Radio la fatica diversi


Nata a Nueva Loja nel 1992, Radio Sucumbíos ha una forte connotazione sociale e interculturale. Dopo aver superato le difficoltà causate dai cambi e dalle incertezze nella direzione del Vicariato apostolico della locale provincia, oggi l’emittente è alle prese con una grave crisi economica. Come accade per molti altri media comunitari torna un dilemma: è possibile fare un lavoro informativo ed educativo al di fuori delle logiche mercantili?

Nueva Loja. A lato dell’entrata principale, davanti a un piccolo prato, campeggia un grande murale a colori con sette volti: ci sono quelli delle etnie native (Kichwa, Siekopai, Cofán, Shuar, Siona), un volto afro e uno in rappresentanza dei contadini meticci. Lo slogan dà il senso della filosofia e dell’obiettivo di Radio Sucumbíos: «Lavoriamo per l’interculturalità». L’emittente, nata su impulso di mons. Gonzalo López Marañón, carmelitano scalzo, al tempo Vicario apostolico dell’omonima provincia, ha visto la luce nel 1992. Era, quella, un’epoca in cui Sucumbíos aveva poche vie di comunicazione e i suoi abitanti – popoli indigeni e gente venuta da fuori – scarse possibilità di interazione.

Nel corso degli anni molto è cambiato. L’economia petrolifera ha trasformato – spesso in peggio – tutta la regione amazzonica. Oggi nella provincia ci sono una trentina di emittenti, ma Radio Sucumbíos copre un territorio più ampio delle concorrenti. Fa parte delle reti Aler e Corape, in cui confluiscono molte emittenti accomunate da tre caratteristiche: sono comunitarie, sono popolari, sono educative. Nel 2016 la radio del Vicariato ha compiuto 25 anni. Anni di soddisfazioni, ma anche di aspri conflitti.

Una radio inclusiva

A guidarci nella visita dei locali dell’emittente è Marilú Capa Galarza, giornalista, cornordinatrice del settore informativo e conduttrice del radiogiornale (El comunicador).

Marilú, che indossa una maglietta della radio, parla con coinvolgente entusiasmo. Ci conduce subito negli spazi dell’area giornalistica.

Su una grande lavagna sono segnati gli appuntamenti della settimana: la fiera dell’artigiano, il servizio trasporto sicuro, l’acqua potabile a Nueva Loja. Nella stanzetta a fianco un’altra lavagna riporta l’elenco delle interviste. Sulle sedie davanti ai computer sono appoggiati dei giubbotti a maniche corte con la scritta «prensa Sucumbíos» stampata sulle spalle. «Siamo 3 giornalisti fissi più altri due collaboratori dai vicini cantoni di Shushufindi e Orellana». Oggi a Radio Sucumbíos lavorano in tutto 14 persone, ma fino a pochi anni fa erano 23. Su una parete sono appese decine di foto e Marilú, con pazienza, ci racconta le più significative. «Questa radio – commenta – non appartiene a noi: è una radio della gente. Lo dimostra il fatto che in tutti i conflitti che abbiamo avuto la cittadinanza ci ha difesi». La nostra guida ci conduce quindi nel grande archivio storico: vi sono raccolti, in splendido ordine, dischi in vinile, Cd, Vhs, cassette, strumenti tecnici oramai datati.

Entriamo in una sala di registrazione dove sta lavorando Pilar Guaizo, conduttrice di Rostros y Rastros (volti e tracce), un programma del sabato. «Parliamo di personaggi della storia e persone di oggi che hanno fatto un lavoro importante nel campo dei diritti umani e della difesa ambientale. In sostanza, è una trasmissione educativa».

Passiamo in un altro studio dove si sta trasmettendo La trocha, un programma d’intrattenimento. Il conduttore, Miguel Angel Rosero, è un concentrato di energia ed entusiasmo.

Accanto alla consolle spicca un cartello in kichwa: «Allì Shamushka Kai Anki Sucumbiosma». «Benvenuti a Radio Sucumbíos», ci traduce Marilú. La ricerca dell’interculturalità è certamente un punto di merito dell’emittente di Nueva Loja.

Incontriamo German Tapuy, giovane indigeno di etnia kichwa che si occupa del programma in kichwa, trasmesso dal lunedì al sabato dalle 4 alle 5,30 del mattino. La sua trasmissione si chiama Jatarishunchik, che significa «Alziamoci». «Affronto gli argomenti più vari – ci spiega lui con un po’ di timidezza -. Tutto ciò che interessa le cinque nazionalità indigene che vivono in questa provincia».

Nel fine settimana c’è anche un programma destinato al popolo afro dal titolo di Voces y Jolgorio (voci e baldoria), condotto da Antonia Guerrero. «Anche se ci sono poche migliaia di afrodiscendenti, abbiamo deciso che era importante dare spazio anche a loro», spiega Marilú.

«Siamo una radio inclusiva», conferma Amado Chavez, direttore della programmazione. Che vuole anche ricordare il suo programma, Machetes y Garabatos: «Trattiamo argomenti molto pratici: coltivazioni agricole, allevamento, pescicoltura».

Per non essere come le altre

Victor Gómez Barragán è direttore di Radio Sucumbíos dal giugno del 2015. Tra la fine del 2010 e l’inizio del 2012, con il cambio alla guida del Vicariato, gli Araldi al posto dei Carmelitani scalzi (leggere riquadro a pag. 53), l’emittente è al centro di aspre polemiche che ne mettono in forse la stessa sopravvivenza. All’epoca Victor non era direttore, ma quelle vicende sono rimaste impresse nella sua mente.

«Gli Araldi volevano una radio che invece di seguire le marce contadine, le proteste civili, le manifestazioni popolari, le problematiche di genere seguisse soltanto le messe e trasmettesse soltanto preghiere. Senza cioè parlare di un Dio vivo che sta nei campi, accanto ai poveri e agli indigeni. Volevano licenziare tutto il personale e fare la radio con soltanto tre volontari».

L’emittente ha resistito, ma il prezzo pagato è stato molto alto. La contesa religiosa tra i Carmelitani (riuniti nel movimento Isamis) e gli Araldi si trasformò presto in lotta politica ed economica. Con schieramenti e divisioni, anche tra familiari e amici. «Molte di quelle ferite ancora adesso non sono rimarginate», ammette Victor, che oggi però ha altre preoccupazioni.

«Abbiamo sempre dovuto combattere – racconta – con le difficoltà economiche. Ma ora la situazione si è aggravata a causa della crisi che, a partire dal 2015, si è abbattuta sul paese. La prima conseguenza è stata la riduzione della pubblicità che proveniva dalle entità governative e dalle imprese private. Inoltre, essendo noi collocati in una zona petrolifera, a causa della caduta dei prezzi del greggio molte imprese locali hanno chiuso, il commercio è diminuito e con ciò anche gli investimenti pubblicitari».

In questo momento, confessa con visibile dispiacere Victor, l’emittente ha alcuni mesi di ritardo nel pagamento degli stipendi ai propri dipendenti.

«È diventato molto difficile sostenere un progetto di comunicazione come quello che offre Radio Sucumbíos. Se non arriverà l’appoggio di qualche entità non governativa, potremo sopravvivere soltanto riducendo il personale e i programmi. Questo non vogliamo che succeda perché ci trasformeremmo in una delle tante radio che offrono soltanto musica e qualche altro programma senza alcun interesse per le problematiche sociali e comunitarie».

E verrebbe meno il motto che ha guidato Radio Sucumbíos in questi suoi primi 25 anni di vita: fare un giornalismo con responsabilità sociale.

Quando occorre schierarsi

«Se c’è una perdita di petrolio, noi la denunciamo subito. Non abbiamo compromessi con il potere, sia esso quello politico che quello economico. Un mezzo di comunicazione non può sempre essere neutrale o imparziale. Quando c’è una violazione di un diritto umano, quando c’è un disastro ambientale, devi schierarti. E Radio Sucumbíos si è sempre schierata a fianco della gente, dei contadini, degli indigeni».

Paolo Moiola

(fine 7.a puntata – continua)

 




Pigmei piccolo uomo fratello mio


Negli ultimi mesi c’è stata una recrudescenza dei massacri nell’Est del Congo. Qui gli interessi di potenze straniere e del governo centrale creano una situazione esplosiva. In questo contesto un missionario italiano lotta per la difesa dell’etnia più oppressa: i pigmei.

«Il mio pensiero va agli abitanti del Nord Kivu recentemente colpiti da nuovi massacri che da tempo vengono perpetuati nel silenzio vergognoso, senza attirare neanche la nostra attenzione. Fanno parte purtroppo dei tanti innocenti che non hanno peso sulla opinione mondiale».

Questo l’emblematico, coraggioso e condivisibile messaggio lanciato lo scorso mese di agosto da papa Francesco durante l’Angelus per la festa dell’Assunta, a seguito del massacro di civili avvenuto nella Repubblica democratica del Congo, per opera di un commando armato. Le vittime degli eccidi, nella zona Butembo-Beni (Nord Kivu), non sono quantificabili in modo esatto, ma fonti locali parlano addirittura di 500 morti, tra questi anche donne e bambini.

Un’annosa questione

Nell’Est Congo Rd la situazione è complessa. È in atto una guerra che ha le sue radici nella conquista del potere da parte di Paul Kagame in Rwanda, nel 1994. Da allora decine di milizie si combattono nel Sud e nel Nord Kivu, spesso appoggiate dai governi di Uganda, Rwanda e Burundi, talvolta in contrapposizione. I tre stati confinanti, da oltre 20 anni approfittano della guerra per sfruttare le ricchezze minerarie e forestali del Congo (vedi MC giugno 2016). Le milizie, molto sanguinarie, alcune composte da poche centinaia di uomini armati, si scontrano tra loro, talvolta contro le Forze armate congolesi (Fardc), ma sempre commettendo atrocità nei confronti dei civili.

«Nel Nord Kivu – afferma padre Antonio Mazzucato, classe 1938, sacerdote fidei donum della diocesi di Bolzano, e missionario nella diocesi di Butembo-Beni – sono in atto cruenti attacchi a danno della popolazione da parte di diversi gruppi armati. In particolare Forze democratiche per la liberazione del Rwanda (costituita da hutu contro il regime tutsi di Kigali, ndr) e le Forze democratice alleate (ugandesi di fede islamica contro il governo di Uganda e Rdc, ndr).  In questo scenario la Monusco, la missione Onu per la stabilizzazione della Rdc, non riesce a proteggere la popolazione. I soldati Onu non fanno nulla per bloccare i massacri, intervengono troppo in ritardo. Si limitano a operazioni umanitarie. Inoltre, non contrastano, né denunciano, il traffico di minerali, come diamanti e coltan. Ed è proprio il quest’ultimo uno dei fattori che alimenta l’instabilità politica e i massacri» .

A causa del saccheggio delle risorse naturali, nel Nord Kivu continuano i massacri, nella più totale impunità. Secondo padre Gaston Mumbere, della congregazione degli Agostiniani dell’assunzione, soltanto in questa regione della Rdc si conterebbero 8 milioni di vittime negli ultimi vent’anni (si veda il rapporto Rapport du Projet Mapping, dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani). Un genocidio denunciato da padre Mumbere tramite una lettera appello, indirizzata lo scorso maggio a Joseph Kabila, in cui si legge: «A questo ritmo, voi potreste essere ricordato come il presidente dei morti, dei cimiteri, delle fosse comuni».

La missione Etabe

Padre Antonio opera in Nord Kivu dal 1989. Una regione difficile e al contempo straordinaria dal punto di vista naturalistico e culturale. Padre Antonio ha deciso di aiutare gli ultimi tra gli ultimi, i pigmei, con la creazione di un progetto concreto a loro favore. Chiamato inizialmente «Progetto pigmei Teturi», questo programma fu sottoscritto e sostenuto dall’allora vescovo di Butembo-Beni, monsignor Emmanuel Kataliko. Il progetto, nell’arco di pochi anni, pur con limitati mezzi a disposizione, si è radicato, tanto da coinvolgere diversi clan (o famiglie allargate) di pigmei nella partecipazione al suo sviluppo. Intanto, il nome è stato modificato in «Progetto pigmei Etabe». Etabe deriva dall’appellativo dell’originaria missione istituita nella prima metà del ´900 dai Piccoli fratelli di Charles De Foucauld, i quali stavano cercando di emancipare i pigmei. Anche per questo motivo, nel 1964, alcuni preti di questa comunità missionaria vennero uccisi dai ribelli Simba istigati, secondo padre Antonio, dal gruppo dei Babila. Questi ultimi erano e rimangono i principali oppositori di chiunque tenti di aiutare il popolo della foresta.

L’obiettivo del progetto è quello di offrire ai pigmei gli strumenti per sottrarsi al dominio-sfruttamento da parte  degli altri congolesi, e degli stranieri. L’emancipazione avviene a più livelli. Sul piano economico, con l’acquisizione di conoscenze legate all’agricoltura, come forma di integrazione delle fonti di sussistenza tradizionali quali caccia, pesca e raccolta. A ciò si aggiungono l’apprendimento di competenze legate all’artigianato del legno, alla meccanica, alla sartoria.

Sul piano politico, sostenendo una forma di autonomia giuridica e amministrativa delle popolazioni pigmee, all’interno dell’ordinamento dello stato. Sul piano culturale, appoggiando l’istruzione dei pigmei attraverso scuole gestite da loro stessi, per proteggere e valorizzare le varie forme espressive e artistiche originali. Sul piano religioso, l’annuncio evangelico viene inserito rispettando la religiosità dei pigmei.

Padre Antonio, appoggiato dal fratello Benito, insegnante in pensione, da Alexandre Muhongya, già collaboratore dei Piccoli fratelli di De Foucauld, e da padre Piero Lombardo (poi spostatosi verso Sud, oltre Byakato), ha continuato a consolidare il progetto Etabe. A ciò hanno contribuito alcuni gruppi pigmei, i quali hanno aiutato a costruire le capanne in legno e fango, ricevendo in cambio assistenza sanitaria e beni di prima necessità, come cibo e vestiario.

I diritti dei pigmei

Il progetto Etabe si è sviluppato a partire dal 1994, quando venne edificata la missione a Mikelo-Kadodo, poi chiamata semplicemente Kadodo. Sempre con l’aiuto dei pigmei, sono state realizzate diverse opere, tra cui una cappella in legno, bambù e lamiere ondulate; un laboratorio di falegnameria; un magazzino; un ufficio; un piccolo refettorio; una cucina con l’alloggio per il personale della cucina; un piccolo dispensario con camera da letto per le infermiere; un laboratorio di sartoria.

Nell’arco di quasi 30 anni molto è stato fatto, sia per proteggere la cultura e le attività tradizionali dei Pigmei, sia per fornire loro conoscenze teorico-pratiche al fine di alfabetizzarli e insegnare utili saperi artigianali.

«Con il progetto aiutiamo i pigmei a convivere con la modeità, e allo stesso tempo manteniamo viva la loro cultura e la loro civiltà. Per esempio, quando inizia il periodo dedicato alla caccia tradizionale, i bambini al mattino non frequentano la scuola, ma sono liberi di andare in foresta coi genitori per imparare a cacciare. Gli scolari sono accompagnati anche dai maestri che insegnano loro le caratteristiche e i nomi delle piante e degli animali. È una conoscenza diretta della natura che li circonda e da cui traggono sostentamento. I maestri, dopo l’esperienza sul campo, danno loro dei compiti da svolgere».

Continua il missionario: «Questo metodo è importante per valorizzare la loro cultura, per permettere ai pigmei di capirla a fondo, documentarla. In questo modo non rischia di andare perduta. Vivendola e praticandola viene conservata. Ma l’economia di caccia non è più sufficiente per permettere loro di sopravvivere. Decenni fa, nella foresta, vivevano poche centinaia di persone, e i clan di pigmei si suddividevano le zone. Con l’arrivo degli stranieri, delle multinazionali del legno, dei cacciatori e dei bracconieri, la selvaggina e le altre risorse naturali sono sempre più scarse. In passato i pigmei cacciavano secondo i bisogni quotidiani, rispettando il ciclo ecologico. Ma ormai anche questa attività non sempre da risultati.

Inoltre è sempre più pericoloso andare a caccia o raccogliere erbe e frutti, a causa della presenza di mine antiuomo.

Ecco che insegnando non solo a leggere e a scrivere, ma anche conoscenze di meccanica e di falegnameria, i pigmei imparano un mestiere. Da qui la decisione di creare gli atelier artigianali. Quando hanno appreso bene le tecniche, foiamo ai pigmei l’attrezzatura per lavorare. Così vanno al villaggio più vicino e riparano le bici o le motociclette».

Un progetto scomodo

Proprio perché difende i diritti di questo popolo, padre Antonio ha subito minacce. Più volte la missione e la sede del progetto Etabe sono state prese di mira da ribelli e da chi è contrario a una possibile emancipazione dei pigmei. «Nel 2003 – ci racconta padre Antonio – i soldati governativi hanno distrutto e saccheggiato la missione che avevamo a Etabe. Hanno portato via attrezzi di meccanica, falegnameria e strumenti elettrici. Nel fango e in mezzo all’erba hanno lasciato brandelli di abiti, quadei e libri della scuola». Secondo padre Antonio quel saccheggio nascondeva la volontà di attuare un genocidio programmato contro la popolazione dei pigmei. Questi si sono salvati miracolosamente grazie alla pronta fuga e poi all’intervento degli osservatori Onu, all’epoca guidati dal generale italiano Roberto Martinelli.

Ci spiega padre Antonio: «Per farmi paura i soldati governativi hanno persino divelto materassi e sollevato i mattoni del pavimento di casa, perché pensavano avessi nascosto qualcosa di prezioso. Mi hanno distrutto tutto alla missione. Per ben due volte ho ricominciato da zero.

Nel 2015 sono dovuto fuggire con mio fratello, perché i gruppi ribelli erano arrivati vicino a casa nostra. Nella missione a Etabe, in piena foresta, non possiamo più andare perché è circondata da milizie. A Mangina (località a 65 km dalla missione, ndr) sono state saccheggiate numerose case. Il parroco locale ci aveva esortato ad andarcene. Anche lui è stato costretto a scappare. A Beni vengono ammazzate in media due persone al giorno. L’Onu è un semplice osservatore. I caschi blu distribuisce la carità. Non intervengono. Si spostano protetti nei loro fuoristrada».

Voglia di continuare

Tante amici in Italia hanno implorato padre Antonio di abbandonare il progetto, di non rischiare più andando in una zona così pericolosa. Ma lui non si perde d’animo, nonostante sia stato minacciato più volte dal capo locale dei Babila: «Questo gruppo è contrario al progetto per varie ragioni», ci dice padre Antonio. «La più importante è razziale. I pigmei non sono considerati uomini e la loro etnia non viene riconosciuta a livello ufficiale. Questo accade da sempre, sin da prima del colonialismo. Poi con Mobuto la situazione è peggiorata. I pigmei durante il mobutismo venivano costretti a sposarsi e a mescolarsi con le altre etnie, per far sì che, progressivamente, la loro scomparisse. Ma la discriminazione verso i pigmei la si può vedere anche in coloro che apparentemente fanno del bene. Per esempio, chi va in Africa con l’idea che si debba “civilizzare” gli africani è spinto da un principio razzista, a scopo di bene, certo, ma è comunque mosso da atteggiamenti patealistici e di superiorità. Tante volte, quando faccio notare questa subdola forma di razzismo, mi si obietta: “Ma come? Tu non civilizzi quella gente”? E io immancabilmente rispondo che “No, io mi sono fatto civilizzare dai pigmei, perché ho imparato il rispetto delle culture proprio stando con loro”».

A padre Antonio e a suo fratello le autorità non hanno concesso una scorta per la protezione nei loro spostamenti. «Noi abbiamo richiesto la scorta a Beni – ricorda padre Antonio – e ci hanno risposto che dovevamo rivolgerci agli uffici della sicurezza di Kinshasa. I funzionari a Kinshasa ci hanno detto che dovevamo munirci di determinati documenti. E così è iniziato il girone infinito della burocrazia congolese. Rimane il fatto che non abbiamo ancora la scorta. Negli ultimi anni, anche da parte dell’Onu non ho trovato appoggi. Solo alcuni amici locali ci aiutano».

Nonostante la mancanza di sicurezza, padre Antonio, in Italia per vacanza “forzata”, sta già pianificando il ritorno nel Nord Kivu. «È da tempo che non riesco a raggiungere la mia missione a causa dei massacri. Sono stato costretto più volte a fermarmi a Mangina, perché la strada era taglieggiata dai soldati e dai banditi. Anche se cammino col bastone devo tornare. I pigmei mi aspettano, hanno bisogno che continui la mia opera».

Silvia C. Turrin


Archivio MC

Abbiamo parlato di pigmei in: Marco Bello, Echi dalla foresta, ottobre 2012.




Mongolia: ordinato primo sacerdote mongolo


Nel VII secolo i primi a portare il Vangelo sono i Nestoriani. Nel XIII secolo arrivano i cattolici. Una Chiesa vivace e numerosa è spazzata via sotto la dinastia Ming nel XVI secolo, quando il Buddismo tibetano diventa religione di stato.

Solo nel 1992 possono rientrare i primi missionari cattolici. Rinasce una piccola comunità cristiana. Che cresce velocemente. E ha ora il suo primo prete. Enkh-Joseph è il primo sacerdote cattolico nativo della Mongolia. È stato ordinato nella cattedrale dei santi Pietro e Paolo il 28 agosto 2016, alla presenza di quasi tutti i fedeli cattolici del paese, oltre che di molti ospiti stranieri. La Chiesa cattolica in Mongolia conta poco più di 1.500 battezzati e ha accolto con gioia questo evento storico.

La storia vocazionale di Enkh inizia in famiglia, quando le sue sorelle maggiori si avvicinano alla Chiesa e ricevono il battesimo. Nel giro di poco s’interessa anche lui e comincia a frequentare la neo istituita parrocchia della cattedrale di Ulaanbaatar. Quando lo conosciamo noi è un ragazzino timido e gentile, che comincia a farsi delle domande importanti. Suo papà è morto quando lui era piccolo e la mamma quando sente del suo desiderio di entrare in seminario è un po’ titubante; così Enkh accetta il consiglio materno di concludere prima l’università e si iscrive a un college di Ulaanbaatar. Il diploma arriva presto e a questo punto la mamma non oppone più resistenza. È pronto per il seminario: ma quale, visto che in Mongolia non ce ne sono? La diocesi coreana di Daejeon è in ottimi rapporti con la Prefettura Apostolica di Ulaanbaatar e così inizia il cammino di formazione presso quel seminario, reso più impegnativo a motivo della lingua diversa che deve imparare. Adesso parla meglio di un coreano, dicono. Più di sette anni di studio e finalmente arriva il grande giorno.

L’evento – di portata storica – è preparato per mesi da un’apposita commissione. Visto che la capienza della cattedrale è di 600 posti, si deve allestire uno spazio all’esterno e nella vicina palestra dei Salesiani, per consentire alla gente di seguire da vicino la liturgia. Sono presenti, oltre al vescovo locale mons. Wenceslao Padilla, il nunzio apostolico in Corea e Mongolia mons. Osvaldo Padilla e il vescovo della diocesi coreana di Daejeon mons. Lazzaro You.

Sono presenti anche alcune autorità civili e religiose. È molto toccante il momento in cui l’abate buddista Choijamts, figura autorevole e ben nota del Buddismo mongolo, vuole salutare il novello sacerdote e fargli scendere dal collo lungo le spalle una sciarpa azzurra in segno di rispetto. Un gesto simbolico che parla al cuore della gente e dice dignità, riconoscimento, onore. Al termine della celebrazione arriva anche il sacerdote ortodosso della chiesa della Santissima Trinità di Ulaanbaatar, non lontana dalla cattedrale cattolica. Un altro gesto di grande significato, questa volta ecumenico: padre Alexey omaggia don Enkh di un bassorilievo a icona, che rappresenta san Nicola, venerato tanto dagli Ortodossi quanto dai Cattolici.

Il giorno seguente c’è la prima messa presieduta da don Enkh. Il clima è più raccolto, molta meno gente e più spazio ai sentimenti. Nell’omelia don Enkh si sofferma sul versetto biblico scelto per l’occasione: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23). Oltre a sentirsi chiamato come il giovane Samuele (il brano tratto da 1 Sam, 3 era la prima lettura del giorno precedente) Enkh ricorda il momento in cui ha sentito in maniera nuova la forza della croce: «Era il lunedì dell’Angelo dell’anno scorso; tutto avrebbe dovuto essere in festa, ma io non riuscivo a percepire la gioia della risurrezione. Riflettendo capii il motivo: non avevo voluto partecipare alla croce del Signore, ecco perché adesso non potevo provare l’immensa gioia della Sua risurrezione…». Ecco perché adesso si augura di saper seguire il Signore sempre e comunque, per poter irradiare la Sua vita nel ministero sacerdotale.

Dalla piccola comunità di Arvaiheer sono in 15. Partecipano con molta commozione. Chi, come Perliimaa-Rita, è arrivata alla fede ormai avanti negli anni è ancora più felice nel vedere un giovane mongolo diventare prete. È convinta, come tutti del resto, che saprà raggiungere il cuore delle persone e contribuire in maniera decisiva al processo di inculturazione della fede. C’è anche un senso di soddisfazione nel constatare che «uno dei nostri ce l’ha fatta»: è la promessa di future vocazioni; altri, vedendo il suo esempio, ne seguiranno le orme. Per loro il momento forse più emozionante è quello, durante la sua prima messa, in cui don Enkh spende più di mezz’ora per imporre le mani su ognuno dei convenuti. «Vedere un sacerdote mongolo benedire la gente è stato molto commovente – confiderà poi Diimaa-Elizabeth, altra fedele di Arvaiheer -. Un gesto che fino a ora avevamo visto compiere solo dai missionari, ora lo compie un nostro giovane. È bello pensare che don Enkh sia diventato canale della benedizione divina».

È quello che auguriamo anche noi a don Enkh: vivere il sacerdozio come lo visse il Beato Allamano, sempre docile allo Spirito che lo volle usare come conca dove la grazia si posava e come canale che la lasciava scorrere sulla gente.

Giorgio Marengo




Congo Brazzaville: non solo petrolio


Un paese semisconosciuto. Spesso confuso con il suo vicino, il più noto Congo RD. Ma è uno dei principali produttori africani di petrolio. E i rapporti con l’Italia sono molto stretti, da mezzo secolo. Non tra i popoli, ma tra i vertici e i tecnici delle imprese petrolifere. Cerchiamo di sapee di più.

Tra Italia e Repubblica del Congo c’è un’amicizia di lunga data. Il mastice che tiene uniti i due paesi è il petrolio. Dal 1968, l’Eni, la società italiana di idrocarburi, estrae greggio e continua a fare prospezioni nei fondali marini e sulla terra ferma della nazione africana. Non è un caso che il premier italiano Matteo Renzi nella sua prima visita in Africa, nel luglio 2014, abbia incluso una tappa proprio a Brazzaville, la capitale del Congo. E in quella visita si premurò di incontrare il presidente Denis Sassou Nguesso. Esiste quindi un solido sodalizio d’affari. Per noi italiani Brazza è un partner strategico, come lo sono Angola, Mozambico, Algeria, Nigeria e, un tempo, Libia.

Un mare di greggio

L’economia della Repubblica del Congo – anche chiamata Congo Brazza – dipende in gran parte dal petrolio. Il paese è uno dei cinque grandi produttori dell’Africa subsahariana (insieme ad Angola, Nigeria, Gabon e Mozambico). Secondo i dati foiti dal Fondo monetario internazionale, l’«oro nero» assicura l’80% delle entrate del bilancio statale. Il greggio viene estratto soprattutto da giacimenti offshore (cioè al largo delle coste), ma esistono riserve anche sulla terraferma, così come notevole è la presenza di sabbie bituminose dalle quali è possibile ricavare petrolio (sebbene con procedimenti molto inquinanti e costosi). Il Congo Brazza ha pure importanti giacimenti di gas che però non riesce a sfruttare appieno perché manca una rete di distribuzione (nonostante rappresentino un’ulteriore potenziale fonte di ricchezza).

«Il Congo – spiega Antonio Tricarico, analista dell’associazione Re:Common, che a più riprese si è occupato della situazione congolese – punta anzitutto allo sfruttamento dei giacimenti marini. E questo per due motivi: in primo luogo perché nei fondali congolesi il petrolio è abbondante e le riserve promettono bene, in secondo luogo perché i giacimenti petroliferi congolesi sono relativamente vicini alla costa e quindi più facilmente sfruttabili. Alcuni anni fa, quando il prezzo del greggio era abbastanza elevato, il Congo ha investito nello sfruttamento delle sabbie bituminose e dei biocombustibili. Il progetto però è rimasto limitato alla fase esplorativa, probabilmente perché non era più conveniente rispetto alla produzione offshore e sulla costa. Oggi il governo punta soprattutto sulla concessione delle tradizionali licenze di sfruttamento». Secondo l’Energy Information Administration (ente statistico sull’energia del governo Usa), il paese ha riserve di petrolio che ammontano a 1,6 miliardi di barili. Un patrimonio che potrebbe portare sollievo a quella ampia fascia (46,5%) di popolazione che vive ancora sotto la soglia di povertà e potrebbe garantire energia al 65% di congolesi che ancora vivono senza elettricità.

Sventola il tricolore

Questa ricchezza però fa gola a molti. E infatti sul territorio di Brazza operano compagnie statunitensi, francesi, portoghesi, angolane. E, come già detto, anche l’italiana Eni. La società di San Donato opera nella nazione africana da 48 anni. È impegnata sul fronte dell’estrazione di petrolio, del gas naturale e delle sabbie bituminose. Secondo quanto riporta il sito Eni (www.eni.it), nel 2015 in Congo sono stati estratti un totale di 103mila barili al giorno tra gas e petrolio, cioè poco meno di quanto si estrae in Nigeria (137mila barili) e più di quanto viene ottenuto dai pozzi in Angola (101mila). La produzione è concentrata nei giacimenti di Zatchi, Loango, Ikalou, Djambala, Foukanda e Mwafi, Kitina, Awa Paloukou, M’Boundi, Kouakouala, Zingali e Loufika. Proprio quest’anno, 2016, l’Eni ha aumentato la produzione e prevede di toccare i 14mila barili al giorno. L’attività degli italiani si è concentrata soprattutto sull’estrazione marina.

Il blocco Marine XII sembra quello più promettente: si stima che i vari giacimenti di quest’area abbiano riserve di gas e petrolio per circa 6 miliardi di barili. Ma le esplorazioni continuano e gli ingegneri del «Cane a sei zampe» pensano che altre risorse siano ancora disponibili. L’Eni inoltre è attiva anche nella produzione di corrente elettrica. Nel 2007 ha infatti siglato un accordo con Brazzaville per la realizzazione di centrali elettriche che utilizzano il gas flaring, cioè il gas associato all’estrazione di petrolio. Questo gas, invece di essere rilasciato nell’atmosfera (è molto inquinante), viene portato, attraverso un gas-dotto di 55 km, nell’area di Djeno dove sono state realizzate due centrali che producono energia.

«I rapporti tra Congo ed Eni sono ottimi – osserva Tricarico -. Una piccola curiosità: Claudio Descalzi, l’attuale amministratore delegato dell’azienda del “Cane a sei zampe”, ha fatto una parte importante della sua carriera proprio in Congo e si è sposato con una donna congolese. Al di là dei pettegolezzi, la società italiana, in questi ultimi anni, ha rafforzato la sua presenza nel paese africano che è diventato sempre più strategico per i piani alti di San Donato. Nei prossimi anni, se non nei prossimi mesi, l’Eni dovrebbe addirittura acquisire alcune delle licenze ora in mano a Total. Quest’ultima pare invece volersi progressivamente sganciare da Brazzaville. L’Eni è quindi un attore chiave nel paese ed è destinato a diventarlo sempre di più in futuro».

Petrolio opaco

Il settore petrolifero congolese però alimenta un sistema opaco, in cui è difficile definire con esattezza i confini tra la legalità e la complicità con un sistema politico non trasparente, e poco rispettoso delle procedure democratiche. La questione che ha destato maggiore perplessità negli osservatori è il decreto presidenziale (non ancora trasformato in legge) approvato nel 2014. Esso prevede l’obbligo di rinnovo delle concessioni petrolifere e, in tale contesto, la cessione di una percentuale che va dall’8 al 10% (in alcuni casi fino al 25%) delle concessioni a società congolesi. Ciò non esclude lo sfruttamento dei giacimenti da parte delle compagnie straniere, ma impone una presenza sempre più importante di società congolesi nel settore degli idrocarburi.

Nel 2014 l’Eni ha venduto proprie partecipazioni in quattro campi petroliferi a una società che si chiama Aogc (Africa oil & gas corporation). La notizia della cessione a Aogc è emersa durante l’assemblea degli azionisti dell’Eni il 13 maggio 2015. «La Aogc è stata proposta come partner da Eni o dal governo congolese?», ha chiesto Elena Gerebizza, azionista e rappresentante delle due Ong Global Witness e Re:Common. «Non siamo stati noi a sceglierla», ha risposto Claudio Descalzi. L’Aogc non è una società qualsiasi. Nel consiglio di amministrazione siedono Denis Gokana, consigliere del presidente Sassou Nguesso, e alcuni funzionari pubblici. Nel 2005 l’azienda è finita nel mirino dell’Alta corte di giustizia inglese che l’ha inserita in una lista di società offshore create per distrarre i ricavi petroliferi congolesi. Secondo una ricerca di Global Witness, la Aogc sarebbe anche servita per pagare i salati conti dello shopping parigino di Denis Christel, figlio del presidente Sassou Nguesso (spesso i dirigenti africani amano fare compere nelle capitali europee, ndr).

Ma quello dell’Aogc non è l’unico caso che desta perplessità. «Nel periodo 2003-2005 – continua Tricarico – esistevano in Congo varie società petrolifere che io definirei di facciata, perché prendevano appalti dalla società nazionale degli idrocarburi e poi utilizzavano i soldi a beneficio della famiglia presidenziale. In questi mesi, nella Repubblica di San Marino, l’intermediario francese Philippe Maurice Chironi sta subendo un processo per presunto riciclaggio di 70 milioni di euro – di cui circa 20 effettivamente sequestrati – riconducibili a persone legate al presidente del Congo Brazzaville, Denis Sassou Nguesso».

Il settimanale «l’Espresso» ha sollevato un altro caso delicato, quello del blocco Marine XII. Il regime di Nguesso ha posto una condizione per il rilascio della concessione – ha scritto il periodico -: l’Eni avrebbe dovuto cedere il 25% del blocco a un’azienda selezionata dal governo. La scelta è caduta sulla New Age, una società nata due anni prima su iniziativa dell’Och-Ziff Capital Management Group, il più grande hedge fund statunitense. «Per quello scambio con Eni – si legge su l’Espresso -, New Age ha detto di aver versato all’azienda guidata oggi da Descalzi 53 milioni di dollari. Il problema è che quel prezzo era equivalente a un terzo del valore reale della quota, secondo i calcoli della McDaniel Associates Consultants, società di consulenza citata dalla stessa New Age. Ovvero la quota azionaria è stata largamente sottopagata. La differenza, spiega l’Eni, dipende dal fatto che “non si è trattato di una vendita su base commerciale; New Age entrò rimborsando proporzionalmente le spese sostenute fino al momento dell’ingresso nella joint venture”. Sulle attività africane di Och-Ziff stanno indagando le autorità statunitensi. Né l’hedge fund né gli inquirenti hanno specificato su quali investimenti sono in corso gli accertamenti».

Dulcis in fundo, sempre «l’Espresso», ha denunciato l’esistenza nel paradiso fiscale delle British Virgin Islands di una società, la Elengui Limited, la cui direttrice e socia unica era Marie Madeleine Ingoba, moglie congolese di Claudio Descalzi. La società è stata chiusa proprio nei giorni in cui Matteo Renzi ha nominato Descalzi al posto di Paolo Scaroni (2014).

Perché la moglie dell’allora numero due dell’Eni ha creato questa società? Marie Madeleine Ingoba ha sostenuto che «la società era stata costituita al solo scopo di essere utilizzata per sviluppare un progetto immobiliare a Brazzaville, la ristrutturazione e l’ammodeamento di un hotel nella capitale congolese, che però non si è mai materializzato». La scelta di crearla in un paradiso fiscale è stata dettata dalla praticità – ha detto la signora Descalzi -, la registrazione alle British Virgin lslands era la soluzione più rapida e meno costosa. Ma, sempre secondo la signora Descalzi, la sua società non ha mai avuto alcun rapporto con Eni.

L’amicizia è una bella cosa, ma il rischio è che l’Italia sia diventata troppo amica del Congo.

Enrico Casale

 




Burkina Faso: l’uomo che fermò il deserto


È nato in una regione del mondo dove la natura è avversa. E produrre cibo è molto difficile. Le grandi carestie degli anni ‘80 hanno allontanato gli uomini validi. Ma lui è rimasto e ha studiato un metodo per coltivare nel deserto. Con la sola acqua piovana. Ora a casa sua c’è una foresta con una grande biodiversità.

Ma le sfide non sono terminate.

Alto e secco, indossa l’abbigliamento tipico saheliano delle persone di una certa età e quindi, per l’Africa, autorevolezza sociale: un grand boubou (vedi foto pag. 15) e un cappellino circolare. Sembra un po’ spaesato quando lo incontriamo a Cumiana, cittadina in provincia di Torino, dove l’amministrazione comunale e l’Ong Cisv hanno organizzato il CumianaFest, di cui Yacouba Sawadogo è l’ospite d’onore. Il Festival presenta le esperienze di piccoli agricoltori che hanno fatto del loro lavoro un modo di salvare il pianeta e la sua biodiversità.

Yacouba Sawadogo è un contadino del Nord del Burkina Faso. Non è mai andato in una scuola di tipo «occidentale», per cui non sa leggere né scrivere e parla solo la sua lingua, il moore. Ha invece frequentato una scuola coranica nel vicino Mali, quando era ragazzo.

Originario di Gourga, piccolo villaggio nei pressi di Ouahigouya, quarta città del Burkina Faso, con 70.000 abitanti, vi ha passato tutta la sua vita. La zona è in pieno Sahel, la fascia climatica che taglia l’Africa in senso orizzontale a Sud del Sahara. Una cintura di savana secca e poco arborata, che costituisce il raccordo tra il deserto nel Nord e le zone più umide a Sud. Tecnicamente si considera Sahel la fascia climatica che ha una pluviometria media annuale, misurata in millimetri di pioggia caduti all’anno, tra i 150 e i 600.

Negli ultimi 50 anni la zona ha continuato a deteriorarsi: sono diminuiti gli alberi e gli arbusti, mentre lo strato di terra organica coltivabile si è assottigliato. Un fenomeno causato dall’erosione delle violente piogge, concentrate in poche settimane, ma anche dalla pressione umana (taglio degli alberi e pastorizia) e, a livello più globale, dal cambiamento climatico e diminuzione delle piogge. È come dire che il deserto del Sahara si è impossessato di una striscia mediamente di 100 km, e la banda saheliana si è spostata della stessa distanza verso Sud. Per questo motivo si dice che il Sahara si estende verso il Sud.

A Ouahigouya la pioggia è scarsa e cade in un unico periodo dell’anno, tra giugno e settembre. È in questi mesi che i contadini coltivano il miglio e il sorgo, i cui semi, stoccati in magazzini tradizionali, dovranno nutrire le loro famiglie per l’intero anno successivo. Sempre più accade che le precipitazioni siano scarse e irregolari per cui le piantine non riescono a svilupparsi e le pannocchie ad arrivare a maturazione.

È in questo contesto che periodicamente si verificano fenomeni di siccità e carestia. Ed è proprio durante la grande carestia agli inizi degli anni ’80 (1980-83) che inizia la storia di Yacouba Sawadogo.

I soldi non si mangiano

«Quando rientrai in Burkina dal Mali, dopo aver frequentato la scuola coranica, iniziai un commercio. Conoscevo la meccanica delle moto. Il lavoro andava bene, e i soldi non mi mancavano» ci racconta Yacouba. È la fine degli anni ’70. Poi iniziano i problemi. «Dopo qualche tempo, a causa della grande siccità, la gente iniziava ad andarsene dal Nord per cercare zone in cui poteva trovare da mangiare. Anche io sono andato a lavorare in Costa d’Avorio, ma sono tornato dopo poco tempo». Yacouba prende una decisione, quella di seguire la strada più dura: lavorare la terra. «Quando ho cominciato, non c’era acqua, per cui non solo non si poteva coltivare, ma anche gli animali morivano perché non c’era pascolo. Ho osservato che anche quelli che avevano i soldi, non avevano nulla da comprare. Ho visto commercianti più ricchi di me, che se ne andavano». Yacouba comprende una semplice ma essenziale verità: «In quel periodo ho capito che né i soldi, né la ricchezza delle mandrie dominano il mondo, ma è il cibo la chiave della vita». Così decide: «Invece di scappare, attaccherò il problema».

Yacouba conosce una tecnica ancestrale, che a quelle latitudini ha permesso ai contadini di sopravvivere. Si chiama «Zai» e consiste nello scavare nel terreno delle conchette di una ventina di centimetri di diametro, una accanto all’altra, allineate secondo la pendenza del terreno. In esse si depositano i semi. Le conchette, talvolta riempite di concime, hanno l’effetto di trattenere l’acqua, che le piogge torrenziali e il terreno secco tendono a far scorrere velocemente a valle, non penetrando nel suolo e, anzi, erodendolo.

Il nostro uomo si ingegna e modifica la tecnica dello Zai tradizionale migliorandola. Modifica la zappa utilizzata per scavare le conchette e le scava più grandi e profonde. Fa poi in modo di porvi sempre del concime organico e talvolta altri elementi, come le termiti.

All’inizio è dura: «Ho cominciato da solo sulla mia terra. Quando ho visto che le migliorie funzionavano e riuscivo a produrre miglio e sorgo, ho coinvolto mia moglie e i miei figli. Poi si sono aggiunti i vicini. Siamo arrivati a un lavoro comunitario».

Proprio il lavoro comunitario ha un’importanza fondamentale per Yacouba: «Apporta molte conoscenze a tutti quelli che vi partecipano e aiuta molto il proprietario del campo. È un lavoro che coinvolge anche i più riluttanti che vedono che gli altri lavorano insieme, e imparano. Inoltre essendo in tanti si può fare un lavoro più efficace tutti insieme».

Yacouba ha coinvolto anche villaggi dei dintorni e ha realizzato una specie di credito in natura. A chi lo aiuta fornisce parte dei suoi semi. Questi li utlizzano per coltivare e poi, a loro volta, renderenno a Yacouba parte dei semi raccolti.

Un’oasi di biodiversità

Ma Yacouba non si ferma all’agricoltura di sostentamento e inizia a portare semi di diverse piante nel suo campo. Arriva così a sviluppare, in quasi 40 anni di lavoro continuativo, una vera foresta in una zona altamente desertificata. La foresta di Gourga, su una superficie di 23,5 ettari, è un polmone a elevata biodiversità.

«All’inizio nacquero delle piante spontaneamente perché nel letame usato come concime c’erano i semi dei frutti mangiati dagli animali. Poi iniziai io stesso a portare semi di piante che erano scomparse dalla zona». Senza accorgersene Yacouba realizza un esperimento di agroecologia in anticipo sui tempi.

«L’importanza delle piante e degli alberi è fondamentale: danno ombra all’uomo, fanno da frangi vento, in zone nelle quali il vento è molto forte, trattengono la terra, lottando quindi contro l’erosione, e fertilizzano il suolo. Inoltre alcune loro parti, come foglie, corteccia, radici, semi sono utilizzate per curare gli uomini. Per tutti questi motivi ho piantato gli alberi».

Ci sono anche animali nella foresta di Yacouba: diversi uccelli, tortorelle, lepri, scoiattoli, roditori. Tutti contribuiscono alla rigenerazione della foresta. Perché i volatili possono portare semi da altre zone, i roditori scavano gallerie che aiutano la fertilizzazione del suolo, sono utili per l’uomo, e alcune specie sono commestibili. L’anziano contadino «agroecologista» ha, anche in questo, molto da insegnare: «Io do da mangiare e da bere agli animali della foresta, in particolare gli uccelli. Metto delle ciotole con l’acqua e lascio per terra delle granaglie. Così gli uccelli si fermano e abitano la foresta. Con i benefici che questo crea. Inoltre voglio salvaguardare tutte le specie della foresta, anche quelle più rare nel Sahel».

Esiste un animale molto piccolo fondamentale per la lotta alla progressione del deserto: la termite.

Le termiti contribuiscono alla fertilizzazione dei suoli attraverso i cunicoli e la trasformazione dei microelementi del letame posto nelle conchette. «Ad esempio si possono utilizzare nello Zai migliorato. La tecnica è semplice: quando vedo un posto dove osservo la presenza di termiti, conosco quello che a loro piace mangiare, porto questi alimenti e vedo le termiti uscire per mangiare». Così Yacouba può spostare le termiti in altre zone e diffonderle. «Ci sono dei termitai morti, ovvero disabitati. Io riesco a riportare termiti in questi termitai che non sono più abitati per farli rivivere perché possano dare così il loro contributo all’ecosistema».

In queste attività Yacouba si fa aiutare dai suoi figli: «Quello che fanno è studiare le specie vegetali, entrano nella foresta e verificano se qualche specie locale non è ancora presente. In questo caso viaggiano nella regione per cercare i semi e piantarli nella foresta. Uno dei miei figli è andato fino in Mali per prendere i semi di un’erba specifica e portarli a Ouahigouya».

Dalla terra all’uomo

Ma dietro all’idea – e alla pratica – di salvaguardare l’ambiente, Yacouba Sawadogo ha come obiettivo, sul lungo termine, quello di curare le persone. «Mi ero detto: per 40 anni lavorerò per migliorare la terra e la foresta, producendo piante, portando specie da altre zone, ma dopo mi consacrerò a curare l’umanità».

Così una decina di anni fa, il contadino noto come «colui che ha fermato il deserto», inizia a utilizzare piante medicinali per curare i malati. «Quando ero piccolo, ho visto dei vecchi che curavano le persone con diverse malattie, usando semplicemente delle piante, scorze, fiori, foglie, radici. Ma ho notato che negli anni molte piante sono scomparse. Ecco perché ho iniziato a cercarle per introdurle nella foresta. Poi ho cominciato a usare le piante. Se vedevo qualcuno che aveva bisogno, allora intervenivo. Ma non mi proponevo come curatore. Solo più tardi ho iniziato a ricevere i pazienti come curatore. Ho costruito 10 piccole case nella foresta dove ricevere i malati. Adesso visito almeno un paziente al giorno. Da quando sono in Italia, ricevo telefonate di malati del mio paese che hanno bisogno di me, che mi chiamano per andare a curarli».

Yacouba ottiene poi dal ministero della Sanità un’autorizzazione per curare le malattie. In particolare per raffreddori, bronchiti ed emorroidi.

Ecco perché, da qualche tempo, nella «sua» foresta sono prioritarie le piante medicinali, ma sta seminando anche piante per alimentazione. In particolare essenze che stanno scomparendo nella zona.

Fama internazionale?

Yacouba ha un aspetto tranquillo, quasi dimesso, ma si vede che è una persona autorevole. Non si dilunga in conversazioni inutili, e risponde in modo molto sintetico alle domande.

Circa 10 anni fa l’Ong Oxfam fa in modo di farlo invitare negli Stati Uniti, dove organizza la presentazione del suo lavoro al congresso statunitense. È un’occasione in cui il lavoro dello sconosciuto e riservato contadino burkinabè ha un momento di gloria. Qualche anno dopo, nel 2010, il documentarista britannico Mark Dodd ne fa un documentario: «L’uomo che fermò il deserto».

«Dopo il viaggio sono stato avvicinato da molte persone straniere e burkinabè e in diversi sono venuti a vedere il mio Zai. L’esperienza mi ha galvanizzato e mi ha dato più coraggio per perseverare in questo lavoro. Inoltre mi ha fatto comprendere che quello che faccio in questo angolo della terra è molto utile per l’umanità, a tal punto che la maggiore potenza del mondo mi chiede di spiegarlo».

Yacouba riceve pure un premio negli Usa, ma nessun aiuto materiale o finanziario per migliorare la sua pratica.

Anche in Burkina Faso il governo conosce il suo lavoro straordinario, ma nessuno si impegna ad andare a vedere, aiutarlo finanziariamente o riconoscerlo ufficialmente.

Preservare la foresta

Alcuni anni fa, a causa dell’estensione di Ouahigouya, una fascia intorno alla città viene lottizzata e venduta a privati. In Burkina Faso la terra in ambiente rurale è tutta di proprietà dello stato che la lascia sfruttare a chi ci abita, secondo delle regole di assegnazione attraverso i capi tradizionali. Quando un’area rurale diventa urbana, allora viene venduta e sono rilasciati titoli di proprietà. La terra della famiglia di Yacouba, sulla quale aveva lavorato suo padre e nella quale sono seppelliti lui e gli altri antenati, è proprio nei pressi della città. L’ultima lottizzazione la interessa e la sua casa viene suddivisa su quattro parcelle, la tomba di suo padre su due, un pozzo che lui utilizzava rimane su un’altra parcella ancora. Anche la foresta rischia di venire suddivisa, ma forse grazie al momento di notorietà, il comune la risparmia. «Tutto intorno alla foresta la terra è stata suddivisa e venduta a privati, ma gli alberi non sono stati toccati. Qualcuno ha cercato di costruire all’interno di essa ma lo stato li ha cacciati». Il nostro uomo però non dorme sonni tranquilli, teme che la foresta, se non viene protetta, un giorno scomparirà con tutta la sua biodiversità: «Sto chiedendo al governo che il suo territorio sia demarcato ufficialmente, e quindi protetto, e cerco finanziamenti per realizzare un muro di cinta che la circondi». Operazione non facile, la seconda, visto che si tratta di una superficie vasta, grosso modo, come 32 campi da calcio.

«Ogni giorno – ricorda l’anziano – recevo un visitatore nazionale o internazionale, vengono classi di studenti. Tutti a vedere la foresta e conoscere le mie tecniche. È come una scuola mondiale, un bene comune dell’umanità. Lasciarla distruggere sarebbe un grave errore»

La successione

Yacouba ha oggi 70 anni, un’età veneranda nel Shael, dove la speranza di vita si ferma intorno ai 55. Si preoccupa per la foresta per quando lui non sarà più sulla terra. Per questo ha formato uno dei suoi figli, che poi è andato a vivere vicino agli alberi. Un altro figlio lo ha mandato a studiare come tecnico forestale, affinché si formi meglio per poi tornare.

«Vorrei che questo luogo sia per tutta l’umanità una scuola di agroecologia, dove chiunque possa venire da altre zone della terra a imparare la tecnica dello Zai per rigenerare la natura. Vorrei salvaguardare tutte queste specie di piante e animali selvaggi, una biodiversità saheliana, per l’umanità».

Congedandoci dal questo «grande vecchio» non possiamo che pensare alla saggezza di questo uomo semplice, che ha dedicato tutta la vita per lottare contro la distruzione della natura, per e con il fine ultimo di migliorare le condizioni di vita dei suoi compaesani e dare un segnale a tutta l’umanità.

Marco Bello

 




Gli spazi bianchi della Bibbia


Il progetto è molto semplice, dare carta bianca a uno scrittore dicendogli: «Scegliti un brano o un personaggio, un episodio della Scrittura, e lo riscrivi in 40 o 60 mila battute». Ne sono nati 12 volumi che mostrano la forza e attualità della Bibbia, e il volto dialogante di una Chiesa in uscita.

«In un angolo del bosco, a mezza riva, con sopra l’orizzonte del cielo, sipario azzurro e nuvole, vicino a un libocedro monumentale, che lei confondendosi chiama librocedo […]; in questo angolo di bosco impervio, più terra grassa che verde, terra umida e muschio, Benedetta siede con la merenda in mano». Benedetta è una ragazzina che vive a Rueglio, in Val Chiusella, a 50 km da Torino, e ha un appuntamento: ogni giorno, per sette giorni, una voce esce da una cavea per raccontarle la Creazione, e per «ricreare», in qualche modo, Benedetta stessa.

Quella di Benedetta non è una storia vera, nel senso che non è un fatto realmente accaduto. È una storia contenuta in un piccolo libro a firma di Gian Luca Favetto, scrittore di Torino, ed è parte di un progetto denominato «Scrittori di Scrittura», che da tre anni ha coinvolto 12 autori pubblicandone i rispettivi testi con la casa editrice Effatà. La Creazione, la Resurrezione, la storia di Saul, quella di Isacco o di Giobbe, le nozze di Cana, l’episodio del giovane ricco, sono alcuni tra i passi biblici presi in considerazione e riscritti da autori come Margherita Oggero, Bruno Gambarotta, Davide Longo, Elena Loewenthal.

Suggestioni bibliche

«Ogni scrittore è partito da una suggestione, e le ha dato corpo», ci spiega l’ideatore del progetto, don Gian Luca Carrega, direttore dell’ufficio di pastorale della cultura della diocesi di Torino, oltre che insegnante di Sacra Scrittura alla facoltà di teologia e incaricato diocesano per la pastorale con le persone omosessuali credenti. «Alcuni anni fa, la Diocesi aveva regalato ai preti giovani un anno di formazione con la scuola Holden (la scuola di scrittura creativa fondata da Alessandro Baricco, nda). Venne fuori un tentativo di ri-narrazione di testi biblici che il regista Leo Muscato, responsabile del corso, aveva apprezzato. Lui mi spronò a proseguire, e nel 2007 uscì un libretto intitolato Un tempo per ogni cosa che metteva insieme 40 riscritture di brani dei Vangeli sinottici. Poi accantonai la cosa». Don Gian Luca oggi ha 44 anni ed è prete per la diocesi di Torino dal 2000: «Quando mi fu affidata la pastorale della cultura tre anni fa, mi toò in mente l’esperienza di quel libretto, e pensai: “Se questo tentativo di riscrittura lo affidassimo a dei professionisti?”».

Una Parola che provoca

A ciascuno degli scrittori coinvolti è stato chiesto di scegliere un brano della Bibbia e di riscriverlo secondo la propria sensibilità e stile, con la massima libertà. Ciascun volume è autonomo, unito agli altri solo dal cappello «Scrittori di Scrittura», dalla grafica e dalla struttura che prevede tre parti: il brano biblico scelto dall’autore, un commento al brano, scritto da un biblista, e la riscrittura d’autore.

Leggendo i volumetti si nota una grande diversità di approccio: qualche scrittore ha usato una modalità più tradizionale, simile ai midrashim (un’antica forma, spesso narrativa, di esegesi ebraica della Scrittura), producendo racconti i cui personaggi sono quelli biblici, ma narrando fatti, situazioni, psicologie che nel testo originale non sono presenti. «È il caso, ad esempio, di Silvana De Mari che ha riscritto l’annunciazione vista dagli occhi di Giuseppe, o di Elena Loewenthal che ha affrontato l’annunciazione a Sara, moglie di Abramo».

Altri hanno trasfigurato i personaggi biblici in personaggi contemporanei: «Ad esempio Elena Varvello racconta la storia di un Giobbe contemporaneo, un uomo tartassato dagli eventi che cerca un motivo di ripartenza, mentre Bruno Gambarotta rilegge il personaggio di Saul in chiave umoristica, di un umorismo drammatico». Altri ancora, come Gianluigi Ricuperati, hanno affrontato un tema attualizzandolo in una situazione odiea: «Lui ha scelto il tema della ricchezza raccontando di un prete che ha una comunità di recupero per persone dipendenti dall’uso del denaro».

«Il testo biblico si mostra un testo attuale, pieno di suggestioni interessanti anche per persone di oggi e per non credenti. Ad esempio Margherita Oggero si è sempre apertamente dichiarata agnostica, ma non ha avuto nessun problema a lavorare sulla Bibbia. Di Margherita non mi ha stupito la leggerezza di scrittura che ha avuto nel ripensare il personaggio di Isacco che è immaginato anziano, vicino alla morte, mentre ripensa a tutta la sua vita, mi ha colpito invece la sua competenza sulla Scrittura».

«Elena Loewenthal ci ha regalato anche una bella definizione della nostra iniziativa: infilarsi negli spazi bianchi della narrativa biblica. Partire da un testo sapendo che è volutamente lacunoso perché tu possa interagire con esso. Tutti i volumi sono un tentativo di risposta alla Parola che provoca».

La vita è una Bibbia apocrifa

Don Gian Luca crede nel senso ecclesiale e missionario di questa iniziativa culturale: «C’è un arricchimento spirituale in questi testi. I volumi di Scrittori di Scrittura sono utili per il credente perché lo aiutano ad avere un approccio differente alla Bibbia. I suoi protagonisti smettono di essere personaggi-tipo, e assumono una loro tridimensionalità. Prendiamo ad esempio il Giuseppe di Silvana De Mari: non è il classico Giuseppe vecchietto e un po’ passivo, ma un giovane passionale, innamorato della sua ragazza e anche geloso. Con una lettura di questo tipo sentiamo che la storia sacra è una storia vera. Quando siamo lettori passivi, diventiamo pigri e ronziamo attorno ai soliti concetti e idee. Quando invece proviamo a raffigurarci le scene, scatta un processo d’immedesimazione. La Scrittura ci parla anche attraverso questo. La storia sacra ci dice che anche la nostra storia è sacra, che noi viviamo un’esperienza in continuità con la Scrittura. Scherzando, abbiamo chiamato il nostro progetto una “Bibbia apocrifa”, e lo è, come di fatto lo è anche la vita stessa delle persone. Anche le nostre vite fanno parte di un progetto che non si è concluso con l’ultimo libro della Bibbia. Noi continuiamo a vivere vicende che sono guidate dallo stesso Spirito che ha animato la Scrittura. Le nostre esperienze sono un bacino per lavorare su ciò che il Signore ci ha detto tramite la Parola».

Una Chiesa in uscita

Chiediamo a don Carrega come, secondo lui, questo progetto si inserisca nel cammino della Chiesa: «Scrittori di Scrittura è il tentativo di metterci in ascolto gli uni degli altri: la Chiesa in ascolto dei “laici”, e viceversa. Ad alcuni è sembrato che volessimo svendere il patrimonio della Scrittura trattandolo come un libro qualunque. Il nostro punto di vista invece è accettare un confronto su dei testi che, siamo convinti, dicono qualcosa a tutti. La Scrittura può essere quel ponte su cui ci incontriamo grazie al suo valore narrativo. Io, da credente, farò vedere come essa aiuti la mia vita di credente. In quella parola c’è la Parola di Dio rivolta alla mia vita. Per il non credente è diverso. Da questo punto di vista penso che davvero il progetto svolga un servizio ecclesiale. Nel portarlo avanti siamo sereni, perché siamo consapevoli della forza della Scrittura. Non temiamo che possa essere “profanata”, anzi, in questo modo può trovare nuove vie che non avrebbe trovato se l’avessimo custodita troppo gelosamente».

È molto difficile dire quale sia la risposta dei lettori, don Carrega ipotizza che il pubblico di Scrittori di Scrittura sia composto prevalentemente da «curiosi»: «Nell’ottica della Chiesa in uscita, direi che è normale andare più verso chi è ai margini o fuori dalla Chiesa. Sono molte le persone curiose di sentire che cosa ha da dire la Chiesa, e che rimangono favorevolmente impressionate da questo atteggiamento di dare carta bianca agli scrittori senza condizionarli, da una Chiesa che non vuole dettare norme ma si mette in dialogo».

Favorire la diffusione culturale della Scrittura

Il fenomeno della riscrittura della Bibbia non nasce certamente con Scrittori di Scrittura: basterebbe prendere il catalogo di qualsiasi casa editrice per verificarlo, o semplicemente leggere la Bibbia stessa per accorgersi che numerosi brani sono riscritture di altri brani. «In generale mi sembra che il fenomeno della riscrittura sia esteso, soprattutto all’estero. In Italia si fa un po’ di fatica in più, secondo me perché non c’è una cultura della Scrittura. Un piccolo contributo in questo senso il nostro progetto lo dà: quando uno legge il libro di Gambarotta sul Saul, magari è spinto a leggere il testo originale nel Primo libro di Samuele».

Oltre alla funzione di invito alla lettura della Bibbia, però, il fenomeno della riscrittura ha, più profondamente, lo scopo di arricchire la lettura di fede della Parola. L’approccio narrativo alla Bibbia ha la sua specificità che lo affianca ad altri approcci come quello storico critico o teologico, quello psicologico o femminista. «Il metodo narrativo è un metodo tra molti, buono sia a livello tecnico per gli esegeti, che catechistico. Tra i suoi pregi vedo l’empatia suscitata nei lettori, utile per l’interiorizzazione della Parola. Questo infatti è un passo su cui, credo, tutti facciamo difficoltà: come arrivare a fare una lettura esistenziale della Bibbia? Come passare dal “cosa dice il brano” al “cosa mi dice il brano”? Scrittori di Scrittura, oltre a dirci quello che il brano ha suggerito allo scrittore, mostra che ognuno di noi può riscrivere il testo biblico applicandolo alla propria vita».

Luca Lorusso

 Il progetto prevede altri futuri volumi. Intanto è consultabile il sito www.scrittoridiscrittura.it nel quale è possibile seguire un blog con riflessioni e approfondimenti sulle tecniche narrative dei Vangeli, sul rapporto che la Scrittura ha con arte, letteratura e cinema. Nel sito sono presenti anche i video delle presentazioni dei singoli volumi con gli autori.


Tre scrittori rispondono

Margherita Oggero

Come ha accolto la proposta di riscrivere un brano biblico?

Da non credente inquieta e riluttante, ho accolto con perplessità la proposta e ho spiegato le mie difficoltà nei confronti della fede. Mi è stato risposto che gradivano anche voci dissonanti e quindi ho accettato.

Perché ha scelto il personaggio di Isacco?

La figura di Isacco è in stretta relazione con quella di Gesù Cristo. È una vittima (mancata) delle imperscutabili scelte di Dio. Una figura tragica che vive un dramma più grande delle sue capacità di comprensione. Ho scelto di raccontare un uomo stanco sul limitare della morte, un uomo che non ha certezze granitiche, che è stato offeso dalla vita e tradito dai suoi cari, che chiede a Dio di concedergli la morte e che si rivolge a Lui con franchezza e coraggio, come i grandi personaggi del Vecchio Testamento.

Com’è la sua relazione con la Bibbia?

Amo molto la Bibbia, che è una delle mie letture ricorrenti. La amo perché è uno dei testi fondativi della nostra civiltà e perché è, letterariamente, uno dei più grandi.

Davide Longo

Come ha accolto la proposta di riscrivere un brano biblico?

L’ho accolta con curiosità e interesse, senza pregiudizi. Del resto, pur non essendo io credente, ho molte volte lavorato sui Vangeli per analizzae o spiegae, durante il mio lavoro di docente alla Scuola Holden, le strutture narrative.

Perché ha scelto il brano delle nozze di Cana?

Perché narrativamente è un momento potentissimo, dove l’autore lascia molti spazi bianchi che chiede al lettore di riempire. È una scena minimale, eppure cruciale. Assomiglia molto a certo cinema d’autore fatto di vuoti e silenzi.

Come ha scelto la sua modalità di riscrittura?

Ho stemperato la solennità e drammaticità del momento del primo miracolo pensando a un ribaltamento infantile. I miei ricordi di catechismo sono di una noia e di una retorica mostruosi. Ho sempre pensato che la Chiesa, potendo disporre di materiale narrativo così forte e riuscito, lo sprecasse nella maggior parte dei casi, proponendo ai ragazzi delle letture patetiche, smorte, incolore o di un moralismo avvilente, per nulla all’altezza dei ritmi e degli snodi narrativi della Bibbia o dei Vangeli. Così ho scritto per i bambini, divertendomi e per divertirli.

Com’è la sua relazione con la Bibbia?

Dal punto di vista delle tecniche stiamo parlando di materiali narrativi che sono all’origine del nostro modo di raccontare storie, di leggerle, di empatizzare con la parola scritta. È una miniera infinita, ogni scavo porta alla luce qualcosa di bello, che ci parla e ci spiega la nostra relazione con le storie.

Tiziano Fratus

Come ha accolto la proposta di riscrivere un brano biblico?

Inizialmente ero scettico, poi ho pensato che si trattava di una sfida come un’altra. Così ho ripreso in mano l’Antico Testamento e ho iniziato a rileggere alcuni profeti. Per anni ho lavorato ad un libro che partiva da Giona, e alla fine ho individuato la figura di Geremia.

Perché proprio Geremia?

Perché segue il suo Dio fino alle estreme conseguenze. Chi oggi abbraccia la poesia e la scrittura come scelta di vita compie una scelta molto complessa, che la nostra società non tende affatto a premiare. Quindi ero interessato a indagare le eventuali motivazioni che spingevano questo profeta a pagare fino in fondo per credere in una causa.

Come ha scelto la sua modalità di riscrittura?

Il frammento è parte della mia scrittura, sia in prosa sia in poesia. Ho inteso il racconto come una scelta di sette diverse rotazioni, o atti, dell’esistenza di questo personaggio, che è molto distante dalla fonte biblica anticotestamentaria. Non mi sono preoccupato di seguire una linea per così dire religiosa, ho soltanto cercato di dare ascolto al personaggio e di scrivere al mio meglio.

Com’è la sua relazione con la Bibbia?

In questi anni ho spesso navigato opere spirituali e religiose: i testi sacri indiani, i testi fondamentali del taoismo e di parte del buddismo, testi orfici, così come diari e opere di carattere metafisico e mistico. La rilettura di alcuni libri della Bibbia rientrava in questo percorso, il progetto di Effatà mi ha spinto a farlo entro certi tempi e per un motivo pratico che supera la mera conoscenza.

L.L.




Tibet rischio di non sentirsi nessuno


Dall’occupazione cinese del 1950, il Tibet sta subendo un modello di sviluppo degradante e impoverente. L’industria estrattiva, energetica, delle comunicazioni e, ultimamente, quella turistica, procurano danni gravi. Non solo ambientali, ma anche culturali, religiosi, sociali ed etnici. Al punto che gli abitanti della regione a volte non si sentono né cinesi, né tibetani.

«Martedì 20 novembre 2012 un ragazzo tibetano […] ha preso un sentirnero su per la collina fino all’ingresso della miniera d’oro a Gyagar Thang, si è versato kerosene su tutto il corpo e si è dato fuoco». Secondo il Tibetan Centre for Human Rights, il venticinquenne ha voluto denunciare il disagio delle comunità locali colpite dalle operazioni minerarie delle aziende cinesi nella zona.

«Il numero di tibetani che si sono autornimmolati negli ultimi anni sta aumentando a un ritmo allarmante», afferma un articolo firmato nel 2013 dal Tavolo ambiente e sviluppo del Goveo tibetano in esilio a Dharamsala, in India, e prosegue: «Oltre ai fattori politici, sociali, religiosi ed economici, una delle cause principali di tale disperazione sono le attività di estrazione e di inquinamento in Tibet». Il dolore causato dal deterioramento degli equilibri ecologici locali e dei modi di vita tradizionali porta alcuni ad atti estremi di dissenso. L’occupazione cinese del Tibet nel 1950 ha aperto la porta allo sfruttamento sistematico dei minerali di cui è ricco (rame, oro, cromite, alluminio, ferro, boro, piombo, zinco, litio), ma anche del petrolio greggio, del potassio, amianto, gas naturale e carbone. L’inquinamento dell’acqua e l’impatto delle centrali idroelettriche per fornire energia alle miniere e, non ultimo, l’aumento del turismo cinese, facilitato dall’apertura di ferrovie e strade, aggravano le condizioni di vita delle popolazioni locali. In più, per facilitare l’estrazione delle risorse naturali, le autorità costringono i nomadi a stabilirsi in villaggi costruiti ad hoc dove perdono le loro pratiche tradizionali e quindi i loro riferimenti culturali.

A Dharamsala abbiamo parlato di questi problemi con Tempa Gyaltsen Zamlha, ricercatore del Tavolo dell’Ambiente del Tibet Policy Institute (presso il governo tibetano in esilio).

Ci può spiegare il suo lavoro al Tavolo ambiente e sviluppo e i suoi principali obiettivi?

«Il Tavolo è stato istituito nell’ambito del Policy Institute tibetano a Dharamsala: da qui monitoriamo la situazione ambientale in Tibet. Cerchiamo anche di informare la comunità internazionale sull’importanza ecologica dell’altipiano del Tibet a livello mondiale. Ci rivolgiamo particolarmente al governo e alla popolazione cinese. Il nostro obiettivo è quello di proteggere l’altipiano più alto e più esteso del mondo, che ospita la più grande concentrazione di ghiacciai dopo i due poli, e anche la sorgente dei fiumi più importanti dell’Asia. Lavoriamo anche perché la civiltà tibetana, che ha prosperato per migliaia di anni, possa continuare a vivere una vita sana e felice, e anche perché le nazioni a valle continuino a godere dei fiumi da cui le loro civiltà dipendono.

Per i tibetani, la missione ambientale è uno dei compiti più urgenti. Sua Santità (il Dalai Lama) ha detto una volta che la questione politica può attendere, ma non l’ambiente».

Quali sono le principali sfide ambientali di oggi per il Tibet?

«Le principali minacce sono i cambiamenti climatici, ma anche l’impatto umano, in particolare l’eccessiva attività mineraria.

Come tibetani, abbiamo un rapporto molto intimo con la natura, perché crediamo che Dio sia presente in tutto, nelle montagne come nei fiumi.

Le cose sono radicalmente cambiate dall’occupazione cinese del Tibet nel 1950. Ad esempio sono state costruite strade e linee ferroviarie che rendono l’estrazione molto più facile, economica e redditizia. Inoltre, la Cina ha costruito molte centrali idroelettriche, indispensabili per l’industria».

«I tibetani non sono contro l’estrazione di per sé, ma contro l’estrazione nei pressi di villaggi, di corpi idrici, di montagne sacre o di praterie usate dai nomadi. Per le attività minerarie nella vasta pianura del Nord dove c’è meno popolazione, non c’è quasi nessuna protesta.

Le montagne sacre hanno un forte legame storico, culturale, politico e spirituale con la vita del popolo tibetano. Non lontano da Lhasa (capitale del Tibet cinese), ad esempio, si trova il Monte Yarlha Shampo. Esso era la residenza di un dio della religione tradizionale Bon. Il primo dei sette ministri nobili nella storia del Tibet che nel 7° secolo d.C. hanno contribuito alla ricostituzione del regno, era considerato figlio di Yarlha Shampo. Ci sono molte montagne sacre simili in Tibet, che sono rispettate e protette dalla gente».

Che legame c’è fra la sacralità di un monte e la resistenza ambientale delle comunità?

«La credenza nella sacralità di un luogo svolge un ruolo importante nella sua conservazione e protezione. La biodiversità in queste aree è infatti più elevata: la gente cerca di non tagliare alberi o cacciare animali. Non tutte le montagne sono considerate sacre, ma se studiamo la posizione dei siti sacri saremo sorpresi di notare che corrispondono alle zone più importanti dell’ecosistema locale, alla montagna con più ghiacciai, al lago che è fonte di molti fiumi, a una zona umida che sostiene la vegetazione nella regione. La credenza nella sacralità di una montagna è un fenomeno antico e anche molto intelligente: è grazie a questo che i tibetani hanno preservato gli ecosistemi per migliaia di anni, nonostante le dure condizioni climatiche, a una quota tanto estrema».

Ma ora le cose stanno cambiando. E rapidamente.

«Le compagnie minerarie cinesi stanno entrando in questi territori. I nomadi tibetani sono stati sfollati e reinsediati altrove dal governo cinese. Ogni volta che le comunità locali resistono, vengono prima di tutto invitate ad andarsene, poi le aziende cercano di convincerle dell’importanza del progetto per il loro sviluppo. Se l’opposizione persiste, cercano di dividere i membri della comunità offrendo denaro o altro, infine passano al dispiego delle forze di polizia.

È molto importante per noi rendere note queste informazioni al mondo esterno e al governo cinese. Il mondo ha la responsabilità di reagire.

Negli ultimi anni ci sono stati molti progetti di estrazione su larga scala, ma solo pochi tibetani vi lavorano. La maggior parte dei lavoratori vengono dalle province cinesi. Sono i governi locali, oltre alle società, che beneficiano dell’estrazione mineraria in aree tibetane, non la comunità».

Miniere e costruzione di grandi infrastrutture sono la causa di un gran disagio sociale in tutto il mondo, anche a causa degli sfollamenti su larga scala. È questo il caso anche del Tibet?

«Sì, lo spostamento di intere comunità avviene regolarmente in Tibet. I nomadi, che normalmente si trasferiscono in un sito di pascolo diverso ogni tre mesi, al fine di non esaurire le risorse, si ritrovano costantemente a confrontarsi con le compagnie che invadono la loro terra con l’appoggio del governo. Per accelerare questo processo, la Cina ha introdotto politiche di reinsediamento in villaggi construiti appositamente, con case addossate le une alle altre e servizi mal funzionanti, e con specifiche restrizioni sull’uso della terra. Si tratta di uno sfollamento non solo da un luogo, ma da uno stile di vita.

Il governo cinese sostiene poi che i nomadi devono essere modeizzati, i bambini educati, e che ciò è più facile quando la popolazione vive concentrata in un villaggio. Ma abbiamo le prove che la vita in questi villaggi si è deteriorata. Le persone diventano dipendenti dai sussidi del governo e perdono le loro fonti di indipendenza economica (bestiame, praterie, ecc.), cosa che fa aumentare l’alcolismo e la prostituzione.

Quello che il governo cinese ha fatto è spingere i nomadi nella povertà assoluta».

Ha citato anche il turismo come problema ambientale urgente. Da dove vengono questi turisti e cosa cercano?

«Il problema del turismo in Tibet sta nella sua concentrazione in alcune zone e nella brevissima stagione estiva, con dei numeri enormi di visitatori. Recentemente la Cina ha attivato percorsi per visitare laghi sacri e altri importanti siti ambientali, cosa che ha avuto un impatto grave per le persone e la terra.

Il turismo crea poca ricchezza e lavoro per i tibetani locali. La maggior parte dei turisti in Tibet sono cinesi che viaggiano con pacchetti giornalieri prenotati attraverso agenzie di viaggio cinesi che prenotano alberghi cinesi, autisti cinesi e guide cinesi e mangiano in ristoranti cinesi. Così la maggior parte del denaro speso dai turisti cinesi che viaggiano in Tibet torna in Cina».

Il suo lavoro nel documentare resistenze socio ambientali in Tibet è abbastanza unico. Ci racconta un caso?

«Il più noto è probabilmente quello della miniera Gyama Copper Gold Polymetallic Mine in una zona ricca di rame, zinco, piombo, litio, vicino a Lhasa, la capitale. Il governo l’ha dichiarata miniera modello nonostante le vicine comunità abbiano protestato per più di cinque anni denunciando i disagi creati alla vita nomade e l’inquinamento delle acque del vicino fiume. Nel 2013 un’enorme frana ha ucciso più di 80 lavoratori nei pressi della miniera. Anche se il governo sostiene che la frana sia stata causata da fattori naturali, noi abbiamo le prove che la causa primaria è stata una cattiva gestione della miniera».

Esiste una rete di persone che si batte per l’ambiente in Tibet? Le Ong ambientaliste in Cina e in Tibet possono allearsi per la giustizia ambientale e sociale?

«Ci sono buone Ong ambientali in Tibet, ma la maggior parte di esse sono state costrette a chiudere dopo le proteste del 2008. Ci sono anche alcune buone Ong ambientali cinesi che lavorano in Tibet. Il problema è che quando una Ong sta facendo un grande lavoro sociale e ambientale, il governo locale cerca in diversi modi di farla chiudere etichettandola come separatista. Qualsiasi collaborazione sarà quindi abbastanza problematica».

In Europa e altrove si dibatte su decrescita o visioni alternative di sviluppo. Qual è il tuo pensiero in merito?

«Questo è qualcosa su cui qui discutiamo molto. Ci chiediamo “qual è lo sviluppo per tutti? Non è semplicemente essere felici? Cosa succede quando a qualcuno non va bene il tuo modo di intendere lo sviluppo, come ad esempio ai nomadi?”. Sviluppo, per me, dovrebbe essere il livello di soddisfazione di te come persona. Per i tibetani, i nomadi sono persone felici perché hanno le loro risorse e la libertà. Diciamo anche che non dovremmo cercare di imporre un’unica definizione di felicità su tutti. Lasciate che ognuno trovi la sua strada, e rispettate la vita. Naturalmente, non tutto ciò che è antico è buono di per sé, ma cerchiamo la parte buona di questo passato e preserviamola. A volte i tibetani non si sentono abbastanza cinesi per fare le cose cinesi, e non abbastanza tibetani per vivere come vivevano i loro antenati. Tra i due, il rischio è di non sentirsi più nessuno.

Daniela Del Bene
Co-editrice di Ejatlas


Per approfondire

Environmental and Development Desk, http://tibet-edd.blogspot.com.es/.
Documentario Shielding the Mountains, regia di Kunga Lama. Prodotto da Emily Yeh.
Tibet Centre for Human Rights and Democracy, Imposing Modeity with Chinese Characteristics, Dharamsala 2011.
Jampel Dell’Angelo, The sedentarization of Tibetan nomads: conservation or coercion?, p. 309-332 in H. Healy et al, Ecological Economics from the Ground Up, Routledge, London, 2012.
We are here to stay, documentario prodotto dal progetto Lamca-Ejolt.

Archivio MC:

Interviste con il Dalai Lama, ott.-nov. 2001 e giu. 2013;
Lhasa, nella morsa di Pechino, mar. 2010;
Contro Pechino a costo della vita, dic. 2012.

Atlante della Giustizia Ambientale

Questo è il quarto articolo di una collaborazione fra la rivista Missioni Consolata e l’Ejatlas (Environmental Justice Atlas). Nei prossimi numeri verranno pubblicate altre storie e analisi regionali di alcuni dei conflitti ambientali che compaiono nell’Atlante. Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’Atlas le relative schede informative.


Sotto il giogo cinese

Il Tibet è una regione dell’Asia centrale, grande quattro volte e mezzo l’Italia, con un’elevazione media di 4.500 metri sul livello del mare, appartenente per la gran parte alla Cina, in piccola parte all’India. La parte cinese, che nel 2005 contava 2.740.000 abitanti, chiamata ufficialmente Xizang, fu occupata dalla Repubblica Popolare Cinese nell’ottobre 1950 e dichiarata regione autonoma nel 1965. La sua capitale Lhasa (3.650 metri sul livello del mare) conta circa 200mila abitanti.

Dal 1951 è iniziata l’immigrazione dalle altre regioni cinesi. Tanto che oggi i non autoctoni, prevalentemente militari e coloni agricoli e tecnici delle attività industriali, costituiscono circa il 20% della popolazione. All’aumento dell’immigrazione corrisponde una notevole emigrazione di tibetani verso altri paesi: sono circa 2 milioni i tibetani che vivono fuori dal Tibet.

Tra la popolazione autoctona sono ancora presenti gruppi di nomadi che vivono di pastorizia. Prima dell’annessione alla Cina nel 1951, la classe monacale buddista, che contava circa un ottavo della popolazione complessiva, era molto potente, tanto da conferire allo stato tibetano un carattere teocratico, con a capo il massimo esponente spirituale, il Dalai Lama. Dall’anno dell’annessione, la Cina, ignorando le istanze indipendentiste dei tibetani, iniziò un programma di sviluppo che venne osteggiato dalla popolazione locale fino alla rivolta di Lhasa del 1959 che venne repressa dal regime cinese costringendo alla fuga il 14° Dalai Lama, Tenzin Gyatso, in India, a Dharamsala, dove costituì il governo tibetano in esilio.

Nei decenni successivi la Cina ha continuato a intensificare l’attività di sviluppo e integrazione del Tibet allo scopo di omologare sempre più (anche sul piano culturale ed etnico) la regione al resto della Repubblica popolare. Un ultimo tentativo di rivolta nella regione è stato quello del 2008, represso con la violenza dal governo comunista.

L’attuale posizione del Dalai Lama, che nel 2011 ha rinunciato al potere politico, affidando la guida del governo in esilio a Lobsang Sangay, riguardo alla questione tibetana è quella da lui stesso denominata «la via di mezzo», per un Tibet con un alto grado di autonomia all’interno della Repubblica popolare cinese: «Sono finiti i giorni in cui si assisteva alla vittoria di una parte e alla totale sconfitta dell’altra – ha ribadito il 13 settembre scorso in una conferenza a Parigi -. È necessaria una riconciliazione, altrimenti la nostra lotta non avrà successo».

La religione prevalente del Tibet è il buddismo tibetano, introdotto nella regione nell’8° secolo d.C. Accanto al lamaismo sono presenti la religione autoctona, il Bon, ed elementi di sciamanismo.

Luca Lorusso

 




Il peso della storia


All’inizio del IV secolo fu la prima nazione a convertirsi al cristianesimo. Nel 1915 un milione e mezzo di suoi cittadini persero la vita nel primo genocidio del Novecento. Finita l’era sovietica, dal 1991 l’Armenia è uno stato indipendente. Con molti problemi: la guerra con l’Azerbaijan, la mancanza di relazioni con la vicina Turchia, la povertà diffusa che spinge giovani e intellettuali a emigrare.

Armenia, un nome che a molti di noi richiama alla mente quella che papa Francesco lo scorso giugno, durante la sua visita apostolica nel paese, ha chiamato la «prima delle immani catastrofi del secolo scorso». Ci riferiamo al genocidio armeno, che si compì nel 1915, quando persero la vita un milione e mezzo di persone a causa di uno sterminio pianificato e portato avanti con sistematica lucidità dal movimento politico dei «Giovani Turchi». Un crimine a lungo dimenticato, e ancora oggi negato da diversi paesi, e in primo luogo dalla Turchia, nata sulle ceneri di quell’Impero Ottomano in cui quella tragedia avvenne. Eppure, ieri come oggi, l’Armenia è molto di più.

armenia-popoliL’identità armena: la religione e la lingua

Prima nazione a convertirsi al cristianesimo all’alba del IV secolo grazie all’opera di San Gregorio l’Illuminatore, l’Armenia ha alle spalle una lunga storia che si è tradotta e sviluppata in entità territoriali, anche molto diverse fra loro, susseguitesi nel tempo, ma sempre contraddistinte da un’identità molto marcata. Una cultura ricca e pluriforme, capace di raccogliere e rielaborare – essendo questa terra un ponte naturale fra Oriente e Occidente – il meglio della produzione artistica e intellettuale dei due mondi nelle diverse epoche. Al centro di tutto, come detto, la religione, ma anche la lingua, sopravvissuta a dominazioni straniere e diaspora, tramandata di generazione in generazione grazie all’alfabeto appositamente inventato all’inizio del V secolo dal monaco Mesrop Mashtots, desideroso di tradurre la Bibbia e farla conoscere al popolo armeno. Stretta fra tre vicini assai ingombranti quali l’Iran, la Turchia e la Russia, questa piccola nazione dal grande cuore – tre milioni di abitanti su un territorio esteso come il Belgio – è riuscita a sopravvivere nei secoli alle innumerevoli invasioni e tragedie della sua storia.

Più di recente, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica di cui è stata parte, l’Armenia è tornata a essere un paese indipendente. Uno stato giovane, che compie quest’anno venticinque anni di vita, come ha ricordato anche il papa durante la sua visita a giugno, congratulandosi con il presidente armeno Serzh Sargsyan. Certo, quella di oggi è una repubblica la cui estensione territoriale è assai più ridotta di quella che è stata (e in parte ancora è) la presenza armena nei paesi limitrofi. Ma non per questo la sua esistenza è un segno meno importante e significativo: il paese è l’emblema di una sopravvivenza, ma anche un riferimento umano e spirituale per i milioni di armeni sparsi in lungo e in largo per il mondo dopo la tragedia del genocidio.

Le relazioni impossibili con Azerbaijan e Turchia

Oggi il paese, i cui confini ripercorrono fedelmente quelli dell’ex repubblica sovietica d’Armenia, si presenta segnato ancora da conflitti e forti contraddizioni. In primo luogo, pesa la guerra mai conclusa con il suo vicino, l’Azerbaijan, per il controllo della regione contesa del Nagoo-Karabakh (MC agosto-settembre, ndr), oggi in mano agli armeni. Pesa anche l’assenza di rapporti diplomatici con la Turchia, un altro vicino, con la quale i confini sono chiusi da moltissimi anni, anche a causa della questione irrisolta del riconoscimento del genocidio. Pesano infine – in parte come conseguenza dei conflitti appena ricordati – anche la povertà e le disuguaglianze economiche, che determinano una continua fuga di forza lavoro, anche intellettuale, dal paese, una vera e propria emorragia verso la Russia e l’Europa, con la conseguente, costante caduta demografica che affligge l’Armenia. Eppure, per chi lo conosce e ci ha vissuto, il paese non è privo di fascino e dolcezze, e anche di notevoli sorprese.

Una cosa che va sottolineata subito – aspetto tipico di molti paesi dell’Asia, ma non sempre facile da comprendere da una prospettiva europea – è la grande disparità esistente fra la capitale, Yerevan, e il resto del paese. Una città, questa, che da sola assomma circa la metà della popolazione totale armena. Ma anche e soprattutto un luogo che fa da catalizzatore delle migliori energie del paese. Così, negli ultimi anni, Yerevan è diventata una capitale modea con una scena culturale assai vivace, con una gioventù aperta e cosmopolita che guarda sempre di più all’Europa come fonte di ispirazione.

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Povertà e monasteri Unesco

Assai diversa è la situazione appena ci si avventura fuori della capitale. Paesaggi dolci e incontaminati, dove la natura regna incontrastata sulla sparuta presenza dell’uomo, visibile a volte solo dopo molti chilometri di viaggio. Nei villaggi e nelle cittadine l’esistenza è dura. Qui la povertà e il disagio sembrano regnare su tutto. Emblematico il caso di Gyumri, seconda città dell’Armenia, visitata anche da papa Francesco. Un centro urbano che ha subito un drastico tracollo demografico, seguito al terremoto del 1988, quando tra la città e i territori circostanti morirono circa 25.000 persone. Dei 222.000 abitanti registrati nel censimento sovietico del 1984, oggi ne restano poco più di 120.000. Una perdita costante che non ha avuto fine neanche in anni più recenti. Un tempo centro industriale dell’Urss, oggi vive in larga parte dei soldi mandati dai parenti emigrati ai suoi abitanti e sui proventi – derivanti perlopiù da piccolo commercio – connessi alla base militare russa che vi si trova.

Oltre ai paesaggi suggestivi e sempre diversi, ciò che colpisce di più la fantasia del viaggiatore sono senza dubbio i monasteri medievali di cui questa terra è disseminata. Fra i tanti, ricordiamo almeno il monastero di Geghard, che prende il suo nome dalla reliquia della lancia («geghard», appunto, in lingua armena) che trafisse il Cristo al costato. Secondo la tradizione, a farla arrivare in Armenia sarebbe stato l’apostolo Taddeo, il primo a portare la lieta novella del Vangelo fra gli armeni. Scavato nella roccia, il monastero è situato nella valle del fiume Azat, che scorre subito accanto al monumento. Inclusi nella lista Unesco dei patrimoni dell’umanità – al pari di Geghard – sono altri due giornielli dell’architettura armena, ubicati nel Nord del paese. Ci riferiamo ai monasteri di Haghpat e Sanahin, sommi esempi di un connubio perfettamente compiuto fra arte e natura, ma anche di che cosa rappresenti la spiritualità armena. Ciò che stupisce di più, infatti, di questi edifici religiosi, è l’estrema sobrietà degli interni e degli arredi. Niente di più diverso, per intenderci, da una chiesa barocca veneziana. Pareti spesse e solide, concepite per resistere ai terremoti che da secoli colpiscono questa terra, giochi minimali di luci ed ombre, dipinti quasi assenti, spazi ridotti e sobri, privi di qualsivoglia forma di ricchezza e ostentazione. Al centro di tutto, il simbolo della croce, ripetuto in maniera quasi ossessiva in mille varianti sulle pareti e sulle pietre disseminate in questa antica terra.

L’ultimo dei siti Unesco del paese, la Cattedrale di Echmiadzin, inclusa nel registro insieme al sito archeologico di Zvartnots. Si tratta del centro religioso e spirituale del paese, una sorta di Vaticano armeno, situato a pochi chilometri da Yerevan e visitato fra l’altro da papa Francesco a giugno e da Giovanni Paolo II nel 2001. Qui a Echmiadzin risiede anche la massima autorità della Chiesa apostolica armena, il catholicos Karekin II. Nella sua «Storia degli armeni» scritta nel V secolo, lo storico Agatangelo racconta che fu una visione a mostrare al già ricordato San Gregorio il luogo in cui sarebbe dovuta sorgere la cattedrale. Echmiadzin significa infatti «discese l’unigenito», proprio in riferimento all’apparizione del Cristo.

Ma non è solo l’antichità di siti come questo a contraddistinguere l’Armenia di oggi.

Tra innovazione e oligarchi

Un altro paese, moderno e all’avanguardia, vive e si sviluppa all’ombra dell’Ararat, il monte biblico oggi appartenente alla Turchia, ma con i suoi 5.137 metri d’altezza ben visibile dall’Armenia. Uno dei settori più in crescita dell’economia nazionale è oggi quello della tecnologia dell’informazione. Un successo notevole per un’economia fortemente limitata dai confini chiusi, dalla guerra in corso e dalla mancanze di infrastrutture. Con una crescita media annuale di oltre il 20% nell’ultimo decennio, il settore It (acronimo inglese di «information technology») si è affermato come un simbolo per molti armeni: l’orgoglio di una nazione antica che, nonostante la povertà e le difficoltà del presente, riesce a produrre innovazione a livello internazionale. La riscossa di un popolo che ha fatto nel passato – così simile, in questo, al destino degli ebrei – dell’intraprendenza economica e della sua cultura cosmopolita due pilastri della propria identità. Non è mancato così chi ha parlato, in patria e altrove, di una «Silicon Valley» caucasica: software, applicazioni e videogame, tablet, smartphone e tecnologia militare (droni inclusi), tutti made in Armenia, sono gli ingredienti del successo.

Passando alla politica e alle istituzioni, a conclusione di questo rapido affresco del paese, l’Armenia può essere definita come uno degli esperimenti democratici più riusciti fra i paesi dell’ex Unione Sovietica. Nonostante tutti i limiti di uno stato non privo di alcuni tratti autoritari e piegato dalla corruzione, vi si tengono libere elezioni e nel quarto di secolo della sua giovane storia si sono succeduti al governo diversi partiti e uomini politici, con un’alternanza che ha permesso di sviluppare una certa libertà nei mass media e spazi di espressione e dissenso per la società civile. Forse la piaga più grande, a tal proposito, è rappresentata dal potere economico degli oligarchi, che rischia di strozzare, a suon di monopoli, le buone conquiste fatte negli ultimi anni in campo democratico.

Il 24 aprile, data simbolo della storia armena

Concludendo, non possiamo non tornare sulla questione del genocidio, con cui abbiamo aperto. Una questione su cui papa Francesco si è speso personalmente, nonostante notevoli pressioni contrarie anche all’interno dello stesso Vaticano. Una pagina di storia importante, per gli armeni, ma anche qualcosa in più. Per comprenderlo, basta visitare il paese il 24 di aprile, data simbolo in cui si ricorda il primo genocidio del XX secolo. Decine di migliaia di armeni, provenienti da ogni parte del paese, ma anche dall’estero, marciano fianco a fianco ogni anno per la durata di un giorno e una notte per prestare omaggio alle vittime di quella tragedia. Proprio fuori dal centro della capitale, su un colle chiamato Tsitseakaberd («il forte delle rondini») si trova il memoriale del genocidio, fatto costruire in epoca sovietica. Visitarlo significa comprendere come la storia per gli armeni non si limiti ai libri, alle targhe commemorative o a un calendario, ma sia parte della vita di ogni giorno, cibo quotidiano di questa gente. Qui, ai piedi dell’Ararat, dove per la Bibbia la vita toò dopo il diluvio, passato e presente, tradizione e futuro si compenetrano, facendo dell’Armenia un luogo unico.

Simone Zoppellaro

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Cronologia essenziale: dal 301 al 2016

La prima nazione cristiana

301 – Grazie all’opera di San Gregorio l’Illuminatore, il re armeno Tiridate si converte e l’Armenia diventa così – cuius regio, eius religio – la prima nazione al mondo ad abbracciare il cristianesimo.
406 – Il monaco Mesrop Mashtots inventa l’alfabeto armeno e inizia l’opera di traduzione delle Sacre Scritture in lingua armena.
1512 – Viene stampato a Venezia il primo libro in armeno.
1828 – Con il trattato di Turkmenchai l’Armenia orientale viene ceduta dalla Persia alla Russia.
1915 – Nell’Impero ottomano – in Anatolia, a Istanbul e in altre città – viene messo in atto lo sterminio della minoranza armena: è il genocidio («Medz Yeghe», in lingua armena) che porterà alla morte di un milione e mezzo di persone (vedi MC maggio 2015).
1920 – Viene proclamata la Repubblica Socialista Sovietica d’Armenia, una delle repubbliche facenti parte dell’Urss.
1988 – Un terremoto si abbatte su Leninakan (oggi Gyumri) e altri villaggi nel Nord Ovest del paese. Perdono la vita 25.000 persone.
1991 – L’Armenia dichiara la sua indipendenza dall’Unione Sovietica. Lo stesso anno Levon Ter-Petrosyan viene eletto primo presidente del paese.
1991 – La popolazione armena del Karabakh vota con un referendum per l’indipendenza della regione dall’Azerbaijan. Inizia una guerra che vedrà la vittoria militare degli armeni con la conquista del territorio.
1994 – A maggio viene firmato a Bishkek un protocollo che getta le basi per il cessate il fuoco fra azeri e armeni. Un accordo di pace non sarà mai raggiunto.
2001 – Visita di papa Giovanni Paolo II.
2008 – Dopo aver vinto le elezioni del 19 febbraio, Serj Sargsyan diventa il terzo presidente dell’Armenia. È tuttora in carica.
2016 – Il 2 giugno il parlamento tedesco, il Bundestag, riconosce con una risoluzione il genocidio armeno.
2016 – A giugno papa Francesco vista il paese. La Turchia polemizza con lui perché pronuncia la parola genocidio.

Si.Zo.

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La situazione religiosa

Armeni, un popolo di credenti

La quasi totalità della popolazione aderisce alla Chiesa apostolica armena, oggi guidata dal patriarca Karekin II.

«Visita al primo paese cristiano»: questo il motto scelto dalla Santa Sede per il viaggio di papa Francesco in Armenia (24-26 giugno 2016). Un primato, quello della nazione armena, conquistato grazie alla conversione, avvenuta nel IV secolo, del re Tiridate, portato alla fede in Cristo dall’opera di San Gregorio l’Illuminatore. Da allora, il cristianesimo accompagnerà tutte le tappe della storia armena, divenendo parte fondante della sua identità.

Ma non si tratta solo di storia. Una ricerca del 2015 condotta da Win/Gallup Inteational mostra come l’Armenia risulti essere il secondo paese più religioso al mondo, al pari della vicina Georgia. Il 93% della popolazione si dice infatti religiosa, a un solo punto percentuale dal primato mondiale, che spetta alla Thailandia.

Secondo il censimento del 2011, il 94,8% della popolazione armena (che conta 3,2 milioni di persone) è cristiana. In larga parte, questi si riconoscono nella Chiesa apostolica nata con San Gregorio e oggi guidata dal catholicos (patriarca) Karekin II. Secondo i numeri foiti dall’ufficio centrale di statistica della chiesa cattolica, in Armenia si troverebbero inoltre 280.000 cattolici, pari al 9,6% della popolazione. Ma si tratta di cifre dibattute, e il censimento citato fornisce cifre inferiori. Fra le altre religioni, ricordiamo lo 0.8% di yazidi, minoranza oggi perseguitata in Medio Oriente che ha trovato rifugio in Armenia, dove è in costruzione un loro tempio. Non mancano infine i musulmani: 812, secondo il censimento. Per loro a Yerevan è in funzione la Moschea Blu, splendido esempio di architettura persiana.

Si.Zo.

 




Papua Nuova Guinea. Deforestazione: la rapina silenziosa


Lo stato di Papua Nuova Guinea divide con l’Indonesia la seconda isola più grande del mondo. Ma soprattutto il terzo polmone verde del pianeta. Un polmone messo in pericolo da una deforestazione incontrollata. Il programma delle Nazioni Unite denominato «Redd» può essere una soluzione?

Fermare la deforestazione che sta devastando il paese e stabilire un piano d’azione concreto per dar vita a un’industria del legname sostenibile, in grado di produrre vantaggi anche per le comunità locali e non solo per le grandi compagnie straniere. È questo l’obiettivo degli incontri del Redd+ in Papua Nuova Guinea, avvenuti ad aprile e agosto 2016 a Kimbe, nella regione della Nuova Britannia.

La sigla Redd+ sta per «Reduction of emissions from deforestation and forest degradation», un programma elaborato nell’ambito della Unfccc, la «Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici», per favorire la riduzione delle emissioni provenienti dalla distruzione delle foreste nei paesi in via di sviluppo. Il meccanismo alla base del progetto prevede l’istituzione di un sistema di pagamenti per quegli stati che riescono a dimostrare la capacità di ridurre le emissioni derivanti dalla deforestazione che, secondo le stesse Nazioni Unite, ammontano al 20 per cento del totale prodotto sul pianeta.

Per una terra verde e in buona parte ancora incontaminata come la Papua Nuova Guinea, che, secondo le stime degli esperti dell’Onu, ospita da sola circa il 5% della biodiversità di tutto il globo ma che da decenni è oggetto di un sistematico e violento saccheggio da parte di società straniere che commerciano in legname, il Redd+ non può essere considerato solo un programma di nicchia per biologi e addetti ai lavori, quanto piuttosto uno strumento da mettere in funzione prima che sia troppo tardi. Vale a dire prima che si superi quella soglia di non ritorno che porterebbe al definitivo collasso del terzo polmone verde più grande della terra, dopo la foresta amazzonica e quella che ricopre la parte meridionale del continente asiatico. Porre un freno alla deforestazione, però, è un’impresa tutt’altro che semplice in uno dei paesi tra i più poveri e arretrati del pianeta, oggetto delle voraci brame dell’industria dei tronchi d’albero.

Tremila alberi per abitante

La Papua Nuova Guinea occupa metà della seconda isola più grande al mondo dopo la Groenlandia e diverse centinaia di piccole isole. Tre quarti dei suoi 462.840 chilometri quadrati sono coperti da foreste, in un chilometro quadrato delle quali crescono circa 70.000 alberi. Partendo da queste premesse è facile calcolare a spanne che il paese ospita più o meno 24,3 miliardi di alberi, 3.037 per ognuno dei suoi 8 milioni di abitanti. Numeri impressionanti, che sembrerebbero mettere al sicuro il territorio da qualsiasi «calvizie» da disboscamento, e che invece devono essere confrontati con le ancora più sconcertanti cifre della deforestazione.

Superando tutti i paesi africani, asiatici e dell’America Latina, la Papua Nuova Guinea è divenuta infatti il primo esportatore mondiale di «taun». Conosciuto nella regione del Sud Est asiatico anche come ahabu, matorna, malugai, kasai, sibu, tava o truong, questo particolare tipo di legno tropicale simile al mogano risponde al nome scientifico di Pometia pinnata ed è ricercato principalmente, ma non solo, per le decorazioni degli interni. Secondo uno studio pubblicato a febbraio dal think tank califoiano Oakland Institute (oaklandinstitute.org), solo nel 2014 dall’isola sono stati esportati quasi 4 milioni di metri cubi di legname, l’80 per cento dei quali è finito sul mercato cinese. Il tutto senza che la disastrata economia locale ne abbia tratto sostanziale giovamento.

Il dossier, significativamente intitolato «The great timber heist» (La grande rapina del legno), sottolinea a questo proposito che attualmente circa un terzo del territorio coperto da foreste del paese è nelle mani di compagnie straniere, e che ogni anno l’isola perde oltre 100 milioni di dollari a causa dell’evasione fiscale perpetrata da queste società. Attraverso complessi sistemi di scatole cinesi e aziende controllate, spiega il documento, le imprese estere riescono a dichiarare prezzi di vendita del legname irrisori, gonfiando parallelamente i costi dei materiali acquistati e arrivando in questo modo a dichiarare profitti quasi nulli, e quindi non tassabili. L’Oakland Institute ha analizzato nel dettaglio il caso della società malese Rimbunan Hijau, le cui 16 consociate attive in Papua Nuova Guinea risultano essere in perdita e non pagano un dollaro di tasse, pur gestendo un quarto di tutte le esportazioni di legname del paese.

«I prezzi all’esportazione dichiarati per il legname dell’isola – si legge nel dossier – sono significativamente più bassi rispetto a quelli degli altri grandi fornitori di tronchi tropicali. Negli ultimi 15 anni il prezzo medio per metro cubo è stato inferiore del 20 per cento rispetto alla media degli altri cinque principali esportatori. Nel 2014, il prezzo medio dei tronchi prodotti da grandi esportatori come il Camerun e la Birmania era di 388 dollari al metro cubo, quasi il doppio del prezzo dei tronchi della Papua Nuova Guinea, che non arrivava ai 210 al metro cubo. Applicati ai volumi di esportazioni del 2014 questo si traduce in una variazione annua di fatturato di 679 milioni di dollari per le industrie del legno». Le autorità forestali del paese sono «inefficienti – prosegue lo studio – e presentano grandi carenze e una corruzione diffusa». In questo contesto «l’industria del legname ottiene in molti casi trattamenti preferenziali, mentre gli abitanti delle zone rurali subiscono le conseguenze sociali e ambientali prodotte da un settore che opera spesso al di fuori delle leggi». Se veramente il commercio del legname è un’attività in perdita, «perché le imprese straniere continuano la loro attività?», si è chiesto Frédéric Mousseau, direttore del think tank califoiano. Una domanda ovviamente retorica, se si considera che, malgrado i bilanci in rosso dichiarati dalle compagnie, le esportazioni sono quasi raddoppiate a partire dal 2009.

Terre in vendita

Il documento si sofferma anche sul problema delle cosiddette Sabl, le Special agriculture and business leases, locazioni a tassi agevolati per agricoltura e commercio concesse dalle autorità alle imprese e pensate teoricamente per attrarre investimenti. Tra il 2003 e il 2012 a causa delle Sabl, 5,5 milioni di ettari di foreste sono passati di fatto sotto il controllo di società del legname nazionali ed estere, mentre la percentuale della terra controllata dalle comunità locali è scesa dal 97 all’85 per cento. Un’inchiesta ufficiale condotta dalle autorità di Port Moresby ha dimostrato come le assegnazioni delle Sabl siano state caratterizzate da «abusi, frodi, assenza di cornordinamento tra le agenzie governative, fallimento e incompetenza dei funzionari governativi nell’assicurare il rispetto, la responsabilità e la trasparenza». Evidenze che hanno portato il primo ministro papuano Peter O’Neill ad ammettere in pubblico che «lo strumento delle Sabl ha fallito miseramente».

L’Oakland Institute aveva provato a portare all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale il problema della deforestazione in Papua Nuova Guinea già nel 2014 con il documentario On our land. Un cortometraggio di 36 minuti (è visibile su YouTube, ndr) che racconta il furto subito dalle comunità rurali dell’isola, nonostante la carta costituzionale del paese stabilisca l’autonomia e la sovranità della terra e delle risorse naturali, imponendone un impiego sostenibile e affidandone la gestione a clan e tribù, con l’esclusione quasi completa della proprietà privata. Anche grazie a queste e tante altre iniziative di sensibilizzazione portate avanti da numerosi gruppi e associazioni per la difesa della terra e dell’ambiente, le autorità di Port Moresby hanno iniziato a rendersi conto che lo sfruttamento delle foreste ha ormai raggiunto un livello insostenibile. Il problema, come ha spiegato il professor Simon Saulei del Papua New Guinea Forest research institute all’agenzia Inter press service (Ips), è che gli organismi governativi incaricati di difendere le foreste e l’ecosistema si scontrano con una cronica «carenza di personale e fondi», che blocca le attività avviate e non consente di intraprendere nuove iniziative.

Redd sarà la soluzione?

Una delle strade che l’esecutivo di Port Moresby sta cercando di percorrere per arginare in qualche modo la situazione è l’implementazione del Redd+. Come già ricordato, lo scorso aprile si è svolto a Kimbe il primo Redd+ expert training event, che ha visto la partecipazione di 37 rappresentanti del governo, della società civile e del settore privato. L’evento ha avuto il sostegno dell’Undp, il Programma di sviluppo delle Nazioni unite. «Abbiamo messo insieme esponenti di tutti i settori interessati dal problema della deforestazione – ha spiegato al quotidiano online Papua New Guinea Today Terence Barambi, manager della Climate change and development authority papuana -. Quello che vogliamo fare è individuare le diverse priorità e stabilire una strategia nazionale contro la deforestazione nell’ambito del progetto Redd+». Barambi crede che la massima di Lao Tzu secondo cui «Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce», descriva bene la situazione della Papua Nuova Guinea, dove la deforestazione ha prodotto danni enormi ma a suo avviso non ancora irreparabili.Nel frattempo prosegue un altro importante progetto che vede il National forest monitoring system (Nfms) papuano impegnato nella creazione di un inventario nazionale degli alberi. Un’iniziativa senza precedenti per un paese in via di sviluppo, che coinvolge anche l’Italia, dato che il Nfms si avvarrà della collaborazione di alcuni scienziati dell’Università La Sapienza di Roma. L’archivio comprenderà la misurazione del volume del legname, la stima delle riserve di carbonio immagazzinate dagli alberi e delle emissioni di gas a effetto serra in caso di deforestazione, consentendo di effettuare una valutazione concreta del rapporto costi-opportunità legati al taglio degli alberi. L’obiettivo è mostrare chiaramente i benefici economici collegati alla creazione di un’industria del legname che abbia ritmi di produzione commisurati alle esigenze di tutela dell’ambiente, con vantaggi di lungo periodo sia per le società impiegate nel settore che per le comunità locali.

Paolo Tosatti*
(China Files)

* Paolo Tosatti, giornalista, collabora con China Files dal 2011. Per MC ha già scritto: Timor Est, Piccoli imprenditori crescono, giugno 2016.

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Etiopia: Addis Abeba capitale d’Africa


Un paese in forte crescita dove grandi restano le disuguaglianze. La capitale si espande e si dota di modee tecnologie. Ma le tradizioni permangono radicate, come l’orgoglio di un popolo mai colonizzato. E adesso si avverte una massiccia penetrazione cinese. Impressioni di un visitatore speciale.

A volte è difficile tornare in un posto che si è amato. Si ha paura di rovinae la memoria bella e intensa che per molto tempo si è serbata con piacere, e che spesso si è utilizzata per ravvivare certi periodi un po’ spenti. Si teme che questo ricordo svanisca, che quel posto perda il suo fascino particolare e diventi come tutti gli altri.

È un po’ come quando si deve rincontrare una persona speciale dopo tanti anni, e si ha il timore che adesso la si sentirà come una qualunque.

Se c’è una cosa che colpisce sempre, giungendo ad Addis Abeba, è la vicinanza dell’aeroporto al centro. Appena il tempo di svolgere le formalità di sbarco, e ci si trova immersi nella capitale d’Africa, con il suo traffico caotico e le sue sfilate di palazzoni che stanno crescendo come funghi. Questo però me l’aspettavo, perché non c’è rivista o sito specializzato che abbia ignorato la vorticosa trasformazione urbanistica della metropoli etiope, del resto comune a molte città africane. Tuttavia, sfogliando i giornali non si può immaginare la sensazione che si prova nel trovarsi di fronte a una serie di condomini in costruzione a perdita d’occhio.

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Orgoglio di popolo

Tredici anni fa ero rimasto a bocca aperta nel visitare le straordinarie chiese di Lalibela, i castelli di Gonder, le stele di Aksum. Tuttavia, ciò che in Etiopia mi aveva colpito non si limitava alle ricche vestigia del passato, ma era stato il senso di nazione, l’orgoglio di popolo, l’attaccamento alla propria storia e alla propria cultura. A differenza degli altri stati africani nei quali avevo fin lì operato, in Etiopia non avevo riscontrato malcelati sensi d’inferiorità, rancori o impulsi di rivalsa. In altri termini, non ci avevo trovato quell’eredità strisciante del colonialismo che spesso si manifesta con un timore inconscio di non essere messi sullo stesso piano degli occidentali, di essere considerati «inferiori», e che provoca una spinta compulsiva a farsi continuamente sentire, in un modo o nell’altro.

Gli etiopi non sono mai stati colonizzati, e i cinque anni di occupazione italiana non ne hanno minimamente intaccato l’«etiopicità». Anzi, come è avvenuto per tutti gli attacchi che il paese ha dovuto affrontare nel corso della storia, la volontà di resistere al colonialismo fascista l’ha sicuramente rinforzata.

Nuovi rischi

L’Etiopia, nel suo affascinante percorso storico, è riuscita a passare indenne attraverso mille vicissitudini, trasformandosi senza mai snaturarsi. Ma ora, che il paese si è spalancato agli investimenti cinesi, le sue terre sono avvilite dal land grabbing (accaparramento delle terre da parte di multinazionali straniere, ndr), le sue tradizioni sottoposte alla lente banalizzante del turismo di massa, l’etiopicità riuscirà a conservarsi? Si troveranno ancora tracce della «restaurazione ciclica» di un sistema feudale che sembra costituire, nelle sue forme sempre cangianti, una costante della storia etiope? La scomparsa del carismatico primo ministro Meles Zenawi, ex guerrigliero e padre dell’originale federalismo su base etnica, sostituito nel 2012 dal più «anonimo» Haile Mariam Desalegn, interromperà la serie di «imperatori de facto» che si sono succeduti alla guida del paese?

Al mio ritorno, fin dai primi passi ritrovo subito quella tipica capacità etiope di «accogliere questo ma non quello», che avevo spesso riscontrato. Nemmeno due anni fa, il mondo degli affari si era stupito della decisione del governo di Addis Abeba che aveva messo sul mercato titoli pubblici a scadenza decennale (subito andati a ruba) per l’ammontare di un miliardo di dollari. Tuttavia, nonostante tale apparente apertura alla «modeità», in Etiopia si vedono solo insegne di banche locali. Molte hanno aperto una filiale nella zona del Merkato, l’esteso quartiere nel quale si vende di tutto. A dispetto delle migliaia di piccoli commercianti che trascorrono le giornate seduti per terra a contrattare la loro povera merce con avventori di varia estrazione sociale, in questo rione si concludono affari milionari.

Tra i fasci di povere galline legate fra loro e i mucchi di vestiti usati, trovo anche le mele dell’Alto Adige, a un prezzo decisamente elevato. Ma chi le comprerà mai? Non faccio in tempo a chiedermelo, ed ecco un anziano signore acquistarle senza batter ciglio.

Rivedo dunque un’altra caratteristica etiope: l’assenza di una netta separazione fra livelli di reddito molto diversi, ben visibile anche nell’organizzazione (o disorganizzazione…) urbanistica della capitale. Priva di un vero e proprio centro, alterna modei edifici di 20 piani a piccoli agglomerati di tuguri, senza che si possa parlare di quartieri ricchi e quartieri poveri. Quest’assenza di ghetti le consente di avere un tasso di delinquenza decisamente basso, specie se comparato a quello delle sue «sorelle» africane. Ad Addis Abeba, infatti, si può tranquillamente passeggiare a tutte le ore. E i suoi abitanti, che durante il giorno si dedicano a ogni tipo di attività per sbarcare il lunario, conferendo alla metropoli un aspetto brulicante, alla sera non disdegnano ritrovarsi con gli amici negli onnipresenti locali in cui si ascolta musica, per lo più etiope.

La domenica, invece, oltre a partecipare alle cerimonie ortodosse e incontrare i parenti, migliaia di giovani corrono o improvvisano partite di calcio negli spiazzi erbosi ancora rimasti fra un quartiere periferico e l’altro, dove sorgono orti e pascolano bovini. Appassionato di atletica, vado a farci una corsa anch’io, anche se la mia età è un po’ meno verde e i 2.400 metri di altitudine si fanno sentire. Tuttavia, è una buona occasione per relazionarmi in maniera più agevole di quanto solitamente avvenga nelle altre nazioni del continente. Qui, infatti, mi trattano tutti alla pari, e nessuno sembra guardarmi come un «bianco», ma tutt’al più come uno dei tanti stranieri che giungono da ogni dove.

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Le grandi opere

Nei programmi del governo, lo sviluppo del paese dovrebbe basarsi in larga parte su una serie di grandi opere, la più mastodontica delle quali risulta essere la Grand Ethiopian Renaissance Dam, cioè la Grande Diga del Rinascimento Etiope: un ciclopico muraglione alto 175 metri e largo 1.800, che sbarrerà il Nilo Azzurro prima di entrare in Sudan, formando un bacino di oltre 1.500 km2 (cioè come mezza Valle d’Aosta). Con le sue 16 turbine che potranno sviluppare una potenza di 6mila megawatt, vi sorgerà la centrale idroelettrica più grande d’Africa, l’undicesima al mondo. Fra mormorii e sospetti per l’assenza di gara d’appalto, l’incarico per la costruzione di quest’opera faraonica, ormai completata per più di metà, è stato assegnato all’italiana Salini Impregilo. Nulla di nuovo, quindi, rispetto a quanto già accaduto nella Valle dell’Omo. Assommando le altre aziende estere che foiranno le varie componenti, il costo totale dovrebbe ammontare a 4,8 miliardi di dollari, dei quali 1,8 finanziati dalla Cina e i rimanenti tre a carico dell’Etiopia stessa. C’è dunque da attendersi ulteriori emissioni di bond da parte del governo di Addis Abeba. Resta da vedere cosa accadrà quando questi, con il loro tasso d’interesse superiore al 6,5%, giungeranno a scadenza fra 10 anni.

Secondo l’esploratore scozzese James Bruce, che aveva visitato il paese nel ‘700, il mitico re etiope Lalibela aveva progettato già 8 secoli fa la costruzione di alcune dighe sul Nilo Azzurro, con lo scopo di ostacolare l’irrigazione delle terre d’Egitto, così da affamarlo e poterlo facilmente conquistare. Non si sa se tale piano sia mai stato realmente concepito, ma adesso che il fiume viene davvero sbarrato, è proprio il governo del Cairo a sollevare le principali obiezioni. Il Sudan, da parte sua, vede la diga di buon occhio poiché si trova a metà fra Khartoum e Addis Abeba, e l’energia elettrica prodotta raggiungerà entrambi i paesi. Ma l’Egitto, seppur dovrebbe anch’esso beneficiae, non è così sicuro che l’operazione sarà conveniente, anche perché vedrà diminuire la sua percentuale di sfruttamento del grande corso d’acqua. In passato, i governi Hosni Mubarak e Mohamed Morsi avevano proferito aperte minacce, ma ora la situazione, seppur fra mille discussioni e contrasti, pare un po’ più tranquilla. In ogni caso, l’Etiopia non ha mai vacillato nella sua idea di portare a termine l’impresa, costi quello che costi.

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L’ossessione per le guerre

Dopo il conflitto fratricida con l’Eritrea, negli ultimi tre lustri l’«ossessione» etiope per le guerra sembra essersi affievolita. Ma un giovane militare con il quale mi trovo a chiacchierare, mi offre un esempio della storica fierezza dei combattenti locali. Quando, davanti al suo kalashnikov che esibisce in bella mostra, gli dico scherzosamente di non spararmi, per tutta risposta si fa serio e mi ribatte piccato: «Non sono mica un pericolo pubblico, sono un soldato della Repubblica Federale d’Etiopia e sono stato addestrato a comportarmi in modo professionale!». Molti si chiedono come mai, nonostante le numerose azioni incisive portate avanti da reparti etiopi in Somalia, il paese non abbia subito attacchi terroristici della portata di quelli registrati nel vicino Kenya, anch’esso militarmente impegnato oltreconfine.

Trovandomi ad Addis Abeba, non posso rinunciare a un giro sull’ultima novità: la prima metropolitana dell’Africa subsahariana, entrata in servizio nel settembre 2015 e costata 475mila dollari. Oltre alla costruzione e alla foitura del materiale rotabile, Pechino si sta occupando anche del funzionamento: per un paio d’anni, i macchinisti alla guida dei treni saranno cinesi, gradualmente sostituiti da personale etiope sotto loro sorveglianza.

Percorro poi la nuova autostrada verso Sud e, di fronte ai carrettini e agli asinelli che procedono contromano, mi chiedo quante persone beneficino davvero di tali investimenti. Infatti, dopo più di un decennio con tassi di crescita del Pil mediamente superiori al 10%, ci si trova ancora di fronte a una maggioranza della popolazione, che ormai raggiunge i 100 milioni di abitanti, costretta a vivere con meno di due dollari pro capite al giorno. Una grande povertà, ma anche una forte capacità di accoglienza dei profughi (calcolati in circa 750mila persone), che ha stupito il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella durante la visita di stato del marzo scorso. In capitale, dove giungono molti mendicanti, sempre più persone si scostano dalle indicazioni sia ortodosse sia musulmane, per le quali ogni soldo donato sarà lautamente ricompensato in paradiso, ma pretendono che il governo sia più incisivo nei programmi di lotta alla povertà, in modo da evitare che molti bambini non vedano altro futuro che l’accattonaggio.

Seppur fra mille cambiamenti, posso affermare di aver ritrovato l’Etiopia di sempre, con le sue meraviglie e i suoi orrori, che offre fascino o sgomento a seconda di come la si guardi. Quell’Etiopia difficile da inquadrare, soprattutto se ci si ostina a utilizzare i consueti parametri statistici. Si tratta infatti di un paese nel quale, in statistica, possono anche coesistere diverse quote superiori al 50% nello stesso conteggio, o i cui confini interni risultano alquanto elastici, così come certe regole grammaticali. Basta ad esempio chiacchierare con le persone, per capire che la maggioranza della popolazione può essere cristiana, oppure musulmana, a seconda dell’interlocutore. E basta mettere in atto delle iniziative in certi villaggi, per accorgersi di come questi cambino di regione a seconda che si tratti di ricevere fondi per lo sviluppo o essere sottoposti a tassazioni. Chi poi non riesce a lavorare senza avvalersi di supporti informatici, può sempre impazzire a trovare delle traduzioni univoche per trasferire i nomi propri delle località dall’amharico (con i suoi 260 segni sillabici) al nostro scao alfabeto.

Insomma, oggi come ieri, risulta pienamente valida l’affermazione, espressa nel 1968 dal linguista eritreo Abraham Demoz: «L’Etiopia è la disperazione del classificatore compulsivo».

Repressioni estive

Nel momento in cui scrivo, giungono notizie delle ennesime manifestazioni soffocate nel sangue. Sarebbero oltre 100 i morti nel solo fine settimana del 6-7 agosto. Le proteste erano iniziate l’inverno scorso a causa di un programma, poi abrogato, volto ad allargare la giurisdizione della capitale: una città in piena espansione che ha bisogno di nuove terre edificabili, pestando così i piedi all’Oromiya, la regione che la ingloba e che, storicamente, si sente schiacciata dal potere centrale. Nel contempo, attivisti amhara sono scesi in piazza per rivendicare la territorialità di alcune aree a Nord di Gonder, ora incluse nella regione del Tigray, e anche qui l’intervento delle forze governative (apertamente filo tigrine, da ormai 25 anni) ha provocato numerose vittime. In entrambi i casi, si tratta del difficile rapporto tra centro e periferie, reso più aspro dall’ineguale distribuzione dei profitti derivanti dalla vorticosa crescita economica.

Alcuni analisti fanno notare che gli Amhara e gli Oromo sembrano finalmente in grado di superare gli annosi contrasti, così da coalizzarsi nella richiesta di una maggiore democrazia. Se così fosse l’Etiopia potrebbe rivestire un ruolo faro nell’indicare alle altre nazioni del continente una via africana allo sviluppo. Lo dimostrano i molti oppositori che, nelle loro feroci critiche al governo, si mostrano costruttivi e motivati da un grande amore per il proprio paese, manifestando un’apprezzabile larghezza di vedute. Niente di meglio per sfatare il luogo comune dell’africano che non riesce a guardare al di là del proprio gruppo etnico e delle proprie necessità immediate. Emblematico, a questo proposito, quanto accaduto alle recenti Olimpiadi di Rio. Feyisa Lilesa, fortissimo maratoneta etiope (di etnia oromo), ha tagliato il traguardo conquistando la medaglia d’argento. Al termine della gara il suo pensiero è andato alle proteste della sua gente soffocate nel sangue. E allora ha deciso di ripetere il gesto che tanti altri giovani stavano facendo in quei giorni per le strade d’Etiopia: le braccia alzate, con i polsi incrociati, a mimare le manette alle quali va incontro chi richiede un maggior rispetto dei diritti civili.

La protesta nonviolenta dell’atleta etiope ci fornisce qualche briciolo di speranza in più.

Alberto Zorloni

Alberto Zorloni veterinario tropicalista, ha operato in diversi paesi africani e centroamericani. Originario di Varzo, Piemonte, si è laureato a Milano; è specializzato ad Anversa (Belgio) e ha conseguito un master di ricerca in etnoveterinaria a Pretoria (Sudafrica). Ha pubblicato Ripartire da ieri (Emi), di cui MC ha scritto sul numero di agosto-settembre 2015. Alberto è tornato in Etiopia nel 2016, dopo averci lavorato un anno nel 2003.

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