Nicaragua. Rosario&Daniel Ortega spa


Lo scorso novembre Daniel Ortega è stato rieletto presidente del Nicaragua. Sua moglie Rosario Murillo, vicepresidente. In questa intervista María López Vigil, caporedattrice di Envío, prestigiosa rivista dell’Università Centroamericana (Uca) di Managua, traccia un quadro fosco della coppia presidenziale che da 10 anni guida il paese.

Quell’uomo con i baffetti, gli occhiali «a goccia» e un’uniforme verde militare era per molti – anche per chi scrive – un’icona. Lui, Daniel Ortega Saavedra, era il leader del Frente sandinista de liberación nacional (Fsln) che aveva liberato il piccolo Nicaragua dalla dittatura di Anastasio Somoza e resistito per 10 anni (dal 1979 al 1989) alle pressioni militari e politiche degli Stati Uniti, all’epoca guidati da Ronald Reagan.

Dopo gli accordi di Managua (agosto 1989), il paese centroamericano toò alla normale dialettica democratica. Daniel Ortega fu sconfitto nelle presidenziali del 1990 (da Violeta Chamorro), del 1996 (da Aoldo Alemán) e del 2001 (da Enrique Boloños). Nel 2006 Ortega vinse le elezioni, ripetendosi nel 2011.

Lo scorso 6 novembre Daniel Ortega, oggi 71enne, è stato eletto presidente per la terza volta consecutiva, mentre sua moglie Rosario Murillo è stata nominata vicepresidente. Un’abbinata familiare che non rappresenta un delitto, ma certamente non appare come una scelta eticamente opportuna.

María López Vigil

Per parlare delle elezioni e del decennio della famiglia Ortega abbiamo rivolto qualche domanda a María López Vigil, giornalista e scrittrice, caporedattrice di Envío, la rivista pubblicata dall’Università Centroamericana (Uca) di Managua. Va ricordato che la Uca, fondata dalla Compagnia di Gesù nel 1960, è senza dubbio uno dei più noti e prestigiosi istituti universitari dell’America Latina.

I dubbi sulle elezioni

Maria, Daniel Ortega e Rosario Murillo hanno vinto di nuovo. Tutto bene?

«Non sapremo mai i numeri ufficiali di queste elezioni. Da otto anni le autorità elettorali mentono e tutti lo sanno in Nicaragua. Eppure Daniel Ortega non ha stravinto. In ogni caso, ha vinto perché ha preparato tutto per non avere né osservatori inteazionali né partiti reali in competizione. Noi abbiamo calcolato un 70% di aventi diritto che non sono stati a votare, arrivando all’80% nelle zone rurali. Quindi, il 72,5% ottenuto da Ortega è stato calcolato su appena un 30% di votanti. Sarebbe corretto definirla una vittoria di Pirro».

Dopo le elezioni, l’emittente TeleSur ha commentato: «Con il suo processo elettorale esemplare, la democrazia nicaraguense è attaccata con aggressività dai governi e dai media occidentali. (…) Nelle elezioni statunitensi del 2012 Barack Obama vinse con l’appoggio del 31,5% (…). Daniel Ortega ha vinto con un appoggio del 49,4%» (TeleSur, 10 novembre). Dove sta la verità?

«In queste elezioni chi ha vinto è stata l’astensione. Qualcosa di molto significativo in Nicaragua, dove alla gente piace votare, perché le persone hanno “fede elettorale”. Le cifre diffuse dal disprezzato Comitato elettorale non sono credibili. Sono state precedute da tre frodi elettorali provate (2008, 2011 e 2012). Il problema elettorale in Nicaragua è molto grave perché il sistema è collassato».

La povertà resiste

Nel 2015 l’economia nicaraguense ha registrato una crescita del 4,5% (dato Fmi). Significa che il modello economico di Ortega funziona?

«Il governo di Ortega non è progressista. La spinta che ha avuto l’economia del Nicaragua si è basata sull’aiuto venezuelano (si tratta di ingenti prestiti petroliferi che tuttavia sono molto diminuiti negli ultimi due anni, ndr), aiuti che il presidente ha privatizzato. Il modello economico ha favorito fondamentalmente il grande capitale e per questo l’Fmi ogni anno si congratula con Daniel Ortega».

In questi anni il livello della povertà generale è diminuito in maniera significativa: era del 44,7% nel 2009, è sceso al 39,0% nel 2015 (dati Fideg).

«Ortega e Murillo sono al governo ormai da dieci anni. Sono diventati milionari con le entrate della cooperazione petrolifera venezuelana. La diseguaglianza sociale è maggiore oggi che dieci anni fa. I problemi principali del paese sono la disoccupazione e i cattivi impieghi (la cosiddetta occupazione informale): 8 su 10 nicaraguensi lavorano in proprio, senza un salario fisso e senza previdenza sociale. L’emigrazione verso Costa Rica e Panamá è massiccia. Le rimesse in dollari che gli emigrati inviano alle loro famiglie sono un sostegno importante per la gente più povera del paese. Il Nicaragua continua a detenere il record di paese più povero del continente dopo Haiti, anche se la differenza tra i due paesi rimane abissale».

Secondo la Cepal, organizzazione delle Nazioni Unite, nella classifica della povertà il Nicaragua viene però dopo di Haiti, Honduras, Guatemala e Messico.

«Premesso che entrare nella “competizione” per chi è più povero è comunque un fatto negativo, le prove per stabilire chi lo è di più sono sempre differenti».

La povertà è un’eredità storica. Cosa manca per diminuirla?

«Il problema principale da risolvere perché il paese superi la sua storica povertà è il sistema educativo di bassissima qualità. Abbiamo le maestre e i maestri peggio pagati dell’America Centrale e la minore percentuale del bilancio nazionale investito nell’educazione (2,5%). L’attuale governo non ha fatto nulla per migliorare l’istruzione».

Nicaragua 2009-2016: tassi di povertà generale (sinistra) ed estrema (destra).

Gli Ortega sostengono che il loro governo è un governo inclusivo.

«Ortega ha incluso nel suo governo la grande impresa privata e la élite imprenditoriale di sempre. Sono i suoi alleati più sicuri, suoi soci anche in varie attività. Per i più poveri ci sono i cosiddetti “programmi sociali”: borse alimentari mensili, maiali e galline per le donne rurali, lamiere di zinco per i tetti, crediti senza interesse per micro-attività urbane… Non c’è dubbio che alleviano la povertà e che i poveri gradiscano molto queste misure, però non risolvono il problema. La sola cosa che sradicherebbe la povertà sarebbe una occupazione stabile con un salario dignitoso.

Il 6 novembre molti di questi poveri, pur beneficiati con i programmi sociali, non sono andati a votare per Ortega. La gente è stanca del controllo sociale che questo governo impone, che si manifesta in varie maniere, più nelle zone rurali che a Managua e in altre città».

Ciò che resta del sandinismo

Mi pare che il sandinismo di oggi sia completamente differente da quello di ieri. Mi sto sbagliando?

«Tutti abbiamo ammirato il sandinismo e da anni siamo tristi per la situazione che viviamo qui. Però non serve a nulla dissimulare e mentire sul Fsln e su Ortega e la sua gente. Non sono sandinisti. Il sandinismo continua a essere vivo in Nicaragua, tuttavia non nelle istituzioni. In altre parole, non c’è alcun sandinismo nell’attuale Fsln».

Cos’è il sandinismo, María?

«È una delle radici di questa nazione. Il sandinismo è giustizia sociale e sovranità nazionale. Oggi invece ci sono diseguaglianza e ingiustizie».

Sovranità nazionale… Com’è la storia del progetto del Grande canale interoceanico nelle mani di Wang Jing, proprietario del gruppo cinese Hknd?

«Ortega è un “vendepatria” come diceva Sandino dei politici del suo tempo. Ha venduto il paese a una impresa cinese perché faccia un canale interoceanico. E anche se non lo facesse, perché questo progetto è una truffa e una pazzia, c’è una legge che già oggi permette a quella impresa e al gruppo di Ortega di appropriarsi delle terre per l’ipotizzato canale e i progetti ad esso associati».

Tuttavia, il Fronte sandinista di liberazione nazionale (Fsln) continua a vivere ed esistere, o no?

«In realtà il Fsln non esiste, perché è un partito privo di strutture. Quello che c’è è l’”orteguismo”, un progetto politico-familiare che viene comparato con quello di Somoza. In varie occasioni è stato detto: “Ortega e Somoza sono la stessa cosa”. Evidentemente sono passati gli anni, il mondo è diverso, il Nicaragua anche. Assomiglia a Somoza per l’autoritarismo, per il controllo familiare del paese, per la capacità repressiva (specialmente nelle zone rurali), per l’arricchimento personale e del gruppo dei suoi amici, per la corruzione e l’utilizzo privato delle risorse pubbliche».

In Nicaragua operano società multinazionali?

«Certamente. C’è la Cargill, ricevuta con tutti gli onori da Ortega.

C’è l’impresa mineraria canadese B2Gold. C’è la Monsanto. Ci sono zone franche coreane, taiwanesi, statunitensi. Perché il Nicaragua attira tanti investimenti stranieri, di multinazionali e altre imprese importanti? La ragione principale è che il Nicaragua ha i salari più bassi di tutta l’America Centrale. La manodopera è così a buon mercato che è l’unica che può competere con i più bassi salari dei paesi asiatici. Il Salvador ha un salario minimo del 50% superiore al nostro, quello dell’Honduras è due volte maggiore, quello del Guatemala è appena più alto di quello honduregno e quello del Costa Rica è quattro volte maggiore».

Queste multinazionali provocano disastri come negli altri paesi dell’America Latina? Anche in Nicaragua l’ambiente e la natura sono in pericolo?

Le imprese minerarie stanno facendo disastri ambientali ovunque esse lavorino, come nel resto dell’America Latina. In questo momento il governo ha dato in concessione il 10% del territorio nazionale per lo sfruttamento minerario, specialmente dell’oro».

La Chiesa cattolica e le chiese evangeliche

Qual è il ruolo della Chiesa cattolica del Nicaragua? Un tempo, specialmente con il cardinale Obando y Bravo, è stata una grande nemica del sandinismo. Oggi è alleata della famiglia presidenziale. Per favore, María, una spiegazione…

«La gerarchia della Chiesa cattolica è divisa, come in tutte le parti del mondo. Ci sono quattro dei dieci vescovi della Conferenza episcopale del Nicaragua che hanno posizioni critiche verso il governo Ortega. Gli altri mantengono posizioni ambigue: in alcuni momenti sono favorevoli al governo, ma generalmente preferiscono il silenzio. Il vescovo ausiliare di Managua, mons. Silvio José Báez, è l’unico che ha sempre mostrato una posizione critica. Nelle elezioni del 6 novembre non è andato a votare sostenendo pubblicamente che il processo elettorale era viziato alla radice».

E le chiese evangeliche? Come sta accadendo in molti paesi latinoamericani, anche in Nicaragua la loro diffusione tra la popolazione è rapida.

«Sì, come in tutto il Centramerica e in tutta l’America Latina, esse sono cresciute in maniera esponenziale. In generale, leggono la Bibbia in una maniera che porta al fondamentalismo e a passività e rassegnazione davanti alla realtà. Ci sono le chiese protestanti storiche (battisti, anglicani), ma sono in chiara minoranza rispetto alle denominazioni evangeliche, che sono sempre più numerose, soprattutto nei quartieri poveri delle città e nei distretti rurali».

Le minoranze indigene

Qual è la situazione delle etnie indigene del Nicaragua? Sono 520 mila persone pari all’8,9% della popolazione totale.

«L’etnia maggioritaria è la Miskita. Al secondo posto c’è l’etnia Mayangna. L’etnia Rama è molto ridotta. Ci sono poi i Garifunas come in Honduras.

Queste quattro etnie occupano zone del Nord e Sud Caribe. Storicamente queste regioni, immense e ricche di risorse naturali, erano state ignorate o soggiogate dal governo centrale. Oggi, ogni volta di più, quelle terre sono invase da gente di altre parti del paese, con il tacito consenso di questo governo. È sempre successo. Ma in questi anni è aumentato il conflitto, anche armato, tra gli indigeni e gli invasori, con l’esercito che rimane a guardare».

Cosa spera per il presente e per il futuro di questo paese?

«Spero in un paese migliore, più giusto e più felice. Credo che un altro Nicaragua sia possibile. Anche se non nel breve periodo».

Il potere e le persone

Le risposte di María López Vigil sono dure. A noi rimane in testa il solito dilemma: sono gli anni che cambiano le persone o è il potere che le cambia indipendentemente dagli anni?

Paolo Moiola


Siti internet:

  • www.envio.org.ni
    È il sito della rivista Envío, fondata nel 1981.
  • www.uca.edu.ni
    Il sito dell’Università Centroamericana di Managua.
  • www.cenidh.org
    Il sito del centro nicaraguense per i diritti umani.
  • www.ans21.org
    È il sito dell’associazione «Alteativa Nord Sud per il XXI secolo» che dal 1993 si occupa di Nicaragua (e di Guatemala) e traduce in italiano anche la rivista Envío.
  • www.cse.gob.ni
    Il sito del Comitato elettorale del Nicaragua.
  • www.telesurtv.net
    Il sito dell’emittente Telesur.

Archivio MC:




Catalogna toxic tour


Un gruppo di settanta attivisti ha visitato a fine ottobre alcuni siti industriali nella provincia di Terragona, in Catalogna, per valutae e denunciae l’impatto ambientale, culturale, sociale. Una carovana alla sua terza edizione che ha offerto uno spazio di libertà per indignarsi, intuire nuovi stili di vita, studiare alternative, costruire vincoli di affetto con il territorio.

Conoscere la propria terra e la sua gente, costruire narrative comuni, trovare strategie di resistenza, scoprire e condividere modi nuovi di vivere la vita e il mondo. Essere il filo che tesse insieme territori a volte isolati o dimenticati, o sacrificati. Questo è il senso dei cosiddetti toxic tours, carovane di attivisti che visitano e documentano siti ambientali in condizioni di particolare pericolo, per verificarne la tossicità, il livello di inquinamento a causa, spesso, dell’industria estrattiva ed energetica.

I toxic tours, nati nelle terre zapatiste del Messico, si sono diffusi negli Stati Uniti, in Italia, Ecuador, Colombia e altrove.

Il tour catalano

Lo scorso 29 ottobre uno di questi toxic tours si è svolto nella provincia di Terragona, territorio della comunità autonoma di Catalogna affacciato sul mar Mediterraneo, a Sud Ovest di Barcellona. Obiettivo, quello di visitare e valutare l’impatto ambientale di alcune attività industriali come quelle di Repsol o Dow Chemical nel polo petrolchimico della città di Tarragona, o della piattaforma di deposito di gas Castor nel territorio della cittadina di Alcanar, oltreché di interrogarsi sull’«architettura dell’impunità» con cui le grandi corporations operano.

Sovranità energetica

La terza edizione del Volt ha radunato, per tre giorni, un gruppo di 70 attivisti. Tra loro c’erano lavoratori di cornoperative, insegnanti, studenti, ingegneri, cooperanti, ricercatori, operai e rappresentanti di movimenti sociali indigeni colombiani e guatemaltechi. L’iniziativa, organizzata dalla Xarxa per la Sobirania Energètica (Xse, rete per la sovranità energetica1), ha riunito non solo un ventaglio ampio di competenze e conoscenze, ma anche di cittadini preoccupati per gli impatti ambientali, sociali ed economici dell’attuale modello energetico. Ha creato uno spazio «mobile», dove imparare, indignarsi, studiare alternative e costruire vincoli d’affetto con il territorio.

Central nuclear Vandellós

Grandi progetti (e interessi)

Molti degli attivisti del Volt3 avevano partecipato anche alle precedenti edizioni. Nella prima, con lo slogan «Anche sull’energia vogliamo decidere noi!», il gruppo aveva visitato, nella provincia di Terragona, la piattaforma terrestre del progetto di deposito di gas Castor, le centrali nucleari di Vandellós, le terre minacciate dall’immobiliare Bcn World, quelle che resistevano al fracking, le coste di Palamós a rischio per le prospezioni petrolifere marine. I progetti visitati dal Volt1 erano molto diversi tra loro, ma con alcuni comuni denominatori: l’assenza di consultazione della popolazione locale, gli insufficienti studi d’impatto ambientale e l’opacità dei grandi interessi economici e finanziari.

Il Volt2 aveva lanciato quindi «una sfida ai grandi progetti energetici» e riunito 90 partecipanti per visitare le grandi infrastrutture di interconnessione per il gas e l’elettricità tra la penisola iberica e il resto d’Europa: il gas-dotto Midcat, il deposito di gas di Balsareny, le torri dell’autostrada elettrica Mat di Graus (grandi investimenti per un progetto poi abbandonato a metà2) e Sabiñanigo in Aragona, paese già noto per il più grande caso di inquinamento chimico d’Europa3.

La Mat, il Midcat e molte altre infrastrutture simili vengono sponsorizzate con forza dall’Unione europea che ha messo a disposizione il fondo Connecting Europe Facility (Cef) e il Fondo europeo per gli investimenti strategici, meglio conosciuto come Plan Junker. Sono circa 248 i megaprogetti, spesso individuati senza un dibattito democratico nei paesi membri, in attesa di essere dichiarati Progetti di interesse comune (Pic), con cui Bruxelles spera di costruire «l’Unione dell’energia, integrando i mercati europei del settore e diversificando le fonti e le rotte». I Pic ufficialmente dovrebbero contribuire «a porre fine all’isolamento energetico che caratterizza alcuni stati membri e favoriranno la penetrazione delle rinnovabili nella rete, riducendo le emissioni di biossido di carbonio»4. Più sicurezza energetica, più servizi e più benessere: chi rifiuterebbe un’offerta così?

Tuttavia, da un esame più accurato, risulta che i progetti favoriranno più che altro la «sicurezza energetica» delle imprese che controllano il mercato degli idrocarburi. Le stesse in coda per completare il mercato unico europeo di gas ed elettricità attraverso infrastrutture di interconnessione tra i diversi paesi. Il piano lascia a desiderare per la mancanza di un processo democratico nelle decisioni e non spiega perché la Spagna debba aumentare il potenziale di produzione di energia e di trasporto di risorse quando quelle già esistenti sono sottoutilizzate e la produzione è superiore alla domanda e al bisogno. Rimane poi incredibile la mancanza di responsabilità e riparazione o compensazione delle imprese che spesso sono parte di grandi gruppi oligopolistici.

Dov’è finita la sovranità degli stati sul tema? È la garanzia democratica che ne dovrebbe guidare le scelte? A favore e a scapito di chi viene erosa la sovranità energetica, e come recuperarla?

Un’impunità che corre lungo la catena delle commodities

Quest’anno il Volt3, con lo slogan «Di fronte all’impunità corporativa, sovranità popolare!», si è interrogato su ciò che il prof. Juan Heandez Zubizarreta, docente dell’Università del País Vasco e promotore della campagna Dismantle Corporate Power5, ha chiamato l’«architettura dell’impunità» delle grandi corporazioni. Gli attivisti hanno visitato molti progetti, tra cui il polo industriale e petrolchimico della città di Terragona, enorme e costante produttore di rumore e fumi. Ciascuno indossava una mascherina foita dal collettivo di attivisti locali Cel Net (Cielo Pulito). In quel sito industriale imprese come Repsol o Dow Chemical trasformano il petrolio in derivati per gli usi più vari, da quello agricolo al bellico. Nell’aria, un forte odore di fumo e di bruciato che spesso impedisce alla gente residente nei dintorni di aprire le finestre di casa. Il collettivo locale Cel Net è impegnato nella costruzione di un «Tavolo per la qualità dell’aria», ne monitora la costituzione e denuncia i tentativi delle imprese di difendere la propria immagine a danno di verità e trasparenza.

Che cosa esattamente venga prodotto là dentro e da dove derivino le materie prime non è informazione facile da ottenere. Inoltre, la condotta di quelle stesse imprese in altri paesi non dice nulla di buono sui loro principi di trasparenza, giustizia e responsabilità. Sono casi noti, infatti, quelli di inquinamento massivo e di violenza sulle popolazioni locali nell’Amazzonia peruviana per l’estrazione di petrolio, o quello della exit strategy dall’India della Union Carbide (dal 2001 di proprietà della Dow Chemical) dopo aver provocato la più grande contaminazione della storia del paese nella città di Bhopal.

«Non avrei mai immaginato che queste imprese facessero danni anche nei paesi europei», ha affermato Aparicio, ricercatore dell’Università Indigena Autonoma del Cauca (Colombia), durante la visita, fissando la colonna di fumo: «Noi vediamo gli effetti dell’estrazione del petrolio, ma non immaginavamo cosa avviene durante la sua trasformazione e la produzione di derivati».

Un tribunale di giustizia della società civile organizzata

Il Volt3 ha voluto denunciare soprattutto il progetto Castor, la piattaforma di deposito di gas che ha drammaticamente socializzato le perdite mentre privatizzava i benefici a favore di oligarchie corporative. Di proprietà dell’impresa Escal Ugs, vede la partecipazione per il 66,7% dell’impresa costruttrice Acs, il cui presidente, Florentino Perez, è uno degli imprenditori più controversi del paese anche se il suo nome è più comunemente legato alla presidenza del Real Madrid. Al largo della costa di Alcanar, Acs ha costruito una piattaforma marina destinata a immagazzinare fino a 1,3 miliardi di metri cubi di gas, mentre nella terra ferma il suo terminale terrestre occupa una superfice di 28 ettari. La stessa impresa costruttrice in altri paesi è associata a dighe per la produzione di energia idroelettrica come la Renace in Guatemala, o la Inga in Congo RD, responsabili di violazioni del diritto ambientale e delle comunità locali. Ciò che doveva essere il progetto all’occhiello della Eu Project Bond Initiative per trovare sul mercato finanziario investitori di megaprogetti energetici, non ha fatto però i conti con il territorio e le sue condizioni geomorfologiche, nonché con le norme di legge. Il progetto di Acs ha creato più di mille terremoti che hanno recato danni materiali nei comuni di Vinarós e Alcanar e non ha rispettato le normative riguardanti il previo studio ambientale. Al manifestarsi della sua pericolosità, il governo ha sospeso l’attività nel settembre 2013 e la causa legale è tuttora in corso. Ciò che però è già deciso è chi paga il debito di 4,7 miliardi di euro venutosi a creare con lo stop al progetto: la clausola 14 del contratto prevede il diritto per l’impresa di reclamare indennizzi economici dal governo, cioè dai cittadini ignari di ciò che si celava fra le righe dell’accordo, che restituiranno il loro «debito» tramite una quota nella loro bolletta del gas per i prossimi 15 anni.

«L’impresa Escal Ugs e i suoi partner sono i veri debitori, ma ora è sparita dalla mappa degli attori coinvolti, e sembra che siamo noi i padroni di questo mostro: è diventato un impianto pubblico!», osserva sarcastico Joan Ferrando, portavoce della Plataforma en Defensa del Sénia, di fronte ai giornalisti presenti alla conferenza stampa convocata di fronte alla piattaforma terrestre6. Le entità promotrici del Volt3 seguono da anni ormai le vicissitudini del Castor e annunciano la nascita di un Tribunale Popolare per il giugno 20177. «Questo progetto è una vergogna, il simbolo dell’arroganza e dell’impunità delle imprese e dell’omertà del potere pubblico, nonché della politica europea chiaramente in difesa di interessi affaristici a discapito di un sistema energetico più ecologico e democratico», afferma il comitato promotore. Mònica Guiteras, rappresentante della Xse, afferma che «il giudizio è un’azione simbolica ma anche effettiva, perché non vogliamo che si zittisca questa resistenza».

Ricostruire il territorio

Il Volt si è riconfermato anche quest’anno come un importante momento conviviale per tessere relazioni, formarsi in una scuola itinerante, capire che lo spazio in cui abitiamo non è solo terra e aria e acqua, ma un territorio con la sua complessità ecologica, la sua memoria storica, i suoi abitanti, le persone e gli altri esseri viventi, meritano uguale ascolto. Uno spazio conviviale per ricostruire fiducia e narrative alternative, per difendere quei modi di vita e di gestire la «cosa pubblica» per il bene comune che vengono calpestati o negati; e per confermare legami di solidarietà internazionale, per arrivare laddove altri chiudono gli occhi.

Daniela Del Bene


Note:

1- La Xse (www.xse.cat) si è costituita nel 2012 su iniziativa di alcune Ong e comitati catalani allo scopo di ripensare collettivamente il modello energetico. Il Volt è uno dei suoi appuntamenti più importanti.

2- In Francia il progetto prevedeva linee sotterranee, mentre in Spagna erano previsti corridoi ampli fino a 400m sospesi su alte torri di 60 m. L’enorme impatto paesaggistico e ambientale si sarebbe sommato a quello sociale conseguente all’acquisizione forzosa di terre agricole e abitate. A Graus la popolazione si è organizzata nella Plataforma Unitaria contra la Autopista Electrica: autopistaelectricano.blogspot.com.es.

Ulteriori dettagli nell’Ejatlas: ejatlas.org

3- A Sabiñanigo, nella zona prepirenaica della comunità di Aragón, al confine con la Catalogna, dal 1975 si produceva il lindano, un insetticida usato in agricoltura per anni nonostante fosse altamente contaminante. I residui di produzione sono stati sistematicamente versati nel fiume Gallego dall’impresa responsabile, Inquinosa. Per la sua tossicità, la produzione è stata sospesa nel 1989, ma l’impresa l’ha continuata fino al 1994, dichiarando falsa attività. Successivamente il prodotto è stato bandito dall’Ue, ma l’impresa non ha mai ripulito il fiume e la terra. La fabbrica rimane in piedi, abbandonata, con barili di prodotto contaminante al suo interno. Se ne parla in ejatlas.org

4- Tratto dal comunicato stampa della Commissione europea, 18 novembre 2015.

5- La Global Campaign to Reclaim Peoples Sovereignty, Dismantle Corporate Power and Stop Impunity (Campagna Globale per reclamare la sovranità popolare, smantellare il potere corporativo e fermare l’impunità) nasce nel 2011. Nell’ottobre 2016 raggruppa piú di 200 organizzazioni da tutto il mondo, tra cui il Transnational institute, Friends of the earth inteational, La via campesina. La campagna lavora a piú livelli, dalla base dei movimenti sociali per studiare, analizzare, raccogliere prove, fino alla pressione in seno alle Nazioni unite con la finalità di ottenere un trattato internazionale vincolante contro le violazioni dei diritti umani da parte delle imprese multinazionali. Grazie a tale pressione, il Consiglio dei diritti umani dell’Onu ha accettato di lavorare su una proposta di trattato, nonostante le azioni di boicottaggio di molti paesi, tra cui diversi dell’Unione europea. Per maggiori informazioni: www.stopcorporateimpunity.org; e per approfondire alcuni casi: ejatlas.org

6- Il video della conferenza stampa si trova su Youtube: La Calamanda. Presentacio del Judici Popular contra el Projecte Castor.

7- Il Tribunale popolare per il progetto Castor si ispira alle molte iniziative di giurisprudenza popolare nate negli anni ’70 su iniziativa dell’avvocato e senatore italiano Lelio Basso. I Tribunali popolari si avvalgono di esperti di diritto, di diritti umani e del sapere radicato nei territori colpiti da ingiustizie con l’obiettivo che «la coscienza pubblica diventi fonte riconosciuta di diritto»: http://permanentpeoplestribunal.org/




Stati Uniti: nelle Americhe di Donald Trump


Da gennaio 2017 il 45.mo presidente degli Stati Uniti d’America è Donald Trump. È arrivato alla guida della maggiore potenza mondiale nonostante la sua fama di finanziere bancarottiere, evasore fiscale e molestatore. Cosa ha spinto gli statunitensi a questa scelta dirompente? Come cambierà la politica estera degli Usa? Come si comporterà la Chiesa cattolica statunitense (molto silente durante l’intera campagna elettorale)?

L’America ha parlato, e ha eletto Donald Trump presidente. A qualche settimana dal risultato del voto questo è ancora un paese sotto shock. Durante una campagna elettorale lunga quasi un anno e mezzo, che ha sfiancato la psiche e l’anima degli Stati Uniti, pochi pensavano che il finanziere bancarottiere, evasore fiscale e molestatore potesse raccogliere la maggioranza degli «electoral votes» (rappresentano i cosiddetti «grandi elettori» eletti su base statale, chi vince in uno stato – anche per un solo voto – prende tutto, ad esempio vincendo in Florida Trump ha preso tutti i 29 grandi elettori di quello stato, ndr) dell’arcaico sistema che ancora governa le elezioni presidenziali. Per la maggioranza degli americani che non hanno votato per lui è come non riuscire a svegliarsi da un incubo.

Il Partito repubblicano soggiogato e conquistato da Trump si trova ora a dover esercitare il potere nel governo federale che da anni ormai odia in modo quasi teologico, come incarnazione del male. Le elezioni dell’8 novembre 2016 non solo hanno portato Trump alla presidenza, ma hanno prodotto anche una solida maggioranza repubblicana alla Camera e al Senato, e in molti stati. La maggioranza della Corte Suprema federale sarà plasmata per decenni dalle nomine che farà l’amministrazione Trump. È un terremoto politico che ha sconvolto le aspettative: con un Partito repubblicano risorto dalle proprie ceneri, asservitosi al pirata che lo ha scalato e umiliato, e un Partito democratico senza una leadership e senza un messaggio se non quello perdente della «identity politics» (suddivisione della popolazione in base a elementi identificativi: nazionalità, genere, religione, lingua, ecc., ndr) in cui si sperava che la demografia di un paese sempre più multiculturale risolvesse il problema della mancanza di una visione.

Le spiegazioni

In un paese diviso lungo linee diverse che si sovrappongono – disparità sociali e di reddito, salti generazionali, identità culturali ed etniche-razziali, ubicazioni geografiche ed esistenziali, livelli di educazione scolastica – i messaggi lanciati e ricevuti con l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti sono vari. Ci sono due tentativi principali di spiegare quanto accaduto. La prima spiegazione è di tipo materialistico: Trump è stato eletto dai dimenticati e perdenti del sistema economico e finanziario, dagli snobbati del sistema informativo, dagli esclusi dal sistema educativo. La seconda spiegazione è di tipo identitario: Trump è stato eletto da quanti si sono ritrovati nel messaggio non solo anti-immigrazione e anti-musulmano (non sconosciuto all’Europa di oggi), ma nativista e razzista, chiaramente «white supremacist» e sottilmente antisemita, isolazionista e violento del candidato anti-establishment. Sono due spiegazioni che devono entrambe far parte del tentativo di spiegare quanto accaduto. Comprendere è un’altra questione, se con comprendere vogliamo intendere di mettersi nei panni di coloro che, l’8 novembre 2016, hanno accettato e normalizzato l’immaginario trumpiano, molto vicino a quello nativista (l’idea di un’America in cui sia ancora politicamente, socialmente e culturalmente dominante la parte della popolazione composta da bianchi e protestanti) e schiavista di metà Ottocento. Non tutti, né molti degli elettori di Trump sono razzisti, ma non tutti lo hanno votato per esprimere un disagio economico. È impossibile spiegare l’America solo con i meccanismi di classe, senza ricorrere alla storia dei rapporti tra razze e religioni, e senza una presa di coscienza di come le identità si intersecano e sovrappongono.

Il neo presidente Donal Trump visita il presidente uscente Obama alla Casa Bianca il 10/11/2016 / AFP PHOTO / JIM WATSON

Contro Obama

Il risultato dell’elezione non può essere spiegato senza ricordare che la campagna per la presidenza Trump l’ha, in un certo senso, iniziata anni fa, poco dopo l’elezione di Barack Obama nel 2008, accusando il nuovo presidente di non essere cittadino americano («Voglio che mostri il suo certificato di nascita», disse più volte) e quindi di essere stato eletto illegittimamente. Il mandato del primo presidente afroamericano ha incontrato da parte del Partito repubblicano una resistenza tesa non soltanto a ostacolae l’agenda, ma a delegittimae la funzione. Dal 2008 in poi negli stati governati dai repubblicani ci sono stati sistematici tentativi (in molti casi coronati da successo) di impedire il voto degli americani non bianchi, e degli afroamericani in particolare: in aiuto a questo tentativo di revocare le conquiste del civil rights movement, la Corte Suprema federale (guidata da un chief justice cattolico, John Roberts) ha cassato una parte della legislazione degli anni Sessanta promulgata per difendere il diritto di voto delle minoranze in quegli stati con una storia di tentativi di privare una parte della popolazione della possibilità concreta di esercitare il diritto di voto.

Contro Obama non vi è stata solo la resistenza politica da parte del Partito repubblicano. Anche la Chiesa cattolica, i sindacati di polizia, il sistema giudiziario hanno agito per delegittimare la sua presidenza e non hanno fatto molto per mascherare la loro convinzione di avere a che fare con la presidenza di un alieno rispetto al sistema.

L’elezione di Donald Trump è anche la reazione di un paese spaventato, specialmente nella sua componente bianca, da un futuro più multietnico e multiculturale. I silenzi della gran parte dei vescovi della Chiesa cattolica (che è la chiesa più grande del paese) durante i passaggi più foschi della campagna elettorale di Trump non verranno giudicati in modo benevolo dagli storici. È uno dei frutti di una politica cattolica tutta giocata sulla questione dell’aborto, peraltro in modo ideologico: è noto che le politiche dei repubblicani, tese a tagliare lo stato sociale indiscriminatamente (fino quasi ad azzerarlo), conducono di norma a un numero maggiore di aborti.

Un razzismo sistemico

Ad alcuni italiani l’elezione di Trump ha riportato alla memoria la sorpresa, ovvero lo sconcerto, per la prima vittoria elettorale di Silvio Berlusconi nel 1994. Nonostante gli evidenti paralleli tra la carriera e lo stile dei due personaggi, ci sono alcune fondamentali differenze, a parte quella ovvia di importanza sulla scena globale tra due paesi come l’Italia e gli Stati Uniti. La prima differenza è di ordine storico globale. Nel 1994 Berlusconi arrivava sulla scena come l’eccezione all’interno dello scenario europeo e occidentale del primo dopo guerra fredda; Trump è invece il punto più estremo di una serie di rivolgimenti all’interno delle democrazie occidentali (soprattutto il voto per «Brexit» di qualche mese fa, ma anche la decennale crisi dell’Unione Europea; le pulsioni autoritarie in Polonia e Ungheria) e nello scenario euro-asiatico (la fine della democrazia in Turchia e in Russia) che fanno temere per la pace e la stabilità, e soprattutto per la capacità della democrazia in Occidente di resistere ai populismi. La seconda differenza ha a che fare con la storia della democrazia e dei diritti negli Stati Uniti d’America. Nell’Italia di Berlusconi non c’era, come c’è negli Stati Uniti, una parte importante della popolazione con una memoria diretta e personale del razzismo legalmente sancito contro molti milioni di cittadini: la segregazione razziale, specialmente nel Sud degli Stati Uniti, fino alla metà degli anni Sessanta (per non parlare della memoria dei campi di inteamento per i giapponesi americani durante la Seconda guerra mondiale) non è storia dimenticata, e soprattutto non è qualcosa che appartenga solo al passato. Gli Stati Uniti sono ancora pervasi da un razzismo sistemico – nella politica, nell’economia, nella giustizia, nelle scuole – che, per continuare a produrre ineguaglianze radicali, non ha bisogno di persuasioni convintamente razziste dei singoli.

Queste due differenze spiegano la paura con cui molti americani hanno accolto l’elezione di Trump: una paura per il futuro del paese, specialmente dei propri figli, con un ruolo particolare per la questione ambientale visto il rifiuto sia di Trump che dei repubblicani di prendere seriamente le sfide della sostenibilità. Ma c’è anche una paura fisica, per la propria incolumità personale specialmente negli americani non bianchi (afroamericani, latinos, asiatici) e nelle minoranze sessuali. Di fronte al nativismo i documenti in regola rappresentano in molti casi una protezione tardiva. Dopo le elezioni si sono moltiplicate le notizie di incidenti a sfondo razziale nei campus universitari e contro chiese afroamericane. L’America non sembra essere accogliente come prima verso studenti e lavoratori stranieri. Potrebbe esserci un effetto Brexit anche su certi settori dell’economia americana, come l’educazione superiore.

L’anima religiosa (e le assenze della Chiesa)

Il Cardinal Daniel DiNardo. ( Brett Coomer / Houston Chronicle )

L’anima religiosa del paese non esce indenne da questa stagione politica che peraltro sembra essere appena iniziata. La prima domenica dopo le elezioni ha visto gli americani andare in chiesa con uno spirito molto diverso dal solito e diverso tra le varie chiese: alcune chiese hanno celebrato (tra cui quelle evangelicali bianche), altre hanno invocato coraggio e perseveranza nella prova (quelle afroamericane). La Chiesa cattolica ha faticato a nascondere l’imbarazzo che deriva dall’essere una chiesa più divisa di altre e più sprovveduta di altre a cogliere i segni dei tempi: è una chiesa che soffre di una divisione tra quelle realtà che operano sul terreno e la dirigenza, nonostante le buone nomine episcopali e cardinalizie di papa Francesco.

La Conferenza episcopale è stata una voce del tutto assente nell’assistere i cattolici a disceere l’importanza dell’elezione, e la sua neghittosità è stata confermata dall’assemblea dei vescovi tenutasi la settimana dopo le elezioni presidenziali. Il 15 novembre 2016 i vescovi hanno infatti eletto le nuove cariche tra cui il nuovo presidente (il cardinale Daniel DiNardo, uno dei tredici firmatari della lettera contro papa Francesco durante il Sinodo del 2015), il nuovo vicepresidente e quindi futuro presidente (l’arcivescovo di Los Angeles José Horacio Gómez, chierico vicino all’Opus Dei, nato in Messico e difensore degli immigrati) e altre cariche (tra cui il presidente della Commissione giustizia e pace, il vescovo Timothy Broglio, ordinario militare e non esattamente interprete della forte cultura «justice and peace» della chiesa americana di base). I vescovi americani stanno tentando di impostare il rapporto con Trump sulla base delle policies del suo governo, evitando di confrontarsi con la campagna di odio e di razzismo interpretata e scatenata dal suo movimento. Il timore è che l’episcopato americano non sia intellettualmente e moralmente in grado, tranne alcune eccezioni, di fare fronte all’emergenza morale e culturale della presidenza Trump (e del vicepresidente Mike Pence, un ex cattolico ora evangelicale che potrebbe essere il vero ideologo dell’amministrazione).

La politica estera

L’elezione di Trump apre una pagina tutta da scrivere per la politica estera americana. Ci sono in gioco questioni geopolitiche complesse e tragiche – Siria, Turchia, e il Medio Oriente; il ruolo della Russia; la nuclearizzazione dell’Asia orientale, Giappone e Cina; l’America Latina «cortile di casa» degli Usa; l’Unione Europea e Brexit – su cui la politica estera americana ha inanellato negli ultimi quindici anni una serie impressionante di sconfitte. I proclami di Trump per un nuovo isolazionismo dovranno fare i conti con il prezzo che il nazionalismo americano deve pagare per una supremazia globale che non è più incontrastata. Il rapporto con la Russia di Putin e il suo impatto sul risultato delle elezioni americane è una delle questioni che restano da indagare.

La politica vaticana, così come chiunque abbia a cuore la pace, la giustizia e la cooperazione, hanno molto da temere da un’amministrazione Trump. C’è da attendersi più vigilanza dal Vaticano di papa Francesco e del cardinal segretario di Stato Parolin che dall’episcopato negli Usa, tranne alcuni vescovi. Il cattolicesimo americano interessato alla politica si divide tra neo-conservatori (che cercheranno di trovare un accordo di desistenza con Trump sulle questioni bioetiche e biopolitiche) e cattolici radicali postmodeisti (per i quali la politica è terreno da evitare, se non da etichettare come devozione all’idolatria nazionalista americana). In mezzo tra questi due estremi il common ground cattolico americano è ridotto ai minimi termini sociologicamente e intellettualmente. Una delle questioni che l’elezione di Trump solleva per la chiesa americana è come possa risolvere le tensioni sempre più evidenti tra la sua cattolicità e il suo americanismo.

Massimo Faggioli

È docente ordinario nel dipartimento di teologia e scienze religiose della Villanova University (Philadelphia). Ha lavorato come ricercatore presso la «Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII» di Bologna dal 1996 al 2008 e ha conseguito il dottorato in Storia religiosa all’Università di Torino nel 2002. Collabora con varie riviste italiane e non, tra cui Il Regno, Jesus, Commonweal, e La Croix Inteational. Le sue pubblicazioni scientifiche si occupano di Vaticano II, di ecclesiologia, e di nuovi movimenti cattolici. Questo articolo è il suo esordio su Missioni Consolata.

  • www1.villanova.edu
    Il sito della Villanova University, istituto fondato nel 1842 dagli Agostiniani.

 


Approfondimento

Gli Usa di Trump e Cuba senza Fidel,
«El bloqueo» al tempo di Donald 

Con papa Francesco e Barack Obama l’Avana e Washington si stavano avviando – pian piano – a una normalizzazione delle relazioni. Dopo gli ultimi avvenimenti, tutto torna in forse.

Avevamo visto Fidel Castro, con il volto smunto ed emaciato e una voce fioca ed impastata, nell’intervista concessa a Gianni Minà – ultimo giornalista a incontrarlo – per il suo recentissimo documentario, «Papa Francesco, Cuba e Fidel». Il vecchio leader aveva parlato di Cuba, degli Stati Uniti e della chiesa cattolica, soprattutto del suo incontro privato con papa Francesco.

Il 25 novembre, subito dopo la morte di Fidel, da tempo malato e ritirato dalla politica attiva, sono iniziate le manifestazioni di giubilo dei cosiddetti esuli cubani di Miami, da sempre spina dorsale del partito repubblicano statunitense e dei suoi candidati in Florida (nonché ideatori ed esecutori di quasi tutte le attività illegali – terrorismo compreso – contro l’isola). Il Miami Herald, quotidiano ferocemente anticastrista, titolava: «La morte di Castro porta speranza, sollievo a Miami». È stato triste, perché giornire della morte altrui è sempre un atto di viltà.

Il neopresidente Donald Trump ha postato i suoi tweet – nuova ed «esaltante» frontiera della comunicazione modea – prima per dire che Castro era stato «un brutale dittatore che aveva oppresso il suo popolo per quasi sessant’anni», poi per affermare che adesso Cuba dovrà concedere di più altrimenti lui porrà fine agli accordi («I will terminate deal») siglati da Barack Obama.

Da miliardario (peraltro, molto controverso anche in questa sua veste) forse Trump pensa di riuscire – finalmente – a comprare quella dignità, morale e materiale, fino ad oggi salvaguardata dalla gente cubana con coraggio, fatica e rinunce, nonostante 55 anni di inflessibile embargo (el bloqueo) statunitense.

Qualsiasi cosa si pensi di Fidel – eroe o dittatore sono le due definizioni che vanno per la maggiore – la dignità della Cuba castrista rimarrà una testimonianza che nessuno (sia politico, editorialista, professore o blogger) riuscirà mai a cancellare.

Paolo Moiola




Romena un porto terra


Da un’esperienza personale di crisi, don Luigi Verdi fa nascere, 25 anni fa, la Frateità di Romena. Un luogo in cui pellegrini modei fanno tappa per ritrovare se stessi. Romena è anche un luogo di incontro e di confronto per personalità della Chiesa e della comunità culturale italiana e non. Tutti, semplici credenti, cardinali, scrittori, pensatori, trovano in Romena un luogo di pace e riposo in cui sono forti i pungoli per la vita.

Ci sono fasi della vita, e arrivano per tutti, in cui ci sentiamo girare a vuoto, siamo inquieti, persi per un dolore, per una ferita. In quelle fasi è impensabile individuare subito una meta, una direzione, un senso che possa convogliare le nostre forze. Può bastare un porto, dove far attraccare la nostra barca malconcia. Un porto dove sostare per riprendere fiato e da cui, poi, ripartire.

La frateità di Romena è uno di questi porti: non è segnato sulle mappe navali, ma è indicato dal cuore e dagli occhi di chi ci è passato. Un porto che vive intorno a un’antica bellissima pieve nella campagna toscana. Un porto senza mare. Un porto di terra.

Come un fiore di pietra

«In questo piccolo spazio vorrei che ogni uomo si sentisse a casa sua e, libero da costrizioni, potesse raggiungere la conoscenza di se stesso e incamminarsi nella sua strada forte e fiducioso. Vorrei che fosse una sosta di pace, di riflessione per ogni viandante che vi giunge, un posto dove l’ideale diventa realtà e dove la gioia è il frutto spontaneo». In una lettera scritta nel 1969 un monaco servita, padre Giovanni Vannucci, descriveva così il sogno comunitario che aveva in mente di realizzare alle Stinche, nel cuore del Chianti fiorentino. Quelle parole sono oggi bussola per chi si è lasciato impollinare dal seme dello stesso sogno creando Romena.

Siamo in Casentino, l’alta valle dell’Ao, terra di foreste antiche che respirano di fede. Un itinerario spirituale in questi luoghi punterebbe istintivamente a Camaldoli, all’eremo di San Romualdo, alla Vea, il monte di Francesco, ma nella geografia dei siti che fanno respirare il cuore dell’uomo da qualche tempo c’è anche questa antica chiesa di campagna. Ci si arriva, da Firenze, dopo un ingombro di curve. Ma è solo l’ultima, quasi a gomito, che libera la vista: la pieve appare bellissima, piantata sul verde di quella terra come un fiore di pietra non colto.

Per far riposare Dio e l’uomo

Questa pieve, edificata 900 anni fa, negli anni ’80 viveva da tempo nell’oblio, frequentata solo da qualche turista e da una manciata di parrocchiani, ultimi superstiti di una campagna spopolata. La bellezza non frequentata dall’uomo è una bellezza spenta, addormentata. Per risvegliarla ci voleva il bacio di una vita ferita, di un giovane prete in cammino.

Don Luigi Verdi, di san Giovanni Valdao (Ar), dopo alcuni anni da prete a Pratovecchio, a due passi da Romena, aveva cominciato a fare i conti con la sua vocazione, con le sue ferite, con la sua timidezza, tanto da cercare strade nuove tra il deserto e la Bolivia. Ma aveva trovato un po’ di pace solo fermandosi oltre quella curva a gomito.

Dal suo travaglio personale è nata Romena, capace di tenere insieme la vocazione di quel luogo e la sua di prete.

La scintilla l’aveva offerta un capitello della pieve: c’era scritto che quel luogo era stato edificato «in tempore famis». Dunque quella bellezza era originata da una carestia, da una crisi. Una crisi che conteneva un’opportunità. Come le crisi personali, perché la crisi smaschera, mette a nudo, chiama all’autenticità, a guardare oltre.

C’era poi un altro segno: per i pellegrini del Medio Evo in marcia verso Roma, la pieve rappresentava un punto di riposo dove fermarsi per una notte, rifocillarsi e ripartire. Allo stesso modo la futura frateità avrebbe potuto offrire un luogo di sosta ai viandanti. Una sosta per ritrovarsi e riscoprire la bellezza della loro unicità e per riprendere e proseguire il loro cammino, una sosta «per far riposare Dio e l’uomo».

Semplicità, accoglienza, calore

La porta della canonica di Romena si è aperta nel maggio 1991 per accogliere i primi viandanti. Erano giovani, per lo più del luogo, ma evidentemente la proposta sapeva toccare il cuore delle persone, perché da quel momento è cominciato un passaparola che non si è più fermato e che, negli anni, ha portato a Romena migliaia di persone provenienti da tutto il paese, da ogni storia, di ogni età, convinzione, condizione sociale.

«Siamo partiti – spiega don Luigi – dalla convinzione che oggi non ci sono necessarie né teorie, né ideologie per spiegare la vita, ma che tutti abbiamo bisogno di un po’ di silenzio, di una pausa, di un tempo per riallacciare i rapporti con la nostra autenticità. Ed è questo ciò che proviamo a offrire a Romena».

I tre corsi base

Alla base della proposta di Romena c’è un cammino suddiviso in tre corsi, che ha come riferimento la parabola del figliol prodigo. Quando una persona vive una crisi (per il figliol prodigo è il momento in cui prende consapevolezza di ciò che è diventata la sua vita) il primo gesto concreto da fare è quello di guardarsi dentro per ritrovare la propria autenticità. Questa è, in sintesi, la proposta del primo corso.

Il passaggio successivo è quello di far pace col Padre, con Dio: nel secondo corso, attraverso esperienze di gesti, di semplicità, di ascolto, l’invito è quello di percepire che c’è un Padre pronto ad abbracciarci.

Il terzo passo è semplicemente quello di trasferire nella vita di tutti i giorni, nel tessuto del nostro quotidiano, la nuova consapevolezza di sé e dell’abbraccio con l’infinito. Perché l’esperienza di umiltà e di semplicità devono poter «fare casa» dove viviamo. Questo è il terzo corso.

Ogni persona, secondo le sue esigenze e in piena libertà, può compiere uno o più tratti del cammino. E può, se vuole, anche continuare: la Frateità propone anche corsi a tema per approfondire quegli argomenti che ciascuno sente più vivi dentro di sé.

Uno spazio per sostenere il cammino della vita

I corsi, che si sviluppano ogni fine settimana, dal venerdì alla domenica, sono stati per molto tempo l’architrave della proposta di Romena. Ma negli ultimi dieci anni l’attività si è allargata a ventaglio, stimolata dal vento dei viandanti, dai loro bisogni, dalle loro richieste. Così oggi si può essere accolti a Romena, in semplicità, anche al di fuori dei percorsi di gruppo, per trascorrervi un po’ di giorni in silenzio, nell’ascolto della propria voce e di quella degli altri.

Dal suo porto di terra, inoltre, Romena lascia costantemente partire nuove «navi»: sono convegni cui partecipano diverse centinaia di persone, sono veglie itineranti per l’Italia, sono gruppi legati al cammino della frateità. Tra questi ultimi c’è il gruppo Nain, formato da alcune decine di famiglie unite nel dramma più grande, la perdita di un figlio. Esse hanno trovato nella condivisione il sostegno fondamentale al loro cammino di vita.

Negli anni la Frateità ha allargato i suoi spazi: dalla canonica della pieve alla fattoria che le è accanto. In questi spazi ospita, tra l’altro, la libreria in cui vengono proposte le pubblicazioni edite dalla Frateità, un auditorium per incontri, spettacoli, concerti, varie sale per ospitare gruppi e perché ciascuno trovi il luogo in cui stare insieme agli altri o dove rimanere solo con se stesso.

Le otto parole chiave

Quest’anno Romena compie 25 anni: un anniversario speciale in cui si è deciso non di celebrare quanto fatto, ma di rimettersi in gioco per abbandonare certezze acquisite e esplorare terre sconosciute. «Perché – dicono a Romena – negli ultimi anni la Frateità è cresciuta, sono aumentati gli spazi fisici, si sono moltiplicate le iniziative e le richieste di parteciparvi. Ma l’anima di Romena ha faticato a seguire il ritmo di questi cambiamenti, non ha avuto modo di consolidarli, di armonizzarli: e quindi il cammino che stiamo compiendo deve servire a ritrovare e riarmonizzare l’essenza del nostro percorso».

Ed ecco che la ricorrenza si trasforma in un viaggio nei valori fondanti di Romena. Valori che don Luigi ha sintetizzato in quelle che per lui sono le otto parole chiave di ogni cammino di rinascita: umiltà, fiducia, libertà, leggerezza, fedeltà, perdono, tenerezza e amore. A ciascuna di queste parole che incidono sul modo di vivere di ciascuno di noi, durante questo anno di cammino iniziato nell’aprile scorso e che terminerà nell’estate 2017, vengono dedicati due mesi. Chiunque, passando da Romena, potrà offrire il suo contributo.

Il futuro di Romena nasce da questo anno di cammino. Un futuro che don Luigi, con i suoi occhi profondi e profetici, immagina nel segno di una delle otto parole chiave, la leggerezza. «“Siate leggeri come gli uccelli, non come le piume”, diceva Paul Valéry. Leggero è chi coglie il nocciolo della vita. La leggerezza richiede un lavoro profondo, una disciplina interiore e vorrei che qui aiutassimo a coglierla».

Storie che si abbracciano

Al porto di terra nuove storie attraccano ogni giorno. Ed è meraviglioso star qui, nella bellezza riposante di questa campagna, magari seduti su una panchina spalancata sugli Appennini, e incrociarle. Sono storie comuni, storie di tutti, fatte di fragilità, di bellezza, di umanità. Qui, nella calma tenue di questo porto, tutte le storie che attraccano sembrano abbracciarsi. È questo il senso più profondo di Romena.

«Spero – conclude don Luigi – che chiunque venga qui possa trovare sempre un posto dove imparare a guardare alle sue fragilità, e dove riconoscere che l’amore di Dio è più grande delle sue miserie».

Massimo Orlandi


Intervista a don Luigi Verdi

Don Luigi e Don Ciotti

Dio è un abbraccio

Don Luigi, come sei arrivato a pensare Romena?

«In modo naturale. Non ne potevo più di quei luoghi dove a Dio si chiede sempre un miracolo, o di quelli dove lo si vive come qualcuno che dall’alto sottomette o giudica. Ho sempre immaginato Dio come un abbraccio. Così ho pensato a un posto dove io appoggio la testa sulle spalle di Dio e Dio su di me e semplicemente si trova un po’ di pace».

Cosa vuole essere Romena?

«Uno spazio per la lettura, il silenzio, per mangiare, per camminare, in cui chiunque si possa trovare a casa. Non a caso abbiamo collocato all’ingresso una poesia di Rumi: “Vieni, vieni, chiunque tu sia, sognatore, devoto, vagabondo, poco importa. Vieni, anche se hai infranto i tuoi voti mille volte. Vieni, vieni, nonostante tutto, vieni”».

La frateità è nata dopo un tuo periodo di crisi personale. Cosa ti ha insegnato quel periodo?

«Alla fine di quella fase trovai un Salmo (117, 22): “La pietra scartata è diventata la pietra angolare”. I due motivi veri della crisi, il nocciolo, erano la mia timidezza e queste mani imperfette. Ma perché, mi sono detto, questi punti deboli non possono diventare il meglio di me? E ho cominciato una lotta con me stesso: ho preso a guardare negli occhi le persone senza scappare, ho cominciato a dipingere e a creare con queste mie mani. Il messaggio è tutto qui. A Romena vengono tante persone ferite dalla vita: la cosa più bella è quando hai una ferita e, invece di maledire, benedici, quando riesci a trasformare la maledizione in benedizione».

Tra le iniziative della Frateità c’è un gruppo, chiamato Nain, composto da genitori che hanno perso un figlio. Tu cosa provi a fare per loro?

«Non cerco di dare alcuna risposta. Cerco solo di stare loro accanto. Come Gesù non è venuto a dare una risposta al dolore, l’ha riempito di una presenza. Ha detto “io ci sono”. In genere arrivano con domande crude: “Dov’eri quel giorno?”, “Da dove ricomincio?”. All’inizio vengono e non piangono, sono arrabbiati con la vita. Poi cominciano a piangere e le lacrime le asciugano subito. Poi, quando scendono le lacrime, le lasciano andare. Vuol dire che quel dolore comincia a addolcirsi. Ho un ricordo indimenticabile di una mamma che beveva le lacrime: bere le lacrime perché nemmeno quelle posso buttare via, anzi possono servirmi».

Bisogna per forza toccare il fondo per sentire la carezza di Dio?

Bisogna toccare la vita vera. Quella c’è quando sei innamorato o anche disperato. Quando abiti davvero la vita.

Cosa offre Romena?

Io credo che a ognuno di noi servano solo tre cose: un pezzo di pane, di un po’ d’affetto e di sentirsi a casa. Quello che vogliamo dare è questo.

Ma.Or.


L’essenzialità è possibile

Romena è frequentata abitualmente da figure spirituali importanti e diverse.
Ecco cosa pensano.

Ermes Ronchi (frate, teologo, scrittore)

«Quando vengo a Romena percepisco un piccolo miracolo, quello del lievito. E tutti voi mi trasmettete questo sapore di lievito e di sale di cui oggi c’è tanto bisogno. Oggi, in una società e in una Chiesa che cambiano, Romena è uno dei posti dove si forza l’aurora della Chiesa, del futuro, del mondo».

Franco Loi (poeta)

«La poesia è periferia della letteratura, è luogo nascosto, pochi scaffali nelle librerie più foite. Così anche Romena era e resta periferia, confine, soglia, possibilità per chi ha un’angoscia, un dolore, un sogno, e cerca un terreno dove lasciarlo posare. Romena è un posto dove trovare una pagina bianca su cui scrivere di sè. E magari leggere a voce alta, senza sentirsi sbagliati».

Sharzad Houshmand (teologa musulmana)

«Sento Romena come un luogo dei primi discepoli di Gesù. Un luogo semplice, pulito, un luogo di ricerca per la propria spiritualità».

Antonietta Potente (domenicana, teologa)

«A me piace molto il romanico, non solo come stile architettonico, ma per quello che evoca. Evoca l’essenzialità e l’autenticità, ciò che stiamo cercando tutti e tutte in tutte le parti del mondo. Penso che chi ha familiarità con Romena, cerchi questo luogo per sentire che l’essenzialità è possibile».

Lidia Maggi (pastora battista e teologa)

«Romena è uno spazio di incontro, dove puoi prendere una pausa, ritrovare ossigeno, nutrirti di bellezza e, finalmente, iniziare ad ascoltare te stesso. Mi colpisce come le persone che vengono qui abbiano la pazienza e la voglia di mettersi in gioco, di mettere sul piatto della narrazione la loro storia e accettare di fare dei percorsi. Mi colpisce la passione di Romena per dare voce a voci differenti».

Roberto Mancini (filosofo)

«Romena è un’esperienza che trasmette un senso di leggerezza, di una leggerezza non intesa come superficialità, ma come l’esperienza di chi si toglie il peso di una maschera, di un’abitudine, di tutte quelle forme di compensazione con cui si prova a vivere. Qui a Romena non servono difese, si può essere così come si è».

Luigi Ciotti (Gruppo Abele e Libera)

«La “nostra” Frateità di Romena è e dovrà essere il filtro grazie al quale continuare a individuare ciò che davvero è importante per il cammino verso una società fratea e a tenere fuori ciò che non serve, che non alimenta la nostra autenticità e la nostra gratuità di fronte alla vita».

Frateità di Romena

  • www.romena.it / Fb: Frateità di Romena onlus
  • Mail: mail@romena.it / Telefono: 0575-582060



Islam religione radicale?



Introduzione / Gli obiettivi della serie

Il nostro viaggio nel mondo islamico
(con molte domande in cerca di risposte)

A sei anni dalla cosiddetta «primavera araba», trasformatasi in un inverno di caos, guerre e instabilità dal Nordafrica al Medioriente, con gruppi e milizie di al-Qa‘ida e del Daesh (l’Isis)1 che occupano regioni intere, con attacchi terroristici in Europa e in vari paesi islamici e il coinvolgimento delle potenze mondiali nello scenario siriano, una parte del pianeta sembra sull’orlo di un conflitto globale dagli esiti imprevedibili.

Dalla un tempo prospera Libia devastata dalla rivolta – pilotata da agenzie di intelligence inteazionali (Usa, Gran Bretagna, Francia e Qatar), insieme a combattenti islamisti giunti da Europa e mondo islamico -, e dalla guerra Nato, e ora ridotta a un cumulo di macerie e violenza, le bande armate scorrazzano per l’Africa subsahariana, alimentando tensioni e caos e giustificando la presenza in quelle zone di truppe dell’Africom2. Nell’area di Sirte, il Daesh ha creato la propria roccaforte e invita tutti i musulmani a fare la hijra, emigrazione, nello «Stato islamico» di Libia. Anche la Tunisia post primavera araba è entrata nella nebulosa di attentati terroristici e del reclutamento di combattenti islamici; in Algeria, al-Qa‘ida (Aqi) e il Daesh si contendono territori e militanti; l’Egitto, paese chiave tra Africa e Asia islamiche, è preda di gravi problemi economici e instabilità politica (mentre chiudiamo questo numero un attentato dell’Isis ha fatto almeno 25 morti in una chiesa cristiano-copta de Il Cairo, 11 dicembre 2016, ndr).

In questo scenario drammatico, i già complicati rapporti tra «occidente» e «mondo arabo e islamico», sembrano ingarbugliarsi ulteriormente, con accuse reciproche di ingerenze, violenze e destabilizzazioni. I fedeli musulmani, come quelli cristiani, ripetono che la loro religione è pace e tolleranza, e che l’islam affonda le proprie radici nel concetto di sottomissione a Dio. Ma è vero? Oppure esistono dottrine, all’interno del mondo islamico, che predicano la guerra permanente contro tutti coloro che non le seguono (musulmani compresi)? E da dove derivano la propria «autorità» e dottrina formazioni terroristiche come al-Qa‘ida e il Daesh? Queste dottrine hanno trovato spazio tra le comunità musulmane europee e in che modo? Questi network del terrore sono utili alle agende occidentali e mediorientali?

In questo e nei prossimi articoli discuteremo di tutti i temi accennati sopra con studiosi, ricercatori e rappresentanti del mondo musulmano, per tentare di trovare spiegazioni ed eventuali strade di pacifica convivenza in un mondo dilaniato dai conflitti.

Angela Lano

Note dell’Introduzione:

(1) Daesh (D?’ish): acronimo di «al-Dawla al-Isl?miyya f? al-‘Ir?qi wa sh-Sh?m» (in cui «al» è l’articolo), Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (Islamic State of Iraq and Syria, ovvero Isis nell’acronimo inglese), chiamato anche Stato islamico, Is.

(2) Africom: US Africa Command. Il contingente di soldati e contractor statunitensi in Africa (www.africom.mil).


L’articolo

Comprendere (tra paure e diffidenze)

Con il salafismo si è affermata un’interpretazione letterale, dogmatica, atemporale e astorica dei principi religiosi islamici. Con il Daesh – lo Stato islamico – si è giunti al limite estremo, arrivando a costruire un «islam fai da te» con cui i «jihadisti» giustificano il proprio comportamento. Compresi ovviamente gli atti di terrorismo che, con il sangue e i morti, hanno fatto dilagare paure e diffidenze. Il salafismo si è diffuso in gran parte del mondo islamico sulla spinta dei capitali dell’Arabia Saudita e del Kuwait. Solo il Marocco è riuscito – per il momento – a fermare l’infezione.

Cominciamo il nostro viaggio nell’islam contemporaneo dal Marocco. Negli ultimi anni, il paese nordafricano ha conosciuto attentati – Casablanca nel 2003, e Marrakech nel 2011 -, e il reclutamento di terroristi. Recentemente circa 400 suoi cittadini si sono uniti al Daesh per combattere in Siria.

Molti di questi appartengono a classi medie, benestanti ma scarsamente istruite. Avevano iniziato a frequentare moschee e centri islamici di orientamento salafita, che hanno modificato la loro visione della vita, della religione e i loro comportamenti sia in famiglia sia in società.

In Marocco, come in altre regioni del Nordafrica e dell’Africa subsahariana, il salafismo wahhabita1, sponsorizzato da Ong saudite e kuwaitiane, si sta diffondendo, grazie a ingenti capitali, strutture e predicatori indottrinati in Arabia Saudita.

Il regno del Marocco, che segue il sufismo2 della confrateita tijaniyya3, contrasta questo fenomeno con centri islamici e istituzioni controllate dal governo e indirizzate verso l’islam ortodosso lontano dagli estremismi salafiti. Polizia e intelligence fanno il resto, non perdendo di vista gli esaltati.

La resistenza del Marocco

Medina di Fez, agosto del 2016. Incontriamo Mohammad Boukili, docente e studioso marocchino, laureato in filosofia islamica.

Prof. Boukili, lei ha conosciuto personalmente alcune delle persone che si sono unite al Daesh?

«Sì, alcune erano conoscenti di lunga data. Quattrocento jihadisti è un numero importante, ma non è così grande come in altri paesi.

Si tratta di individui con scarsa istruzione, hanno seguito le predicazioni dei seguaci del Daesh, che a loro volta vengono indottrinati da persone più competenti e sostenute economicamente.

In molti casi non si tratta di poveri: quelli che conoscevo avevano ereditato beni, case; erano sposati. Erano poveri a livello culturale, questo sì. Ricordo uno in particolare (chiamiamolo Ahmad), perché la sua visione ideologica emergeva anche nelle discussioni in famiglia. Odiava il sufismo e, qui in Marocco, la maggior parte della popolazione segue questa dottrina, anche se da qualche anno in parlamento siede come partito di maggioranza “Giustizia e Sviluppo”4, ideologicamente vicino alla Fratellanza musulmana, quindi a un islam più politico.

Il mio conoscente che si è unito al Daesh aveva iniziato a imporre alla sua famiglia, a sua madre, atteggiamenti e scelte che non facevano parte della tradizione familiare e locale. Alla vecchia mamma ha strappato via il rosario islamico con cui ella pregava e l’ha costretta a non frequentare più la zawiya5, in quanto luogo di kufr, miscredenza. Per i salafiti, il sufismo è, appunto, una forma di miscredenza e va perseguitato.

Prima della “conversione” radicale, Ahmad era molto occidentalizzato, beveva vino… Dopo essersi sposato, aveva deciso di farsi crescere la barba, aveva cambiato modo di discutere. Aveva iniziato a citare Ibn Taymiyya6. Quando parlava con me recitava frasi per le quali sarebbe stato necessario riflettere accuratamente. Ognuna aveva un certo peso, invece lui le lasciava uscire così, con leggerezza. La situazione è andata peggiorando, finché è partito per la Siria.

È rimasto coinvolto in questo giro di fanatismo anche un nipote di Ahmad, figlio del fratello: riceveva foto dello zio, dalla Siria, sul suo cellulare, e i servizi di intelligence, che evidentemente controllavano tutta la famiglia e i parenti, lo hanno arrestato in quanto simpatizzante; probabilmente l’hanno preso prima che si unisse al gruppo. Durante il processo ha detto al giudice che non voleva andare in Siria ma che “loro hanno ragione”. Sua moglie indossava il neqab, il velo nero integrale che copre anche il volto, anche quando andava a trovarlo in carcere. Dal punto di vista ideologico era uno di loro. È stato condannato a due anni di carcere, come è previsto dalla legge».

In Marocco i salafiti sono tenuti d’occhio, dunque.

«Sì. Dopo gli attentati del 2003 sono molto controllati. La polizia fa retate periodiche. Qui a Fez i salafiti hanno aperto una scuola coranica dove offrono scolarizzazione, ma anche propaganda. Per fortuna, con i giovani marocchini il loro proselitismo non ha successo: i ragazzi vanno su internet, sono informati, amano certe cose e non è facile manipolarli con idee che li farebbero tornare indietro di mille anni.

Gli stessi figli di questi salafiti o dei jihadisti non condividono le visioni dei padri, come è avvenuto per i ragazzi di Ahmad: non lo seguivano nei suoi discorsi. Dicevano che il padre aveva la testa troppo chiusa. Un altro elemento importante è che il nostro Re ha sempre lottato contro questa dottrina».

Interpretazioni atemporali e astoriche: l’islam-fai-da-te

Lei considera il salafismo wahhabita una dottrina deviata?

«Il salafismo ha introdotto molte novità, bid‘a, proibite nell’islam. Un tempo esisteva la dialettica, animata dalla filosofia. Poi, a un certo punto della storia del mondo islamico, questa è stata ritenuta pericolosa. La ragione, la logica, sono morte, e ha prevalso il letteralismo dogmatico e pieno di regole, legato a un’interpretazione fissa, atemporale e astorica dei principi religiosi.

Pensiamo solo a quando governavano i turchi, cioè l’Impero Ottomano, cosa facevano gli ‘ulema, gli scienziati musulmani? Facevano dimenticare alla gente la sofferenza, la riempivano di regole… Tutta questa esteriorità ha lo scopo di far allontanare i credenti dalla vera spiritualità».

Il Daesh, in quanto emanazione della dottrina salafita wahhabita, è dunque un’ideologia deviata del sunnismo?

«Certo, l’islam non è questo. Nel Daesh danno un’interpretazione restrittiva e letteralista, basata su certi hadith. Di hadith ce ne sono così tanti che ognuno potrebbe scegliere ciò che più giustifica il proprio comportamento. Così fanno loro: scelgono un hadith e si autorizzano da soli. È l’islam-fai-da-te».

In Europa ci sono giovani che seguono il Daesh, che si fanno indottrinare da predicatori e poi si uniscono allo “Stato islamico”. Come lo spiega?

«Ho vissuto dieci anni in Italia, dove insegnavo nelle università. Mio padre viveva tra Francia e Italia, e faceva l’imam. In Francia lo chiamavano per fare scuola coranica ai giovani nei centri islamici. I suoi allievi erano figli di arabi, ragazzini emarginati e spesso violenti delle periferie. Seguivano – perché vi erano costretti dalle famiglie – le sue lezioni, dove venivano insegnati i principi etico-morali dell’islam, ma usciti di lì continuavano a comportarsi male.

È da quelle sacche di emarginazione sociale giovanile, con integrazione mancata, che arriva il terrorismo islamico in Europa. Questi giovani, a un certo punto incontrano predicatori salafiti che li indottrinano, dando all’Occidente tutte le colpe della loro situazione. Dunque, su una base di odio sociale si inserisce la dottrina del takfir7, e il resto è fatto».

I (finti) misteri del Daesh

Fez, medina al-Jadid (città nuova), sede del «Consiglio superiore degli ulamâ», gli scienziati musulmani, un’organizzazione nazionale che fa capo al Re e al ministero dell’Educazione del Marocco.

È un’ampia costruzione con giardino interno da cui si diramano varie sale. Il centro forma imam e murshidun e murshidat (guide religiose), uomini e donne. Qui incontriamo uno dei responsabili, che preferisce non rivelarci il proprio nome.

Il Daesh sta creando problemi in Africa e Medio Oriente, e in Occidente. Come lo considerate?

«Il Daesh non fa parte dell’islam. Hanno capito l’islam molto male. Il terrorismo non fa parte di questa religione. Né l’Occidente né il mondo islamico hanno capito cos’è veramente l’islam. Bisogna tornare al Corano, alla sunnah. L’islam è tolleranza, non estremismo».

Allora il Daesh su cosa basa la propria legittimità?

«Sulla propria cattiva comprensione dell’islam. Prendiamo il termine jihad8 nella sua accezione di sforzo militare: ci sono norme che lo regolano. Non è possibile che un gruppo decida per conto proprio. Daesh ha trasformato l’obbligo collettivo (fard al-kifaya) in individuale (fard el-‘ayn) soggetto, cioè, alla decisione del singolo e non più dell’intera comunità, e questo non è corretto».

Allora, qui ci si chiede, il Daesh chi è? Chi l’ha creato?

«Chiunque riceva soldi e armi può creare un’organizzazione come questa.

Sono dei delinquenti che interpretano i testi a modo loro. L’islam non accetta l’assassinio.

Chi ha creato il Daesh sono gli stati o le persone che beneficiano dei proventi del petrolio e chi soffre a causa di questa organizzazione sono soprattutto i musulmani stessi. Infatti, la maggior parte delle persone uccise dal Daesh sono musulmane. Tutti noi siamo responsabili e dobbiamo difendere i nostri valori.

Chi dà le armi al Daesh? L’Europa e gli Usa; l’Arabia Saudita è un’intermediaria. L’Iraq, per esempio, dove il Daesh ha una parte dei suoi domini, è un laboratorio per sperimentare tali armi.

Poi arriviamo al paradosso di un al-Baghdadi che si dichiara “Am?r al-Mu’min?n”, principe dei credenti. Ma non è possibile! Non ha alcuna autorità e potere per dichiararsi tale».

Gli imam vanno formati

Il Marocco cosa fa per contrastare il proselitismo del Daesh?

«Il punto di forza del Marocco è che forma imam. Lo stato ha deciso di formare imam e guide religiose – murshidun – sia uomini sia donne: devono essere laureati e sottoporsi a un anno di formazione specialistica. Il loro ruolo è quello di dare lezioni nelle moschee e anche di controllarle. Controllare, cioè, che non vengano diffusi insegnamenti errati che incoraggiano lo sviluppo del radicalismo. Inoltre, danno consigli scientifici e religiosi. In ogni prefettura c’è un centro come il nostro, che si occupa della formazione di queste guide. Sono 80 in tutto, i centri formativi in Marocco.

In ciascuna sede ci sono sale di conferenza che ospitano 600 persone. Siamo una realtà statale e dipendiamo direttamente dal Re in quanto Am?r al-Mu’min?n. Lui è il presidente del Consiglio scientifico religioso e ha rapporti diretti con il ministero dell’Educazione per indicare le vie corrette nelle scuole e nei libri didattici».

Angela Lano

NOTE

(1) Il salafismo è una scuola di pensiero (un metodo) dell’Islam sunnita che si rifà ai «salaf al-?ali??n» («i pii antenati», «precedessori»), ovvero le prime tre generazioni di musulmani (VII-VIII secolo), che vengono considerate modelli da seguire. Dal salafismo ha avuto origine il neosalafismo: un’ideologia rivolta sia alle masse arabe diseredate sia alle classi medie (e alte, in certi casi), trasformandosi in movimento «anti-intellettuale» e reazionario, divenendo espressione di forme di fondamentalismo, fino alle estreme conseguenze del salafismo jihadista attuale. Wahhabismo: movimento fondato nel 1700 da Muhammad ibn Abd al-Wahhab, teologo arabo della scuola giuridica hanbalita. Attualmente è la dottrina di stato in Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi, Kuwayt e in altri paesi.

(2) Sul sufismo MC ha pubblicato una serie di articoli usciti ad agosto 2015, novembre 2015 e gennaio-febbraio 2016, tutti reperibili sul sito della rivista.

(3) Tijannyya. Si tratta di un ordine sufi sunnita, originario del Nordafrica, diffusosi poi nell’Africa occidentale. È presente in Marocco – la Casa reale e la maggior parte della popolazione -, in Senegal, in Mauritania, Niger, Chad, nord Nigeria, parte del Sudan, e altri stati.

(4) «Hizb ‘adâla wa tanmia». È stato riconfermato partito di governo nelle elezioni marocchine del 2016.

(5) Zâwiya (oppure ribat in arabo e tekke in turco): è il luogo dove vivono o si riuniscono i musulmani che appartengono alle confrateite sufi. Sono anche locali che assolvono compiti di istruzione, accoglienza o sanitari.

(6) Ibn Taymmyya. Teologo e giurista musulmano, vissuto a Damasco tra il XIII e il XIV secolo e appartenente alla scuola hanbalita, la più severa delle madhhab sunnite. È il teologo-icona del radicalismo islamico, dai movimenti salafiti più moderati fino al Daesh.

(7) Takf?r: dichiarare un musulmano miscredente. Il takfirismo è un «movimento» fondamentalista di musulmani che fanno dell’accusa di miscredenza rivolta ad altri correligionari una delle basi portanti della loro ideologia. È emerso soprattutto con la guerra civile in Siria e la diffusione di organizzazioni come il Daesh e al-Nusra, che hanno diviso drammaticamente il mondo islamico, costringendolo a un conflitto e spaccando precedenti alleanze e cornoperazioni.

(8) Jihâd: sforzo. Nella maggior parte dei casi in Occidente è tradotto come «guerra santa», ma è una generalizzazione. La radice «jhd» ha il significato di sforzo, compromesso, lotta interiore, applicazione con zelo. La forma verbale «jâhada» significa «lottare contro qualcuno», ma «al-jihâd fî sabîl Allâh» è «lo sforzo/lotta sul cammino di Dio», uno «sforzo sacro». L’Islam distingue due tipi di jihâd: il «grande jihâd», che è contro le proprie passioni, contro l’anima che si perde (nafs ammâra bi-s-sû’: l’ego che indirizza verso il male o ordina il male), è lo sforzo nel cammino del bene, sociale o personale; è la perseveranza nella fede e nelle avversità della vita;  il jihâd minore, o «piccolo jihâd» (jih?d al-as?aru): sforzo militare difensivo, che deve essere fatto con le armi per la difesa della comunità, la ummah e il Dâr al-Islâm, il territorio dell’Islam, quando è minacciato dai nemici. Ciò non ha nulla a che vedere con la guerra indiscriminata, con i genocidi di popolazioni, le torture, i cadaveri fatti a pezzi, gli organi interni mangiati, gli stupri. Il jihad come sforzo militare è un concetto che si presta a interpretazioni e utilizzi differenti, a seconda delle scuole giuridiche e delle correnti.


L’approfondimento

Le «murshidat», predicatrici islamiche
(che non sono imam)

Da oltre dieci anni, il governo del Marocco forma le murshidat, predicatrici, donne laureate, per insegnare e tenere conferenze nelle moschee e nei centri islamici del Regno e all’estero. Tra queste ci sono teologhe islamiche con dottorati in università prestigiose. «Il nostro compito è insegnare i principi islamici – ci spiegano – come la compassione, la tolleranza, la pace, e tenere lontani dal fondamentalismo».

Periodicamente, alcune di loro sono inviate nei paesi europei dove vivono molte donne musulmane immigrate, per aiutarle nei vari ambiti della religione e della vita quotidiana.

Le murshidad lavorano anche per diffondere l’istruzione, l’educazione e aiutare le donne ad allevare i propri figli. Esse rappresentano un aspetto della svolta al «femminile», iniziata nel 2004 con la riforma del codice di famiglia marocchino, la moudawana, che ha portato all’introduzione di più diritti e tutele nei confronti delle donne.

Tali figure rappresentano un insieme di «religiose» e «assistenti sociali», e dipendono dal ministero marocchino degli Affari islamici. Hanno un livello culturale e accademico elevato. Si occupano di islam, ma anche di problemi sociali e psicologici.

Prima di iniziare a svolgere il loro compito, si preparano per un anno in centri ad hoc (si veda l’articolo) e, una volta diplomate, sono inviate nelle varie regioni del Marocco a predicare un islam moderato e rispettoso dei diritti civili e femminili.

Il curriculum delle predicatrici annovera un’ampia cultura generale – storia, religione, geografia, sociologia, psicologia, management, legge, codice di famiglia, lingua araba – e la conoscenza di almeno metà del Corano, studiato a memoria.

Le murshidat sostengono le varie attività nelle moschee e affiancano gli imam. Ma l’obiettivo privilegiato, sottolineano, è il sostegno alle donne, alle giovani generazioni, alle famiglie. Sono tutte concordi sul fatto che il Corano e il profeta Muhammad abbiano garantito rispetto e diritti alle donne, ma che i musulmani, nel corso dei secoli, se ne siano dimenticati e che il testo sacro islamico sia stato spesso «frainteso».

Una delle loro missioni fondamentali è quella di educare a una fede non politica o ideologica, lontano dagli eccessi radicali. Infatti, dopo gli attentati terroristici a Casablanca, nel 2003, il governo marocchino pensò che fosse importante e necessario promuovere una visione della religione tollerante e non aggressiva per combattere le tendenze estremiste.

È bene chiarire, tuttavia, che le murshidat non sono delle «imam al femminile», in quanto a loro non è permesso guidare la preghiera in moschea.

Angela Lano

Seconda puntata: Isis, il terrore come spettacolo




Congo Brazzaville lo spettro della guerra


Per la gente del Congo Brazzaville l’ultimo anno è stato particolarmente difficile. Ha visto una modifica costituzionale e un’elezione, entrambe fortemente contestate. La coscienza civica e democratica è elevata, ma la risposta del potere è la repressione. E il sistema tende a fagocitare lo stato di diritto.

È il 30 settembre scorso, quando un gruppo di armati assalta il treno che corre tra la capitale, Brazzaville, e Pointe Noire, città costiera, ritenuta la capitale economica della Repubblica del Congo. Quattordici sono i morti. Nello stesso periodo si verificano altri attacchi con vittime, tutti nel dipartimento del Pool, regione da sempre «calda» nel Sud del paese. I media parlano della rinascita di una guerriglia, e il ministro della Giustizia si affretta a dire che si tratta di ex miliziani ninja-nsiloulou, noti dalla guerra civile (1999-2003). Ma la questione resta controversa e i dubbi sono molti.

Intanto i vescovi del Congo Brazzaville, nel loro messaggio conclusivo della 45esima assemblea plenaria (10-16 ottobre) chiedono, tra l’altro: « […] ai nostri responsabili politici di operare nel senso del dialogo, allo scopo di un ritorno definitivo della pace in Congo in generale e nel Pool in particolare. Lo stato prenda le sue responsabilità di garante della pace e dell’unità nazionale».

Ma cosa è successo negli ultimi mesi nella Repubblica del Congo? Si è davvero preparata una nuova guerra? E quali le cause? Occorre fare un passo indietro.

Il paese del presidente

Denis Sassou Nguesso è presidente della Repubblica del Congo dal 1979. Fa eccezione il periodo di presidenza di Pascal Lissouba dal 1992 (tramite elezione) al 1997 anno in cui Nguesso riprende il potere con la forza. È la fine della prima guerra civile. Sarà poi eletto nel 2002 e 2009.

La Costituzione del Congo, nella sua revisione del 2002, prevede due soli mandati presidenziali di sette anni per la stessa persona, e un limite di età di 70 anni. Nguesso, 71 anni, alle elezioni del 2016 ha due impedimenti per succedere a se stesso. Ma è una vecchia volpe, e, come ci dice un giornalista congolese, «un seguace di Machiavelli. È bravo a creare situazioni strane per controllare tutto e tutti».

Fin dal 2013 il presidente trama per organizzare un referendum di modifica costituzionale, che è annunciato nel 2014 e si realizza il 25 ottobre 2015. Le manifestazioni organizzate contro il referendum dai movimenti della società civile e dall’opposizione sono represse nel sangue: almeno quattro i morti e numerosi gli arresti tra i leader dei militanti anti Nguesso.

Diritti umani cercasi

«La situazione dei diritti umani in Congo è da sempre preoccupante ma dal 2013 a oggi assistiamo a un peggioramento totale», ci dice Trèsor Nzila, direttore esecutivo dell’Observatornire Congolais pour les Droits de l’Homme (Ocdh), autorevole organizzazione di difesa dei diritti umani con base a Brazzaville, raggiunto telefonicamente. «Assistiamo a un’intensificazione della repressione delle libertà politiche. Sono finiti in carcere una cinquantina di prigionieri d’opinione, come diversi membri dell’opposizione. I giornalisti che hanno linea editoriale critica rispetto al deficit di democrazia sono sanzionati a più riprese dal Consiglio superiore per la libertà di comunicazione. I difensori dei diritti umani sono minacciati; i movimenti sindacali sono attaccati. La giustizia è strumentalizzata. Le forze di polizia torturano, uccidono e reprimono le manifestazioni pubbliche in totale impunità. Non c’è un settore dei diritti umani in cui si può dire che ci sia un miglioramento».

Il referendum fa il suo corso e il risultato, contestato da opposizione e società civile, introduce una modifica della Costituzione, rendendo il presidente Sassou rieleggibile.

«In Congo la nuova Costituzione è stata imposta con la violenza alla popolazione», ci racconta un altro attivista dei diritti umani, di Pointe Noire. «Questo referendum aveva carattere politico, ma quello di cui il popolo aveva bisogno non era il cambiamento costituzionale affinché il presidente rimanesse lo stesso, quanto piuttosto l’avere dei dirigenti scelti dagli elettori, che governano in modo responsabile, rendendo conto del loro operato. Un governo che risponda alle aspirazioni della popolazione in termini di rispetto delle libertà e in particolare dei diritti economici e sociali», continua la nostra fonte, che chiede l’anonimato. «La Costituzione com’è oggi non è stata votata dalla maggioranza della popolazione. La prova è che i congolesi che si sono opposti a questo processo sono stati repressi nella violenza. È stato un vero colpo di stato istituzionale».

Le elezioni precotte

Il 20 marzo 2016 è il giorno delle elezioni. Denis Sassou Nguesso – chiamato monsieur huit pour cent (signor otto per cento), perché si diceva che non avrebbe avuto più dell’8% – capisce di essere in svantaggio. Come sua abitudine «ha comprato parte dell’opposizione e parte della società civile. Chi resiste riceve intimidazioni. Oggi a Brazza se sei nell’opposizione che il potere chiama “radicale”, vieni arrestato arbitrariamente e imprigionato, o muori in condizioni strane, avvelenato, nella tua casa incendiata. Diversi attivisti sono morti così», ci racconta una giornalista che ora vive in esilio e chiede l’anonimato.

«La gente è andata a votare in massa, sperava nel cambiamento, perché c’era stato un lavoro per sensibilizzare la popolazione alla partecipazione. Era pure addestrata a sorvegliare il proprio voto», ci spiega Christian Mounzeo, presidente del Rencontre pour la paix et les droits de l’homme (Rpdh). Ma il governo impone il black out delle comunicazioni interrompendo collegamenti telefonici, messaggistica e internet per 48 ore per pretese misure di ordine pubblico, in realtà per impedire l’organizzazione di possibili rivolte. Un gruppo di 200 militanti viene disperso dalla polizia a seggi chiusi, perché vuole seguire lo spoglio.

Continua Mounzeo: «Sono rimasti fino a tardi nei pressi dei seggi per tentare di verificare il conteggio. Dalla somma dei risultati delle zone a maggiore densità di popolazione ci si accorge che il presidente non ha vinto. Ad esempio a Point Noire, la seconda città del paese (circa un milione di abitanti, ndr), Nguesso ha avuto una percentuale piuttosto bassa. Come anche a Brazzaville, dove la maggioranza della popolazione ha votato per Guy-Brice Parfait Kolelas (arrivato poi secondo con 15,05% di voti, ndr). Se si fa la somma anche con altre città del Sud, il presidente non può aver vinto a livello nazionale». Ma i risultati ufficiali, proclamati dalla Corte Costituzionale alle 3,30 di notte, il 4 aprile, confermano la vittoria di Nguesso al primo tuo con il 60,39% dei voti. Il terzo arrivato secondo i risultati ufficiali è l’ex generale Jean-Marie Michel Mokoko con quasi il 14% degli scrutini.

L’ex generale e il presidente

Mokoko, nel ‘92, quando era Capo di stato maggiore, si era opposto all’idea di golpe di Nguesso contro Lissuba per difendere la democrazia. Era poi rimasto agli alti livelli dell’esercito, ma la gente lo ricorda per la sua integrità e perché lo considera estraneo ai circuiti di corruzione.

Ricorda la giornalista: «A un certo punto la gente ha cominciato a sollecitare Mokoko, perché voleva un cambio nella gestione del paese, allora lui ha deciso di presentarsi, ma Sassou, non ha apprezzato. Durante la campagna elettorale c’è stato un sentimento di rinnovamento e di speranza per questa candidatura. Pur essendo un uomo del Nord (come il presidente, ndr), la gente lo voleva anche a Point Noire, e lo ha accompagnato ai comizi con molto calore. Quando ha depositato la sua candidatura, il numero di iscrizioni sulle liste elettorali è triplicato».

All’indomani della votazione, mentre a Brazzaville scoppiano disordini, Mokoko e altri esponenti dell’opposizione vengono arrestati. Per Mokoko le accuse sono gravi: attentato alla sicurezza dello stato, detenzione di armi e creazione di disordini. In pratica, secondo il regime, avrebbe tentato un colpo di stato. «Ma il dossier d’accusa è vuoto», sostiene la giornalista.

Toano i ninja?

L’opposizione ritiene che i risultati siano «rubati» e chiama la popolazione alla mobilitazione pacifica subito dopo la votazione.

Il 3 e il 4 aprile nei quartieri Sud di Brazzaville, uomini armati attaccano posizioni governative e si scatena uno scontro armato con le forze dell’ordine. I quartieri Sud, abitati da popolazioni del Sud del paese, sono sempre stati in opposizione al presidente Nguesso. Il governo denuncia subito un ritorno delle milizie ninja, all’epoca della guerriglia comandate da Frédéric Bintsamou, detto pasteur Ntumi.

Ma un altro militante dei diritti umani ci confida: «Non c’erano i ninja. Le ultime elezioni presidenziali dal punto di vista dell’opposizione sono state organizzate in modo civile. Anche alle manifestazioni, la gente era cosciente che qualsiasi sbavatura avrebbe dato adito al potere per dargli addosso. Inoltre, le manifestazioni si svolgevano sotto il controllo dell’esercito, della polizia. Ma ci sono delle milizie (filo governative, ndr) che hanno realizzato la repressione».

La giornalista ci spiega: «Il governo ha detto che erano stati i ninja ad attaccare, ma quando si incrociano le testimonianze, ci si rende conto che non è vero. L’attacco è cominciato la sera stessa della proclamazione ufficiale dei risultati. Delle informazioni dicono che erano milizie vicine al potere che hanno sparato per creare una diversione e poi proclamare la vittoria di Nguesso».

Si chiede Trèsor Nizila: «È una strategia per bloccare la mobilitazione che sarebbe seguita la proclamazione dei risultati?». In effetti oltre ad esercito e polizia, sono presenti diverse milizie che «suppliscono» a certi lavori che i corpi ufficiali non possono fare.

«Il potere compra tutti, a colpi di milioni. È facile comprare dei giovani. Ad esempio c’è un gruppo di ex ninja che aveva fatto alleanza con un deputato vicino al potere. Vengono chiamati il gruppo dei Douze apotres (dodici apostoli, ndr) e sono loro alla base degli attacchi del 4 aprile. Questo gruppo non è sotto Ntumi. E la gente non si riconosce con loro. Ho l’impressione che la popolazione sia presa in ostaggio, non ci sono vere rivendicazioni».

Repressione «scientifica»

È da sottolineare che una repressione selettiva nei quartieri Sud della capitale è iniziata fin dall’indomani del referendum dell’ottobre 2015. Una testimone ci racconta: «Nei quartieri Sud tutte le sere la polizia prelevava dei giovani, e della gente sospettata di militare nell’opposizione. Li bastonava e chiudeva nel commissariato quelli che resistevano, gli altri morivano per le botte e la polizia ha iniziato a gettare corpi nei quartieri o nel fiume. Ma tutti avevano paura e non dicevano niente».

In seguito agli scontri a Brazzaville, il 5 aprile scorso il governo manda gli elicotteri a bombardare la regione del Pool, storicamente contestataria. L’effetto è che almeno 5.000 persone lasciano le proprie case per rifugiarsi nella foresta.

Racconta la giornalista: «Hanno lanciato le operazioni ad aprile, con il pretesto di andare a prendere Ntumi e ucciderlo, ma da allora hanno isolato il Pool e bombardano tutti i giorni. Mons. Portella Mbuyu, vescovo di Kinkala, capoluogo del Pool, ha denunciato queste violenze. Anche se si cercano i ribelli, quando si bombarda è la popolazione che subisce. Hanno poi proibito alle Ong di andare sul posto, in modo da sigillare il dipartimento».

Inoltre, in questa zona passa la via di comunicazione più importante tra le due maggiori città del Congo: Brazzaville e il porto di Pointe Noire. Oggi la strada si può percorrere solo in convogli, mentre la ferrovia è bloccata dall’assalto al treno del 30 settembre. Così rifornire di merce Brazzaville è diventato difficile.

«Il potere dice che ex ninja di Pasteur Ntumi hanno attaccato posizioni dell’esercito. A nostro avviso non è una tesi credibile», sostiene il direttore dell’Ocdh. «Non ci convince perché Ntumi è stato integrato nel potere, come consigliere speciale del capo di stato fino alla vigilia di questi attacchi, dal 2007, quando ha lavorato con il presidente. E Nguesso non era al corrente che il suo collaboratore stava addestrando una milizia e si rifoiva di armi? Inoltre il dipartimento di Pool è un dipartimento sotto controllo totale ed effettivo dello stato. Non si capisce come le forze di sicurezza e i servizi segreti non sapessero cosa si stesse muovendo.

Hanno deciso di bombardare i villaggi per cercare un individuo, costringendo così cittadini poveri e traumatizzati a vivere nella foresta in condizioni difficili. Non sembra credibile per un governo che si rispetti e che si prenda cura della popolazione».

In effetti i ninja sono stati smobilitati dopo il 2007, mentre anche la città di Brazzaville è blindata dalle forze dell’ordine, per cui è difficile spiegare pure gli attacchi del 3 e 4 aprile.

Gli «amici» alla finestra

La Francia, gli Stati Uniti e l’Unione europea non hanno riconosciuto le elezioni. Ma, sempre secondo Nzila, «ho l’impressione che la comunità internazionale non voglia interessarsi alla situazione politica e dei diritti umani in Congo, nonostante sia molto preoccupante. Questo silenzio mi sciocca. È inammissibile che istituzioni come l’Ue e le Nazioni unite che promuovono i diritti umani, i valori democratici, lo stato di diritto, non siano in grado di assistere la popolazione congolese in questo momento difficile, quando i suoi governanti la reprimono».

Parlando di futuro, secondo la giornalista: «Questo è un potere che non scende a patti. Crea le condizioni per rendere precaria la vita della gente. Mette il paese sotto pressione, uccide le contestazioni. Crea la paura, fa tornare la psicosi della guerra nella gente che ha già vissuto le sue atrocità, per poterla quindi controllare».

Uno scenario possibile che Trèsor Nzila vede è: «Il malcontento sociale aumenterà e porterà la gente a esprimersi, a fare scioperi per paralizzare le istituzioni. La prima risposta del potere sarà la repressione. Fino a dove andrà la contestazione e fin dove la repressione, non si sa».

Marco Bello




Sudafrica nello spirito dell’ubuntu


Dopo decenni di apartheid, segregazione razziale e violenze, negli anni ‘90 il Sudafrica si è trovato a gestire la transizione verso un nuovo modello di convivenza. Cosa fare con il fardello del passato? E con i carnefici? Come aiutare le vittime a ricucire la loro dignità? In un contesto in cui la responsabilità dei crimini commessi era condivisa da un’ampia parte della popolazione, la Commissione per la Verità e la Riconciliazione è stata uno strumento utile, ancorché imperfetto, per progettare un nuovo paese.

Dagli anni Settanta, decine di paesi – dall’Argentina al Sudafrica, dal Perù allo Sri Lanka, da El Salvador a Timor Est – hanno fatto ricorso allo strumento delle «commissioni per la verità» per agevolare la transizione da un’epoca di violazioni dei diritti umani a una di maggiore democrazia. Si tratta di esperienze molto eterogenee che presentano alcuni tratti comuni quali l’esigenza di fare luce sulle violenze perpetrate, di mettere al centro le testimonianze delle vittime. L’obiettivo è quello di promuovere la giustizia e favorire la riconciliazione. La commissione più nota a livello internazionale è, senza dubbio, quella sudafricana, di cui nel 2016 è ricorso il ventennale.

As a car bus behind him, a young South African participates in a civil disturbance outside the Auduza Cemetery.
UN Photo/P Magubane, UN Photo/x

Risanare le ferite

«Noi sosteniamo che esiste un altro tipo di giustizia, la giustizia restitutiva (nell’originale inglese, restorative justice, nda), a cui era improntata la giurisprudenza africana tradizionale. Il nucleo di quella concezione non è la punizione o il castigo. Nello spirito dell’ubuntu (cfr. box qui a destra), fare giustizia significa innanzitutto risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricucire le fratture dei rapporti, cercare di riabilitare tanto le vittime quanto i criminali, ai quali va data l’opportunità di reintegrarsi nella comunità che il loro crimine ha offeso»1.

Con queste parole Desmond Tutu, arcivescovo anglicano, insignito del premio Nobel per la pace nel 1984, esprime, in maniera magistrale e con l’autorevolezza di chi ha subito in prima persona l’oltraggio dell’apartheid, il cuore della concezione di giustizia propria della Truth and Reconciliation Commission (Trc) sudafricana, lo strumento di cui è stato presidente ideato da alcune eminenti personalità di quella che sarebbe stata definita la «Nazione arcobaleno» allo scopo di fare i conti con la storia d’ingiustizia vissuta dal paese e di gestie la pesante eredità per il futuro.

Un difficile compromesso

La Trc è stata il frutto del difficile compromesso tra due posizioni antitetiche: quella del governo e del National party (Np) che volevano l’amnistia incondizionata per i crimini dell’apartheid, considerati un «errore» da superare, e quella dei movimenti di liberazione nazionale, capeggiati dall’Anc (African national congress, partito di cui Nelson Mandela è stato presidente), che chiedevano l’istituzione di tribunali speciali per l’incriminazione e la condanna dei responsabili del regime di segregazione razziale e delle gravissime offese ai diritti umani che avevano segnato il paese. Ciascuna delle due opzioni (l’amnistia incondizionata o l’istituzione di un tribunale penale internazionale, sul modello di Norimberga) avrebbe, con tutta probabilità, ulteriormente esacerbato il clima d’odio e allontanato la possibilità di cooperazione tra le diverse componenti etniche del Sudafrica.

La Trc è nata da una concezione «rivoluzionaria» del rapporto tra verità e giustizia. L’accertamento della verità, infatti, non doveva essere finalizzato all’attribuzione di una condanna, ma alla concessione del perdono e alla «riparazione» delle persone offese. L’idea era quella che per voltare la pagina del passato, prima si dovesse scriverla e proclamare.

I tre comitati

La Commissione per la verità e la riconciliazione era articolata in tre sottocommissioni.

Il Committee on human rights violations (Comitato sulle violazioni dei diritti umani) aveva il compito di ricevere, analizzare e inserire in un database nazionale le denunce delle violenze subite dalle vittime, e di svolgere le inchieste necessarie ad accertarle. Le persone offese erano invitate a testimoniare nella propria lingua, nel corso delle udienze pubbliche che venivano organizzate in prossimità dei loro luoghi di vita.

Davanti all’Amnesty Committee (il comitato per l’amnistia) i perpetratori – esponenti del regime o suoi avversari, bianchi, neri, meticci – erano chiamati alla «full disclosure of facts» (cioè la rivelazione dettagliata delle gravi violazioni dei diritti umani perpetrate), indispensabile per l’eventuale concessione dell’amnistia. A questo comitato spettava il compito di verificare che sussistessero le condizioni per la concessione del provvedimento di clemenza, cioè che i crimini «confessati» rientrassero tra quelli previsti dalla Trc (uccisioni e gravi maltrattamenti, torture e rapimenti), che fossero stati effettivamente commessi con finalità politiche tra il 1960 e il 1994 e che la rivelazione di fatti e responsabilità fosse completa. La maggior parte delle domande di amnistia sono state respinte per la mancanza di una di queste condizioni. Sia le udienze dei perpetratori che quelle delle vittime hanno ricevuto grande copertura mediatica.

Infine, il Reparation and rehabilitation committee (il Comitato per la riabilitazione e la riparazione) doveva occuparsi di determinare l’ammontare, la forma e il tipo di riparazione e di risarcimento spettanti a coloro che venivano riconosciuti vittime. Aveva inoltre il compito di indicare al governo le misure necessarie a ottemperare il diritto alla riabilitazione sociale delle vittime.

I numeri di una scelta libera e volontaria

Le vittime che si sono presentate spontaneamente per raccontare le gravi violazioni dei diritti umani subite sono state 22.500. Sono state tra le 1.700 e le 2.500 le persone, appartenenti sia all’Np che all’Anc e agli altri gruppi di liberazione, che hanno chiesto l’amnistia, molte delle quali per più di un reato2. Hanno beneficiato di un provvedimento d’amnistia totale 1.167 richiedenti, d’amnistia parziale 1453.

La scelta di assumersi pubblicamente la responsabilità dei crimini commessi era libera e volontaria, ma coloro che non chiedevano l’amnistia o i cui atti non rientravano nell’ambito di competenza della Commissione (ad esempio non erano stati commessi con una chiara motivazione politica) o la cui «confessione» non era ritenuta completa, sapevano di poter incorrere, in futuro, in un’incriminazione da parte del sistema penale ordinario.

Far emergere la verità

Le amnistie concesse dalla Trc, individualizzate e condizionate, non hanno nulla a che vedere con le amnistie generali adottate da molti paesi latinoamericani al termine dei periodi di dittatura che hanno ostacolato l’accertamento della verità (si veda, ad esempio, il dossier su El Salvador, MC luglio 2014, ndr). In Sudafrica, l’amnistia è stata utilizzata come strumento per favorire l’emersione della verità sul passato.

La concessione dell’amnistia per crimini gravissimi è stata una delle questioni che hanno sollecitato il maggior numero di critiche e su cui gli esperti di diritto internazionale ancora dibattono.

Desmond Tutu, presidente della Commissione, ha risposto così alle critiche di quanti sostenevano che i provvedimenti di clemenza adottati dalla Trc sacrificavano la giustizia e incoraggiavano l’impunità: «Chi chiede l’amnistia deve ammettere di essere responsabile degli atti per i quali chiede di essere amnistiato, e in questo modo viene affrontata la questione dell’impunità. Inoltre, salvo circostanze eccezionali, l’esame della richiesta di amnistia avviene in udienze pubbliche. Chi chiede l’amnistia deve perciò fare le proprie ammissioni alla luce del sole. Proviamo a immaginare cosa significa tutto ciò. Spesso questa è la prima volta che la famiglia di chi presenta la domanda di amnistia, o la comunità a cui appartiene, scopre che quella che in apparenza era una brava persona, era, per esempio, un torturatore incallito, o un membro degli squadroni della morte che assassinarono numerosi oppositori del passato regime. Insomma, c’è un prezzo da pagare, per l’amnistia…»4.

I risultati del lavoro della Trc sono confluiti in un documento finale, i cui primi cinque volumi sono stati pubblicati nel 1998. Il lavoro del comitato per l’amnistia si è protratto per ulteriori due anni, a causa della complessità e della lunghezza dei procedimenti. I due volumi conclusivi del report sono stati pubblicati nel 20033.

La verità collettiva fonda la «Nazione arcobaleno»

Nella visione di Mandela, Tutu, Boraine e delle altre anime della Trc, il truth telling, il racconto della verità, la centralità della narrazione delle vittime e dei rei, costituiva non solo lo strumento per concedere gli indennizzi alle prime e le amnistie ai secondi, ma anche la via per costruire uno shared sense of the past (un comune senso del passato) che avrebbe contribuito alla nascita della nuova nazione sudafricana.

La verità personale (che, provenendo dalla memoria del singolo individuo – vittima o reo -, è costitutivamente condizionata dall’elaborazione emozionale e razionale condotta negli anni e dalla prospetticità e selettività dei meccanismi del ricordo), dopo essere stata a lungo «incarcerata» nell’intimo sofferente delle vittime e nella coscienza dei perpetrators (dei responsabili), poteva finalmente trovare sfogo e ascolto davanti alla Commissione. La narrazione comunitaria delle esperienze dei singoli, unita alle indagini svolte e alle prove raccolte per una ricostruzione il più possibile fedele di quanto accaduto, avrebbe permesso la genesi di una verità collettiva, sociale, ampia, da approfondire ulteriormente e da tramandare alle successive generazioni.

I leader politici sudafricani hanno intuito che solo «facendo i conti» con la storia e con la sua eredità – attraverso la ricostruzione pubblica del contesto storico-politico in cui l’apartheid era stato concepito e applicato, l’accertamento della verità fattuale dei singoli episodi criminosi che rientravano nel mandato della Trc, la fiducia nella «verità narrativa» della popolazione e l’audacia del perdono – sarebbe stato possibile gettare le fondamenta di una nuova entità collettiva, la Raimbow Nation, la quale, auspicavano, avrebbe contenuto in sé le garanzie di non ripetizione del passato.

Giustizia dell’incontro

La dimensione collettiva della risposta alla domanda di giustizia per il sanguinoso passato si è giocata anche nella scelta di dare la priorità all’incontro faccia a faccia tra le vittime e i perpetrators, piuttosto che alla celebrazione dei processi penali, durante i quali le persone offese notoriamente rivestono un ruolo di minima importanza. La celebrazione di udienze pubbliche, infatti, non solo favoriva il coinvolgimento attivo dell’intera comunità ma, fatto altrettanto, se non più importante, permetteva l’incontro (sempre libero e volontario) tra le vittime e i responsabili, diretti o indiretti, dei crimini. Trovarsi di fronte al carnefice, ascoltare le sue spiegazioni, interrogarlo, accusarlo, essere finalmente liberi di dirgli (o urlargli) il proprio dolore ha potuto, almeno in alcuni casi, aiutare le vittime a ridurre la rabbia, «ri-umanizzare» il nemico, incamminarsi sulla via della «guarigione» e, a volte, a intraprendere la via del perdono.

Per il reo, l’incontro con la vittima ha costituito un’occasione unica per entrare in contatto con il dolore causato, prendee coscienza (cosa che la giustizia retributiva del sistema penale non favorisce) e per aprirsi alla richiesta del perdono e alla riparazione.

A vent’anni dalla sua istituzione

A vent’anni di distanza dalla sua istituzione, le opinioni sulla Trc sono discordi. Essa è stata oggetto di numerose critiche, che ne hanno messo in luce difficoltà, problematicità e obiettivi mancati. Ad esempio, è stata giustamente stigmatizzata l’insufficienza delle riparazioni di cui le vittime hanno potuto effettivamente beneficiare.

A nostro avviso, le innegabili e inevitabili criticità nulla tolgono al coraggio di una nazione che, guidata da vittime esemplari quali Mandela e Tutu, ma non solo loro, ha saputo prediligere il dialogo e il perdono rispetto alla vendetta, l’unità rispetto alla separazione, la verità rispetto all’oblio.

Annalisa Zamburlini


Note

  1. D. Tutu, Non c’è futuro senza perdono, Feltrinelli, Milano 2001, p. 46 e p. 32.
  2. A. Lollini, Costituzionalismo e giustizia di transizione. Il ruolo costituente della Commissione sudafricana verità e riconciliazione, Il Mulino, Bologna 2005, p. 190.
  3. P. B. Hayner, Unspeakable truths: transitional justice and the challenge of truth commissions, Routledge, New York-London 2011, p. 30.
  4. D. Tutu, Prefazione, in M. Flores (a cura di), Verità senza vendetta: l’esperienza della Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione, Manifestolibri, Roma 1999, p. 72.

Archivio MC

Sulla giustizia riparativa si vedano i dossier Giustizia riparativa. Rispondere ai delitti senza commettee altri, MC dicembre 2013, a cura di Luca Lorusso, e Un grido stanco ma tenace. El Salvador: dai massacri alla domanda di giustizia, MC luglio 2014 a firma di Annalisa Zamburlini.

Riferimenti bibliografici

  • A. Ceretti, Riparazione, riconciliazione, Ubuntu, amnistia, perdono. Alcune brevi riflessioni intorno alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione Sudafricana, in «Ars Interpretandi», 9 (2004), pp. 47-68.
  • A. Ceretti, Per una convergenza di sguardi, in Bertagna G., Ceretti A., Mazzucato C. (a cura di), Il libro dell’incontro, Il Saggiatore, Milano 2015, pp. 219 -250.
  • M. Flores, Verità senza vendetta, op. cit.
  • B. Hayner, Unspeakable truths, op. cit.
  • É. Jaudel, Giustizia senza punizione. Le commissioni Verità e Riconciliazione, trad. it. di G. Prucca, ObarraO Edizioni, Milano 2010.
  • A. Lollini, Costituzionalismo e giustizia di transizione, op. cit.
  • C. Villa-Vicencio, Vivere sulla scia della Commissione per la verità e la riconciliazione del Sud Africa. Una riflessione retroattiva, in Flores M. (a cura di), Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, Bruno Mondadori, Milano 2001, pp. 278-292.

La serie

Dagli anni Settanta, l’esperienza delle Commissioni per le verità si è diffusa in tutto il mondo con lo scopo di offrire ai singoli paesi interessati da un conflitto (spesso molto violento) un percorso di giustizia non solo punitiva, ma che tenga conto delle esigenze di verità delle vittime e che aiuti la transizione verso la pace sociale. Le esperienze sono molte, ciascuna con le sue specificità. Con questa serie di articoli a esse dedicati vogliamo conoscee alcune.

La prossima puntata, firmata da Wilfredo Ardito, professore di diritto ed esperto di diritti umani, riguarderà la Commissione del Perù.


Cenni alla storia del regime di apartheid

The bench is empty but this young black woman in a Johannesburg railway station would be breaking the law if she sat on it. There has been much talk recently about desegregating racially segregated public facilities. The reality defies the rhetoric. 1/Jan/1982. UN Photo/DB. www.unmultimedia.org/photo/

Le radici del conflitto che ha insanguinato il Sudafrica risalgono alla fine del XV secolo, quando un piccolo gruppo di portoghesi si insediò sul Capo. Seguì, nei secoli successivi, il colonialismo olandese e inglese, che portò all’affermazione dello strapotere dei bianchi sulla popolazione nera.

Nel 1910, l’allentamento delle tensioni tra inglesi e boeri (o afrikaner, contadini discendenti dai coloni olandesi), permise la costituzione dell’Unione Sudafricana, dotata di autonomia governativa, in cui il potere economico e politico risiedeva nelle mani dei bianchi (un milione e 250mila circa), in maggioranza afrikaner. La popolazione nera (quattro milioni e 500mila persone circa) fu gradualmente privata dei pochi diritti di cui ancora godeva. Per difendere le prerogative della popolazione nativa fu costituito nel 1912 l’African national congress (Anc), che non poté però impedire l’anno seguente l’approvazione di una legge che vietava ai neri l’acquisto di terre al di fuori delle riserve nelle quali essi erano stati confinati. Appena migliori erano infine le condizioni riservate ai circa 500mila coloureds (meticci) e ai quasi 200mila asiatici, in maggioranza indiani, immigrati nel corso del XIX secolo.

Nel secondo dopoguerra, il razzismo fu istituzionalizzato nell’apartheid, un feroce regime di segregazione razziale e di spoliazione dei diritti civili e politici, adottato dal governo – era in carica il National party (Np) – ai danni dei cittadini neri del Sudafrica e della Namibia, fino al 1990 amministrata dal Sudafrica.

A partire dagli anni ’60, non solo vi erano luoghi pubblici, autobus e professioni differenziati per i neri e per i bianchi, ma fu avviata la costruzione di ghetti per le singole etnie africane (i cosiddetti bantustans), dotati di autogoverno e destinati a diventare indipendenti (i loro abitanti quindi privati della cittadinanza sudafricana).

Nel 1960 l’African national congress (Anc) e il Pan africanist congress (Pac), partiti a difesa dei diritti della maggioranza nera della popolazione, furono messi al bando. Come risposta, essi abbandonarono la lotta nonviolenta che avevano appreso dall’esperienza gandhiana e utilizzato fino ad allora, e intrapresero una lotta armata che condusse all’arresto, tra gli altri, del leader dell’Anc, Nelson Mandela, nel 1962.

L’apartheid fu ripetutamente condannato e sanzionato dall’Organizzazione dell’Unità Africana, dall’Onu e dai membri afroasiatici del Commonwealth, dal quale il Sudafrica uscì nel 1961, proclamando la repubblica.

Dopo trent’anni di violenze, a fronte di una situazione economica sempre più precaria a causa degli elevati costi della politica di repressione e per gli effetti delle sanzioni economiche inteazionali, il presidente della Repubblica Frederik Willem de Klerk, eletto nel 1989, avviò i negoziati.

L’11 febbraio 1990 Nelson Mandela, leader dell’Anc, fu scarcerato dopo 27 anni di detenzione.

Il Goveo decretò la fine del bando nei confronti dei partiti d’opposizione e l’Anc e il Pac poterono partecipare ai lavori per la stesura di una nuova Costituzione. Il sistema giuridico-normativo dell’apartheid fu abolito e furono indette tre assemblee multipartitiche, durante l’ultima delle quali – nonostante le resistenze opposte dalle formazioni più estremiste di entrambi gli schieramenti – fu adottata la Costituzione Transitoria (1993).

Nella stessa sede fu affrontata la questione riguardante la domanda di giustizia che emergeva dal periodo storico e politico che si stava chiudendo. Le decisioni riguardanti il modo di affrontare l’eredità del passato, e in particolare la creazione della Truth and Reconciliation Commission (Trc), furono formalmente incorporate sia nel testo della Costituzione Transitoria che nella Costituzione definitiva, che fu adottata dall’Assemblea Costituente nel 1996.

Pietra miliare del cammino del nuovo Sudafrica furono le prime elezioni democratiche multirazziali, svoltesi nel 1994, che portarono alla nomina del primo presidente nero, Nelson Mandela, insignito l’anno precedente del Premio Nobel per la pace insieme all’ultimo presidente bianco, De Klerk, per aver evitato che il paese precipitasse nella guerra civile.

Mandela guidò un governo di coalizione formato dall’Anc, dal Np di de Klerk e dal Partito della libertà, espressione dell’etnia zulu. Dopo l’entrata in vigore della nuova costituzione, il National party si ritirò dal governo, per assumere il suo ruolo democratico di partito d’opposizione.

A.Z.


Io sono perché noi siamo

«Ubuntu […] è una parola che riguarda l’intima essenza dell’uomo. Quando vogliamo lodare grandemente qualcuno, diciamo: “Yu, u nobuntu”, “il tale ha ubuntu”. Ciò significa che la persona in questione è generosa, accogliente, benevola, sollecita, compassionevole; che condivide quello che ha. È come dire: “La mia umanità è inestricabilmente collegata, esiste di pari passo con la tua”. Facciamo parte dello stesso fascio di vita. Noi diciamo: “Una persona è tale attraverso altre persone”. Non ci concepiamo nei termini “penso dunque sono”, bensì: “Io sono umano perché appartengo, partecipo, condivido”. Una persona che ha ubuntu è aperta e disponibile verso gli altri, riconosce agli altri il loro valore, non si sente minacciata dal fatto che gli altri siano buoni o bravi, perché ha una giusta stima di sé che le deriva dalla coscienza di appartenere a un insieme più vasto, e quindi si sente sminuita quando gli altri vengono sminuiti o umiliati, quando gli altri vengono torturati e oppressi, o trattati come se fossero inferiori a ciò che sono»1.

(Desmond Tutu)


Il mio Dio sovversivo

libro-tutu_resizeIl libro di Desmond Tutu pubblicato nel 2015 dall’Emi è un piccolo e intenso viaggio nel cuore della concezione di giustizia dell’arcivescovo anglicano di Città del Capo. Il premio Nobel per la pace del 1984, presidente della Trc, con uno stile sobrio e lineare parla del fondamento della sua idea di società, della sua battaglia per un paese e un mondo più giusto: il Creatore che ha fatto l’uomo a sua immagine, un Dio che si comunica con una forza speciale, «sovversiva», tramite la Parola e tramite coloro che nella storia sono stati e sono tutt’ora capaci di propoe la disarmata e irresistibile forza di capovolgimento.

«Bisogna che vi racconti questa vecchia storiella, anche se forse la sapete già – esordisce Tutu nell’incipit del volume -. Veniva narrata, a volte, dai neri quando discutevano sulla loro dolorosa situazione di vittime dell’ingiustizia e dell’iniquità del razzismo. “Molto tempo fa, quando i primi missionari arrivarono in Africa, noi avevamo la terra e loro avevano la Bibbia. Dissero: ‘preghiamo!’. Abbiamo chiuso gli occhi con il dovuto rispetto, e alla fine hanno detto: ‘Amen’. Abbiamo riaperto gli occhi ed ecco, i bianchi avevano la terra e noi la Bibbia”. […] Davvero i missionari avrebbero ingannato i neri così creduloni? Io voglio affermare nella maniera più netta e inequivoca possibile che non è così. In realtà noi neri non abbiamo fatto un cattivo affare. I missionari hanno messo nelle mani dei neri una cosa che sovvertiva profondamente l’ingiustizia e l’oppressione. […] Se si vuole sottomettere e opprimere qualcuno, l’ultima cosa da mettergli in mano è la Bibbia. […] Noi non possiamo restare indifferenti di fronte alle ingiustizie patite da tanti nostri fratelli e sorelle, figli dello stesso Dio e Padre. Tutti gli altri, portatori di Dio, sono creati a immagine di Dio proprio come noi. Non abbiamo scelta […] non possiamo restare in silenzio o indifferenti quando altri sono trattati come se fossero una razza diversa e inferiore».

«Il mio Dio sovversivo» è un testo capace di andare, in poche pagine e con semplicità, al centro delle questioni fondamentali della vita individuale e sociale. Tutu ci parla di un Dio sovversivo che si manifesta all’umanità per dire a ciascuno che ogni uomo è uomo in quanto legato ad altri uomini; che ama ogni uomo come se ciascuno fosse l’unico ad essere stato creato; che Lui è un Dio di parte, schierato con l’umanità; che tutto ciò che ci offre non lo possiamo in alcun modo guadagnare, perché tutto è grazia, a prescindere da qualsiasi merito o demerito; e che, come tutto all’inizio è originato da Dio, tutto alla fine convergerà a Dio, «anche Satana […] perché neppure lui potrà resistere all’attrazione dell’amore divino; e allora Dio sarà davvero tutto in tutti».

Luca Lorusso




Profughi voci perseguitate dal coro


È una rete internazionale che aiuta un particolare tipo di profughi: intellettuali scomodi, minacciati dai regimi dei loro paesi. Connette città ospitanti in Europa e nel mondo. Dal 2006 sono 160 le persone accolte. Piccoli numeri che rappresentano intere popolazioni.

«Col primo, uno scrittore, la reazione dei vicini è stata di grande sconcerto. Non lo capivano, lui non salutava, spesso usciva in tuta mimetica, poi per molti giorni non usciva affatto, perché stava lavorando al suo libro. Poi è arrivata una coppia di iraniani, un teologo perseguitato per apostasia e la moglie, entrambi di mezza età, e sono stati subito molto amati. Potevano sembrare una coppia di contadini delle nostre colline». Così Maria Pace Ottieri, figlia dello scrittore milanese Ottiero Ottieri, a sua volta giornalista e scrittrice (è autrice, tra l’altro, di Quando sei nato non puoi più nasconderti dedicato all’immigrazione irregolare), ricorda le prime esperienze di accoglienza di scrittori perseguitati a Chiusi, cittadina di 8.000 abitanti sulle colline senesi.

Il primo, nel 2008, fu Victor Pelevin, popolare scrittore russo del dopo perestroika, seguito nel 2010 da Hasan Yousefi Eskevari con la moglie Golbabei Aliahmad Mohtaram. «Eskevari, studioso di storia, aveva fatto sette anni di prigione per avere affermato che la prescrizione di indossare il velo non si trova nel Corano», ricorda Maria Pace. La casa della famiglia Ottieri e la città di Chiusi sono inserite nella rete Ico, acronimo di «Rete internazionale delle città rifugio» (in inglese: Inteational Cities of Refuge Network). Della rete fanno parte 60 città in 16 paesi, per lo più in Europa, ma anche negli Stati Uniti e in Messico. Le «città rifugio» accolgono scrittori, giornalisti, artisti e musicisti costretti a lasciare il proprio paese. Il cornordinamento della rete, con sede nella città norvegese di Stavenger, riceve le richieste e propone gli abbinamenti tra artisti e città.

Intellettuali perseguitati

«La valutazione si fa in collaborazione con Pen Inteational, associazione di scrittori. La persecuzione deve essere documentabile. Altri criteri sono la quantità di produzione giornalistica o artistica, e la correlazione tra questa e le minacce», spiega Cathrine Helland, responsabile della comunicazione di Ico. «Per scegliere la città, dobbiamo valutare se sono aperte anche a coppie o famiglie o solo a singoli. Guardiamo anche alle relazioni diplomatiche tra paesi, per capire quante possibilità ci sono che l’autore possa ricevere un visto in tempi ragionevoli».

Gli oneri pratici e quelli economici, dall’alloggio a una borsa di studio con la quale gli autori si sostentano, spettano alle città.

Nel caso della Toscana, a farsi carico della parte economica è la Regione, mentre i comuni, di cui ora Chiusi è l’unico attivo, devono mettere a disposizione un cornordinatore che segua le persone nell’ottenimento del visto, nell’inserimento sociale, nell’accesso ai servizi. A Chiusi, la famiglia Ottieri dà la casa gratuitamente. In Norvegia i referenti del progetto sono in genere le biblioteche, mentre in città come Bruxelles o Cracovia sono associazioni letterarie o festival. Da paese a paese, costo della vita e burocrazia possono variare molto. «La formula che abbiamo trovato noi è chiedere visti per motivi di studio. Di fatto, gli scrittori cercano rifugio all’estero per continuare il proprio lavoro e la propria ricerca», racconta Marco Socciarelli, referente di Ico per il comune di Chiusi.

«C’è una forte correlazione tra le evoluzioni della situazione geopolitica e le richieste che riceviamo», riprende Cathrine Helland. «Nel 2014 abbiamo avuto un picco dalla Siria, e di recente sono molto aumentate quelle provenienti dalla Turchia, o dal Bangladesh, dove i blogger laici subiscono attacchi e minacce di morte, o ancora dal Burundi, dove le persecuzioni riguardano molti giornalisti radiofonici». In Bangladesh, nel 2015, per la prima volta uno scrittore che aveva presentato domanda a Ico, Ananta Bijoy Dash, è stato ucciso prima che potesse essergli proposta una città rifugio.

Dal 2006, anno della fondazione di Ico, le persone accolte sono state 160. Ma già dal 1999, molte delle città che aderiscono all’attuale rete partecipavano a un analogo progetto, nato su iniziativa di quello che allora si chiamava «Parlamento internazionale degli scrittori» presieduto da Salman Rushdie. Nell’ambito di quella prima iniziativa la Toscana ospitò diversi autori perseguitati, tra cui la premio Nobel 2015 Svetlana Aleksievic.

Piccoli numeri, grande significato

I numeri sono piccolissimi, soprattutto se si pensa di paragonarli agli oltre 400 mila fuggiaschi che hanno tentato di entrare illegalmente in Europa, via terra o via mare, solo nei primi 9 mesi del 2016, secondo i dati dell’agenzia Frontex. Ma a chi ottiene ospitalità attraverso questa rete è concesso non solo un approdo, ma anche un viaggio sicuro.

«Per le città, l’adesione ha un valore allo stesso tempo concreto e simbolico», spiega Helge Lunde, tra i fondatori di Ico e suo attuale direttore. «Concreto, perché si può materialmente aiutare una persona a mettersi in salvo, e simbolico perché scrittori, giornalisti e artisti rappresentano in qualche modo il pensiero e i bisogni di altre persone, del loro pubblico, del loro paese. Ogni città che aderisce alla nostra rete consente a una voce fuori dal coro di continuare a farsi sentire».

Nel 2015, le richieste sono state 110 e le residenze offerte 27, quasi il doppio rispetto all’anno precedente. Nei primi nove mesi del 2016 sono arrivate 90 domande, 15 delle quali hanno potuto essere accolte.

Anni difficili

Il periodo di ospitalità è normalmente di due anni. «Nel caso di Malek Wannous, giornalista siriano, che si trova a Chiusi con la sua famiglia – riprende Marco Socciarelli – abbiamo deciso in via eccezionale di allungare la residenza per un altro anno. Loro vorrebbero tornare in Siria, ma è impossibile. E ora che la bambina più grande va a scuola non volevamo fosse costretta a un nuovo, traumatico spostamento».

Per gli scrittori e gli artisti, la città rifugio rappresenta la possibilità di continuare a lavorare, non senza difficoltà. «Si perdono fonti di guadagno, punti di riferimento, status», evidenzia Cathrine Helland. «A meno che un autore non sia molto conosciuto, non è semplice lavorare da un paese estero», fa eco Socciarelli. «Io sono contenta di arrivare a casa e sentire voci di bambini, sentire abitata questa casa, che mai si sarebbe aspettata persone da così lontano», dice Maria Pace Ottieri. «La cosa amara è che, per loro, questi due anni sono tra i più infelici della loro vita. Sono sradicati, sono dovuti partire per forza, non sanno quando e se potranno tornare indietro».

La loro voce, però, continua a farsi sentire. Anche con le scuole. «Molte volte i ragazzi nemmeno sospettano che si possa essere incarcerati o minacciati per le proprie idee», spiega Socciarelli. «La soddisfazione che abbiamo – aggiunge – è che qui a Chiusi sono stati completati libri importanti, che forse non avrebbero visto la luce senza il nostro aiuto».

Giulia Bondi


Intervista a Malek Wannous, rifugiato a Chiusi

Un posto dove andare

Malek Wannous

Gioalista e scrittore freelance siriano, Malek Wannous è originario di Tartous, città portuale di 150mila abitanti, affacciata sul Mediterraneo. Vive a Chiusi dal 2014, con la sua famiglia. Ha tradotto in arabo il libro di Vittorio Arrigoni «Gaza. Restiamo Umani».

Quando ha cominciato a sentirsi in pericolo, e quando ha deciso di partire?

«Appena iniziata la guerra ho sentito che non ero al sicuro. O che non lo sarei stato nei giorni e nei mesi successivi. Non ho pensato subito di lasciare il paese, perché avevo lavoro, casa, famiglia, e speravo che la guerra sarebbe finita presto. Ma erano speranze vane. Dopo tre anni di guerra, ho iniziato a cercare un modo per andarmene».

Come ha saputo dell’esistenza di Ico?

«Me ne avevano parlato degli amici. Ero a conoscenza delle vicende di alcuni scrittori che erano stati aiutati da Ico. Ho presentato domanda, ho aspettato l’esito e infine sono potuto partire per approdare in questo posto sicuro».

Come si è svolto il vostro viaggio fino a Chiusi?

«Da Tartous siamo partiti per il Libano, e da lì abbiamo preso un volo diretto, da Beirut a Roma. È andato tutto liscio, per me, per mia moglie che era incinta, e per mia figlia. Ma, allo stesso tempo, è stato molto difficile lasciare il nostro paese. Quando siamo arrivati a Roma faceva caldissimo, più caldo che da noi. Ho comprato il biglietto del treno per Chiusi e per la prima volta in vita mia ho usato una macchinetta automatica! Da noi i treni sono molto vecchi, non li rinnovano da anni, e per viaggiare usiamo soltanto i pullman. Alla stazione di Chiusi ci aspettava Marco Socciarelli, di Ico, con sua moglie e sua figlia. Ci hanno accompagnato loro alla nostra nuova casa».

Qual è l’ultima immagine che ha della Siria, e il suo primo ricordo all’arrivo in Italia?

«L’ultima immagine sono le persone. Vedevo la gente camminare, andare al lavoro, dal medico, o a fare spese. Tutti sapevano che il loro futuro era incerto, o molto oscuro. Quando siamo arrivati, ho pensato a mia madre, alla mia famiglia, ai volti delle persone che ho lasciato in Siria. Ho pensato perfino alle strade su cui camminavo ogni giorno, per andare al lavoro o per fare sport».

Com’è la vostra esperienza a Chiusi? Come riesce a lavorare da qui?

«Inizialmente è stata dura, perché non conoscevamo la lingua. Gli unici amici che avevamo erano Marco e la sua famiglia. Ci hanno aiutati in tutte le esigenze pratiche: la burocrazia per il permesso di soggiorno, l’assistenza sanitaria, l’iscrizione a scuola di mia figlia. Pian piano abbiamo fatto amicizia con i vicini, con le famiglie delle compagne di scuola, e abbiamo cominciato a uscire per una pizza, o una gita al lago. Il lavoro lo faccio a distanza: articoli e analisi politiche che trasmetto ai giornali via email, e di tanto in tanto qualche traduzione».

Che rapporti avete con la vostra ospite, Maria Pace Ottieri?

«Maria Pace e suo figlio ci hanno telefonato subito al nostro arrivo. Poi sono venuti a incontrarci, e ci hanno invitato nella loro casa di Milano. Siamo amici, e quando lei o suo figlio vengono a Chiusi passiamo ore insieme, a discutere di politica e di letteratura. Maria Pace è conosciuta per la sua generosità. Ci ha offerto la sua casa, come aveva fatto in precedenza per altri scrittori».

Con quali differenze culturali vi siete scontrati al vostro arrivo?

«Abbiamo trovato molte somiglianze tra la società siriana, libanese o palestinese e quella italiana. Anche i volti sono simili, forse perché apparteniamo tutti al Mediterraneo e abbiamo un’antica storia di scambi e relazioni. La società italiana è più modea e organizzata, perché per molti anni i governi dei paesi arabi non hanno fatto abbastanza per migliorare il tenore di vita delle popolazioni. Non abbiamo fatto troppa fatica a integrarci. Le differenze non mancano ma molte persone ci hanno aiutati a capire gli usi locali».

Come ha deciso di tradurre gli scritti di Vittorio Arrigoni (attivista e pacifista italiano ucciso a Gaza il 15 aprile 2011)?

«Avevo chiesto a un amico, traduttore e poeta siriano, di portarmi il libro dall’America, dove viveva, perché dalla Siria non potevo ordinarlo. Volevo solo leggerlo, ma quando sono arrivato alla ventesima pagina ho capito che dovevo tradurlo. Ho acceso il computer e iniziato subito. Pensavo che le storie di cui parla meritassero di essere conosciute, perché sono una testimonianza diretta dei crimini israeliani contro i civili palestinesi a Gaza. Ascoltare queste voci è indispensabile per “restare umani”. Ogni giorno sentiamo storie come quelle che lui racconta, e credo che ciascuno di noi sappia che il male fatto ad altri, oggi, potrebbe essere fatto anche a lui, in qualsiasi momento».

Cosa pensa del conflitto in corso in Siria? Come ha fatto a inasprirsi fino alla situazione odiea e cosa potrebbe fare la comunità internazionale per fermare il massacro di civili?

«La guerra siriana si è inasprita perché ogni guerra, dall’inizio, è destinata a diventare sempre più dura, fino all’apice della violenza, se non la si ferma. Un’altra ragione dell’escalation sono le interferenze di altre potenze. Sembra che la Russia stia fomentando la guerra per trae vantaggi quando sarà finita. Putin ha definito la Siria “il migliore campo di addestramento per il nostro esercito”. Usa la Siria per promuovere le proprie armi, sta firmando contratti per vendere armi a molti paesi. Credo che la comunità internazionale non abbia fatto seri tentativi di fermare la guerra, fin dall’inizio. Non hanno mai nemmeno cominciato a pensarci, fino a quando l’Isis e le ondate di profughi non hanno iniziato a bussare alle porte. Ora stanno cercando di intervenire, sono in ritardo, ma non è troppo tardi. Se agissero sulla Russia e sull’Iran, che tutto sommato sono paesi piuttosto deboli, questi obbedirebbero».

Cosa pensa della crisi dei rifugiati in Europa? La maggioranza delle persone, sebbene abbiano diritto alla protezione internazionale una volta arrivate, viaggiano lungo rotte pericolose e spesso mortali. Quale potrebbe essere, secondo lei, un’alternativa?

«Fermare la guerra, in modo che i siriani che ora sono in Europa possano rientrare in Siria. Fino a quel momento, credo si dovrebbero accogliere i rifugiati diversamente. Andrebbero migliorate le condizioni di vita dei campi profughi in Turchia, Libano, Giordania, sostenendo l’apertura di scuole in questi campi e assegnando borse di studio universitarie agli studenti siriani. In questo modo credo che i paesi europei subirebbero meno conseguenze e si tutelerebbero anche dal rischio che molti giornali hanno evidenziato, di fare entrare terroristi nascosti tra i rifugiati».

Dove vede il suo futuro quando lascerà Chiusi?

«Non sono ottimista. Tra pochi mesi dovrò lasciare l’Italia, a meno che non trovi un lavoro o qualche altra opportunità. Sarà difficile per me e la mia famiglia, e sarà un nuovo shock per mia figlia lasciare un luogo e degli amici con i quali si è ambientata per spostarsi di nuovo in un luogo sconosciuto. Sarà difficile imparare una nuova lingua ora che sa benissimo l’italiano. Ma al momento non abbiamo un posto dove andare».

Giulia Bondi




Amoris Laetitia famiglia missionaria


«Saluto i partecipanti dell’Associazione Incontro Matrimoniale e vi ringrazio per tutto il bene che voi fate per aiutare le famiglie. Avanti» (Papa Francesco, 10/9/2016).

Il 19 marzo 2016 papa Francesco ha firmato Amoris Laetitia (AL), l’esortazione apostolica postsinodale sull’amore nella famiglia frutto dei due sinodi dei vescovi del 2014 e del 2015.

Il documento si apre con un tono positivo: nonostante il pessimismo talora diffuso e le difficoltà oggettive che la famiglia incontra in ogni parte del mondo, AL afferma che nelle famiglie si vive la gioia dell’amore e che l’annuncio cristiano che riguarda la famiglia è davvero una bella notizia.

AL è il frutto del lavoro dei due sinodi, ma è scritto nello stile narrativo di papa Francesco che ha il dono di farsi capire perché parla il linguaggio della gente. La lettura e riflessione su questo ricco documento impegnerà ogni cattolico (è indirizzata a tutta la Chiesa e segnatamente «agli sposi cristiani») laico, ordinato, consacrato e verrà arricchita dai contributi dei vescovi e teologi e soprattutto da tanti sposi. Già ai sinodi erano presenti varie coppie di sposi che hanno dato un contributo con le loro testimonianze di vita.

AL non è anzitutto un’esposizione dottrinale sulla famiglia, ma una narrazione della realtà quotidiana nelle sue varie sfaccettature. È una miniera di informazioni. Nel capitolo quinto, «L’amore che diventa fecondo», vi sono pagine indimenticabili che descrivono la vita concreta della famiglia nei suoi vari membri: papà, mamma, figli, nonni. Si tratta quasi di un manuale, la cui lettura e meditazione offrono ispirazione e guida.

Nel capitolo sesto che presenta alcune prospettive pastorali, AL insiste sul fatto che «le famiglie cristiane sono i principali soggetti della pastorale familiare, soprattutto offrendo la testimonianza giorniosa dei coniugi e delle famiglie, chiese domestiche» (n. 200). «Per questo si richiede a tutta la Chiesa una conversione missionaria: è necessario non fermarsi ad un annuncio meramente teorico e sganciato dai problemi reali delle persone» (n. 201). In modo particolare AL chiede di guidare i fidanzati nel cammino di preparazione al matrimonio (nn. 205-11) e accompagnare gli sposi nei primi anni della vita matrimoniale (nn. 217-22).

Incontro Matrimoniale (Im)

Nella Chiesa esiste da oltre cinquant’anni un programma che è nato proprio da questa «conversione missionaria» che non si ferma a un annuncio meramente teorico sganciato dai problemi reali delle persone.

Si tratta dell’Associazione Incontro Matrimoniale, nata in Spagna verso la fine degli anni ’50 a opera di un sacerdote e una coppia di sposi: padre Gabriel Calvo e Mercedes e Jaime Ferrer. Im si è diffusa in America Latina e quindi in Usa, con il gesuita padre Chuck Gallagher. Dagli Stati Uniti è arrivata poi in circa 90 paesi in tutti i continenti col nome di Worldwide Marriage Encounter. In Italia si chiama Incontro Matrimoniale e ha iniziato a operare nel 1978 spargendosi progressivamente in quasi tutte le regioni, raggiungendo circa 40 mila coppie in tutta la penisola.

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Padre Mario Barbero a Lomé, Togo, con gruppo di Im.

Il Weekend (We)

L’esperienza di base è un weekend, dal venerdì sera alla domenica pomeriggio, durante il quale tre coppie di sposi e un sacerdote offrono testimonianze su vari settori della vita di famiglia e i partecipanti hanno tempo per «parlarsi» in coppia, rivedere gli aspetti del loro vivere insieme, rinnovando l’impegno di amore che era stato all’origine della loro decisione di sposarsi.

«Perché dopo sposati ci si parla sempre meno?», è questa domanda che ha dato origine all’esperienza di Im. L’esperienza dice che col passare degli anni i coniugi, presi da tanti altri assilli come il lavoro, i figli, la carriera, trovano sempre meno tempo per parlarsi, parlare di sé e dei propri sentimenti, e limitano spesso la loro comunicazione a livello di servizio, trascurando il dialogo che è essenziale per la relazione.

Riscoprire e gustare il dialogo di coppia

Nella vita di coppia e di famiglia l’amore va imparato, praticato, ricostruito, e chi può testimoniarlo meglio di una coppia di sposi?

È questo che mi ha colpito quando per la prima volta, nel 1978 in Kenya, partecipai a un We del Marriage Encounter e vidi come la testimonianza delle coppie fosse efficace per stimolare i partecipanti – coppie e preti – a rinnovare la loro relazione con il dialogo e in un certo modo a risposarsi. C’è una caratteristica del programma Im che è proprio in linea con quanto richiede la Amoris laetitia: «Non fermarsi a un annuncio solamente teorico». Le coppie animatrici del we presentano la vita matrimoniale e familiare nella loro concretezza e questo fa molta presa sui partecipanti.

Ho avuto la grazia di vedere l’efficacia di questo programma in varie parti del mondo, tra africani, americani, europei. Il we sposi è un’esperienza di conversione, tantissime coppie dicono «ha cambiato la nostra vita di coppia, il nostro modo di relazionarci».

Oltre al programma per sposi, Im ha sviluppato anche programmi per fidanzati, per giovani (Choice) e il weekend per famiglie (vedi www.incontromatrimoniale.org).

Un’altra realtà impressionante è il lavoro silenzioso e delicato di migliaia di coppie e centinaia di preti che, ovunque sia presente Im, preparano le loro testimonianze, si prestano ad animare i vari we e offrono molteplici servizi per accompagnare i coniugi, i fidanzati, i giovani. Tutte persone che hanno sperimentato una «conversione missionaria» e s’impegnano perché tante altre persone e famiglie scoprano che «la famiglia è davvero una buona notizia».

Nel mondo vi sono milioni di coppie che hanno sperimentato Im. In Italia sono circa 40.000. Ma come mai è così poco conosciuto? Forse perché non è direttamente legato a una diocesi o a una parrocchia, forse perché non viene pubblicizzato abbastanza, ma conosciuto piuttosto per passa parola.

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Testimoni

Gianfelice e Imelda Demarie di Torino, con don Antonio Del Mastro, parroco di San Damiano d’Asti, dal 2014 sono i responsabili nazionali di Im e ne cornordinano le varie attività in Italia.

A loro abbiamo chiesto cosa significa l’esperienza di Im e quali sono le sue prospettive in Italia.

Gianfelice e Imelda
«
Innanzitutto grazie, padre Mario, per quest’opportunità, e poi un altro grazie va a voi missionari della Consolata in quanto noi, proprio grazie a voi abbiamo potuto conoscere e vivere Im.

Ti conosciamo da sempre ma abbiamo cominciato ad apprezzare il tuo coraggio nell’estate del 1984 quando ti abbiamo visto in azione in Kenya in un’estate che ci ha cambiato un po’ la vita.

Nostro zio, padre Giuseppe Demarie, allora maestro dei novizi a Sagana, ci fece vivere quell’esperienza. Ci portammo a casa uno zainetto pieno di umanità, di sorrisi, di concretezza e di sogni. Cominciò da lì un rapporto nuovo con la “missione”. Toati in Italia e nel giro di poco tempo contagiammo molte famiglie italiane ad “adottare” una famiglia bisognosa del Kenya. Fu solo l’inizio: padre Giuseppe poi, influenzato da te e dal tuo operato con le coppie del Kenya, ci invitò al we che ormai esisteva anche qui in Italia.

Sono passati 24 anni da quel giorno e possiamo dire che I’esperienza del we ci ha permesso di vivere in modo migliore il nostro “sì” detto 10 anni prima. Il cammino proposto da Im ci ha aiutati a prendere consapevolezza della bellezza di essere sposati dando un significato diverso al sacramento del nostro matrimonio. La decisione di amare ci ha permesso di superare gli alti e bassi della vita quotidiana e ci ha fatto capire quanto fosse arricchente per noi uscire dal nostro guscio e donare il nostro amore agli altri.

Dal marzo 1992 (data in cui abbiamo scoperto Im) a oggi abbiamo avuto modo di conoscere tantissime coppie e sacerdoti meravigliosi e ognuno ci ha arricchiti con la condivisione delle loro esperienze e sfide».

Don Antonio
«
Mi ritengo un sacerdote particolarmente fortunato, perché, con l’associazione Incontro Matrimoniale ho scoperto la bellezza del team ecclesiale: ogni impegno viene vissuto insieme tra prete e coppia, le responsabilità sono condivise. Preghiamo insieme, condividiamo la nostra vita di tutti i giorni, le giornie e i dolori, le difficoltà sono affrontate insieme. Quando vado a cena da Gianfelice e Imelda io mi sento a casa. Le loro figlie si confidano affettuosamente con me. Tutte le settimane ci incontriamo e decidiamo insieme ogni iniziativa. Noi non siamo un’eccezione felice. In Im a tutti i livelli, ogni servizio è condiviso tra una coppia e un sacerdote o religioso/a. Ciò che l’Amoris Laetitia ci invita a fare nelle parrocchie, nel dare responsabilità alle coppie insieme ai sacerdoti, noi lo sperimentiamo già da molto tempo e troviamo che sia una testimonianza d’amore eccezionale.

Affinché i preti scoprano fin dall’inizio questa esperienza di comunione, abbiamo organizzato, nel giugno scorso, per la prima volta in Italia un we studiato in speciale modo per i sacerdoti, accompagnati da una coppia ciascuno. Hanno potuto aprire il loro cuore, affrontare insieme le loro delusioni e insuccessi, per scoprire quanto è bello amarsi e decidere insieme di essere missionari tornando nel proprio ambiente di vita. Gesù ha mandato i discepoli a due a due in missione. Anche oggi ritornare a vivere una Chiesa missionaria, dove la prima testimonianza viene dalla testimonianza del modo di vivere insieme, mi sembra la novità più bella».

Il team

«Concludendo in team vi condividiamo il nostro sogno che è anche il nostro programma:

essere sempre più inseriti nella Chiesa per essere di aiuto alle coppie, alle famiglie, ai giovani e ai sacerdoti e religiosi che desiderano approfondire e migliorare il loro cammino di relazione.

Un sogno che è stato confermato il 10 settembre scorso quando nell’udienza generale cui parteciparono settemila persone di Im da tutto il mondo, papa Francesco, salutandoci, ci ha ringraziato “per tutto il bene che voi fate per aiutare le famiglie. Avanti”».

Mario Barbero*

*Missionario della Consolata, biblista. Ha servito in Kenya, Stati Uniti, Congo Rd, Sud Africa e ora in Italia.




Brasile: dal folclore cultura e vita


In un mondo dominato dalle tecnologie digitali, dove molti ragazzi trascorrono troppo tempo di fronte a smartphone o computer, un’esperienza che aiuti a riscoprire fiabe, storie, filastrocche e danze tradizionali è davvero contro corrente.

È quello che hanno vissuto per una settimana tra il 22 e il 26 agosto scorso i ragazzi del Kilombo do Kioiô, a Salvador de Bahia, Brasile, per celebrare la giornata nazionale del folclore popolare.

I ragazzi del Kilombo non sono diversi dai loro coetanei di tutto il mondo e tutto quello che è digitale li affascina rischiando di far dimenticare loro le tradizioni popolari del loro stesso paese e di sradicarli dalla propria cultura. Per questo il gruppo di educatori di sostegno scolastico del Kilombo hanno proposto ai ragazzi di riscoprire i giochi, le fiabe e le danze dei loro coetani dell’era predigitale.

Saltare la corda, ascoltare storie come quella della «Mula senza testa» o danzare il «Bumba meu boi» erano attività comuni dell’infanzia nata prima del 1990 in Brasile, ma i ragazzi del Kilombo le ignoravano o le avevano viste solo in televisione.

La parola folclore dice rispetto delle manifestazioni culturali di un popolo. Queste manifestazioni possono essere raccolte e catalogate in libri, ma diventano parte della vita soprattutto quando sono trasmesse da nonno a nipote, da padre a figlio, attraverso la tradizione orale e l’immersione totale. Tutto può essere folclore: dalle fiabe che la mamma racconta per far addormentare i figli al canto dei bambini che fanno il girotondo durante la ricreazione a scuola, dalle danze tradizionali degli schiavi africani alle leggende della foresta amazzonica che alimentano l’immaginazione popolare. Tutto questo è folclore. E ogni regione del Brasile ha le sue esperienze.

Per questo gli insegnanti e i volontari del Kilombo hanno cercato di valorizzare elementi tipici dei cinque angoli del Brasile. Dal Nord i bambini hanno preso dagli Indios le danze tipiche come il carimbò e la ciranda, e le leggende di Curupira, il bambino con i piedi girati indietro che protegge la foresta, del Boto, il delfino rosa del fiume che si trasforma in un bambino, e quella Mãe-D’água, la bella sirena.

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Dal Sud del Brasile sono state riprese la danza della chula e la festa dell’uva e di Nostra Signora dei naviganti, e la fiaba di Saci-pereré, un bambino nero con una gamba sola, che usa un cappuccio rosso (come quello dei nani di Biancaneve) e vive nella foresta.

Dal Sudest hanno appreso leggende come quella del Lobisomen, l’uomo che si trasforma in lupo durante la luna piena, e la storia della Mula-sem-cabeça, una donna trasformata in una mula che ha il fuoco al posto della testa e vaga per sette città.

Dalla regione centro Ovest hanno scoperto la folia de reis, una festa in onore dei Re magi che portarono doni a Gesù bambino.

Il Nordest, la regione in cui si trova il Kilombo, ha dato il frevo (danza acrobatica con ombrellino), il bumba-meu-boi (danza con maschere rappresentanti un bue), il maracatu (parate in costume) e le cirandas (danze cantate che si fanno danzando in cerchio), tutte manifestazioni che arricchiscono la cultura locale.

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Oltre ad ascoltare le leggende, hanno potuto anche fare disegni, cuocere cibi tipici, partecipare a scioglilingua come la trava lingua (ripetizione di parole complicate e di difficile pronuncia) e «obbedire» alla boça de foo, nella quale uno che comanda dà ordini divertenti che devono essere eseguiti.

Tutti questi momenti si sono certamente fissati nella mente dei ragazzi che hanno partecipato al programma di recupero scolastico. Queste memorie saranno conservate e trasmesse non soltanto per il bene degli amici o dei familiari, ma anche per le future generazioni e anche per la cultura stessa del Brasile. Così il folclore popolare continuerà a far parte della loro vita, anche in un mondo sempre più informatizzato.

Diniz Viera

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