi, è riempito dai facili pseudo valori dei soldi, del successo, della bellezza fisica, e da tutti gli oggetti di consumo: macchine, vestiti, cellulari e via dicendo, che «riempiono» la vita dei nostri giovani e meno giovani. Questa fuga sembra aver subito un’accelerazione negli ultimi anni, dovuta anche al fatto che questi valori sono associati al regime illiberale che li propaganda e che ha fallito nell’obiettivo di renderli attraenti. Più ci si allontana dai giorni della rivoluzione, dagli anni della guerra con l’Iraq, più si approfondisce il solco tra il discorso ufficiale e il sentire della gente. Si fugge da ciò che è percepito come imposto. Questa posizione è espressa molto bene nella frase che ho sentito più volte ripetere dai miei studenti iraniani: «L’Islam è la religione degli arabi, non la nostra». Salvo poi tacere su quale sia la loro. Alludono al fatto che l’Islam è arrivato in Iran con le scimitarre dei guerrieri arabi. L’antica religione iranica è lo zoroastrismo e i simboli a essa collegati, in effetti, sono tornati di moda e sono esibiti, ma ciò non vuol dire che chi porta al collo il faravahar alato (il simbolo dello zoroastrismo, ndr) abbia idea di che cosa esso rappresenti, o creda nell’insegnamento di Zoroastro.

Le mode e le evasioni del nostro occidente secolarizzato trovano terreno fertile tra i giovani iraniani, che escogitano il modo di praticarle nonostante i divieti. A parte il consumo di stupefacenti, uno dei più alti al mondo, quello di alcolici è cresciuto moltissimo ed è ormai cosa ordinaria nelle città. Li si produce in casa, o li si compra sottobanco. Come qualcuno osservava, in Occidente devi scomodarti ad andare fino al negozio, qui fai una telefonata e in dieci minuti ti recapitano tutto quello che vuoi al domicilio. Le nuove mode sono rapidamente importate. Ad esempio, per rimanere in argomento, ho recentemente scoperto che è arrivata quella delle feste di divorzio. Ma ci sono anche mode locali, dettate dalle circostanze della vita in Iran, come quella di bere alcolici durante i viaggi in macchina, lontani da occhi indiscreti; meglio farlo di sera, quando è più difficile capire quello che avviene all’interno dell’abitacolo.

Se, dunque, non si vede differenza tra i giovani cresciuti in uno stato teocratico e quelli cresciuti in paesi laici, in quell’Occidente secolarizzato che in Iran è ufficialmente indicato come la fonte di tutti i mali, allora viene spontaneo chiedersi: «Oh Repubblica islamica, dov’è la tua vittoria?».

Maria Chiara Parenzo
(seconda parte – fine)

 




Ecuador. Da dieci anni Rafael Correa

Dal gennaio 2007 l’economista Correa guida il piccolo paese latinoamericano. Rispetto al passato, l’Ecuador è migliorato, soprattutto nel campo dei servizi pubblici: strade, ospedali, scuole. Al presidente viene però contestato di non aver speso bene il fiume di denaro entrato nel paese con la rendita petrolifera. E di avere spesso un atteggiamento autoritario, come dimostra anche la recente approvazione di 15 emendamenti alla Costituzione del 2008, quella del «buen vivir». Abbiamo raccolto qualche opinione per le strade della vecchia Quito, l’affascinante capitale del paese.

Quito. Quando il cielo è terso, se si alzano gli occhi, si vedono la collina de El Panecillo con la gigantesca statua della Vergine di Quito e, spostando leggermente lo sguardo, il Pichincha, il vulcano alle cui falde nel 1534 i conquistatori spagnoli costruirono la futura capitale dell’Ecuador, a 2.700 metri d’altezza (media). Alla domenica la città vecchia è (ancora) più bella perché circolano meno auto rispetto agli altri giorni. E poi alcune delle sue strettissime vie, almeno per alcune ore, sono chiuse al traffico. Una di queste strade è la calle García Moreno, più nota come «la calle de las Siete Cruces», per via delle sette grandi croci in pietra costruite a lato di altrettante chiese di sette diverse congregazioni. Passiamo davanti a una delle chiese più famose, quella della Compagnia di Gesù, con la sua facciata barocca in pietra vulcanica e i suoi interni ricoperti con oro (pan de oro).

Percorse poche centinaia di metri, si raggiunge la piazza dell’Indipendenza, più conosciuta come Plaza Grande: raccolta, curata, accogliente. Si notano alcune giovani indigene che, con in testa il loro tipico cappello in feltro (sombrero o bombín), camminando (non si può occupare il suolo della piazza con la merce), offrono i loro coloratissimi foulard. Altre donne, questa volta meticce, vendono gelato sciolto attingendolo da un contenitore portato a tracolla. Al centro della piazza, attorno alla statua degli eroi del 10 agosto 1809 (un primo tentativo d’indipendenza, poi fallito), sostano diversi uomini che, dietro pagamento, scattano foto ricordo subito stampate. Sotto i portici del palazzo arcivescovile lavorano alcuni lustrascarpe ufficiali, con tanto di sedia con il logo della città. Su un altro lato sta il bianco Palacio de Carondelet, il palazzo presidenziale che ospita il governo e il presidente della Repubblica. Su quello opposto i palazzi (modei) del governo municipale. Infine, sul quarto lato troneggia la cattedrale metropolitana sulla cui scalinata in pietra scura siedono cittadini e turisti.

La «Revolución ciudadana» e l’economia

A pochi metri dalla scalinata della chiesa c’è un assembramento di una ventina di persone, uomini e donne di mezza età. Ci avviciniamo per capire meglio e, con grande sorpresa, ci accorgiamo che stanno parlando di politica. Al centro, un uomo sorregge un cartello, titolato Pensamiento libre, con fotografie di volti di politici e altre persone influenti che vengono definiti golpisti e fautori di una restaurazione conservatrice (restauración conservadora) a discapito della Revolución ciudadana (la «Rivoluzione dei cittadini»), il nome dato al programma di governo del presidente Rafael Correa, un economista di formazione cattolica.

Una donna dice: «Guardiamo agli altri paesi e facciamo il confronto. Il nostro paese ha avuto 9 anni di stabilità e di pace». Si riferisce al periodo di presidenza di Rafael Correa, in carica dal gennaio 2007. Alcuni – la maggioranza – annuiscono con la testa, altri non condividono. Un uomo interviene per dire che la vita è troppo cara (cosa reale, anche a causa della dollarizzazione, l’adozione del dollaro statunitense come valuta nazionale, avvenuta nel 1999). Un altro ribatte che i beni di prima necessità come il pane hanno da anni lo stesso prezzo. Un altro parla del lavoro. «A volte per noi uomini manca. Però se uno ha voglia di lavorare, qualcosa trova. Certamente occorre adattarsi. Se l’unico lavoro è scaricare patate, io lo faccio». Non c’è abbastanza produttività, grida una persona con uno zainetto. Gli risponde un uomo che indossa un paio di occhiali: «Il governo fa strade e ospedali e io ne sono contento. Ma non può pensare a tutto. La gente deve lavorare, perché bisogna seminare per poter raccogliere».

Una persona grida che il governo è corrotto. Un giovane con caschetto da ciclista gli risponde: «Queste persone sono quelle che mai avevano pagato le tasse. Sono le persone che sfruttavano i lavoratori».

Sull’economia dell’Ecuador le opinioni sono però molto discordanti. In generale, si concorda che in questi anni sono migliorati molti servizi pubblici: la rete stradale, le scuole, gli ospedali. E il tasso di povertà è passato – stando a cifre ufficiali – dal 36,74% del dicembre 2007 al 23,28% del dicembre 20151. Nonostante i miglioramenti, dunque, una persona su 4 è povera. Nella (sacrosanta) lotta alla povertà, il governo Correa ha anche utilizzato lo strumento (non esente da rischi) del sussidio, il cosiddetto Bono de Desarrollo Humano: 50 dollari mensili distribuiti a 2 milioni di persone (su una popolazione di 16). Detto questo, si obietta però che nessun presidente ha potuto disporre di tante entrate pubbliche come Correa e che non c’è corrispondenza tra l’ammontare di queste e le spese pubbliche. Tra l’altro, dato che le entrate derivano per la quasi totalità dalla vendita delle risorse petrolifere, oggi, con il crollo verticale del prezzo del petrolio, le debolezze strutturali dell’economia stanno venendo alla luce. Senza arrivare a sposare il giudizio categorico dell’economista Eduardo Válencia Vásquez, professore alla Pontificia Università Cattolica dell’Ecuador (Puce), che considera Correa affetto da «attitudine politica bipolare» (socialista a parole, neoliberista nei fatti)2, è certamente vero che l’economia ecuadoriana è rimasta ancorata a un modello estrattivista e monoculturale, che tra l’altro sta producendo gravi danni all’ambiente e ai diritti delle popolazioni indigene.

La «Revolución ciudadana» e i media

L’uomo che sorregge il cartello dice: «Qualcuno dice che in Ecuador non c’è libertà d’espressione. Questo è un falso. Però se io sono ingiuriato o calunniato, debbo essere protetto e il colpevole deve pagare». Nel 2013 l’Ecuador ha varato una legge sui media, la Ley orgánica de comunicación, che – pur partendo da buoni principi (democratizzare la comunicazione, impedire le concentrazioni, eccetera) – ha finito con l’esercitare pressioni indebite sui media. Fermiamo un giovane che si aggira con una piccola macchina fotografica e un registratore. «Tutti dovremmo essere giornalisti. Perché la verità è un diritto. La verità è vita», ci spiega.

Nel dicembre 2015 ci sono stati 15 emendamenti alla Costituzione, votati dall’Assemblea legislativa (senza alcuna consultazione popolare)3. Uno di essi ha trasformato la comunicazione da «diritto» a «servizio pubblico». Secondo molti esperti, questo è un passo indietro perché attribuisce allo Stato il potere finale di decidere sulla libertà d’espressione.

La «Revolución ciudadana» e l’istruzione

Un uomo ci tira in disparte per farci sapere la sua opinione: «Abbiamo un presidente di prima classe amato dal popolo. È una persona che, ad esempio, ha dato istruzione gratuita e le migliori università del mondo ai nostri giovani. È una leggenda. Oserei dire che è un miracolo di Dio». Si riferisce ai programmi denominati Escuelas del Milenio (a discapito, però, delle scuole bilingui) e Globo Común, con quest’ultimo che permette ai migliori studenti di andare a studiare a spese dello stato in molte università inteazionali.

A Quito il sole è ormai calato e la nuova temperatura suggerisce di indossare una maglia. L’improvvisato, e sorprendente, dibattito pubblico tra persone della strada sta volgendo a conclusione.

Prima di andarcene, alcuni ci ricordano che domani, lunedì, potremo vedere il presidente Rafael Correa salutare la piazza dal balcone del suo palazzo, come fa quasi tutti i lunedì in occasione della cerimonia del cambio della guardia.

Saluti e applausi

È lunedì e la Piazza Grande è in fermento. Davanti al Palacio de Carondelet sono state sistemate delle sedie pieghevoli dove siedono alcune classi di giovani studenti, tutti indossando le rispettive divise scolastiche.

Dai lati si muovono verso il centro della piazza i Granaderos de Tarqui, lo speciale corpo dell’esercito adibito a scorta presidenziale: c’è la banda musicale e il gruppo a cavallo. Intanto, sulla torre del palazzo, viene issata un’enorme bandiera nazionale. Dal terrazzo del palazzo presidenziale si affaccia finalmente Rafael Correa, circondato dai suoi collaboratori. Lui saluta la folla in tripudio.

La banda militare – composta da trombe, sassofoni, clarinetti, tromboni e tamburi – inizia a suonare, subito accompagnata dal canto spontaneo delle persone in piazza. Dietro la banda, con passo cadenzato, sfilano i lancieri e sui lati della piazza i granatieri a cavallo.

Tutta la cerimonia – dura pochi minuti – si svolge con ordine e sincronia sotto gli occhi del presidente, che al termine saluta dal balcone, prodigo di sorrisi.

Momenti intensi che qualcuno potrebbe definire d’impronta populista, ma che in realtà sono parte di una sorta di «Dna latinoamericano» che non va disprezzato, perché in qualche modo avvicina la gente comune al mondo della politica. Tuttavia, in questi anni di Revolución ciudadana molte speranze si sono rivelate infondate ed errori (economici e culturali) sono stati commessi.

Con i controversi emendamenti costituzionali del dicembre 2015 è stata anche introdotta la possibilità della rielezione senza limiti per tutte le cariche pubbliche. Per la presidenza questa possibilità sarà però possibile soltanto a partire dal 24 maggio 2017. Dunque, alle prossime elezioni del febbraio 2017 Correa non potrà ripresentarsi. La sua è stata una buona mossa, indipendentemente dal fatto che essa sia stata dettata da una scelta etica o da mero opportunismo politico.

Vicino a noi, un vecchietto indossa uno spolverino con una foto del presidente. Gli chiediamo un parere su Correa: «È il migliore presidente che l’Ecuador abbia mai eletto. Ho 86 anni, ma con lui arriverò a 100». Un altro signore si avvicina a noi: «Adesso sì che abbiamo un paese di tutti. Soprattutto di quelli che prima non avevano voce».

Detto questo, occorre constatare che l’Ecuador non è diventato il paese del «buen vivir» (sumak kawasay, in lingua quechua), come prometteva la Costituzione del 2008. Peraltro bellissima.

Paolo Moiola
(fine prima puntata)




Mondo: salvare il clima

 


Nel dicembre 2015 si è tenuta a Parigi la Cop21, la ventunesima conferenza internazionale sul clima. Da essa è uscito l’Accordo di Parigi, con alcuni obiettivi che la comunità globale dovrà raggiungere per limitare i danni climatici. Alle dichiarazioni entusiastiche di molti si sono affiancate quelle scettiche di molti altri. E a margine della Cop21 si sono registrate assemblee e iniziative alternative: testimonianze di resistenza a un sistema che sembra proprio non voler cambiare.

«Volere è potere», si dice, quindi nell’attuale scenario ambientale e climatico il «non volere» finisce per essere un crimine. E nella storia delle negoziazioni per il clima, il non volere è stato protagonista di molti, troppi summit inteazionali. La Cop211, svoltasi a Parigi lo scorso dicembre 2015, ha rappresentato per molti un’occasione (forse, l’ultima) per prendere decisioni concertate per tempo, allo scopo di cercare di mitigare gli effetti del cambio climatico attraverso una riduzione dei livelli di emissione di anidride carbonica.

Tappe importanti di una lunga serie di summit

Quella di Parigi è stata l’ultima, in ordine di tempo, di una lunga serie di summit, cominciata dopo la Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo di Rio de Janeiro del 1992, quando venne stilata la Unfccc (la Convenzione Onu sui cambiamenti climatici). Nella città brasiliana si era giunti a un accordo a livello globale di collaborazione per «conservare, proteggere e ristabilire la salute e l’integrità dell’ecosistema della Terra». La prima Cop si tenne a Berlino nel 1995 allo scopo di definire i principali obiettivi di riduzione delle emissioni. Nel 1997 la conferenza riunita a Kyoto produsse il noto «Protocollo», documento che negli anni ha subito un progressivo affievolimento. La mancata volontà di impegnarsi in un piano comune e vincolante fu in qualche modo «sancita» dall’uscita degli Usa dal Protocollo nel marzo 2001, anno in cui, a novembre, si sarebbe tenuta la Cop7, a Marrakesh: gli Stati Uniti, pur rappresentando un quarto delle emissioni complessive del pianeta, uscirono dal Protocollo di Kyoto in disaccordo sui meccanismi della sua attuazione. Con la sua ratifica da parte di un gran numero di paesi, tuttavia, il Protocollo entrò in vigore nel 2005. Esso obbligava i paesi industrializzati a ridurre, nel periodo 2008-2012, le emissioni di gas serra in misura non inferiore al 5% rispetto a quelle del 1990. Con l’accordo di Doha del dicembre 2012 l’estensione del protocollo si sarebbe prolungata fino al 2020. Nel 2009 la Conferenza delle Parti di Copenaghen partorì quello che venne poi chiamato un non accordo, che ribadiva l’impegno di mantenere l’aumento della temperatura sotto i 2 gradi Celsius di media a livello globale ma che faceva sparire impegni concreti nella riduzione delle emissioni.

Il mondo è cambiato

Nel 2010, nel momento dell’approvazione del secondo periodo di implementazione, il Protocollo vide l’abbandono di Russia, Giappone, Nuova Zelanda e del Canada, che rifiutavano, un’altra volta, «impegni vincolanti». In effetti, il mondo che si era incontrato nel 1992 e aveva poi firmato il protocollo a Kyoto nel 1997, nel frattempo, era molto cambiato. Alla fine del 2015, a Parigi, alcuni paesi come Cina, India e Brasile che a Kyoto erano stati inseriti un una lista conosciuta come Non Annex 1 (e chiamati «paesi in via di sviluppo»), si sono presentati come potenze mondiali indiscusse a livello economico, produttivo e di potere politico. A questi paesi, Kyoto non aveva assegnato vincoli di riduzione di emissioni, mentre ai paesi industrializzati dell’Annex 1 sì. Con il passare degli anni, i vecchi paesi industrializzati come gli Usa hanno cominciato a richiedere impegni di riduzione anche ai nuovi paesi industrializzati. E i criteri coi quali definire «responsabilità» e «capacità» dei vari paesi di adottare tali impegni a nome di una solidarietà internazionale, sono divenute il nodo gordiano delle negoziazioni.

Il mercato delle emissioni

Questa è la principale (pesante) eredità ricevuta dalla Cop21 di Parigi, che si aggiunge a molte altre questioni spinose sui meccanismi di implementazione dell’accordo. La società civile e accademica, le comunità indigene, campesine, i piccoli agricoltori, etc. hanno criticato pesantemente strumenti come i Meccanismi di sviluppo pulito, o il Redd2, che hanno messo nelle mani del mercato la possibilità di decidere cosa fare e da parte di chi. Che il mercato sia l’attore più opportuno ed efficiente per gestire la crisi climatica è già di per sé discutibile; quando poi si giunge persino a un mercato finanziarizzato del clima (come nel caso dei Redd, appunto), dei diritti d’emissione e consumo, la situazione giunge all’assurdo.

Il debito climatico

Tuttavia, dopo l’evidente fallimento di Copenaghen e le non decisioni prese nelle successive riunioni, c’è chi ha applaudito l’accordo approvato a Parigi lo scorso 12 dicembre: dalle imprese transnazionali al segretario generale delle Nazioni unite, al delegato Usa John Kerry, a vari ministri francesi fino ai nostri presidente del Consiglio e ministro dell’Ambiente. Secondo questi ultimi, nell’Accordo di Parigi l’Italia è stata protagonista, e gli italiani possono essere soddisfatti perché «siamo nella storia». Il ministro Galletti sembra tuttavia parlare di una storia futura, ideale e con tanti «se», mentre pare non prendere in considerazione la storia già avvenuta, quella che ha visto i paesi di vecchia industrializzazione accumulare un debito ecologico e climatico nei confronti del resto del mondo. La giustizia climatica, che ogni accordo sul clima dovrebbe avere come obiettivo, non può esimersi dal fare i conti con il tema del debito climatico. L’effetto serra è un processo che si conosce dalla fine dell’800, soprattutto grazie al lavoro del chimico svedese Svante Arrhenius. Sono però dovuti passare decenni perché il tema diventasse politico, e fosse discusso per la prima volta in una riunione governativa a Villacco, Austria, nel 1985, e poi nei rapporti dell’Ipcc (Gruppo intergovernativo sul Cambio Climatico), e in infinite pubblicazioni accademiche. Ci si ricorderà forse del botta e risposta tra gli ambasciatori di Usa e Bolivia a Copenaghen nel 2009. Lo statunitense Todd Ste, mentre riconosceva il pesante ruolo storico del suo paese nelle emissioni di gas serra, rifiutava l’obbligo di compensarle e negava l’esistenza di un debito.

Pablo Solon, allora, gli ricordò che i ghiacciai boliviani si stavano sciogliendo riducendo le fonti d’acqua del suo paese, e gli chiese chi, secondo lui, dovesse far fronte al problema. Dopo di che gli fece notare che in quella sede non si stavano additando colpevoli, ma attribuendo responsabilità.

Il gruppo di ricerca dell’Ejatlas, con la collaborazione del collega svedese Rikard Warlenius, ha pubblicato una mappa tematica del «debito climatico» (vedi in questa pagina in alto). In essa si evidenzia la responsabilità di una parte di mondo nel totale delle emissioni globali. La stessa parte che oggi si rifiuta di prendere impegni vincolanti. E quando parliamo di «paesi» ci riferiamo sì alla popolazione media, ma anche e soprattutto all’élite benestante, alle imprese di quelle zone di mondo in cui i benefici della ricchezza si concentrano.

La tecnologia ci salverà?

Ma perché l’accordo di Parigi è stato accolto come un successo dai politici e dal settore del business e da altri no? Cos’ha di tanto sbagliato? E, infine, è proprio tutto da buttare?

Il documento in effetti raccomanda di rimanere «ben al di sotto dei 2 gradi Celsius» di aumento della temperatura, e aspira persino a raggiungere la soglia di 1,5. E questo è da accogliere come un successo. Tuttavia, le modalità che suggerisce per raggiungere tale obiettivo prevedono ancora quei meccanismi di mercato di cui si è parlato sopra, o strumenti altamente tecnologici capaci di rimuovere dall’atmosfera l’anidride carbonica di troppo. Ma su quest’ultimo punto ci domandiamo se davvero si voglia far fronte alla crisi climatica appellandoci a una tecnologia (probabilmente energivora) che deve ancora essere testata. Non sarebbe meglio un ripensamento radicale del cammino fatto finora?

Secondo Kevin Anderson del Tyndall Centre, un centro di ricerca inglese sui cambiamenti climatici, «se vogliamo essere seri sul tema del cambio climatico, il 10% della popolazione globale responsabile per il 50% delle emissioni totali deve tagliare in modo drastico il suo consumo di energia».

Molti dubbi sull’accordo

Per aggiungere ulteriori dubbi sull’accordo raggiunto, possiamo ancora chiederci, come fa l’analista uruguayano Gerardo Honty, perché le imprese del petrolio e le grandi multinazionali hanno applaudito alla sua firma. Sicuramente vi hanno visto una garanzia per la civiltà dei combustibili fossili: nulla viene messo in dubbio, nessun cambio radicale in vista. Il che viene anche confermato dal consenso di paesi grandi consumatori dell’oro nero, come Cina e Stati Uniti.

Naomi Klein, autrice di ricerche e pubblicazioni importanti su potere corporativo e ambiente, nel suo ultimo libro This Changes Everything, ha fatto notare che termini come «combustibili fossili», «petrolio», «carbone» non appaiono nel testo finale dell’accordo di Parigi, né tantomeno concetti come «debito climatico». È preoccupante, poi, la cancellazione di riferimenti ai Diritti umani e alle popolazioni indigene, se non nel timido preambolo. E come se non bastasse, ci vorrà un bel po’ di tempo perché questo accordo possa entrare in vigore, forse appena nel 2020.

Ci troviamo dunque tra le mani un testo che non affronta le questioni chiave, che non mette in discussione i meccanismi di ingiustizia che favoriscono l’accumulazione di capitale, gli accordi commerciali che aumentano da un lato la ricchezza estrema e dall’altro la povertà e la violenza. La crescita economica perseguita attraverso estrazione di risorse, produzione e consumo continua a essere indicata come la via per raggiungere lo sviluppo. Un retorico appello allo spirito di cooperazione e solidarietà internazionale lascia ai singoli governi la possibilità di adottare misure volontarie di riduzione delle emissioni. In pochi a Parigi hanno presentato obiettivi volontari di riduzione ragionevoli, e si è calcolato che anche se essi venissero rispettati, la temperatura si alzerebbe comunque di 3°C.

Piccole rivoluzioni in atto

Spesso ci aspettiamo che sia un’idea brillante, un’ideologia che possa spiegare tutto, una formula da applicare al mondo intero per fare una «rivoluzione» a cambiare le cose per raggiungere un mondo migliore. Se però poi il cambiamento non arriva, ci demoralizziamo e ci pare che le vie d’uscita siano inesistenti. L’antropologo David Graeber, in un suo saggio del 2004, invitava però a vedere nelle tante azioni quotidiane, vicine a noi o lontane, una rivoluzione già in atto. Anzi, tante piccole rivoluzioni. E a Parigi se ne sono viste tante. Pur nella loro diversità culturale, politica ed ecologica, tutte mostravano strade alternative proprio a quei governi a cui la volontà e il coraggio mancavano.

Rappresentanti dei gruppi indigeni dell’Isola della Tartaruga (così veniva chiamata l’America Settentrionale) hanno portato con sé testimonianze della resistenza nei loro territori contro le perforazioni per fracking, a causa delle quali l’acqua, la terra e l’aria sono state inquinate provocando malattie croniche ad adulti e neonati. In Canada, la popolazione Wet’suwet’en resiste contro la costruzione del Pacific Trails Pipeline (Ptp), un oleodotto construito da Lng Canada, Shell Canada Limited, Mitsubishi Corporation, KoreaGas (Kogas) e Petrochina, che dovrebbe trasportare le sabbie bituminose della regione dell’Alberta al Pacifico, per essere poi esportate. Dal 2012 affrontano con i loro corpi i macchinari che giungono per disboscare, danno il benservito a funzionari delle imprese e del governo che cercano di comprare il loro assenso, richiedono a chiunque voglia entrare nei loro boschi di identificarsi e dichiarare le proprie intenzioni. Bloccando l’accesso stradale, fermano (per il momento) un processo estrattivo altamente inquinante, e per nulla efficiente. L’accampamento, conosciuto ormai come Unist’ot’en yintah, sfida il governo canadese a una ridefinizione di sovranità, rivendica il legittimo diritto di dire la propria su decisioni importanti. E ha ispirato Naomi Klein e altri nell’usare un nuovo termine, Blockadia, per definire resistenze fisiche, decise, coraggiose, e condivise tra molte comunità in tutto il mondo. Resistenze a un modello estrattivo e a una logica di violenza e di imposizione di una sola via di sfruttamento. Una resistenza che semplicemente dice «no», neanche a fronte di compensazioni monetarie.

Un monito per l’economia globale

A Parigi, lo stesso «no» intransigente, fermo e solenne, l’hanno detto in tanti. E per renderlo ancora più visibile, in molti sono andati a dirlo in canoa la domenica 6 dicembre. L’iniziativa, curata dalle reti di Indigenous Environmental Network e Amazon Watch ha portato rappresentanti dei popoli indigeni dal territorio di Sarayaku dell’Amazzonia ecuadoriana, dagli Stati Uniti e dal Canada a navigare la Senna, fino ad arrivare al centro della capitale francese. Le bandiere ricordavano i molti territori violentati e le comunità che dignitosamente resistono e lanciano allarmi dalle periferie di questa economia estrattiva. I loro «no» sono un monito all’economia globale: per sopravvivere dobbiamo cambiare rotta, lasciare i combustibili fossili nella terra, ridurre significativamente il consumo e soprattutto fare la pace, tra gli esseri umani e con la terra, perché senza pace con essa non ci sarà pace nelle nostre società.

Alla loro voce si sono unite comunità, collettivi, associazioni e Ong di tutto il mondo, presenti a Parigi, sia negli eventi paralleli patrocinati dall’Onu vicino alla sede dei negoziati, sia nelle centinaia di iniziative, workshop, conferenze, spazi di convivialità e scambio realizzati nel quartiere parigino di Montreuil.

Lo si è ribadito anche durante il Tribunale dei Diritti della Natura, una corte etica che ha lavorato duramente negli ultimi due anni per realizzare udienze in Ecuador, Perù, Australia e Stati Uniti. Personalità di grande spessore internazionale su temi della difesa dei diritti umani e dell’ecologia, come l’ex ministro dell’Energia dell’Ecuador Alberto Acosta, il senatore argentino Feando «Pino» Solanas, e Nnimmo Bassey della Ong Friends of the Earth Inteational, hanno ascoltato dodici testimonianze di comunità che soffrono per gli impatti delle attività petrolifere di Chevron-Texaco e di Bp, della costruzione di dighe idroelettriche in Brasile, del fracking negli Stati Uniti, e così via. La sentenza del tribunale ha condannato tali fatti in base alla Dichiarazione Universale dei Diritti della Madre Terra, un documento approvato nel 2012 dall’Assemblea legislativa boliviana prima del summit sul clima Rio+20, e che ha ricevuto l’appoggio e la firma di migliaia di sostenitori in tutto il mondo. Dalle parole dello stesso Alberto Acosta: «Fermare il cambio climatico e le aggressioni alla Natura va oltre le riunioni governative e richiede che il movimento sociale globale più potente della storia metta in connessione le differenti lotte per la giustizia ambientale, economica, femminista, indigena, urbana e operaia. Questo implica cornordinare le alternative anti coloniali, anti razziste, anti patriarcali e anti capitaliste verso una alternativa di civilizzazione».

Daniela Del Bene
Co-editrice dell’Ejatlas

Note:

1- La Cop21 è stata la 21a sessione annuale della Conferenza delle parti della Unfccc – la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992 -, coincisa con l’11a sessione della riunione delle parti del protocollo di Kyoto del 1997.

2- Meccanismi di sviluppo pulito: i paesi industrializzati che devono ridurre le emissioni possono acquisire «crediti di emissione» tramite progetti produttivi a basse emissioni in paesi in via di sviluppo (attuati da aziende private o pubbliche del proprio territorio). I crediti di emissione possono anche essere venduti ad altri paesi.
Redd (Reducing Emission From Deforestation and Forest Degradation): è una tipologia di progetti che mira a ridurre le emissioni di gas serra tramite la protezione delle risorse forestali e la riforestazione. La creazione di zone protette espelle intere comunità che, in modo sostenibile, traggono sostentamento dalle risorse forestali.

Scheda Ejatlas: Atlante della Giustizia Ambientale

Questo è il secondo articolo di una collaborazione fra la rivista Missioni Consolata e l’Ejatlas (Environmental Justice Atlas).Nei prossimi numeri verranno pubblicate storie e analisi regionali di alcuni dei conflitti ambientali che compaiono nella mappa. Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’Atlas le relative schede informative.

  • www.ejatlas.org
  • www.ejolt.org
  • http://atlanteitaliano.cdca.it



Brasile: incontri ravvicinati


Impressioni scritte all’ombra dei grandi alberi della foresta (Mata) Atlantica del Brasile nei momenti di pausa dal lavoro di ricerca. Le «Riserve della foresta atlantica» sono un insieme di otto aree protette a cavallo degli stati brasiliani di Bahia ed Espírito Santo, che si sviluppano su un’area di circa 112.000 ettari.

Sembra il ronzio di un grosso calabrone. Mi vola attorno. Ora l’ho dietro le spalle. Mi giro con cautela per non spaventarlo. È lì, fermo, a mezz’aria, che mi guarda incuriosito, quasi a chiedersi come mai questa grossa scimmia visiti i fiori come lui. Le ali non si vedono, troppo veloci per l’occhio umano. Pare un modellino di seta sospeso nel vuoto, retto da fili invisibili. In un attimo, il colibrì scarta a destra e poi in basso, veloce come un ufo, poi di nuovo a sinistra e in alto, nervoso, frenetico, elettrico. Sembra grigio, ma i raggi tangenti del sole riflettono colori iridescenti, metallici, stupendi. Ora pare verde, poi blu, poi rosso scarlatto per ritornare grigio in penombra. Rizza le penne del collo che sembrano una ghirlanda. Una visione troppo fugace, il tempo di visitare un paio di fiori con la sua lingua lunga e sottile come un filo di sarta e poi, sempre di scatto, svanisce rumorosamente nel nulla tra le liane, le orchidee, le bromelie (foto 1).

Puma concolor (Foto Richard)
2. Puma concolor (Foto Richard)

Ieri sera finalmente è piovuto. Un bel temporale durato un paio di ore. Si sono mostrati rospi e rane, ma lo spettacolo più bello l’hanno offerto le scimmie urlatrici. Non si vedono che raramente, e quest’anno non si erano ancora fatte sentire col loro ruggito possente. Alle prime gocce di pioggia hanno iniziato all’unisono. Tutta la foresta echeggiava dei loro versi impressionanti, udibili a chilometri di distanza, ad esteare tutta la loro felicità. Pareva di essere circondati da un esercito di giaguari. Indimenticabile. Ieri è arrivato nella stazione un altro ricercatore, si chiama Richard, gestisce trappole fotografiche. Ne avevo viste un paio disseminate in foresta. Gli ho chiesto di vedere le foto scattate. Sono il frutto di otto trappole che hanno funzionato per tre mesi circa. Scattano la foto quando i loro sensori intercettano gli animali. Tra questi naturalmente figuro anch’io, ma ciò che mi impressiona è che prima o dopo il mio passaggio la camera registra tapiri, jaguarundi, ocelot e diversi puma. Anche in pieno giorno! E pensare che ero convinto di essere il solo in giro in quel pezzo di foresta dove non pareva esserci traccia di grandi mammiferi. Evidentemente mi osservavano passare ogni giorno, nascosti tra i cespugli, a pochi passi dal sentirnero.

Richard, gentilissimo, mi ha lasciato le foto più belle. C’erano anche tanti uccelli, specialmente peici e tacchini, ma non ho osato chiedere troppo
(foto 2, il passaggio del puma).

carcarà (Foto Curletti)
3. carcarà (Foto Curletti)

Doveva succedere. Un disastro nella nostra modesta cucina: uova rotte e mangiate, macchinetta del caffè rovesciata, pane sbocconcellato, zucchero sparso ovunque, frutta parzialmente distrutta, piatti e bicchieri rotti a terra… Neppure il sacchetto dei rifiuti è stato risparmiato. È bastato dimenticare la finestra aperta perché quel furbone di carcarà ne approfittasse per saccheggiare le nostre scorte. Mezzo falco e mezzo avvoltornio, si atteggiava a gallina e con aria innocente si aggirava nel cortile proprio come un pollo domestico. Sembrava un amico confidente e invece ci teneva d’occhio studiando i nostri movimenti e la buona occasione per farci fessi. Ora l’ha appena trovata. Eppure avrei dovuto capirlo che il suo atteggiamento soione ci riservava qualche brutta sorpresa. Con quel cappuccio nero sopra il capo color caffellatte ha proprio l’aspetto di un mafioso con tanto di coppola in testa. Anche la sua andatura impettita è da guappo. Ora è sul tetto che ci guarda soddisfatto, pancia piena alla faccia nostra, parrebbe quasi che col suo sguardo acuto e tagliente come una lama voglia prenderci in giro. Che fare? Vedendo il disastro i miei colleghi brasiliani, col loro 3. carattere gioviale, l’hanno presa a ridere: ma che bravo il nostro ladro! E non ci è restato che pulire e mettere ordine…

È passata più di una settimana dal fattaccio e mentre prima era onnipresente, il carcarà non si è più visto. Potrà sembrare strano, ma mi sa che si è reso conto d’averla combinata grossa e si tiene alla larga per paura di rappresaglie. Mica stupido il nostro «giocondor»… (foto 3).

tegù (Foto Curletti)
4. tegù (Foto Curletti)

Mi passa davanti con aria indifferente e quasi indolente, ma so che mi controlla ed è pronto alla fuga al minimo cenno di reazione. Con l’andatura da star di musica rap, muove il corpo come una sciantosa, oscilla a destra e a sinistra alzando le zampe alternativamente, la lunga coda inerme ad anelli chiari e scuri, la piatta lingua biforcuta in eterno movimento alla ricerca di odori e di sapori. Ma chi ha detto che i dinosauri sono estinti? Eccolo qui, un bellissimo esemplare di tegù, il più grande dei sauri terrestri brasiliani. Ormai mi conosce, abbiamo un tacito appuntamento giornaliero, io alla ricerca di un po’ d’ombra nella calura del tardo mattino, lui alla ricerca di sole che lo riscaldi. Puntualissimo esce dal suo buco nelle giornate calde, controlla il terreno circostante ed attende paziente l’uscita della compagna. Lei è più piccola e diffidente, lui invece sa di potersi fidare e mi passa a mezzo metro di distanza, quasi con aria di sfida. Sfida che raccolgo con il mio obiettivo fotografico. Il suo ritratto mi riempirà il cuore di nostalgia al ritorno nel freddo inverno europeo (foto 4).

anuro in bromelia (Foto Curletti)
5. anuro in bromelia (Foto Curletti)

Il buio arriva presto in foresta e lei lo saluta, puntuale. Un trillo lungo, intenso, cristallino. Pochi istanti e poi torna nel silenzio della sua solitudine. L’ho cercata per tre notti di seguito e infine l’ho trovata. La bromelia è aggrappata al tronco di un grosso albero e il suo fiore rosso ricorda il pennacchio del cappello di un carabiniere in uniforme. Lei se ne sta nascosta nel suo interno, nell’occhio formato dalla corona circolare delle foglie caose che conserva l’umidità della pioggia. Mi fissa con i suoi grandi occhi rossi inespressivi, rannicchiata e immobile, sperando di non essere vista. Colore verde pallido, ventre più pallido ancora, piccolissima, con tondi pallini prensili sulle lunghe dita. La raganella se ne sta lì nel profondo pozzo della sua bromelia, al sicuro. Vorrebbe vedere la luna ma per paura si accontenta di vederla passare per pochi momenti dalla rotonda finestra aperta verso il cielo del suo rifugio. Poi rimane al buio, solitaria, nell’attesa che il suo richiamo venga inteso da un compagno (foto 5).

 

Per lui la morte ha le ali violette in continuo vibrato movimento. No, non ha la falce ma una sottile siringa paralizzante. Antenne gialle, corpo nero allungato stretto in un vitino da vespa, agile e nervoso. Ormai paralizzato, si lascia trascinare impotente. Lo sfecide l’ha appena ghermito e lui, la migale, grosso ragno con zanne terrificanti, terrore dei piccoli vertebrati, è ormai rassegnato ad essere dato in pasto alla prole, divorato poco alla volta ma pur sempre vivo, per conservare più a lungo possibile i succhi biologici di cui i neonati del predatore hanno bisogno. È lì, impotente, in balia del suo aggressore nonostante il potenziale offensivo, col veleno in grado di uccidere uccelli e piccoli mammiferi. Non posso frenare un moto di compassione. Chissà se è cosciente che lo attende una morte terribile, lunga, forse dolorosa, ma sicuramente da incubo nel vedere ogni giorno le larve del suo carnefice avvicinarsi per mangiarlo poco alla volta.

Sfecide
sfecide con la preda (Foto Curletti)

Insetti che predano ragni, non solo il contrario. Qual è il significato? Quale stato d’animo regna tra gli abitanti della foresta? L’amore? No, quello lo lascio ai film disneyani. Pur essendo un sentimento fondamentale, importantissimo per la sopravvivenza della specie, l’amore ha durata limitata e prima o poi finisce. Quello invece che accompagna dalla nascita alla morte è la paura. Paura. Quella non abbandona mai, è la compagna che permette la salvezza dell’individuo. Paura di essere parassitato, assalito, divorato, sbranato. Coinvolge tutti, dal giaguaro al tapiro, dal tamanduà all’agutì, dalla scimmia al bradipo, dalla formica alla vespa, dal lombrico alla lumaca. Non esiste il predatore assoluto, ogni specie, uomo compreso, ha i suoi nemici. Quanta verità in una frase di Tennyson che riassume perfettamente il pensiero: «Nature, red in tooth and claw», natura, denti e artigli insanguinati. È questa la legge, piaccia oppure no. Appare troppo evidente a chi sa interpretare il grande libro della giungla. E che Kipling mi perdoni… (foto 6).

 piroforo (Foto Curletti)
7. piroforo (Foto Curletti)

Dopo la pioggia ecco i vagalumen. Così i brasiliani chiamano i pirofori, grossi coleotteri elateridi che si attivano al calar delle tenebre. Producono luce come le nostre lucciole, ma al contrario di queste hanno luce costante e più potente: si narra che i vecchi esploratori li mettessero in gabbiette per poter leggere e scrivere la notte. Bastavano una ventina di esemplari. Hanno due punti luminosi ai lati del pronoto, dietro il capo. Alcune specie ne hanno un terzo più piccolo sulla parte inferiore dell’addome, tipo fanalino di coda. Sono esseri timidi e frugali: di giorno si vedono raramente, si accontentano della linfa che sgorga dalle ferite di qualche albero. Sono neri o bruni, poco vistosi, ma quando cala la notte mostrano tutto il loro luminoso splendore. Al buio sono uno spettacolo. I rami brillano della loro luce, giganteschi alberi di natale accompagnati dai canti dei grilli e delle cicale invece che da jingle bells. Foresta magica, non sempre terribilmente inospitale (foto 7).

Eciton formiche legionarie (Foto Curletti)
8. Eciton formiche legionarie (Foto Curletti)

Sono due colonne lunghe centinaia di metri di cui non riesco a vedere gli estremi, che si perdono nell’intrico della foresta. Due semplici colonne di formiche ma quanta differenza. Le prime frenetiche, febbrili, velocissime, aggressive, voraci; i soldati dalle enormi mandibole e dal colore avorio che si mescolano alle nere operaie indaffarate a predare le larve e le pupe di un altro formicaio per fae degli schiavi. Questi, per imprinting, lavoreranno inconsapevolmente per gli assassini della loro tribù, magari aiutandoli a depredare altri formicai fratelli. Sono dei nomadi, non hanno nido, si accampano randagi attorno alla loro regina. Milioni di agguerriti individui caivori, terrore della foresta. Provo a fermare un’operaia per verificare il bottino, una pupa in metamorfosi. Con una velocità impressionante sono subito aggredito da tre soldati. Sono stati fulminei, ben più della velocità della mia mano. Evidentemente mi tenevano d’occhio. La puntura è molto dolorosa e devo desistere. Le chiamano formiche legionarie, per gli entomologi Eciton, probabilmente proprio per la loro febbrile attività. Non le ferma nessuno, tutti gli animali della foresta indietreggiano al loro arrivo, guadano fiumi formando ponti di individui, attraversano laghi con zattere viventi formate da stornici volontari pronti ad annegare per la loro regina e per la colonia.

Atta formiche tagliatrici di foglie (Foto Curletti)
9. Atta formiche tagliatrici di foglie (Foto Curletti)

La seconda colonna è ben più lenta, compassata. Le operaie con sforzi immani portano tenacemente pezzi di foglia che altre sorelle hanno tagliato con le possenti mandibole, andando controvento e facendosi a volte sollevare per effetto vela, ma senza mollare il bottino. I soldati controllano e vigilano immobili ai lati della lunga fila, pronti a sacrificarsi per difenderle. Sono vegetariane le Atta, fatto inconsueto per il mondo delle formiche. La cosa curiosa è che oltre ad essere vegetariane sono anche degli agricoltori. Le foglie infatti non sono mangiate, ma ammassate all’interno del formicaio per fae concime su cui crescerà un fungo particolare che è il loro esclusivo alimento. Alle prime piogge le future regine sciameranno a migliaia, sono enormi, molto più dei loro sudditi. Verranno quasi tutte divorate dai predatori, uomo compreso, che ne apprezzano le cai grasse succulente. Feroci le prime, più tranquille e perseguitate le seconde. Che sia un caso? (foto 8 di Eciton e 9 di Atta).

Gianfranco Curletti*

* L’autore è l’entomologo del Museo di Storia Naturale di Carmagnola (To). Ha al suo attivo numerose spedizioni scientifiche nei vari continenti, anche se le sue ricerche lo hanno portato principalmente nell’Africa subsahariana. Autore di oltre un centinaio di pubblicazioni specialistiche, non disdegna la divulgazione. Suo il libro «Matto per gli Insetti», edito da Blu ed. di Torino. Collabora da anni con il Museo della Consolata di Torino, e con i missionari in Tanzania, Mozambico e Kenya ha condiviso conoscenze, studi, sudori e cibo.




Italia: italiani arcobaleno

 


Sono tre studenti universitari. Tre italiani con radici africane. Incontrandosi si rendono conto di avere qualcosa in comune. Trasmettere una consapevolezza dei propri diritti e doveri, distruggere alcuni stereotipi. Fondano un’associazione e hanno subito adesioni. Abbiamo ascoltato le loro voci.

«Ci siamo conosciuti a Padova, tra la mensa e le aule universitarie – ci dicono Ada, Emmanuel e Anabell -. Quando ci incontravamo capitava sempre di parlare della situazione degli stranieri qui in Italia. Venivamo tutti da realtà diverse eppure avevamo esperienze e pensieri molto simili; d’altronde i genitori africani cercano sempre di educarti in un certo modo, poi tu esci di casa e ti comporti in un altro! A forza di parlare di come volevamo cambiare le cose, delle ingiustizie viste e vissute o del fatto che le istituzioni ignorassero completamente una categoria di popolazione che è quella costituita dagli afro italiani come noi, abbiamo deciso di lanciarci in questo progetto». È nato così, nella primavera del 2015, Arising Africans, associazione con sede a Padova, che si è data la missione di riunire i giovani afro italiani, africani di seconda generazione, afro discendenti e, più in generale, afro simpatizzanti residenti in Italia per promuovere un’immagine più completa e veritiera del continente africano e della sua popolazione, decostruendo gli stereotipi. Ma non solo: «La nostra idea è quella di trasmettere una consapevolezza maggiore dei propri diritti e doveri a chi ha origini africane, per rafforzare la stima di sé nella società italiana». E ancora: «Vogliamo dire che l’Africa non ha bisogno della carità dei bianchi, vogliamo mostrarla alle persone per quello che è, fae conoscere la storia e i suoi personaggi al di là del colonialismo, di cui si è parlato troppo. Vogliamo che alla parola Africa si associno altre immagini e altre parole. Vogliamo inoltre dire alle istituzioni che noi ci siamo e che vogliamo lottare per affermare i nostri diritti. Vogliamo infine scuotere gli africani che vivono in Italia, dire loro di attivarsi perché abbiamo un obbligo morale verso la nostra comunità e la nostra cultura di origine». Parole consapevoli e determinate pronunciate dallo staff fondatore di Arising Africans composto da Ada, Emmanuel e Anabell, under-30, che con forza innalzano la bandiera del risveglio africano.

Africanismo 2.0

«Con risveglio africano intendiamo la costruzione dell’Africa di domani: una visione che chiamiamo anche africanismo 2.0, che non significa limitarsi a mettere «mi piace» sui social network, ma fare concretamente qualcosa. La costituzione di Arising Africans è un primo passo in questa direzione: gli studenti di origine africana che vivono in Italia saranno coloro che avranno la possibilità di influenzare le politiche di domani e noi sentiamo di avere la responsabilità di informarli correttamente su chi sono, da dove vengono e quali sono le loro risorse, spesso sottovalutate o persino ignorate».

Per farlo, usano soprattutto il web: il sito internet www.arisingafricans.com è aggiornato periodicamente con articoli su eventi promossi dall’associazione stessa, interviste o con le storie di illustri personaggi storici africani. I contenuti vengono poi rilanciati sulla pagina Facebook, dove alla rassegna stampa quotidiana sui temi cari all’associazione si alternano due rubriche originali: «Notizie dall’Africa», che riporta curiosità su cultura, folklore, storia e attualità del continente, e «Afro cliché» in cui si sfatano i miti più comuni.

L’afro italianità

«Per me Arising Africans rappresenta una svolta – spiega Anabell -. È arrivata l’ora che gli afro italiani siano riconosciuti per quello che sono, e cioè cittadini con una doppia cultura. L’armonia tra due o più bagagli culturali differenti, che abbiamo creato – a volte con fatica – durante il nostro percorso di crescita, rappresenta una potenzialità e una ricchezza. Non solo a livello sociale e linguistico, ma anche di carattere e personalità: ci siamo abituati a pensare in maniera laterale (pensiero in grado di prendere in considerazione punti di vista alternativi, flessibile, creativo, aperto a interpretazioni diverse della realtà, nda) e riusciamo ad adattarci facilmente. Arising Africans, quindi, è il modo che ho scelto per valorizzare sia la mia parte africana, che la mia parte italiana, in egual misura. E vorrei dire a tutti i miei coetanei afro italiani che si può essere sia l’uno sia l’altro senza vergognarsi».

«Ci sentiamo africani tanto quanto italiani, per noi è un dono quello di poter vivere e rappresentare entrambi i mondi – conferma Emmanuel, che aggiunge -, l’afro italianità è un concetto che non va definito con una formula: puoi avere entrambi i genitori africani o uno solo, puoi essere nato qui o altrove. Io, ad esempio, sono nato in Germania da una famiglia originaria della Repubblica democratica del Congo, ma vivendo in Italia da più di sei anni mi sento afro italiano tanto quanto Anabell che è arrivata a Pordenone a nove anni».

Eppure quello dell’afro italianità è il primo diritto a essere negato dalla società italiana. Secondo Ada i principali responsabili sono i media, che negli anni hanno costruito un’immagine distorta e strumentalizzata della figura dello straniero: «Più volte ho notato che viene fatta una distinzione non necessaria tra italiani, riconosciuti come tali, e afro italiani, chiamati stranieri o immigrati. Le parole con cui ci definiscono sono importanti, così come le immagini. Mostrare in tv un solo tipo di africano, a cui spesso si attribuisce un atto criminale, senza mai prendersi il tempo di presentare altro, come la realtà degli studenti di origine africana che frequentano scuole e università italiane, è una discriminazione che finisce per avere ricadute in altri ambiti della società, come quello del lavoro. Prendiamo l’esempio degli universitari: molti di loro per completare il percorso di studi devono fare uno stage in azienda. Ebbene, io conosco tanti studenti di origine africana che hanno avuto difficoltà a trovare uffici disposti ad accoglierli, per via della pelle nera e della diffidenza che questa continua a suscitare. Ma come biasimare il piccolo-medio imprenditore veneto, che quando accende la tv e sente parlare di Africa vede solo scene di bambini denutriti, calciatori alla moda o spacciatori? E ancora: sapete quanti sono gli afro italiani che lavorano nel mondo della cultura? Meno dell’uno percento: tutti gli altri sono confinati a lavori con bassa qualificazione. Questo, personalmente, è difficile da accettare considerando quanti sono gli studenti africani che si laureano ogni anno». Gli ultimi dati Almalaurea dicono che il 13% dei laureati con cittadinanza straniera, 3,4% sul totale della popolazione studentesca, proviene dall’Africa.

La negazione del diritto all’afro-italianità passa anche per un’altra, più sottile, discriminazione: «Quando qualcuno mi chiede da dove vengo e io rispondo che sono della provincia di Treviso, scatta l’incredulità – continua Ada -. Per soddisfare la curiosità del mio interlocutore devo aggiungere che sono di origine nigeriana e a quel punto, con un sospiro di sollievo, mi viene fatto notare che parlo davvero bene l’italiano! Purtroppo, soprattutto tra le persone più anziane ma non solo, esiste ancora una certa difficoltà ad accettare il fatto che io possa indicare come casa mia un paesino che si trova in Italia e che l’italiano sia – anche – la mia lingua».

Rapporto alla pari

«Li vediamo nelle piccole cose: quando qualcuno dei membri di Arising Africans ci dice che avrebbe voluto incontrare un gruppo come questo anni prima, quando non riusciva a convivere con la propria parte africana e se ne vergognava. Oppure quando scriviamo di uno dei grandi personaggi che hanno fatto la storia dell’Africa, perché sappiamo che è un piccolo seme che contribuisce a disegnare un altro immaginario del continente», spiega Emmanuel. E i vostri genitori che ne pensano? «Dicono che gli ricordiamo quando erano giovani. A differenza loro, però, che si sentivano stranieri e diversi, noi abbiamo più potere contrattuale: siamo cresciuti in Italia, ci sentiamo al pari dei nostri coetanei italiani e siamo perfettamente a nostro agio quando dobbiamo relazionarci con altre persone».

Serena Carta*

*Gioalista freelance, ha collaborato con Ong e agenzie delle Nazioni Unite. Ha curato la redazione dell’e-book «Guida introduttiva all’uso delle Ict per lo sviluppo». È tra gli autori del webdoc «Guinendadi – Storie di rivoluzione e sviluppo in Guinea Bissau» e cofondatrice di www.puntozerohub.com.

 




I dolori di Pristina


Dallo scorso febbraio il presidente della piccola repubblica è Hashim Thaçi, già leader del (controverso) Esercito di liberazione (Uçk). Sopito (ma tutt’altro che superato) il conflitto etnico con la minoranza serba, oggi il Kosovo rimane un paese in gravi difficoltà e con vari leader accusati di crimini di guerra e contro l’umanità.

26 febbraio 2016. Il parlamento di Pristina, capitale del Kosovo, elegge il nuovo presidente della giovane repubblica. Al terzo scrutinio, con 71 voti su 120,  viene nominato Hashim Thaçi, leader del «Partito democratico del Kosovo» (Pdk).

L’elezione di Thaçi, frutto di accordi politici tra il Pdk e il partner di governo, la «Lega democratica del Kosovo» (Ldk), non arriva a sorpresa: il segretario del Partito democratico è da tempo uno degli uomini politici kosovari più in vista. Nel 1999, durante la guerra combattuta – col supporto decisivo dell’aviazione Nato – per ottenere l’indipendenza dalla Serbia di Slobodan Miloševi?, Thaçi ha vestito i panni di leader politico e militare della guerriglia albanese-kosovara, «eroe» dell’«Esercito di Liberazione del Kosovo» (Uçk).

Il 17 febbraio 2008, stavolta come primo ministro, Thaçi era stato l’uomo che aveva pronunciato la sospirata dichiarazione di indipendenza del Kosovo, accolta con giubilo dalla folla festante nelle strade e piazze di Pristina.

A prima vista, l’investitura di Thaçi avrebbe dovuto quindi segnare non solo il coronamento della sua carriera politica, ma anche un momento di unione e celebrazione dell’intera società kosovara. Le cose, però, non sono filate così lisce.

Il dibattito che ha preceduto il voto è stato interrotto più volte dall’opposizione che – come già successo a più riprese nei mesi precedenti – ha tentato di bloccare la procedura lanciando fumogeni nell’aula parlamentare: protesta che ha portato all’espulsione di numerosi deputati.

Nelle strade del centro di Pristina, intanto, sono andate in scena pesanti scontri tra polizia e manifestanti, soprattutto sostenitori del movimento radicale Vetevendosje («Autodeterminazione») scesi in piazza al grido «Thaçi corrotto!», e terminati con un pesante bilancio di arresti e feriti.

Le parole solenni di Thaçi dopo la sua investitura – «Mi impegno a costruire un nuovo Kosovo, un Kosovo europeo» – non sono bastate a calmare gli animi: l’opposizione ha infatti annunciato ricorsi sulla regolarità del voto alla Corte costituzionale.

E come se non bastasse, il nuovo presidente rischia ora un’incriminazione da parte della nuova Corte speciale, che dal 2016 indagherà sui presunti crimini di guerra dell’Uçk durante e dopo il conflitto armato.

Dal parlamento alle piazze

Lo scontro cruento sull’elezione di Thaçi è la fotografia più efficace delle divisioni e fratture che oggi spaccano «il paese più giovane d’Europa», figlio della dissoluzione della Jugoslavia, del conflitto inter-etnico tra la comunità albanese e quella serba, di una guerra sanguinosa e della contestatissima dichiarazione d’indipendenza dalla Serbia (oggi riconosciuta da più di 100 paesi, ma non dalla stessa Serbia, né da Russia, Cina e cinque paesi dell’Ue) del 2008.

La prima faglia si trova nelle difficoltà del sistema politico di dare vita a una democrazia sostanziale. Le ultime elezioni (giugno 2014), hanno disegnato un parlamento diviso, con il Pdk di Thaçi da una parte e una coalizione di partiti d’opposizione decisi a detronizzarlo dall’altra. Incapaci di trovare una soluzione mediata, i leader kosovari hanno dato vita a un autistico muro contro muro, che ha lasciato il paese senza governo per quasi sei mesi.

La crisi è stata risolta solo con il pesante intervento della comunità internazionale, che ha portato a un «patto innaturale» tra il Pdk e il principale partito d’opposizione, la Ldk, che ha voltato le spalle al patto anti Thaçi.

L’esito di quello scontro ha sciolto il nodo del governo, ma ha esacerbato la vita politica kosovara, portandola ad un livello parossistico di costante tensione, con l’opposizione ormai convinta di non avere alcuna possibilità di arrivare al potere tramite le ue.

Il confronto si è spostato quindi sempre di più nelle piazze, e qui ha incontrato una seconda faglia, quella che ancora divide il Kosovo lungo linee etniche.

La protesta si concentra infatti su alcuni aspetti dello storico accordo sulla normalizzazione dei rapporti tra Kosovo e Serbia raggiunto nell’aprile 2013. L’intesa, primo accordo formale firmato dai due avversari, prevede un faticoso scambio: Belgrado si impegna a non interferire negli «affari interni» del Kosovo, smantellando le sue strutture di sicurezza ancora presenti sul territorio dell’ex provincia, Pristina acconsente alla creazione di una «Associazione delle municipalità serbe in Kosovo», che dovrebbe garantire ai serbi rimasti di godere di un’ampia autonomia locale.

Il vero obiettivo dell’intesa è «normalizzare» la situazione nel Nord del Kosovo, area a grande maggioranza serba che, dalla guerra del ‘99, rifiuta ogni tipo di integrazione nelle istituzioni di Pristina (leggere riquadro).

Quella che per il governo kosovaro è una concessione dolorosa, ma necessaria, per l’opposizione è un patto scellerato che rischia di creare un’ingestibile «entità serba» in Kosovo, sul modello della «Republika Srpska» (Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina) in Bosnia.

Una prospettiva da contrastare a tutti i costi, sia nell’aula parlamentare, trasformata in una curva di stadio, che nelle strade e piazze del Kosovo.

Fuga dalla povertà

Se la politica arranca, ampie fasce della società attraversano acque estremamente agitate. Il Kosovo resta una delle aree più povere del continente europeo, con un’economia basata soprattutto sulle rimesse della diaspora e sul consumo privato, mentre la produzione resta quasi assente.

Dopo anni relativamente positivi, il 2014 ha segnato lo stallo dei principali indicatori, con una debole crescita del Pil (0,9%), l’aumento del deficit nella bilancia dei pagamenti (-8%) e un calo negli investimenti diretti dall’estero (-2,3% del Pil).

Il dato più preoccupante riguarda però la mancanza di lavoro. Se il tasso di disoccupazione generale è al 35,3% (oltre il 38% tra le donne) quello giovanile registra il 61%.

Secondo i report della Commissione europea, il Kosovo è oggi in Europa il paese con i più bassi tassi di occupazione e partecipazione attiva alla vita economica.

Una situazione ormai incancrenita, che negli ultimi anni ha spinto decine di migliaia di persone a cercare opportunità di vita migliore nei paesi ricchi dell’Europa centro-settentrionale, utilizzando lo strumento della richiesta di asilo politico.

Un escamotage reso necessario dal fatto che il Kosovo – unico tra i paesi della regione – rimane ancora escluso dalla politica di liberalizzazione dei visti con l’area Schengen. Dalle 20mila richieste depositate da cittadini kosovari in stati Ue nel 2013, si è passati alle 37mila dell’anno successivo, fino ad arrivare a una vera esplosione nel corso del primo semestre 2015: ben 62.860 richieste.

Un vero e proprio esodo (la popolazione totale del paese è circa due milioni di abitanti), che è stato tamponato con una forte stretta sui controlli alle frontiere e con migliaia di rimpatri, volontari o forzati. Le cause profonde alla base della fuga non sono però state risolte. Accanto a difficoltà economiche e disoccupazione, ad affossare le speranze nate con la dichiarazione d’indipendenza del 2008 sono anche la corruzione diffusa, l’emarginazione di gruppi sociali ed etnici (come ad esempio i rom), la scarsa qualità dei servizi foiti dallo stato.

Tutti fattori che contribuiscono all’infiammabilità della situazione sociale e politica e, secondo molti osservatori, costituiscono terreno fertile per la tentazione jihadista. Secondo varie stime, circa 300 giovani kosovari si sono arruolati negli ultimi anni nelle fazioni più radicali impegnate nei conflitti in Siria e Iraq, come il fronte al-Nusra e il sedicente Stato islamico.

Numeri preoccupanti, che oggi fanno del Kosovo il paese europeo col maggior numero di foreign fighters pro capite, nonostante le frequenti operazioni di polizia e forze di sicurezza contro il fenomeno.

Accuse di crimini

Nonostante la prossima entrata in vigore dell’«Accordo di stabilità e associazione» con l’Ue, primo ed importante passo sulla strada dell’integrazione, il Kosovo resta oggi il paese balcanico più lontano da una futura membership europea.

Al tempo stesso, però, dal febbraio 2008 il paese ospita Eulex (European Union Rule of Law Mission) – la più grande missione Ue all’estero – schierata da Bruxelles per aiutare Pristina a consolidare le proprie istituzioni, soprattutto nel campo giudiziario e nella lotta a criminalità organizzata e corruzione.

Forte di 1.600 membri e di un budget annuale intorno ai 110 milioni di euro, Eulex – attualmente guidata dal diplomatico italiano Gabriele Meucci – è partita con grandi aspettative, ma si è scontrata sul terreno con la resistenza di parte della società kosovara e con una capacità limitata di incidere nel cambiamento, soprattutto sull’obiettivo centrale delle sue attività: la lotta a corruzione e criminalità organizzata. Già nel 2012 un report della Corte dei conti europea metteva in risalto che l’attività di supporto di Eulex era stata generalmente inefficace, mentre la corruzione rimaneva «endemica» in Kosovo.

A intaccare ulteriormente la credibilità della missione, nel 2014 è poi arrivato un grave scandalo: Maria Bamieh, procuratore britannico, ha accusato pubblicamente Eulex di aver coperto un caso di corruzione giudiziaria al proprio interno. Le accuse hanno spinto Federica Mogherini, Alto rappresentante Ue per gli affari esteri, a chiedere un rapporto sullo stato della missione, affidato a Jean-Paul Jacqué, professore di diritto francese.

Il rapporto, pur smentendo le accuse di corruzione, ha gettato però una certa luce sulle gravi carenze strutturali della missione, che è parsa incapace, o disinteressata, a combattere fino in fondo l’élite criminale che, in Kosovo, si sovrappone significativamente all’élite politica.

Nel frattempo, una nuova iniziativa europea ha fatto irruzione sullo scenario kosovaro, in risposta al rapporto prodotto nel 2010 per il Consiglio d’Europa dal senatore svizzero Dick Marty. In quel rapporto venivano accusati vari leader di spicco dell’Uçk, oggi leader politici, di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, soprattutto nei confronti delle comunità serba e rom. Secondo Marty, tra i crimini commessi c’è anche quello – infamante – dell’espianto di organi a prigionieri a fini di lucro.

Per indagare su accuse così pesanti, l’Ue ha creato una Special Investigative Task Force (Sitf), che nel 2014 ha confermato la fondatezza del «rapporto Marty». Ora le prove e le imputazioni raccolte dalla Sift aspettano di essere presentate di fronte a una «Corte speciale», che dovrebbe aprire i battenti entro il 2016.

Ufficialmente la Corte fa parte del sistema giudiziario kosovaro, ma avrà sede all’Aja, per proteggere i testimoni da pressioni e minacce, problema che ha minato molti dei processi a ex leader Uçk già tenuti dal Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia, terminati in gran parte in contestate assoluzioni.

Tra i nomi dei possibili imputati, il più discusso è proprio quello del neo presidente Hashim Thaçi, citato più volte nel rapporto Marty come «esponente di spicco del mondo criminale kosovaro», ma anche numerosi leader, sia della compagine governativa che dell’opposizione.

Difficile prevedere l’impatto della Corte sulla vita politica del Kosovo: potenzialmente, il nuovo tribunale potrebbe però causare un vero terremoto a Pristina e dintorni.

Giovani con voglia di futuro

Nonostante la situazione socio-economica e politica, segnata più da ombre che da luci, tanti kosovari, soprattutto tra i giovani, non si rassegnano al presente e cercano con determinazione di costruire la propria strada verso il futuro. Un esempio importante è quello del gruppo di lavoro – cornordinato dal fondatore e amministratore delegato Mergim Cahani – di «Gijrafa.com», piattaforma e motore di ricerca tutto dedicato alle informazioni online in lingua albanese. Un progetto coltivato per anni e che, recentemente, ha attirato investimenti per oltre due milioni di dollari, cifra ragguardevole per il Kosovo.

Anche nel cinema le idee e le proposte non mancano. Nato nel 2002 per iniziativa di un gruppo di amici, il DokuFest di Prizren, città nel Kosovo Sud occidentale, è diventato negli anni uno dei punti di riferimento per il cinema documentario a livello sia europeo che internazionale e, nel 2014, ha registrato non meno di 18mila presenze. Più recentemente, nel 2015, è stata invece una produzione anglo kosovara a far parlare di sé: il cortometraggio Shok («Amico»), diretto dalla regista inglese Jamie Donoughue, ma con un cast tutto kosovaro che, dopo aver vinto numerosi riconoscimenti, è stato nominato agli Oscar 2015 nella categoria «film brevi».

Se c’è una storia che più di ogni altra rappresenta la voglia di farcela nonostante tutto, è però quella di Majlinda Kelmendi. Nata nel 1991 a Peja/Pe?, Majlinda si è imposta negli ultimi anni come uno dei talenti più puri del judo internazionale vincendo quasi tutto quello che si può vincere – campionato del mondo incluso – nonostante tutte le difficoltà dovute allo status incerto della federazione kosovara.

Ai giochi olimpici di Londra 2012 Majlinda ha dovuto partecipare con la squadra dell’Albania, visto che all’epoca il Kosovo non era stato ancora ammesso al Comitato olimpico internazionale. Oggi, però, dopo l’ingresso a pieno titolo del paese (2014), Majlinda può realizzare il suo sogno ed entrare nella storia: portabandiera designato, durante la cerimonia di apertura dei giochi di Rio de Janeiro di questa estate sarà la prima a far sventolare alle Olimpiadi i colori del Kosovo.

Francesco Martino

 




Sudafrica quattro passi nella storia


Da Sendton ad Alexandra, da Newtown a Soweto, passando per Durban e King William’s Town. Il ricordo di Biko e di Mandela. Visitando i luoghi «storici», ritroviamo il percorso di una delle nazioni più  particolari del continente. E ne scopriamo le contraddizioni.

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Era il 1994 quando si svolsero in Sudafrica le prime elezioni multirazziali e democratiche. I giorni tra il 26 e il 29 aprile furono di grande euforia. Il paese, noto a livello internazionale per una politica fondata su criteri razzisti, stava voltando pagina; stava concretizzando il principio one person one vote, «una persona, un voto», attraverso elezioni inclusive, capaci cioè di incorporare quei segmenti sociali – in primis i neri – rimasti isolati, seppur a differenti livelli, per lungo tempo. Quelle del 1994 vennero definite elezioni miracolose: era finalmente giunto il tempo della riconciliazione, preludio di una nuova era. Tale momento storico vide un imponente coinvolgimento e partecipazione del popolo sudafricano. Il diritto di voto fu infatti esercitato dall’87% dell’elettorato attivo: all’incirca 19 milioni di persone. Ciò diede vita a una miriade di lunghe e colorate file di elettori, la maggior parte dei quali sperimentavano liberamente il loro diritto per la prima volta nella loro vita.

Molti appoggiarono, come ci si aspettava, la linea politica dell’African National Congress (Anc), che ottenne il 62% dei voti, avendo così a disposizione all’Assemblea nazionale (il parlamento) 252 seggi.

In quei giorni nasceva la Rainbow Nation, «nazione arcobaleno», alla cui presidenza sarebbe andato Nelson Mandela, tra i massimi esponenti dell’Anc, il quale dopo ventisette lunghi anni di prigionia, divenne simbolo, nonché guida politica, del nuovo corso sudafricano. Tanti parlavano di Rainbow Nation, per sottolineare la volontà di creare una società multirazziale e tollerante verso ogni genere di differenza. Da allora, sono trascorsi due intensi decenni.

(© Silvia C. Turrin)
Museo dell’apartheid (© Silvia C. Turrin)

La mano di Madiba

Johannesburg (© Silvia C. Turrin)
Johannesburg (© Silvia C. Turrin)

Mandela, quando fu alla presidenza, cercò di implementare programmi di giustizia sociale e di ridistribuzione della ricchezza, ma le logiche neoliberiste prevalsero e i suoi successori non furono in grado di portare la nazione verso un piano di sviluppo che favorisse le comunità povere.

La morte di Mandela (5 dicembre 2013), una delle poche figure, se non la sola, davvero carismatica dell’Anc, acuì alcuni problemi politici: il partito che permise la fine dell’apartheid e che siglò la politica di riconciliazione non era stato in grado di mantenere la promessa di dare aiuti agli indigenti e di migliorare i servizi nelle comunità periferiche.

Il tasso di disoccupazione continua tutt’oggi a essere alto – circa il 25% nel 2014 – e la maggioranza dei senza lavoro sono neri. Inoltre, permangono gli effetti della dura dominazione coloniale che aveva represso, sul piano fisico, psicologico, sociale e giuridico la maggioranza della popolazione sudafricana.

Nonostante ciò, il Sudafrica rimane tra i paesi più vitali del continente africano, sia a livello economico, sia culturale. È una terra vasta, con un ricco mosaico di popoli, etnie e idiomi (si contano undici lingue ufficiali). Incastonato tra l’Oceano Indiano e quello Atlantico, è un paese, in cui convivono culture europee, africane e asiatiche e dove si respira il profumo della libertà. Una libertà per lungo tempo ricercata da tanti sudafricani, per la quale molte persone si sono sacrificate, superando difficoltà e ostacoli.

La democrazia che la società sudafricana sperimenta oggi, seppur con tante contraddizioni, è stata il frutto della protesta e delle lotte portate avanti, nei decenni scorsi, da uomini e donne comuni, da studenti, da attivisti per i diritti civili, da artisti ed esponenti dell’intellighenzia africana e non, e da figure politiche dotate della determinazione necessaria per modificare il regime razzista edificato con tanta tenacia dalla minoranza afrikaner (vedi glossario).

Johannesburg (© Silvia C. Turrin)
Johannesburg (© Silvia C. Turrin)

Luci e ombre della nazione arcobaleno

Johannesburg (© Silvia C. Turrin)
Johannesburg (© Silvia C. Turrin)

Abbiamo deciso di compiere un viaggio nel paese che ha un territorio quattro volte più esteso dell’Italia, allo scopo di conoscere qualcosa del Sudafrica di oggi.

Incominciamo da Johannesburg, detta Jozi o anche Jo’burg, città in cui il divario tra zone residenziali e quartieri poveri è impressionante. Basta guardare alle disuguaglianze tra il quartiere di Sandton e la township di Alexandra. A Sandton risiedono sudafricani benestanti, che abitano in grandi case o appartenenti lussuosi o ville con piscina e con sistemi di allarme sofisticati. Vi sono modei centri commerciali,  banche e centri finanziari. Sembra che molti bianchi che vivono a Sandton nutrano ancora forti sentimenti razzisti e di superiorità nei confronti dei neri.

A pochi chilometri sorge la township di Alexandra, fra i luoghi più poveri del Sudafrica post apartheid, la cui storia risale ai primi anni del ‘900. Nonostante l’avvio dell’Alexandra Renewal Project con cui si intende migliorare le condizioni di vita dei suoi abitanti, c’è ancora molto da fare per risolvere i problemi basilari della gente che vi abita.

Johannesburg rimane uno specchio che riflette le contraddizioni del Sudafrica. La città venne fondata nel 1886 a seguito della scoperta di ingenti giacimenti auriferi nella zona: era il periodo della corsa all’oro che richiamò migliaia di persone.

Nel quartiere di Sandton è stata creata una piazza intitolata a Nelson Mandela, dove si erge la statua sorridente del «padre della patria».

Da Sandton ci muoviamo verso il distretto culturale di Newtown, dove, al numero 121 di Bree Street, troviamo l’ingresso del Museum Africa.

Lo spazio espositivo racconta, attraverso fotografie, reperti, fumetti e disegni, la storia del paese e le diverse culture che lo popolano.

Ginsberg e casa museo di Steve Biko (© Silvia C. Turrin)
Ginsberg e casa museo di Steve Biko (© Silvia C. Turrin)

C’è una sala dedicata all’arte rupestre del popolo San, e poi, grazie a una sezione dedicata alla geologia, si ha l’opportunità di attraversare le epoche della pietra e del ferro, si osservano fossili e testimonianze di quei giacimenti d’oro e di diamanti che attirarono in Sudafrica migliaia di coloni europei. Furono proprio quelle incredibili ricchezze a cambiare il volto del paese.

Nel Museum Africa gli appassionati di musica possono trovare tante testimonianze, immagini, copertine di dischi, vecchi articoli di giornali, circa la nascita del jazz sudafricano avvenuto nelle township.

Un’altra sezione racconta il passaggio di Gandhi in questa terra: dalla creazione della Tolstoy farm allo sviluppo della filosofia del Satyagraha (basata sulla resistenza pacifica, ma attiva, contro le ingiustizie politiche), sino alla creazione del suo ufficio che richiamava attivisti sia indiani, sia cinesi. Gandhi rimase in Sudafrica per ben 21 anni (dal 1893 al 1914), lasciandovi un’impronta filosofico-politica importante.

Usciti dal museo visitiamo l’area di Newtown, che è stata protagonista di un ambizioso progetto di ristrutturazione urbana. Gli edifici industriali e i vecchi magazzini sono stati riqualificati in eleganti loft e centri culturali, tra cui music club e teatri, anche se in alcune vie è facile che lo sguardo incontri ancora angoli di miseria e di emarginazione sociale.

Johannesburg (© Silvia C. Turrin)
Johannesburg (© Silvia C. Turrin)

La rivolta di Soweto

Dal centro di Johannesburg ci spostiamo nella sua città satellite, Soweto, acronimo di South West Township. Qui ci si immerge nella storia dell’apartheid e delle sue conseguenze, ancora ben visibili. Una delle sue vie più famose è Vilakazi street, in cui hanno abitato due prestigiosi sudafricani, entrambi premi Nobel per la Pace, l’arcivescovo Desmond Tutu e Nelson Mandela, la cui casa è stata trasformata in un museo che descrive i suoi anni di lotta e di clandestinità.

(© Silvia C. Turrin)
(© Silvia C. Turrin)

Non distante dalla casa museo di Mandela, tra Kumalo street e Moema street, è stato edificato il memoriale dedicato a Hector Pieterson, tredicenne nero ucciso il 16 giugno 1976. Per protestare contro l’introduzione dell’afrikaans come lingua veicolare di formazione scolastica venne indetta una manifestazione, presso l’Orlando Stadium di Soweto: migliaia di studenti (circa 20mila) sfilarono pacificamente per le vie della township, cantando inni di libertà e diffondendo slogan contro quella che definivano la lingua dell’oppressore. Quando i manifestanti si trovarono presso Vilakazi Street, ubicata vicino alla scuola di Orlando West, un contingente di polizia incominciò a lanciare gas lacrimogeni per dissuadere i giovani dal proseguire. Questi, anziché arrestarsi, risposero lanciando pietre. La polizia, senza esitare, reagì sparando sulla folla disarmata, uccidendo Zolile Hector Pieterson. Altri ragazzi morirono a seguito degli scontri e numerosi vennero feriti: la rivolta di Soweto, proseguita nelle settimane successive con il sostegno dei genitori degli studenti e dei lavoratori, si trasformò in un’ecatombe. Presso l’Hector Pieterson Museum si ripercorrono quegli eventi drammatici attraverso contributi multimediali e audiovisivi.

Sui passi di Gandhi

Lasciamo Johannesburg e la Provincia del Gauteng per spostarci verso Durban, la città più indiana del Sudafrica. Qui si incontra infatti una numerosa comunità di genti originarie dell’Asia. Un afflusso voluto in epoca coloniale dai britannici, per avere in loco manodopera destinata a vari lavori: dal settore agricolo (specialmente nelle piantagioni di zucchero) a quello dei trasporti (per la ferrovia Natal-Transvaal). Gli inglesi, che allora controllavano la zona chiamata del Natal (oggi KwaZulu-Natal), avevano anche bisogno di cuochi e domestici. Tra il 1860 e il 1911, agevolarono quindi l’arrivo di numerosi lavoratori provenienti dalle attuali regioni del Tamil Nadu, Andhra Pradesh, Uttar Pradesh e Bihar. Sì verificò poi un’ulteriore ondata di immigrazione proveniente dal Gujarat, formata da gruppi dediti al commercio.

A Durban e nell’area circostante la presenza indiana, col tempo, si è consolidata e accresciuta. Fu qui che Gandhi abitò. La sua casa, chiamata Sarvodaya, che significa «benessere per tutti», si trova a 25 chilometri dalla città, nell’area denominata Phoenix Settlement. Essa venne costruita nel 1904, e poi distrutta a causa dei tumulti del 1985. Ricostruita e inaugurata nel 2000, la casa è stata trasformata in museo, in cui sono raccontate, attraverso immagini e descrizioni, le sue battaglie pacifiche in Sudafrica. All’esterno troviamo altri pannelli sulla vita di Gandhi, mentre sotto un piccolo pergolato di paglia c’è un busto scolpito che lo ritrae.

Ginsberg e casa museo di Steve Biko (© Silvia C. Turrin)
Ginsberg e casa museo di Steve Biko (© Silvia C. Turrin)

L’eredità di Biko

Ginsberg e casa museo di Steve Biko (© Silvia C. Turrin)
Ginsberg e casa museo di Steve Biko (© Silvia C. Turrin)

Ci trasferiamo verso Ovest e raggiungiamo l’Easte Cape, direzione prima East London, poi King William’s Town. Questa cittadina era stata fondata come missione nel 1834 dal reverendo scozzese John Brownlee della Società dei missionari di Londra. King William’s Town non attrae molti turisti, quei pochi generalmente sono desiderosi di conoscere il luogo in cui nacque Stephen (Steve per gli amici) Biko, attivista anti-apartheid e «mente» del Movimento della Consapevolezza Nera. Biko, la cui storia è stata tratteggiata nel film Cry Freddom (Grido di libertà) del compianto Sir Richard Attembourough, era nato e cresciuto in una zona povera, Ginsberg, township di King William’s Town. Ancora oggi, chi visita questo sobborgo vede qua e là abitazioni fatiscenti, polli e ovini che scorrazzano nei giardini, e gente che compie chilometri a piedi.

Al numero 698 di Leightonville a Gisnsburg, si trova la casa dove Steve Biko visse e dove scontò la sanzione della messa al bando. Oggi trasformata in museo, inaugurato nel 1997, dall’allora presidente della Repubblica, Nelson Mandela. Al suo interno troviamo libri, documenti, teche e fotografie che tratteggiano non solo la vita di Biko, ma anche la nascita del Black Consciousness Movement (Bcm) e l’amicizia – raccontata nel film citato – tra lo stesso Biko e il giornalista Donald Woods. A Ginsberg sorge una sezione della Steve Biko Foundation (la sede centrale si trova a Johannesburg), i cui membri lavorano sia per diffondere valori quali il rispetto per la dignità umana e le diversità, sia per implementare progetti di carattere educativo e socio economico, al fine di contrastare la disoccupazione, molto alta nell’area di East London.

Nel 2012 è stato inaugurato un altro spazio dedicato a Biko, in cui vi sono un museo, un centro congressi moderno, una biblioteca e altre sale di ritrovo. Sempre a Ginsberg, alla periferia, merita un passaggio lo Steve Biko Garden of Remembrance, dove riposano le spoglie dell’attivista anti apartheid. È un luogo avvolto da silenzio. Qui, se si ascolta bene, si percepiscono gli echi di tutti coloro che hanno sacrificato la propria vita per la libertà che oggi il Sudafrica conosce.

Silvia C. Turrin