Madagascar: Un paradiso (quasi) naturale

testo di Marco Bello |


La quarta più grande isola del pianeta è terra di una natura unica e splendida. Vi abita un popolo ospitale. Ma alcuni mali comuni la affliggono: corruzione, degrado ambientale, trafficanti di animali. Ne abbiamo parlato con la società civile.

«Questo momento è critico, ma da sempre la situazione del paese è difficile sotto tanti punti di vista: morale, sociale, economico. Per cause diverse, non sempre i governanti, pure con buona volontà, sono stati all’altezza di dirigere un paese non semplice». Chi parla è monsignor Rosario Vella, vescovo di Moramanga, nel Centro Est del paese (vedi box sotto).

Da novembre, sulla Grande isola i prezzi degli alimenti di base sono aumentati in modo vertiginoso. Quello del riso – cibo più importante della popolazione – è raddoppiato, ma anche olio e zucchero hanno visto grossi incrementi, tanto che molte famiglie hanno ridotto i beni acquistati, e quindi la quantità di cibo mangiato nel quotidiano.

Photo by Mamyrael / AFP

Ancora una crisi

Una parte della crisi è imputabile alla pandemia da coronavirus, che però, fortunatamente, qui ha colpito poco.

A causa della pandemia, il presidente Andry Rajoelina ha imposto in primavera un mese di blocco, durante il quale era proibito entrare e uscire dalle città, i trasporti non funzionavano, le frontiere sono state chiuse.

«Soprattutto la chiusura delle frontiere ha avuto un impatto sull’economia. Sapendo che l’ingresso di valuta dipende dal commercio verso l’estero, ma non abbiamo potuto esportare – ci racconta Tsimihipa Andriamazarivo, coordinatore della Ong Tolotsoa -. Inoltre il blocco totale del turismo, è stato penalizzante per tutto il comparto. Abbiamo avuto una forte svalutazione della moneta nazionale e quindi un deterioramento del tessuto economico. Nel paese i trasporti sono stati interrotti, e il commercio interno bloccato. La popolazione non ha potuto generare un reddito in modo normale. L’azione principale del governo è stata la distribuzione di viveri e altri aiuti sociali, ma non ha potuto impedire la crisi».

Va ricordato che il Madagascar è esportatore di pregiati generi alimentari, come le spezie. Continua l’attivista: «C’è stata la campagna agricola della vaniglia, ma i prezzi erano molto bassi. Adesso c’è la campagna della litchi (o ciliegia cinese, piccolo frutto dolce, molto consumato in Francia, ndr), ma il problema è lo stesso. La pandemia è durata troppo, e gli esportatori hanno comprato al ribasso». E, fatto grave, sottolinea Tsimihipa, non si vede un’azione governativa: «Il parlamento è in sessione per la legge di bilancio del 2021, ma nella bozza non appaiono misure di appoggio al settore privato e per la creazione di impiego. Non ci sono interventi per la ripresa economica. Molte imprese e attività commerciali hanno chiuso o hanno ridotto il personale per riuscire a sopravvivere. La situazione è critica a livello privato, e c’è attesa per un’azione governativa che non si concentri sulla raccolta delle imposte, ma piuttosto su misure di appoggio al tessuto economico, per la situazione post covid». Tsimihipa si chiede ad esempio come ripartire con il turismo, che in tempi pre covid era stimato a circa il 6,1% del Pil e si è praticamente azzerato. «Sviluppare turismo interno? Avevamo come obiettivo 500mila turisti annuali. Non è stato fatto questo piano strategico».

«Siamo in attesa del Quadro di concertazione e dialogo che è previsto dal Piano multisettoriale d’urgenza (Pmdu) elaborato dal governo in giugno. È previsto un decreto che nomini il comitato di pilotaggio del piano, dove ci sarebbero rappresentanti del settore privato, società civile, collettività locali, ma ancora non è stato fatto. Piuttosto si sta facendo la legge di bilancio senza tenere in conto il post covid».

© Af AVG

Corruzione

L’Ong Tolotsoa, nata nel 2010, si occupava inizialmente di questioni legate all’iscrizione allo stato civile dei bambini in difficoltà. «In queste attività ci siamo imbattuti in molti casi di corruzione, e abbiamo scoperto come il fenomeno fosse diffuso. Abbiamo dunque deciso di riorientare le nostre attività, impegnandoci nella lotta alla corruzione e nella promozione della buona governance del paese, nell’educazione civica e alla cittadinanza, e nella responsabilizzazione dei giovani. Tutto questo lo facciamo attraverso progetti». Nel 2014 Tolotsoa ha realizzato un sito internet, sul quale qualunque cittadino può denunciare casi di corruzione, piccoli o grandi, che gli sono capitati nel servizio pubblico. «Uno degli effetti è stato quello di avere dei dati, una statistica globale sugli atti di corruzione, i numeri, la posta in gioco e i servizi più toccati. Questi ultimi sono risultati la giustizia, le forze dell’ordine e il parlamento. Tutto questo è stato utile per orientare la lotta anticorruzione. I nostri dati sono inoltre stati confermati da uno studio dell’Ong Transparency International». Con questo progetto Tolotsoa ha vinto un premio internazionale sulla trasparenza, che l’ha incoraggiata ad andare avanti. «Un altro settore nel quale abbiamo iniziato a impegnarci è la valutazione delle politiche pubbliche, con un progetto che realizza un osservatorio cittadino delle attività parlamentari».

Il progetto si chiama balaky.org, ancora una volta un sito, che vuole essere uno strumento che aiuta ad avvicinare la gente a questa istituzione: «Fare in modo che i cittadini siano in grado di dibattere sulle questioni importanti, che ci sia più prossimità con le decisioni prese nelle due camere. Con l’obbiettivo di collegare i rappresentanti ai cittadini, per ottenere più efficacia, ma anche per far passare il messaggio che stiamo monitorando il parlamento. Con questo speriamo che si riduca il rischio di scandali, come quelli di corruzione avvenuti nella passata legislatura. Scandali che hanno creato una disaffezione del popolo all’istituzione».

© Af AVG

Ambiente: si salvi chi può

Il Madagascar è un santuario della biodiversità unico al mondo, ma il degrado ambientale e lo sfruttamento delle sue risorse naturali lo hanno reso il quinto paese più vulnerabile ai cambiamenti climatici. «Abbiamo più di 8 milioni di ettari di foreste naturali, ma negli anni ’50-’60 ne avevamo il doppio. Tutto è scomparso con un ritmo di 100mila ettari di foresta all’anno». È l’attivista ambientale Ndranto Razakamanarina che ci parla. Mette l’accento sulle organizzazioni criminali dietro le quali c’è il taglio e l’esportazione di legname pregiato, e su quelle che catturano e «trafficano» animali protetti. Organizzazioni spesso colluse con la politica.

«Un motivo è la povertà diffusa – ci spiega l’attivista -, perché spesso il degrado delle risorse naturali è opera della gente vulnerabile, assoldata dai trafficanti di legno pregiato e di animali protetti, i cui responsabili non sono mai arrestati. Tra loro c’è gente di potere. Tutti quelli che sono passati ne hanno approfittato».

Il Madagascar è anche molto ricco di risorse minerali, ci ricorda Ndranto, e pure su questo c’è «un grande furto, che sia l’oro o le pietre preziose, non sono sfruttate per il bene del paese ma per il profitto di pochi».

Ndranto ha una lunga esperienza. Ingegnere forestale, dopo aver lavorato molti anni con Ong internazionali, ha fondato una rete di associazioni ambientaliste: «Nel 2009 ho creato Alliance voahary gasy (ovvero alleanza natura malgascia, Avg), una piattaforma di 30 associazioni e Ong che si battono per l’ambiente». Sono tutte entità malgasce, ci tiene a precisare: «Alcune organizzazioni internazionali volevano entrare, ma queste hanno sempre la preoccupazione di essere espulse se denunciano il governo, pur avendo dati verificabili in mano. A noi nazionali al massimo rischiamo l’arresto», e scoppia in una fragorosa risata.

«La nostra prima azione è stata nel 2009, quando il governo uscente aveva fatto un decreto per l’esportazione di legno di rosa (palissandro) soprattutto in Cina. Al loro arrivo, i golpisti (si veda box, ndr) hanno fatto pure loro un decreto simile, sempre illecito. Abbiamo denunciato tutto al tribunale del Consiglio di stato, ma quando c’è un governo golpista, tutte le istituzioni gli appartengono, quindi non abbiamo vinto».

«Lavoriamo per una giustizia ambientale: da un lato per il rispetto delle leggi, e dall’altro per la giustizia per le comunità svantaggiate che hanno scelto di proteggere l’ambiente.

Le nostre azioni hanno lo scopo di rafforzare le capacità della società civile e la messa in rete delle associazioni. Lavoriamo molto sulla comunicazione, e per fare denuncia e pressioni su chi governa».

© Andry Nantenaina / Puremotion Mg

Un ciclo perverso

© TI-IM

Il degrado ambientale coinvolge la popolazione in un ciclo perverso: «Attualmente si assiste a una riduzione delle sorgenti d’acqua, che porta la siccità. Quando la pioggia arriva, non c’è più ritenzione d’acqua, perché non ci sono le foreste, e si verificano le inondazioni. Tutti gli anni il Sud del paese è vittima della siccità, e c’è la carestia (come in questo momento, ndr). Così la gente è obbligata a migrare verso il Nord e l’Ovest. Qui sono utilizzati da altri per tagliare le foreste, trasformarle in coltivazioni di mais e recuperare il legno prezioso, o fare carbone. E la desertificazione si perpetua altrove».

Un osservatore speciale

Sulle problematiche ambientali, ma non solo, è molto attiva la chiesa cattolica malgascia. Ci spiega padre Attilio Mombelli, vincenziano di Como, da 51 anni missionario in Madagascar: «In cinquant’anni ho visto la foresta scomparire completamente. Uno dei problemi è che la gente dà fuoco per “liberare” le terre. La Conferenza episcopale ha iniziato alcuni anni fa un programma per creare diocesi “verdi”. Tutte le associazioni cattoliche, le Caritas, le parrocchie, sono state chiamate a piantare alberi e poi a prendersene cura per alcuni anni, finché la pianta non sia abbastanza robusta». Il sacerdote, attualmente basato a Ihosy (dove la carestia di questi mesi morde più forte) ci dice inoltre che le Caritas diocesane sono impegnate sul fronte dei diritti umani e dell’educazione.

Uno strumento molto utilizzato sono le radio diocesane. «La capostipite è Radio don Bosco della capitale, ma oggi se ne trova una in ogni diocesi, tranne due. Trasmettiamo i giornali radio, poi le informazioni locali, facciamo formazione, parliamo di ambiente, scuola, lingua, salute ed educazione civica, come anche di lotta alla corruzione e di preparazione alle elezioni». Padre Attilio è stato per 20 anni direttore della Radio Avec di Ihosy.

Gli chiediamo a che punto, secondo lui, osservatore esterno ma non troppo, è la democrazia in Madagascar.

«In Madagascar la democrazia la si vende a buon mercato, però non esiste. Possiamo dire che qui ha un senso diverso. Esiste un’organizzazione ancestrale, tradizionale, dove ci sono i re, mpanjaka (sulla costa est), che dirigono la società, un sistema al di fuori e al di sopra di quello che può essere il governo, l’amministrazione all’occidentale. È quello che tiene in piedi la struttura sociale malgascia. Con l’indipendenza è venuta la democrazia, e siccome cambia ogni volta che c’è un presidente nuovo, di fatto, la democrazia non è mai esistita. Il presidente fa quello che vuole e poi sovente esagera e viene mandato via. Io ho assistito ad almeno quattro rivoluzioni dal ‘72 in avanti.

Il sistema dei capi villaggio è molto forte. Sono persone che hanno un’autorità che viene dalla famiglia o dalla tribù. Democrazia è una parola che non è vissuta e non entra nella mente dei malgasci».

Marco Bello


Cronologia essenziale

Nella terra dei lemuri

1886, agosto. Il Madagascar è attaccato da navi da guerra francesi (1883). La regina Ranavalona III si rifiuta di abdicare, ma viene mandata in esilio ad Algeri. L’isola è ufficialmente colonia della Francia.

1960. Indipendenza dalla Francia, che tuttavia rimane molto presente. Philibert Tsiranana è il primo presidente della repubblica. Costretto a dimettersi nel 1972 dai militari.

1975. Didier Ratsiraka, ex militare, già ministro degli Esteri, diventa capo di stato. Attua riforme di tipo socialista.

1991. Accordo tra forze politiche su terza repubblica, ma Ratsiraka non vuole lasciare il potere. Disordini e blocco della capitale.

1993. Elezioni, viene eletto il professor Albert Zafy, dell’opposizione. Sarà costretto a dimettersi per accuse di abuso di potere e rapporti con i trafficanti di legname e animali.

1997. Ratsiraka si ricandida e vince le elezioni.

2002. Alle elezioni vince Marc Ravalomanana, imprenditore dello yogurt. Ratsiraka non accetta il risultato e si asserraglia nella città costiera di Toamasina. Marc è riconosciuto a livello internazionale.

2006. Marc Ravalomanana è rieletto, ma c’è malcontento. Andry Rajoelina, 34 anni, sindaco della capitale, cavalca la protesta.

2009, 24 gennaio. Durante uno sciopero generale e successive manifestazioni, la polizia spara sulla folla. I morti ufficiali sono 88. Nel febbraio Andry chiede le dimissioni del presidente, ci sono altri scontri e 30 morti. Si inseriscono i militari.

2009, 17 marzo. Il presidente rimette il suo mandato nelle mani di un direttorio militare. Questo nomina Andry presidente di transizione.

2009, agosto. Ciclo di negoziati a Maputo (Mozambico) per risolvere la crisi. Partecipano i quattro presidenti. Trovato un accordo, che però non sarà rispettato da Andry.

2011, settembre. Andry firma una road map per uscire dalla crisi e a novembre si forma un governo di unità nazionale con gruppi dell’opposizione.

2013, dicembre. Hery Rajaonarimampianina vince le elezioni.
I deputati tentano di destituirlo nel 2015 ma la Corte costituzionale rifiuta.

2015, dicembre. Elezioni senatoriali a sei anni dalla dissoluzione del senato per il golpe.

2018, dicembre. Andry Rajoelina vince di nuovo le elezioni e diventa presidente.

Ma.Bel.

 


Incontro con monsignor Rosario Vella

Religioni sorelle, chiese amiche

Monsignor Rosario Vella è salesiano, originario di Canicattì (Agrigento). Missionario in Madagascar dal 1981, dal 2007 al 2019 è stato vescovo di Ambanja (Nord Ovest). Dal luglio 2019 è vescovo di Moramanga (Centro Est).

Mons. Vella, ci parli della chiesa in Madagascar.

© AfMC

«La presenza della chiesa cattolica si può dividere in due zone: gli altipiani centrali, dove si arriva al 40% di cattolici, e le coste, dove siamo il 5-10%. Le statistiche nazionali parlano del 25%. Quindi la chiesa cattolica è minoranza, ma ha una valenza molto forte nella società. Da sempre è stata molto ben accettata dalla gente, perché la missione in Madagascar, è stata concepita come buona novella del Vangelo, ma anche per migliorare la vita concreta delle persone. La chiesa è stata sempre molto attiva nei diversi campi: la sanità, costruendo dispensari, l’educazione, le scuole cattoliche hanno i migliori risultati e avvicinano tante persone. Chi frequenta non sono solo i cattolici, anzi. Nelle zone dove sono stato io, i cattolici erano al massimo il 15% degli alunni. Gli altri erano di religione tradizionale, protestanti e musulmani.

Inoltre la chiesa ha fatto strade, appoggiato attività agricole, animazione dei villaggi. I sacerdoti fanno tanto nel territorio in cui lavorano. È una chiesa missionaria proprio come la vuole Francesco, ovvero di pastori che hanno l’odore delle pecore addosso e si inseriscono nel tessuto umano della società, da una parte in modo semplice ma dall’altra molto efficace».

Che relazioni ci sono con le altre religioni?

«Il popolo malgascio accetta tante cose, ha una mentalità che vuole essere solidale con tutti. Questo è un grandissimo aiuto di fondo. Non c’è quasi nessun problema tra i fedeli delle varie religioni, tra cristiani e con gli islamici.

La religione tradizionale vive l’armonia con Dio, con il creato e con le persone. Sono valori radicati nell’animo della gente, e sono anche valori cristiani. L’unione con Dio creatore. Noi lo chiamiamo il Dio di Gesù, anche per loro è un Dio creatore. L’armonia con la natura è la stessa che viviamo noi. L’armonia con la gente corrisponde all’amore per il prossimo. Sono cose che legano le religioni tradizionali e la religione cattolica. Noi ci troviamo bene con tutti, quando c’è una festa siamo accolti. Quando vado in un villaggio, a celebrare, all’accoglienza ci sono tutti. Quando andiamo in chiesa, sono in molti, di altre religioni, a partecipare alla messa, alle conferenze, alla catechesi, agli incontri. Proprio perché c’è questa unità, che è una cosa molto bella».

E la chiesa locale?

«Le vocazioni in Madagascar sono tante, dal punto di vista maschile e anche femminile. Le suore hanno un grande sviluppo e vocazioni solide. Abbiamo tante suore giovani, con molto entusiasmo, ma anche saggezza, ardore, nel mettere in pratica l’evangelizzazione con tutti gli aspetti sociali.

Le diocesi del centro, degli altipiani, sono già solide e hanno tanti sacerdoti. Quelle delle coste, essendo i cristiani pochi, sono più deboli e c’è bisogno di un grande sostegno e di tanti missionari. Non è solo una questione di quantità, ma anche di essere una chiesa universale. In una diocesi ci sono malgasci e missionari di tante nazionalità diverse che arrivano da Francia, Italia, Polonia, Spagna, altri paesi europei, ma anche dall’America Latina e iniziano a venire anche dall’Africa. Una varietà che crea uno scambio di esperienze e dà testimonianza che l’essere insieme, in Gesù, è possibile.

Inoltre i seminari sono pieni, e anche le chiese. Questo ci fa dire che la chiesa qui è molto viva e vivace. Durante il periodo della pandemia, la gente voleva pregare. Lo stato ha cercato di bloccare o ridurre, ma poi era impossibile mettere delle barriere».

Marco Bello

 La prima puntata sul Madagascar è stata pubblicata sul numero di  MC giugno 2020.

 




Niger: Sulle tracce di Boko Haram

testo e foto di Luca Salvatore Pistone |


L’estremo Est del paese, vicino al lago Ciad, vive da anni un’emergenza umanitaria. Qui i jihadisti di Boko Haram fanno incursioni dalla vicina Nigeria. Molti villaggi sono stati distrutti e la gente vive nei campi di sfollati.

Mussa si asciuga il sudore con uno straccio. «Mia cugina Jamilah è uscita di notte dalla tenda e non è più tornata. Sono passati tre giorni, è finita nelle mani dei Bons hommes». Al suono delle parole Bons hommes, la platea di bambini che si è radunata alle nostre spalle comincia a urlare a squarciagola una canzone il cui ritornello fa: «Bons hommes non osate venire qui, i piccoli di Assaga Niger e Assaga Nigeria vi prenderanno a pugni». C’è chi la canta in lingua haussa, chi in kanourì e chi in peul.

«Bravi uomini»: è così che i bambini del campo per profughi e sfollati di Assaga chiamano i membri di Boko Haram (locuzione haussa il cui significato è «l’istruzione occidentale è proibita», cfr. MC ottobre 2016), il gruppo terroristico nigeriano che si fa chiamare anche Stato islamico dell’Africa Occidentale, confermando l’affiliazione ai ben più potenti e mediatizzati cugini dello Stato islamico.

Per fare esorcizzare loro il mostro, le Ong attive nel campo li hanno muniti di fogli e pennarelli sui quali sono ritratti omoni grandi e grossi con fucili e machete, donne kamikaze con lunghe vesti che coprono l’esplosivo, taniche di benzina per dare fuoco a chiese, scuole e mercati e una marea di cadaveri.

Terra di confine

Il campo profughi di Assaga si trova a una ventina di chilometri da Diffa, una poverissima città del Sud Est del Niger, al confine con la Nigeria. Ho scelto Diffa come base per muovermi nella regione martoriata dai Bons hommes. È il terzo giorno consecutivo che vengo al campo, che tra sfollati nigerini e profughi nigeriani ospita un numero imprecisato di persone. Sicuramente diverse migliaia.

La tendopoli prende il suo nome da un piccolo villaggio di frontiera raso al suolo dai jihadisti. Si estende per quasi un chilometro ai lati dello stradone asfaltato che conduce all’aeroporto di Diffa. Da una parte c’è Assaga Niger, terra di sfollati nigerini, e dell’altra Assaga Nigeria, dei profughi nigeriani. Una divisione ormai interiorizzata dai locali. Così, quando qualcuno attraversa la strada, magari per acquistare del latte in polvere in una delle bancarelle sorte come funghi, esclama: «Vado all’altra Assaga, torno presto».

Abbandonando il loro villaggio natale, le vittime di Boko Haram speravano di trovare nel campo di Assaga un posto sicuro dove sopravvivere. Ma la realtà è un’altra: l’accampamento viene preso di mira dai miliziani, perché a difesa diretta della struttura non c’è nessuno. Le infiltrazioni, al fine di reclutare nuove forze, sono prassi comune. Spesso all’appello manca qualcuno o perché misteriosamente ucciso o perché rapito. Nel secondo caso le vittime sono soprattutto donne. Mancano servizi igienici e corrente elettrica, e così, di notte, per fare i propri bisogni, occorre allontanarsi ed esporsi a pericoli. Proprio come accaduto a Jamilah, la cugina di Mussa.

«Se non l’hanno sgozzata – è certo Mussa – l’hanno fatta loro schiava». Sul versante nigeriano di Assaga, Mussa ha visto la morte in faccia. «Ci avevano radunati tutti davanti al pozzo. Ci accusavano di essere dei traditori, di avere denunciato la loro presenza alle autorità. Ma non era vero. Hanno imbracciato i fucili e hanno iniziato a spararci contro, all’altezza della testa. Quel giorno sono morte almeno venti persone. Quei Bons hommes erano ragazzi dai quattordici ai vent’anni». Mussa è riuscito a scappare riportando però una profonda ferita sul fianco, frutto di un rapido incontro con la lama del machete di un jihadista.

Nigeriano o terrorista?

Una giovane donna si fa avanti. Si chiama Atikah, è anche lei nigeriana e vuole parlare. «La prima volta che vennero a casa nostra mi chiesero perché mio marito non fosse in moschea. Io risposi loro che non lo sapevo e se ne andarono via. Vennero una seconda volta. Risposi la stessa cosa. Alla terza risero, con un’espressione crudele in volto. Mi presero di forza e mi condussero in moschea. Lì mi fecero trovare mio marito, morto, con la gola tagliata».

Il terrore che la gente prova per Boko Haram si sta mutando in fobia. I rifugiati nigeriani, specialmente i più giovani, sono sospettati di essere terroristi perché provengono dalla loro stessa terra. Zainab, vent’anni, teme di essere diventata vedova: «Mio marito andava al mercato di Diffa per acquistare della frutta da rivendere qui al campo. Alcuni venditori ambulanti avevano iniziato a stuzzicarlo, a dirgli che, in quanto nigeriano, era certamente un terrorista. Poi due settimane fa uno di loro ha chiamato un poliziotto e questo lo ha arrestato e portato via. Da quel giorno non ho più sue notizie».

Diffa ha un solo alleato che tutti chiamano rivière Komadugu Yobé, un fiumiciattolo che nasce dal lago Ciad, si dirama fra piccoli arbusti e sabbia e aumenta sensibilmente la propria portata nella stagione delle piogge. Per circa 150 chilometri costituisce la frontiera fra Nigeria e Niger. Quando cominciano le piogge e il Komadugu Yobé sale, gli attacchi di Boko Haram diminuiscono.

Ma in queste settimane, di pioggia non se ne parla, e i jihadisti sono sempre in agguato, pronti ad attraversare il Komadugu Yobé a piedi e a lanciare rappresaglie di ogni sorta. L’intera regione è tenuta d’occhio dalle spie di Boko Haram che, oltre che per l’efficienza del proprio sistema d’intelligence, spicca per una notevole capacità persuasiva, basata sulla repressione di chi osa tradire la setta.

Lo stato ci prova

L’esercito nigerino di stanza a Diffa è costituito in maggioranza da giovani soldati male equipaggiati, spediti al fronte senza un buon addestramento. La paga mensile di un soldato non arriva ai 100 euro. Poco se si pensa che Boko Haram promette uno stipendio cinque volte maggiore.

Prima dell’arrivo di Boko Haram, il motore dell’economia regionale erano le coltivazioni di pepe. Poi sono cominciati a spuntare fucili e munizioni nascosti nel retro dei camion carichi della spezia, difficili da controllare senza metal detector di cui gli apparati di sicurezza nigerini sono sprovvisti.

Boko Haram riscuote delle tangenti sul passaggio di coloro che transitano nei territori da esso controllati. Per questo il governo di Niamey ha dichiarato a Diffa lo stato d’emergenza, con il divieto di alcune coltivazioni che avvantaggiano Boko Haram (il pepe) o che, impiegando piante a stelo alto, consentono ai terroristi di nascondersi (il mais). Altra misura preventiva è il divieto assoluto dell’utilizzo di motocicli, mezzi prediletti di Boko Haram per gli attacchi rapidi e kamikaze, oltre che diffusissimi a Diffa. Un provvedimento che ha messo definitivamente in ginocchio la già misera economia locale dal momento che quello del mototassista è uno dei lavori più diffusi.

Gocce di cristianesimo

È domenica e mi dirigo alla chiesa evangelica della «Vita abbondante». Insieme a quella cattolica è una delle due uniche comunità cristiane di Diffa: in tutto un centinaio di credenti. A indicarmi Godiya, la cui storia mi è stata raccontata da un suo conoscente, è il guardiano della parrocchia. È bellissima nel suo sfarzoso abito viola. Canta nel coro e in alcuni passaggi fa la prima voce sfoggiando le sue doti canore.

Per poterla avvicinare attendo che la funzione finisca. Trascorrono almeno due ore tra sermoni, musiche e balli che tengono alto il morale dei partecipanti, tutti elegantissimi.

Godiya ha vent’anni, è nigeriana e la sua città natale è Maiduguri, proprio dove nel 2002 nacque Boko Haram. Si è trasferita coi suoi cari a Diffa per fuggire all’assedio jihadista. «La tragedia della mia famiglia avvenne cinque anni fa. Uscii in cortile e vidi mio padre per terra, picchiato da due ragazzi più giovani di me. Cercava di difendersi dai loro pugni e calci. Gli rubarono i soldi e il cellulare. Corsi da mia madre gridando a squarciagola. “Aiuto! Aiuto! Stanno uccidendo papà!”. Mamma si mise a strillare insieme a me, ma quei due ci puntarono contro una pistola. Poi spararono tre colpi a mio padre. Nessuno venne in nostro soccorso». Godiya ha saputo in seguito che quei due giovani erano di Boko Haram. Tuttavia, non ha mai capito se avessero ucciso suo padre in quanto cristiano o perché aveva opposto resistenza durante il furto.

Vittime «collaterali»

È ancora mattino presto quando atterro a Niamey, la capitale. Prendo un taxi e mi faccio lasciare al carcere minorile maschile, in pieno centro. Al suo interno, tra spesse e alte mura di terra battuta, si trovano una cinquantina di ragazzi accusati di far parte di Boko Haram, e da mesi in attesa di giudizio. Il direttore della prigione non vuole correre il rischio di un «contagio» tra i comuni detenuti e così i presunti terroristi, identificati con la sigla Eafga (Bambini associati a forze e gruppi armati), hanno un’ala tutta per loro.

Durante il giorno, complice il caldo asfissiante, i ragazzi se ne stanno tranquilli sdraiati all’ombra. Sporadicamente scatta una rissa, subito soffocata dall’intervento dei secondini. La posta in gioco è troppo alta: chi sgarra non ha diritto all’ora di attività sportiva, ovvero alla partitella di calcio. Quando alle cinque di pomeriggio lo psicologo del penitenziario tira fuori dalla tasca il foglio con la lista dei più meritevoli, nel braccio dei sospetti Boko Haram cala un silenzio di tomba. Tutti si mettono sull’attenti nella speranza di sentire pronunciare il proprio nome.

«A tutti i nostri giovani piace il calcio – dice lo psicologo -. Qui è l’unico sfogo che hanno. Durante la partita abbiamo modo di renderci conto di chi sono i ragazzi con i caratteri più violenti. Una volta individuati, spiego loro che devono cambiare atteggiamento. Non dispongo di prove certe del fatto che ci siano membri di Boko Haram. Sono mesi che attendono il processo e solo Allah sa quando avverrà. La mia opinione? Solo pochi di loro, volenti o nolenti, hanno avuto contatti con i terroristi».

I detenuti selezionati dallo psicologo si mettono in fila indiana per uscire dal recinto in cui mangiano, si lavano e dormono. Appena fuori, un secondino li fa sedere per terra per la conta. A fatica i ragazzi riescono a contenere l’entusiasmo che solo un pallone può dare. E non fa niente che le linee del campo siano fatte con delle pietre e che le porte siano arrugginite e senza reti. Giocare a piedi scalzi non è un problema.

La situazione di questi detenuti, quasi tutti originari di Diffa, è molto delicata. Spesso non sanno neanche perché si trovino qui. La politica della «tolleranza zero» adottata dall’esercito e dalla polizia nigerini si è tramutata in continui arresti arbitrari. «Sono nato e cresciuto in un villaggio vicino a Diffa. I miei genitori sono morti quando ero piccolo, non li ricordo. Facevo l’apprendista saldatore, ma di lavoro non ce n’era, così mi sono messo a vendere biscotti per strada». Hamidou ha quindici anni ed è rinchiuso a Niamey da un paio di mesi. «Una sera al villaggio sono arrivati dei soldati che si sono messi a perquisire tutto e tutti. Indossavo una maglietta di colore verde militare che avevo trovato per strada. Mi hanno picchiato, bendato gli occhi e caricato su un furgone. Dopo alcune ore mi sono ritrovato nella prigione di Diffa. Poi mi hanno portato qua».

Mamadou ha diciassette anni ed è nato nella regione di Borno, nel Nord Est della Nigeria. «Sono stato avvicinato diverse volte dai terroristi, volevano diventassi uno di loro. Un giorno mi dissero che per me avevano in mente una “missione sacra”. Volevano farmi esplodere all’aeroporto di Diffa. Raccontai tutto alla mia famiglia e il giorno dopo scappammo in Niger». In «salvo» a Diffa, però, Mamadou ha commesso un grave errore: rivelare la sua storia ai nuovi vicini di casa. «Hanno spifferato tutto ai poliziotti e quelli mi hanno creduto uno di Boko Haram. Mi hanno arrestato e condotto qui. Nessuno vuole dirmi che fine farò, non ho notizie dei miei genitori. Lo giuro, sono innocente».

Si sta facendo buio e l’orario di visita è terminato. Alcuni ragazzini mi pregano di tornare con notizie fresche su Cristiano Ronaldo e Messi. Rispondo loro che l’indomani dovrò fare ritorno in Italia. Nessuno è sicuro di dove si trovi il nostro paese. «Ma lì si gioca a calcio?», ci chiede uno che indossa la maglia del Milan col numero 8 di Gattuso.

Luca Salvatore Pistone

ARCHIVIOMC
• Marco Bello, Califfato made in Africa, MC 10/2016.
• Marco Bello, Occidente proibito, nell’ambito del dossier Jihad Africana, MC 11/2012.




Palestina. Senza odio né violenza

testo e foto di Operazione Colomba |


Le famiglie palestinesi delle colline a Sud di Hebron sono ancora lì. Nonostante le violenze quotidiane, anche sui bambini, subite da decenni da parte di esercito e coloni israeliani. Resistono, a difesa delle proprie terre e identità. Condividono la loro lotta nonviolenta i volontari di Operazione Colomba.

È il 2004 quando un gruppo di militanti israeliani, i Ta’ayush1, propongono ai volontari di Operazione Colomba di visitare le colline a Sud di Hebron, in Cisgiordania.

Lì, un comitato popolare locale di palestinesi ha richiesto la presenza di attivisti internazionali per monitorare l’accompagnamento a scuola dei bambini. Lungo la strada per arrivare a lezione, infatti, gli studenti palestinesi sono oggetto di violenze da parte dei coloni israeliani insediati nella zona.

Il villaggio di At-Tuwani si trova nell’area conosciuta come Massafer Yattaad. È il più grande della zona, con circa 300 abitanti. Quando vi arrivano, i volontari del Corpo nonviolento di pace dell’associazione Papa Giovanni XXIII hanno già due anni di esperienza di Palestina. Sono stati in Cisgiordania (West Bank), vicino a Ramallah, a sostegno delle comunità palestinesi private delle proprie terre a causa della costruzione del muro di separazione tra Israele e i Territori occupati. Prima ancora sono stati nella Striscia di Gaza, durante la Seconda Intifada nel 2002.

L’unica via per la pace

Operazione Colomba è nata nel 1992, dal desiderio di alcuni volontari e obiettori di coscienza di vivere concretamente la nonviolenza in zone di guerra.

Inizialmente ha operato nell’ex Jugoslavia, e negli anni a seguire ha aperto presenze stabili in diversi scenari di conflitto, dai Balcani all’America Latina, dal Caucaso all’Africa, dal Medio all’estremo Oriente, coinvolgendo oltre 2mila volontari uniti dalla determinazione di sperimentare nella propria vita la nonviolenza, l’unica via per ottenere una pace vera, fondata sulla verità, la giustizia, il perdono e la riconciliazione.

Vivere in Area C

Il villaggio di At-Tuwani si trova in Area C, tra la città di Yatta e la Green line, quello che dovrebbe essere il confine tra Israele e i Territori palestinesi occupati.

Secondo gli accordi di Oslo, la Cisgiordania è divisa in tre Aree denominate A, B, e C. In particolare, l’Area C, che copre circa il 61% dell’intero territorio della Cisgiordania, è sotto il controllo civile e militare di Israele. Questo significa che i palestinesi non possono costruire nulla, se non con un permesso rilasciato dalle autorità israeliane, e che le loro terre possono essere confiscate.

È proprio in merito a questi poteri che nel 1999 la zona a Sud di Yatta è stata dichiarata area di addestramento militare (Firing zone 918) dall’amministrazione israeliana. Tale dichiarazione ha portato al trasferimento forzato di tutti gli abitanti palestinesi viventi nell’area, circa 700 persone di dodici villaggi, che sono stati caricati su camion militari e portati altrove mentre le ruspe distruggevano le tende e le grotte in cui avevano vissuto.

Dopo sei mesi, grazie a un procedimento portato avanti da avvocati israeliani, e in seguito a una decisione dell’alta corte di Giustizia israeliana, i palestinesi sono potuti tornare nei propri villaggi, senza però che vi fosse prima stato un formale smantellamento della zona di addestramento militare, che ancora oggi minaccia la vita degli abitanti.

Oltre all’occupazione militare, è andata crescendo negli anni anche quella civile, con le espansioni degli insediamenti israeliani e la nascita di nuovi avamposti, abitati da coloni nazional religiosi che, per mezzo di attacchi fisici anche molto violenti, impediscono ai palestinesi gli spostamenti e l’accesso alle proprie terre. Gli avamposti, come anche le colonie, sono peraltro considerati illegali, non solo dal diritto internazionale ma perfino dallo stesso ordinamento israeliano.

Resistenza nonviolenta

La scelta più semplice per i palestinesi delle colline a Sud di Hebron avrebbe potuto essere quella di lasciare le proprie terre per vivere una vita più sicura in città, oppure di abbandonarsi alla violenza – come talvolta capita quando non si ha più speranza nella vita -. Invece, questi semplici pastori e contadini, hanno deciso di restare e di lottare per difendere i propri diritti. Alcuni abitanti di At-Tuwani, allora, sotto la guida di uno di loro, Hafez Hureini, si sono uniti in un comitato popolare per trovare assieme il metodo più efficace per resistere alle ingiustizie.

È nata così la loro resistenza popolare nonviolenta.

Si tratta di una forma di lotta dal basso in cui le famiglie e i villaggi si uniscono per difendere una terra che è di tutti, senza ingerenze politiche, valorizzando il ruolo di ognuno, dalle donne, ai bambini, agli anziani.

Quando un terreno è minacciato, è terra di tutti; quando un giovane viene arrestato, è il figlio o il fratello di tutti.

La nonviolenza chiede ogni giorno di non guardare l’oppressore come un nemico, ma come un essere umano che sta sbagliando. Chiede di denunciare con forza l’ingiustizia, senza odiare chi la compie.

Lo scopo non è schiacciare l’altro, ma includerlo nella ricerca di una soluzione condivisa.

L’obiettivo della lotta popolare è il riconoscimento dei palestinesi come esseri umani portatori di diritti umani inalienabili.

Nella pratica, il comitato popolare delle colline a Sud di Hebron, organizza manifestazioni e azioni nonviolente, supporta i contadini e i pastori nell’accesso quotidiano alle loro terre, e promuove numerose iniziative per garantire servizi essenziali come l’acqua potabile, la corrente elettrica, la costruzione di scuole e di cliniche mediche.

Negli anni la resistenza nonviolenta ha raggiunto risultati incredibili: dallo smantellamento del muro nel 2006 che avrebbe distrutto la vita delle comunità, all’approvazione di un piano regolatore che riconosce l’esistenza del villaggio principale dell’area, At-Tuwani. Vittorie importanti, che però non sono sufficienti in una quotidianità di oppressione come quella dell’occupazione militare.

Accompagnare i bambini

In questa realtà, Operazione Colomba si è stabilita ad At-Tuwani, inizialmente con il compito di accompagnare i bambini all’unica scuola presente nell’area. Per raggiungerla, i bambini dei due villaggi di Tuba e Maghayir Al Abeed, ancora oggi, devono percorrere una strada che passa tra la colonia israeliana di Ma’on e l’avamposto di Havat Ma’on.

Dati i frequenti attacchi da parte dei coloni su quella strada, i bambini avevano iniziato a fare un percorso alternativo che li costringeva però a camminare ogni giorno circa 2 ore e mezza, rischiando comunque la violenza degli israeliani.

Nel 2004, durante un accompagnamento di bambini sulla strada più breve, quattro attivisti internazionali sono stati brutalmente attaccati e feriti dai coloni. L’episodio ha ottenuto un’attenzione mediatica così ampia che la commissione per i Diritti dell’infanzia della Knesset (il parlamento israeliano) ha deciso di riconoscere una scorta militare ai bambini che ogni giorno li accompagnasse nel tragitto da casa a scuola.

Dal 2004, Operazione Colomba monitora questo servizio per denunciarne le mancanze e i continui ritardi. Infatti, spesso la scorta militare non si presenta, lasciando i bambini ad aspettare, a volte per ore, in una zona estremamente pericolosa, esponendoli al rischio di essere attaccati. Inoltre questi ritardi portano anche a perdere ore scolastiche, che non vengono recuperate, ledendo ulteriormente il diritto all’istruzione degli alunni.

Qualora la scorta non si presenti, sono gli stessi volontari a ricoprire la sua funzione, accompagnando i bambini e condividendo con loro il rischio degli attacchi da parte dei coloni, che spesso approfittano dell’assenza dell’esercito.

 

Documentare le violenze

Come stile di vita, i volontari di Operazione Colomba hanno scelto la piena condivisione della quotidianità del villaggio, vivendo al suo interno, nello stesso modo in cui vivono i palestinesi.

Tra le attività di cui si occupano, l’accompagnamento dei pastori e delle famiglie sulle loro terre è la più importante. Poiché le terre spesso si trovano vicino a colonie e avamposti israeliani, i volontari documentano con foto e video le loro violazioni e, quando se ne presenta la necessità, s’interpongono tra i palestinesi e i coloni armati.

A questa attività, che occupa la maggior parte della giornata di un volontario, si aggiungono tutte le situazioni classificabili come emergenze. Tra esse, ad esempio, il monitoraggio dei checkpoint mobili, improvvisati lungo la strada dai militari israeliani, troppo spesso luoghi di violenze e umiliazioni nei confronti dei palestinesi; il monitoraggio delle demolizioni di abitazioni o di strutture per animali, strade e tubature per acqua potabile.

I volontari osservano e documentano arresti e violenze perpetrate dalle forze armate israeliane o dai coloni: la documentazione tramite video e fotocamere (spesso condivisa sulla pagina Facebook di Operazione Colomba) è fondamentale per poter denunciare e mettere l’opinione pubblica a conoscenza delle violazioni dei diritti umani che avvengono.

Attivisti israeliani per i palestinesi

Fortunatamente, a supportare la resistenza nonviolenta delle colline a Sud di Hebron, non ci sono solo i volontari internazionali: fin dal 1999 è stata costante la presenza di attivisti israeliani.

La loro azione è basilare sia negli accompagnamenti dei contadini sui loro campi che nelle azioni legali che vengono promosse da avvocati israeliani.

Opporsi alle ingiustizie perpetrate dal proprio paese, dal proprio esercito, non è affatto facile, e ha un costo molto alto: spesso gli attivisti vengono identificati come traditori della patria, sono emarginati e perseguitati. La loro scelta implica molta solitudine e talvolta il carcere, come succede per i giovanissimi che rifiutano il servizio militare per obiezione di coscienza.

 

Nonviolenza ereditaria

Nel corso degli anni, i volontari di Operazione Colomba ad At-Tuwani hanno visto crescere una nuova generazione di giovani che s’impegna e che diviene progressivamente consapevole del valore della resistenza popolare nonviolenta. I frutti di questa trasmissione intergenerazionale si riconoscono nella nascita del presidio di Sarura, e di Youth of Sumud2, un gruppo di azione nonviolenta.

Era il maggio 2017 quando alcuni attivisti israeliani, insieme ai giovani palestinesi delle colline a Sud di Hebron – figli di coloro che quasi vent’anni prima avevano iniziato la resistenza nonviolenta -, si sono stabiliti a Sarura, un villaggio abbandonato negli anni ’90 a causa della violenza dei coloni. La loro intenzione era di ristrutturare le grotte dell’ex villaggio e di riportarvi le famiglie a viverci.

Telecamera alla mano, hanno iniziato anche ad affiancare i volontari di Operazione Colomba nelle loro attività giornaliere: accompagnamenti dei bambini e dei pastori, e documentazione di checkpoint e di demolizioni.

Non è stato facile mantenere una presenza stabile a Sarura: le vessazioni da parte dei coloni e dell’esercito sono state continue, ma i giovani di Youth of Sumud hanno continuato la resistenza nonviolenta restaurando una prima grotta, dove ora è tornata a vivere la famiglia proprietaria.

In una Palestina in cui i villaggi vengono evacuati e distrutti, nelle colline a Sud di Hebron, un villaggio abbandonato è rinato ed è tornato in vita, grazie all’impegno di questi ragazzi.

Essere la loro voce

Negli ultimi anni, i volontari di Operazione Colomba hanno iniziato a visitare altre aree oltre al villaggio di At-Tuwani, accompagnando e supportando le comunità palestinesi in lotta anche altrove nella Cisgiordania occupata, ovunque ce ne sia bisogno.

Una realtà che ricorda molto le colline a Sud di Hebron di quindici anni fa, è quella delle comunità di pastori che vivono nella valle del Giordano. Circa l’86% del suo territorio è, infatti, area C, e la presenza di colonie e avamposti israeliani è massiccia, così come la presenza di aree dichiarate zone militari e di riserve naturali, sotto la piena giurisdizione israeliana.

Tutto ciò porta al trasferimento forzato di intere comunità palestinesi, costrette ad andarsene dalle proprie case.

Nel 2019, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato l’intenzione di annettere parte della valle del Giordano entro il 2020, operazione per ora sospesa.

Grazie all’aiuto di attivisti israeliani, i volontari di Operazione Colomba hanno iniziato a visitare le comunità della zona, mettendo a disposizione la propria esperienza. In particolare, nell’ultimo anno hanno iniziato a dormire in un villaggio e ad accompagnare i pastori della zona, ripercorrendo le fasi di conoscenza reciproca e di creazione di un rapporto di fiducia simili a quelle degli inizi della presenza ad At-Tuwani.

Spesso le storie di resistenza e nonviolenza rimangono nascoste e silenziose. I palestinesi di At-Tuwani sono persone normali, che fanno vite semplici, ma che si sono trovate loro malgrado vittime di un’oppressione, e hanno deciso di lottare per i propri diritti e la giustizia.

Kifah Adara, una donna del villaggio, ogni volta che qualcuno dei volontari parte per ritornare in Italia, chiede di raccontare quello che ha visto in Palestina, di essere la loro voce amplificata. Ed è questo il nostro augurio: che possiamo sempre essere megafono dei popoli che chiedono giustizia.

Volontari di Operazione Colomba

Note:

1- Organizzazione di israeliani e palestinesi che lottano insieme, attraverso un’azione diretta nonviolenta quotidiana, per porre fine all’occupazione israeliana dei Territori palestinesi e per raggiungere la piena uguaglianza civile. www.taayush.org

2- www.facebook.com/youthofsumud

Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII

L’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII è un’associazione internazionale di fedeli di diritto pontificio. Fondata nel 1968 da don Oreste Benzi, è impegnata da allora, concretamente e con continuità, nel contrasto all’emarginazione e alla povertà. La Comunità lega la propria vita a quella dei poveri e degli oppressi e vive sempre con loro, ogni giorno.

Attraverso lo strumento della condivisione diretta con gli emarginati, i membri di Comunità non possono chiudere gli occhi davanti alle ingiustizie e anzi lavorano incessantemente per la loro denuncia e rimozione.

Oggi la Comunità siede a tavola, ogni giorno, con oltre 41mila persone nel mondo, grazie a più di 500 realtà di condivisione tra case famiglia, mense per i poveri, centri di accoglienza, comunità terapeutiche, Capanne di Betlemme per i senzatetto, famiglie aperte e case di preghiera. La Comunità opera anche attraverso progetti di emergenza umanitaria e di cooperazione allo sviluppo in molti paesi del mondo.

Infine, è presente nelle zone di conflitto con il proprio Corpo nonviolento di pace Operazione Colomba.

Complessivamente è presente in una quarantina di paesi nei cinque continenti.

Dal 2006 la Comunità Papa Giovanni XXIII è anche presente all’Onu con un ruolo consultivo speciale presso l’Ecosoc (consiglio Economico e Sociale dell’Onu), rendendosi portavoce degli ultimi del mondo, nel foro in cui i leader internazionali prendono le decisioni sulle sorti dell’umanità.

Grazie alla forza dei suoi membri, dei volontari e dei suoi sostenitori, la Comunità Papa Giovanni XXIII porta avanti il grande progetto di solidarietà del suo fondatore: essere famiglia per chi non ce l’ha.

www.apg23.orgwww.operazionecolomba.it

www.facebook.com/OperazioneColomba


Vite che non si arrendono

La prossimità alle persone che vivono in zone di conflitto, o ci hanno vissuto, ha due facce: quella della vicinanza lì (in Palestina, Siria, Libano, Iraq); e quella dell’accoglienza qui, in Italia. Due amici ce le raccontano attraverso 24 storie di incontri. In Cisgiordania come a Torino, ciò che emerge è la speranza di chi resiste, la resilienza dell’umanità.

Fatima vive ad Aleppo, una città distrutta dalla guerra. Ha tre bambini che mostrano i segni della malnutrizione. Accudisce una sorella disabile. Suo marito è morto per un’esplosione. Lei guadagna qualcosa vendendo oggetti che recupera in giro, tra le macerie. A volte trova bombe inesplose che smonta per venderne i pezzi. Disfa ordigni di morte per ricavarne cibo e vita.

Aisha è una giovane somala sbarcata a Lampedusa tempo fa. Dopo anni dalla fuga, sente ancora ogni tanto dentro sé i morsi delle violenze viste e subite.

Le loro sono storie difficili, e Alessandro Ciquera e Marco Canta ce le raccontano trasmettendoci la speranza e la forza di cui sono pervase. Oltre a Fatima e ad Aisha, ci presentano Arsema, ragazza etiope in cerca di casa in Italia; i figli di Hafez che piangono mentre il padre viene portato via dalla polizia militare israeliana; Ola e il suo fratellino, siriani malati di talassemia, profughi in Libano; e poi Mohammed, Karim, Abu Zahra, e altri.

Gli autori de La speranza ha il vestito azzurro, parlano di resilienza, e ce la mostrano nel racconto dei gesti quotidiani di uomini, donne e bambini.

Come Fatima, che tramuta bombe in pane, morte in vita, tutti loro fanno i conti con il male, la sofferenza, facendone il luogo della loro resistenza e, a volte, rinascita.

Alessandro ha 32 anni e fa parte dell’Operazione Colomba. A 18 anni ha fatto il suo primo viaggio in un luogo di conflitto, a Kirkuk, in Iraq, per costruire un campetto da calcio per i bambini, e da allora non ha più smesso di viaggiare per incontrare e condividere. È stato in Palestina per due anni, in Siria, in Albania, nei campi profughi siriani in Libano per tre anni.

In Italia ha lavorato in progetti educativi presso il carcere minorile di Torino, nella scolarizzazione di minori in condizioni socialmente critiche e nell’assistenza alle persone senza fissa dimora.

Da ragazzo è stato animatore, in oratorio a Grugliasco (To), dei figli di Marco.

Marco Canta ha 54 anni, si è formato nella Gioc (Gioventù operaia cristiana), è stato attivo nel Gruppo Abele, presidente della Cooperativa Orso che si occupa, tra le altre cose, di accoglienza di rifugiati, e attualmente è direttore e vicepresidente di Casa Oz, Onlus che offre accoglienza a bambini malati e alle loro famiglie che soggiornano a Torino per il periodo delle cure. È portavoce del Forum del terzo settore del Piemonte.

Alessandro, nel libro racconti di persone che non si arrendono, e che, ad esempio ad At-Tuwani, in Cisgiordania,
resistono alle ingiustizie in modo nonviolento.

«I palestinesi di At-Tuwani e dei villaggi di quell’area, da decenni vivono aggressioni sistematiche.

Loro vorrebbero solo vivere la loro vita, andare ai pascoli, coltivare, fare pozzi, costruire stalle, ma tutti i giorni sono umiliati, minacciati, ostacolati, picchiati, a volte uccisi o arrestati.

Quello che li aiuta è il senso del resistere insieme: non c’è nessuno lì che si salva da solo. Quando qualcuno è arrestato, subito fanno una colletta per gli avvocati, manifestano, chiamano giornalisti.

Quella gente desidera solo rimanere sulla propria terra.

Il fatto che dopo decine di anni di soprusi non se ne siano andati altrove, è un messaggio bello per tutti. I giovani di lì, sanno bene cosa c’è fuori del loro villaggio, però sono consapevoli della loro identità: sono nati lì, le loro famiglie abitano quelle terre da generazioni, e anche loro vi appartengono.

Ecco, in questo tenere insieme la vita normale, semplice, i piccoli gesti, la scuola, il seminare, con l’oppressione, io ci ho sempre visto qualcosa che parla del Vangelo. Lì ho imparato cosa può voler dire un’esistenza senza violenza».

Dove ti ha portato Operazione Colomba negli anni?

«Io sono legato a Operazione Colomba da quando mi sono diplomato. Ho iniziato in Palestina, dove sono stato due anni, poi sono stato in Iraq più di una volta, in Libano per tre anni, in Siria, in Albania. Sempre cercando la condivisione con le persone che vivono situazioni di sofferenza e di conflitto. Mai con l’idea di essere “l’occidentale che va lì a salvare i poveri”, ma con il desiderio di camminare insieme, di partecipare nel mio piccolo a una lotta che magari va vanti da decenni.

In Iraq la gente rischia di morire anche solo facendo gesti semplici, come andare al mercato, a messa, esprimere un pensiero. In Siria ci sono la guerra, l’obbligo del servizio militare, il rischio del carcere o di sparire, le fosse comuni, i villaggi bruciati. Ecco, in Siria ho trovato un dolore grande, e se c’è qualcosa che si può imparare da queste persone è il desiderio di non fermarsi, di rimanere in piedi: anche se vivi sotto una tenda, metti una stufetta, un fiore, un quadretto, provi a far fare i compiti ai bambini. E continui ad avere fede, a vivere la fede nelle ferite che la vita ti ha fatto incontrare».

Nel libro parli molto dei profughi siriani in Libano.

«Quello che mi ha colpito della vita dei profughi è la loro solitudine. Se vivi in un villaggio in Palestina, pur nella violenza, sei a casa tua, hai la tua casetta, le tue pecore, la tua gente. Invece il profugo ha la sensazione di essere dimenticato da tutti, che la sua vita non vale niente, e che, se oggi muore, saranno in pochi ad accorgersene, pochi o nessuno potrà venire al suo funerale, perché ha un amico in Turchia, un altro è morto, un altro fa il servizio militare, un altro è scomparso in prigione, un altro è in Europa, un altro sta provando a prendere una barca per attraversare il Mediterraneo.

Chi sei tu senza le tue relazioni? Tanti ci dicevano: “Non abbiamo nessun altro, a parte Dio e voi”».

Marco, i capitoli che raccontano gli incontri con rifugiati avvenuti a Torino e dintorni, sono tuoi?

«Sì. Il primo incontro con i rifugiati per me è stato nel 2009: sono entrato quasi per caso nell’ex clinica San Paolo di corso Peschiera a Torino che era occupata da 400 rifugiati, provenienti soprattutto dal Corno d’Africa. Quell’incontro ha cambiato la mia vita. Prima non sapevo nemmeno cosa significasse fuggire da contesti di guerra.

La proprietà dell’immobile, a un certo punto, ne aveva chiesto la restituzione, e prefettura e questura avevano deciso per lo sgombero. Da lì è nato “Non solo asilo”, un coordinamento di associazioni, che ha avviato un dialogo, e che ha ottenuto sei mesi di tempo per trovare opportunità per le persone. In poche settimane abbiamo creato una rete di comuni e associazioni che ci ha aiutati ad avviare progetti per 200 persone. Lavoravamo sul modello dell’accoglienza diffusa, e non sulle grandi strutture. La rete dello Sprar si è allargata così in buona parte del Piemonte, e ad Avigliana si è realizzato il primo Cas diffuso (centro accoglienza straordinaria), che poi ha fatto scuola in Italia».

Perché hai voluto raccontare questi tuoi incontri?

«Nel libro raccontiamo storie di persone che hanno una forza, un’energia, una capacità di resilienza tale che, se fossimo in grado di accoglierle e di renderle conosciute tra i giovani, ne avremmo giovamento tutti. Sono storie potenti.

Se pensiamo alla crisi della nostra società, ai ragazzi disillusi che non lavorano e non studiano, le storie di queste persone, che sono riuscite a superare delle tragedie enormi ricostruendo il loro futuro, danno speranza a tutti.

Una delle storie raccontate nel libro è quella di Mohammed, arrivato in Italia come minore non accompagnato. Oggi è un giovane di 22 anni, come mio figlio più grande. Se penso all’influsso positivo che lui ha avuto sui miei figli, mi è chiaro che quando riesci a superare la barriera della non conoscenza, poi accadono cose belle».

E tu Alessandro?

«Ho scritto dei miei incontri con queste persone ferite dalla vita, ma resilienti, perché quando trovi una perla preziosa, non puoi tenerla in tasca. Devi mostrarla. Non sono storie solo nostre. Abbiamo iniziato a scriverle in un tempo difficile, quando sono stati fatti i decreti sicurezza e parlare di questi temi era davvero dura. Volevamo lanciare queste storie come un salvagente».

Luca Lorusso

 




Marsabit: Da «maisha magumu» a «maisha mazuri»

testo di Giuseppe Inverardi e Gigi Anataloni |


Dal 30 ottobre scorso non abbiamo più la franca risata e gli occhi allegri di monsignor Ambrogio che è stato per 25 anni vescovo della diocesi di Marsabit in Kenya. Ora dal cielo continua l’opera di intercessione già iniziata nel santuario della Consolatrice sul monte di Marsabit.

Lo ricordo bene quel giorno. Ero in noviziato, quando il 9 febbraio 1957 ci fu comunicato che tre nostri confratelli venivano ordinati sacerdoti a Washington. Uno di loro era padre Ambrogio Ravasi. Erano stati i primi ad essere inviati a studiare teologia alla Catholic University of America. Un atto coraggioso e lungimirante da parte della Direzione generale di allora. L’interculturalità, anche teologico accademica, faceva capolino.

Ambrogio Ravasi, sacerdote, e missionario. Il sacerdozio missionario ha caratterizzato tutta la sua vita. Aveva cuore e spirito pastorale anche quando era occupato in altre attività e in uffici amministrativi. Sia a Buffalo, che a Somerset, tutti potevano contare sulla sua pronta disponibilità per vari servizi religiosi. Era gioia per lui.

Consacrazione e piscopale di mons Ambrogio Ravasi a bellusco, suo paese natale, da parte del card Otunga e dei vescovi Gatimu e Njenga dal Kenya.

Un uomo gioioso

Consacrazione episcopale di mons Ambrogio Ravasi a Bellusco.

Gioia, semplicità, serenità lo connotavano. Tutti ne venivano toccati e ne parlavano con ammirazione. Accoglieva e accomiatava con sorriso di cordialità.

Conosco pochi missionari poliedrici come lui, per obbedienza, o necessità, o carisma. Negli Stati Uniti è stato insegnante, maestro dei novizi, primo superiore e formatore del seminario di Buffalo, poi superiore delegato, quindi incaricato della direct mail (il servizio di corrispondenza con i benefattori, ndr), e anche direttore della rivista Consolata missions.

Visse un episodio drammatico come maestro dei novizi, fortunatamente senza conseguenze. Un novizio, veterano di guerra, all’improvviso impazzì. Brandendo un coltello minacciò padre Ravasi. Non so con quali convincenti parole lo dissuase, ma fu salvo.

1971, in Kenya

Nel 1971 raggiunse finalmente il Kenya, una destinazione attesa da anni, per svolgere esplicita attività missionaria. Il suo desiderio fu però tradito. Lo mandarono subito come insegnante e cappellano al Teacher’s college di Egoji, diocesi di Meru, dove svolse un apostolato significativo tra i giovani studenti che si preparavano a essere insegnanti.

Dopo soli tre anni, fu eletto vice superiore regionale dei missionari in Kenya, un servizio a tempo pieno. Rifiutata la rielezione nella speranza di poter finalmente essere inviato nei villaggi più remoti, dal 1977 al 1981, come l’Allamano, dovette accettare la «parrocchia più grande», e divenne superiore e formatore dell’incipiente seminario dei missionari della Consolata a Langata, alla periferia di Nairobi.

Erano i primi passi in Africa della formazione di missionari nativi del paese, attraverso gli studi di filosofia prima, e il noviziato e gli studi teologici poi.

Il «nuovo» doveva inserirsi sull’albero della tradizione del carisma, e la tradizione doveva accogliere il nuovo culturale. Un futuro inedito ma promettente di fecondità. Padre Ravasi ne era convinto.

La formazione nel nuovo contesto richiedeva discernimento, pazienza, fiducia, apertura, realismo. E se l’educazione, come afferma don Bosco, è un’arte dell’amore, tanto più lo era nelle nuove circostanze. Padre Ravasi possedeva i necessari requisiti, e li esercitava con intelligenza e cuore. Quante conversazioni e considerazioni assieme ai suoi cooperatori formatori, alle quali partecipavo pure io (padre Inverardi, allora superiore generale, ndr), per tracciare un cammino illuminato.

Mons Ambrogio Ravasi in dialogo con donne samburu all’inaugurazione e benedizione della nuova chiesa di Lodokejek.

Nel 1981, vescovo

Le voci della candidatura di padre Ravasi a vescovo di Marsabit già circolavano. La supposizione divenne certezza quando nel 1981 a Roma, durante il Capitolo generale dei missionari della Consolata, il cardinal Angelo Rossi, prefetto di Propaganda Fide, si appartò con lui e gli parlò a lungo. Doveva far breccia nella sua resistenza. Alla fine padre Ambrogio, per obbedienza, accettò. Vescovo di Marsabit.

La consacrazione avvenne il 18 ottobre, vigilia della giornata missionaria mondiale, al suo paese, Bellusco (allora nella provincia di Milano) per le mani di ben tre vescovi africani: il cardinal Maurice Otunga di Nairobi e i vescovi Cesare Gatimu di Nyeri e John Njenga di Eldoret.

2002 a Tuthu, mons Ravasi durante la celebrazione del primo centenario della presenza dei missionari della Consolata in Kenya.

La diocesi nata grande

Marsabit è la diocesi creata dal nulla nel 1964 per mons. Carlo Cavallera, quando lodevolmente si dimise da vescovo di Nyeri per passare la mano al primo vescovo keniano, mons. Cesare Gatimu, suo ausiliare dal 1961.

Il Marsabit del deserto, delle strade impolverate, delle distanze interminabili, degli shifta (banditi guerriglieri somali, ndr), dei gruppi etnici in conflitto tra loro per le scarse risorse, delle difficoltà a non finire. Lo zelo e l’intraprendenza di mons. Cavallera avevano fatto fiorire il deserto già a cominciare dal 1952. Allora, in piena ribellione Mau Mau, aveva incoraggiato i suoi missionari a entrare nelle terre del Nord, formalmente parte della sua diocesi di Nyeri, ma chiuse ai missionari dal potere coloniale inglese, per visitare i campi dei prigionieri politici a Baragoi. Più tardi entrarono per assistere le piccole comunità di cattolici che già esistevano nei centri principali dove c’erano funzionari governativi e commercianti originari da Goa in India.

Erano sorte, così, missioni in luoghi strategici con i loro addentellati di evangelizzazione e promozione umana: asili, scuole, dispensari, pozzi. Più tardi aveva iniziato a Maralal la scuola per catechisti e il seminario, il Good Sheperd seminary, per la formazione di sacerdoti dai popoli nomadi.

Inaugurazione e benedizione della nuova chiesa (ancora incompleta) della cappella di Lemsigiyioi a Suguta Marmar, voluta da padre Luigi Andeni e benedetta da mons Ambrogio Ravasi.

Impegno continuo

Non era facile subentrare a mons. Cavallera. Tuttavia, con personalità e stile diverso, mons. Ravasi continuò a far crescere la diocesi, sì da portarla alla sua «moltiplicazione». Nel 2001 nacque la diocesi di Maralal (circa 21mila km2), con mons. Virgilio Pante come primo vescovo, nel distretto Samburu a Sud, lasciando ancora a Marsabit un territorio di oltre 80mila km2 al Nord.

Il vescovo, ricco di umanità ed energia, era molto vicino ai missionari e missionarie e alla gente. Affrontava sfide e situazioni difficili con invidiabile serenità. Vedeva bene i problemi, e sapeva comprendere e accompagnare. Sempre dialogante, ma determinato ed energico quando necessario. Reagiva, agiva, decideva. Forte la sua voce, più forte il suo carattere.

Era un eccellente comunicatore. Scriveva moltissime lettere. Sia a Somerset quando, incaricato della direct mail, era a contatto con i benefattori, sia dopo. Le sue lettere non erano corte, perché ricche di notizie.

Io non ho mai convissuto con lui nella stessa comunità. Ma eventi, circostanze e attività ci hanno messi vicini sia negli Stati Uniti che in Kenya, e dopo. Vicini… è dire nulla. Vicini e fratelli. Abbiamo condiviso riflessioni, decisioni, cammini. La sintonia di convinzioni e valori era perfetta. Era sempre una gioia incontrarsi e ricordare. Askofu (vescovo) Ravasi, un autentico missionario dalla Consolata.

Vescovo emerito

Raggiunti i limiti di età, nel 2006, ha dato le dimissioni e la diocesi è passata sotto la cura di mons. Peter Kihara che, da buon missionario della Consolata, ha lasciato la più centrale diocesi di Muran’ga con i suoi agricoltori montanari kikuyu per stare con i pastori delle savane e deserti del Nord.

Il vescovo Ravasi, ormai emerito, ha chiesto allora, e ottenuto, di poter restare nella diocesi che ha tanto amato e, dopo un anno nell’episcopio, conscio del rischio di essere una presenza difficile per il suo più giovane successore, si è trasferito nel «Maria Mfariji house of prayer shrine» (Maria Consolatrice casa di preghiera e santuario), da lui fatto costruire in cima ai monti di Marsabit, per poter fare quello che sentiva ormai essere il suo servizio principale alla «sua sposa»: pregare.

Al Maria Mfariji shrine di Marsabit presso la tomba di padre Paolo Tablino.

Maria Mfariji Shrine

Il santuario della Consolata consolatrice (Mfariji è colei che dona consolazione, faraja, ndr), a 1.500 metri, è adagiato sulla montagna alle spalle della cittadina di Marsabit. È la realizzazione di un sogno di mons. Carlo Cavallera che voleva ringraziare la Consolata per le meraviglie operate in quella regione, a partire da quella che lui considerava la miracolosa apertura di quei territori «proibiti al Vangelo».

Diventando vescovo, mons. Ravasi aveva fatto suo quel progetto, ma per venti anni, altre priorità come scuole, acqua, salute, lotta alla fame e povertà, nuove missioni, i catechisti, il seminario e l’impegno per la convivenza pacifica tra i diversi gruppi etnici, avevano assorbito tutte le sue forze.

L’anno giubilare del 2000 ha dato un nuovo stimolo all’antico sogno. Trovato un architetto italiano disposto a sognare con lui, ha coinvolto i santuari in tutta Italia a dargli una mano e, intanto, ha maturato l’idea di costruire non solo un santuario per ringraziare la Madre di Dio, ma soprattutto un centro di preghiera e formazione per tutta la diocesi. Il tutto arricchito dal «safaria ya imani» (il viaggio della fede), quarantatre grandi quadri che presentano la storia della Salvezza e sono una calamita che attira tanti visitatori. Un luogo con una comunità residente che prega e insegna a pregare. Sia con l’esempio della vita che attraverso incontri, ritiri, lectio divina e quanto altro può aiutare a vivere più profondamente la propria fede.

Iniziata la costruzione nel 2002, il santuario è stato inaugurato nel 2006 e poi ampliato con una piccola casa del pellegrino per coloro che desiderano fermarsi per qualche giorno di ritiro.

Gennaio 2009, nel Consolata shrine di Nairobi al funerale di padre Giuseppe Bertaina.

Come Mosè sul monte

L’amore alla Consolata lo aveva indotto a costruire quel santuario, una meraviglia per l’ancora giovane chiesa del Marsabit.

Lui ci aveva creduto. Per questo nei suoi ultimi anni è rimasto lassù, su quel monte, come Mosè con le mani alzate a intercedere per il suo popolo. Là, accanto alla tomba di un altro grande pioniere del Nord, padre Paolo Tablino, il suo corpo ora dorme un sonno eterno di pace, ma veglia in intercessione per la chiesa del Marsabit, che ha servito con il prodigo amore del Buon Pastore.

«Maisha magumu»

Caro Ambrogio, con benevola facezia più volte esclamavi «maisha ni magumu» (la vita è dura). Vero. Tanti ripetevano scherzosamente il tuo ritornello. Vita dura: sfide, difficoltà, problemi. Ma pure sogni e progetti. Non ti arrendevi. Quante realizzazioni. Ora non farai più lunghi viaggi faticosi. Solo riposo. Non più deserto, ma i prati ubertosi di una «maisha mazuri» (vita bella e buona) che il Buon Pastore ti dona in premio. A te, servo umile e fedele.

Giuseppe Inverardi
a cura di Gigi Anataloni

Mons Ravasi ritratto ai piedi della croce in uno dei 43 grandi dipinti sulla storia della Salvezza al Maria Mfariji shrine di Marsabit.


Dai campi della Brianza alle savane del Kenya

  • 1929: nasce a Bellusco il 17/02, da Nazzareno e da Stucchi Maria.
  • 1935-1941: frequenta le scuole elementari a Bellusco.
  • 1941-1943: a Vimercate, la scuola di Avviamento al lavoro.
  • 1943-1945: sospesi gli studi, aiuta i genitori nel lavoro dei campi; sono gli anni più duri del secondo conflitto mondiale.
  • 1945-1947: a 16 anni entra, a Montevecchia, tra i missionari della Consolata per iniziare gli studi ginnasiali.
  • 1947-1952: prosegue gli studi alla Certosa di Pesio (Cuneo), con l’anno di noviziato e la professione religiosa il 10/11/1951.
  • 1952-1953: anno di filosofia a Torino.
  • 1953-1957: destinato agli Stati Uniti, si laurea in teologia presso l’Università Cattolica di Washington; il 9/02/1957 è ordinato sacerdote dal delegato apostolico Amleto Cicognani, sempre a Washington.
  • 1957-1971: nei 14 anni di permanenza in Usa, riveste diversi incarichi: dal 1957 al 1963 si dedica alla formazione nei seminari di Cromwel, Batavia e Buffalo; dal 1963 al 1968 ricopre la carica di superiore dei Missionari della Consolata negli Stati Uniti; dal 1968 al 1971 è incaricato della animazione missionaria e redige la rivista «Consolata Missions».
  • 1971: è destinato alle missioni del Kenya.
  • 1981: il 30 luglio, Giovanni Paolo II lo nomina vescovo di Marsabit.
  • 1981: il 18 ottobre è consacrato vescovo a Bellusco in Brianza.
  • 2006-2020: diventa vescovo emerito e si ritira in preghiera nel Maria Mfariji house of prayer shrine in Marsabit.
  • 2020: il 30 ottobre riceve la chiamata finale al Cielo.

 

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Dietro la bontà del capitalismo

testo di Paolo Moiola |


Da tempo la globalizzazione neoliberista ha ridotto l’influenza delle organizzazioni multilaterali. Lo stiamo vedendo anche con la gestione della pandemia da Covid-19. Sono le organizzazioni private che tirano le fila, in primis quelle facenti capo a Bill Gates. Cosa c’è dietro questa filantropia che muove montagne di soldi? Siamo sicuri che la definizione di «ricchi e buoni» sia corretta?

La copertina di «Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo» (Emi, 2020).

È inusuale dare a un libro un titolo in forma di domanda. Lo fa Nicoletta Dentico, giornalista e attivista, con il suo «Ricchi e buoni?».

Che la sua domanda sia retorica lo si intuisce immediatamente dal sottotitolo: «Le trame oscure del filantrocapitalismo» (Emi, 2020). L’economia è da sempre tematica ostica e fortemente divisiva. Lo vediamo quotidianamente nella politica, ancora di più di questi tempi, a causa della pandemia. Il libro è un atto d’accusa duro e circostanziato che potrebbe irritare coloro che amano ritenersi o definirsi «moderati». «Il mio è un libro di denuncia rigorosa, ma sempre denuncia è. Io penso che questo non sia un tempo per essere sfumati: le cose vanno dette».

Miliardari filantrocapitalisti

I ricchi di cui scrive Nicoletta Dentico sono miliardari, quelli appartenenti al «Mondo Nuovo dell’1 %», come li definisce, con una punta di sarcasmo, Vandana Shiva nella sua prefazione. Ieri si chiamavano Andrew Carnegie, John Rockefeller, Henry Ford, oggi Ted Turner, Mark Zuckerberg, Warren Buffett e, soprattutto, Bill e Melinda
Gates.

«Non dimentichiamoci – ci ricorda l’autrice – che i miliardari di oggi sono figli di un’economia senza freni, giocatori di una partita senza regole che si sono arricchiti in maniera strabiliante attraverso una globalizzazione che ha prodotto la diseguaglianza che abbiamo sotto gli occhi. Persone che sono riuscite ad arricchirsi con i monopoli brevettuali, con evasione ed elusione fiscali. E portando molto delle loro ricchezze nei paradisi fiscali».

La loro «bontà» (le virgolette sono necessarie) è riferita alle elargizioni benefiche in favore della collettività mondiale, in particolare nel campo della salute. Tutto sarebbe lodevole se non si basasse su fondamenta errate (il sistema economico neoliberista) e non finisse per frenare ogni possibile cambiamento. È il filantrocapitalismo e, più precisamente, il suo lato oscuro.

«Il filantrocapitalismo – spiega Nicoletta – è quella forma particolare di filantropia che usa modelli, strumenti, valori del mercato e dell’impresa per spingerli, promuoverli e imporli anche nell’agenda sociale, nell’agenda dei diritti. Business e filantropia diventano dunque un tutt’uno e la filantropia diviene la continuazione del business con altri mezzi. Nel filantrocapitalismo si annulla pertanto il confine tra profit e non profit».

Dal dono alla filantropia del sistema

«La mia è una denuncia di chi fa della filantropia una forma di esercizio egemonico. Di chi è riuscito a impossessarsi anche dell’ultimo fortino rimasto indenne dalla logica capitalista: quello del mondo della solidarietà e del dono. Quelli cioè che riescono a capitalizzare da un territorio che è fondativo dell’essenza umana. Dono e solidarietà fanno infatti parte di tutte le culture. Invece, queste persone sono riuscite a cambiarli geneticamente, facendone prolungamenti del loro potere economico e imprenditoriale. Su questi soggetti io rivolgo la mia attenzione. Li chiamo “sacerdoti” perché costoro portano avanti una religione di mercato vera e propria. Quando costoro intervengono, non guardano mai all’origine del problema, loro trovano sempre una soluzione tecnica, biotecnologica, imprenditoriale. La loro idea è di creare mercati per i poveri, cosa che non tocca le cause dei problemi. Sono dei dirottatori e agiscono – appunto – con un fare religioso. E attorno a loro c’è un’aura di venerazione da parte di molti governi, soprattutto del Nord del mondo».

Osserviamo che filantropia sarebbe un termine positivo fin dalla sua etimologia: «amore verso l’uomo» o, per usare la definizione del dizionario Treccani, «disposizione d’animo e sforzo atto a promuovere la felicità e il benessere degli altri». «Occorre – precisa Nicoletta – distinguere tra filantropia e questa forma filantrocapitalista. C’è una filantropia che fa cose meravigliose, vocata magari ad azioni più piccole, sostenendo realtà che afferiscono ai diritti umani. C’è della filantropia che è stata fatta con della ricchezza meramente imprenditoriale. Penso ad alcune organizzazioni tedesche come la Rosa Luxemburg Foundation o la Heinrich Böll Foundation. Il mio non è un attacco a tutta la filantropia. Tutt’altro. C’è molta buona filantropia, anche negli Stati Uniti».

Una sede della fondazione di Bill e Melinda Gates. Foto Marc Smith.

 

I passaggi storici

Per arrivare all’attuale mutazione genetica della filantropia, ci sono state tappe storiche abbastanza delineate: negli anni Ottanta, la fase di massima espansione della globalizzazione; tra il 1999 e il 2001 (con le manifestazioni a Seattle e Genova) un tentativo di reazione da parte della società civile; dal 2000 al 2019 la progressiva perdita di centralità delle organizzazioni multilaterali (Onu, Who, ecc.); nel 2020 l’arrivo della pandemia che ha rovesciato il tavolo e che può ridisegnare il mondo (in peggio o in meglio).

«Per me il problema è la fragorosa assenza di regole del gioco che invece c’erano prima degli anni Ottanta. Veniamo da quattro decenni di cultura dell’idea che il pubblico non funziona, che è inefficiente. Ci pensano i privati, perché privato è meglio. Quattro decenni di spinta verso una privatizzazione senza regole».

Questo processo raggiunge il proprio apice quando arriva alle Nazioni unite, la più grande organizzazione pubblica sovranazionale. «I nostri miliardari filantropi capiscono che fare i buoni giocando l’agenda della solidarietà è una strategia utile per entrare nelle organizzazioni internazionali più deboli portando con sé tutti gli attori economici propri».

Nel 2000 viene così approvato lo United nations global compact, un patto tra Nazioni unite e aziende. L’accordo si trasforma «nel cavallo di Troia del settore privato, ormai dentro la pancia delle istituzioni internazionali». Un anno dopo nasce il «Fondo globale contro l’Aids, la tubercolosi e la malaria», organizzazione di natura privata che risponde a logiche di diritto privato.

Si è così passati dal multilateralismo (coordinamento tra più stati attorno a un obiettivo) al multistakeholderismo (coordinamento tra attori diversi, da stakeholder, soggetto interessato). «Sì, in italiano il termine è orrendo – spiega Nicoletta -, ma utile per indicare che siamo tutti attorno a uno stesso tavolo a gestire un determinato problema. Senza però considerare che non siamo tutti lì per lo stesso motivo. Abbiamo ragioni diverse e anche profondamente divergenti. Ed anche missioni diverse e divergenti perché il settore privato e soprattutto le multinazionali, alla fine, hanno l’obbligo statutario di fare profitti».

Oggi i bilanci dell’Organizzazione mondiale della sanità mostrano che la fondazione di Bill e Melinda Gates è, in termini assoluti, il secondo finanziatore dopo gli Stati Uniti: 531 milioni di dollari nel biennio 2018-2019. E al quarto posto c’è la Gavi Aliance, organizzazione pubblico-privata nella quale sempre la Fondazione Gates ha un ruolo di preminenza (17% dei fondi totali). «Quando Bill Gates parla all’Oms, non fiata nessuno! E nessuno si azzarda a fare un’obiezione».

Questo è vero a tal punto che il New York Times (23 novembre 2020) ha parlato di un «Bill chill», un brivido di freddo che percorre chi teme di far arrabbiare Gates e, per questo, si autocensura.

Nicoletta Dentico è molto dura verso il fondatore di Microsoft, principale esponente del filantrocapitalismo di oggi. «Critiche motivate – spiega lei – . Gates è particolarmente pericoloso. Ormai è ovunque. Ovunque. Non c’è settore della vita umana in cui lui non abbia deciso che ha ricette da somministrare: agricoltura, finanza, cambiamento climatico, salute. In questo momento Bill Gates è il kingmaker, lo zar della ricerca sul Covid-19. Il problema è: lui può spendere un sacco di soldi, ma non c’è un processo democratico rispetto alla sue decisioni. Risponde unicamente a se stesso. Vige una specie di trinità: lui, la moglie Melinda e Warren Buffet, il quale nel giugno 2006 all’uomo (Gates, in quel momento) più ricco del mondo regalò 36 miliardi di dollari. Aveva speculato fino a quel momento, ma aveva capito che sarebbe scoppiata la bomba finanziaria. Pertanto, diede tutti quei guadagni fatti con la speculazione alla fondazione di Gates, che – va ricordato – è un’organizzazione potentemente defiscalizzata e che dà reputazione».

L’Oms e il Covid

Dagli anni Ottanta, l’Oms ha visto la riduzione dei contributi obbligatori degli stati membri e l’aumento delle contribuzioni volontarie. Non è la stessa cosa: è la vittoria del privato sul pubblico, la vittoria del filantrocapitalismo.

Si obietta che l’Oms non si merita i finanziamenti, che anche la sua gestione dell’emergenza Covid-19 è stata fallimentare. «In realtà – precisa Nicoletta -, la situazione è ben più complessa. Di questa organizzazione ci sarebbe un gran bisogno. Se in questo momento è debole – ed è vero -, occorre sostenerla. Riflette le debolezze degli stati che sono i suoi peggiori nemici, come ha dimostrato Trump».

Nonostante le minacce dell’ormai ex presidente, stando al bilancio ufficiale dell’Oms per il biennio 2020-2021, per quanto concerne i finanziamenti pubblici, gli Stati Uniti sono primi, seguiti (a distanza) dalla Cina. Tuttavia, la pandemia ha spinto quest’ultima e soprattutto la Germania a offrire finanziamenti aggiuntivi.

«Un tempo – precisa Nicoletta Dentico – anche l’Italia era un grande finanziatore. Oggi sembra preferire il Gavi, il Fondo globale e iniziative similari».

L’autrice di Ricchi e buoni? ha una lunga esperienza nel campo della salute. È stata infatti direttrice di Medici senza frontiere Italia durante la presidenza di Carlo Urbani (amico e collaboratore di questa rivista). Ha lavorato per la campagna sull’accesso ai farmaci essenziali.

«Il Covid – dice – è un segno dei tempi che va colto. La devastazione della pandemia arriva da Sars-Cov-2, ma anche dall’arroganza e dall’inefficienza del mondo. E dalla riluttanza a capire che occorre cambiare le regole del gioco. Mi pare ci sia tanta gente che aspetta che “passi la nottata” per tornare a fare quello che faceva prima. Ma il Covid ci dice che non dobbiamo tornare dove eravamo prima. La seconda ondata della pandemia ci ha detto che dobbiamo cambiare rotta».

Nicoletta Dentico, autrice di «Ricchi e buoni?» (Emi, 2020). Foto: archivio Dentico.

Francesco, il leader

Nicoletta Dentico ha iniziato il suo lungo percorso di lotta per la giustizia come volontaria di Mani Tese, storica organizzazione cattolica.

«Rivendico la mia appartenenza al campo cattolico – spiega -. Il discorso evangelico “Non sono venuto a portare pace ma contraddizione”, mi ha molto ispirata nella mia vita di cristiana». E pure per le pagine di Ricchi e buoni?, aggiungiamo noi.

«La mia critica è molto dura perché io penso che Bill Gates e gli altri siano il risultato di un disimpegno, di una cessione di sovranità mostruosa da parte della politica. Io denuncio l’insipienza e la connivenza dei governi. Credo che un mondo in cui realtà private governano la cosa pubblica sia un mondo distopico».

A questa ritirata degli stati, pare si sottragga il Vaticano, che è nell’Organizzazione mondiale del commercio come osservatore permanente. Lo scorso ottobre si è schierato a fianco di India e Sud Africa per chiedere la sospensione delle norme sui brevetti allo scopo di affrontare la pandemia.

Chiediamo a Nicoletta la sua opinione rispetto al pensiero e alle azioni di Francesco, un papa a cui certamente non mancano gli avversari, anche nella propria squadra d’appartenenza.

«Lui è l’unico che si sia preso la briga di ascoltare i movimenti sociali in ben tre incontri mondiali (nel 2014, 2015 e 2016) e quella spinta diversa che viene dal basso. A iniziare dalla Evangelii gaudium (2013) – cioè prima della Laudato si’ (2015) –  quando ha cominciato a scrivere che “esta economia mata”, questa economia uccide. È lì che si è giocato, soprattutto in America, la sua reputazione. È con la Evangelii gaudium che hanno iniziato ad attaccarlo in quanto anticapitalista, in quanto comunista. Se non dice lui certe cose, non le dirà nessun altro. Se lui parla della sospensione della proprietà intellettuale per la lotta al Covid, ne parlerà tutto il mondo. Per fortuna, c’è papa Francesco che capisce come nessun altro queste problematiche. Per questo è, in assoluto, il leader di riferimento».

Paolo Moiola


Le organizzazioni principali

Filantropia made in Usa

  • Chi: Bill & Melinda Gates (Usa)
    Organizzazione (2000): Bill & Melinda Gates Foundation
    Sito: www.gatesfoundation.org
  • Chi: Bill & Melinda Gates, Wto, Unicef, World Bank, ecc.
    Organizzazione (2000): Global Alliance for Vaccines and Immunisation – Gavi, The Vaccine Alliance
    Sito: www.gavi.org
  • Chi: Bill & Melinda Gates, Norvegia
    Organizzazione (2017): Coalition for Epidemic Preparedness Innovations
    Sito: cepi.net
  • Chi: Bill & Melinda Gates, Catholic Relief Services (Usa), governi, ecc.
    Organizzazione (2002): The Global Fund to Fight Aids, Tuberculosis and Malaria
    Sito: www.theglobalfund.org
  • Chi: Bill & Melinda Gates, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Brasile, Corea, Cile
    Organizzazione (2006): Unitaid – Innovation in Global Health
    Sito: unitaid.org
  • Chi: Bill & Melinda Gates
    Organizzazione (2003): Foundation for Innovative New Diagnostics – Find
    Sito: www.finddx.org
  • Chi: Bill & Melinda Gates e Warren Buffett (Usa)
    Organizzazione (2010): The Giving Pledge
    Sito: givingpledge.org
  • Chi: Ted Turner (Usa)
    Organizzazione (1998): Un Foundation e Better World Fund
    Siti: unfoundation.org; www.abetterworldfund.org
  • Chi: Bill & Hillary Clinton (Usa)
    Organizzazione (1997): Clinton Foundation – Clinton Global Initiative
    Sito: www.clintonfoundation.org
  • Chi: Mark Zuckerberg & Priscilla Chan (Usa)
    Organizzazione (2015): Chan Zuckerberg Initiative
    Sito: chanzuckerberg.com
  • Chi: George Soros (Usa)
    Organizzazione (1979): The Open Society Foundations
    Sito: www.opensocietyfoundations.org

Bill Gates durante una conferenza della Gavi Alliance, una delle sue numerose creature. Foto Ben Fisher – Gavi Alliance.

LE PIÙ ANTICHE

  • Chi: Andrew Carnegie (Usa)
    Organizzazione (1905): Carnegie Foundation for the Advancement of Teaching
    Sito: www.carnegiefoundation.org
  • Chi: John D. Rockefeller (Usa)
    Organizzazione (1913): The Rockefeller Foundation
    Sito: www.rockefellerfoundation.org
  • Chi: Henry e Edsel Ford (Usa)
    Organizzazione (1936): The Ford Foundation
    Sito: www.fordfoundation.org

GLI ALTRI

L’imprenditore di Amazon, Jeff Bezos (Usa), l’uomo più ricco del pianeta, non ha ancora una propria fondazione.

Pa.Mo.


Alcune date.

La società, dal pubblico al privato

  • 1948 – Nasce l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms – Who, World health organization).
  • 1995 – Nasce l’Organizzione mondiale del commercio (Oms-Wto) ed entrano in vigore gli accordi «Trips» sulla proprietà intellettuale.
  • 1999 – 2001 – A Seattle (dicembre 1999) e a Genova
    (luglio 2001) movimenti della società civile protestano contro la globalizzazione neoliberista.
  • 2000 – Viene ufficialmente lanciata la Bill and Melida Gates Foundation.
  • 2000, luglio – Sotto lo slogan «Uniting business for a better world», nasce lo «United nations global compact», che apre le Nazioni unite alle imprese private.
  • 2020, 11 marzo – L’Oms dichiara la pandemia globale da nuovo coronavirus.
  • 2020, aprile – Donald Trump ordina di bloccare i finanziamenti Usa (che sono i più consistenti) all’Oms, colpevole di una pessima gestione della pandemia e di essere succube della Cina. Per parte sua, Pechino decide di versare un contributo extra.
  • 2020, 2 ottobre – In una lettera all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc-Wto), India e Sud Africa chiedono di derogare alle norme sulla proprietà intellettuale per rendere più facile per i paesi in via di sviluppo la produzione o l’importazione di farmaci contro il Covid-19.
  • 2020, 17 ottobre – A Ginevra, alla riunione dell’Oms, il Vaticano chiede che la proprietà intellettuale non ostacoli l’accesso al vaccino.
  • 2020, novembre – In rapida successione tre aziende occidentali annunciano la produzione di vaccini contro il virus Sars-CoV-2.

Pa.Mo.

 




Uniti in difesa dell’Amazzonia

testo di Paolo Moiola |


A novembre si è tenuta, a Mocoa (Colombia), la nona edizione del «Foro social  panamazónico» (Fospa). Un’occasione per fare il punto sull’Amazzonia e su una situazione complessiva aggravata dalle conseguenze della pandemia.

Il logo del Foro Social Panamazónico (Fospa, in sigla) è particolarmente indovinato. È composto di due profili sovrapposti che, al posto dei capelli, hanno la mappa della Panamazzonia. Il significato implicito è che popolazioni amazzoniche – indigene in primis, ma anche fluviali, contadine e afrodiscendenti – e ambiente naturale debbono essere in simbiosi per poter esistere. Una simbiosi ben descritta nella dichiarazione finale del Fospa del 2017: «Un senso di territorialità basato su rapporti di rispetto e integrazione con il tessuto amazzonico in tutte le sue dimensioni, non solo materiali, ma anche spirituali, culturali e d’uso».

Il cammino del Fospa

Del Foro Social Panamazónico fanno parte organizzazioni laiche e cattoliche (tra queste ultime, Repam, Cimi, Cpt, Fundación Jubileo, Caaap) dei nove paesi che compongono la regione della Panamazzonia. Dalla nascita nel 2001, il Fospa ha tenuto nove incontri: in Brasile (cinque), Venezuela, Bolivia, Perù e infine a Mocoa, nel Putumayo, Colombia. Quello colombiano è stato un incontro virtuale visto che la pandemia non ha risparmiato neppure la Panamazzonia.

Ognuno dei due ultimi incontri si è concluso con un manifesto d’intenti che riassume la filosofia e gli obiettivi dei popoli amazzonici: si tratta della Carta di Tarapoto (2017) e della Carta di Mocoa (2020).

Il volo di un uccello nell’Amazzonia boliviana. Foto Paolo Moiola.

La resistenza contro il modello imperante

Il logo del Fospa e il manifesto del convegno dello scorso novembre, organizzato a Mocoa, in Colombia, in modalità virtuale. Immagine di FOSPA, novembre 2020.

Gli aderenti al Foro si propongono di assicurare a tutti una vita degna rispettando la diversità di ogni soggetto nonché di agire congiuntamente per curare e difendere l’Amazzonia.

Cosa essa sia lo descrive bene il manifesto redatto a Mocoa. «L’ecosistema amazzonico – vi si legge – è una giungla di complesse interazioni e saggezza naturale con mega-biodiversità, espressioni naturali e culturali, dalle Ande all’Atlantico. La difesa della giungla implica imparare a conviverci, condividere in comunità le proprie forme abitative, cibo, economia, medicina e saggezza ancestrale; significa promuovere rapporti di rispetto e uguaglianza nelle nostre comunità, sradicare ogni forma di violenza».

In questi anni, l’avversario principe non è cambiato: è un modello di sviluppo definito «estrattivista, depredatore, patriarcale, colonialista e discriminatorio», portato avanti da governi e imprese (Fospa Perù, novembre 2020). Un modello che mette in serio pericolo la sostenibilità ambientale e la sovranità alimentare, aumentando la vulnerabilità agli impatti dei cambiamenti climatici.

In questo scenario, la sovranità e l’autodeterminazione sono sempre più limitate e i diritti sono meno riconosciuti e più violati. Come è successo con lo strumento della consultazione preventiva libera e informata.

«Nonostante ciò, i popoli amazzonico e andino resistono e sopravvivono con l’impegno incrollabile di difendere la vita nei nostri territori», scrive la Carta di Tarapoto (Fospa, 2017).

Neppure il Covid

Ambiente e popolazioni della  Panamazzonia non sono stati immuni dalle conseguenze della pandemia. Anzi, l’emergenza ha acuito le problematiche di sempre. Le attività estrattive, i megaprogetti, l’invasione e l’accaparramento delle terre non si sono fermati, moltiplicando il contagio tra le popolazioni amazzoniche.

Il logo del Fospa.

«In mezzo all’intensificarsi della crisi climatica e sanitaria che colpisce soprattutto le persone povere, le donne e le popolazioni indigene, i governi hanno colto l’opportunità per dettare politiche di “ripresa economica” che avvantaggiano apertamente gruppi finanziari e imprenditoriali. Il confinamento è servito a intensificare i megaprogetti minerari ed energetici, le infrastrutture e l’espansione dell’agrobusiness e dell’allevamento estensivo. Queste misure indicano un momento di massima spoliazione degli elementi vitali per la sostenibilità fisica e culturale di tutti i popoli dell’Amazzonia, rurali e urbani.

A tutto questo si aggiunge la presenza di attività illegali, con organizzazioni mafiose impegnate nel disboscamento, nell’estrazione mineraria, nel traffico di droga e altre che minacciano e assassinano i difensori di Madre Natura, dei diritti territoriali e ambientali.

Sia la Carta di Tarapoto che quella di Mocoa pongono un’attenzione particolare ai più deboli tra i deboli: i cosiddetti «popoli in isolamento volontario e contatto iniziale» (in sigla, Piaci). Si ribadisce la difesa della loro decisione di vivere distaccati dalla società e l’intangibilità dei territori da loro occupati.

«Natura sana, popolazioni sane»

La Carta di Mocoa, documento finale del Fospa del 2020, elenca una serie di obiettivi e proposte in tre macroaree d’interesse: popoli e culture con identità amazzonica, territori e cammini di vita, autonomia e autogoverno.

Nella prima, si legge ad esempio: «Sulla base del principio “natura sana – popolazioni sane”, proponiamo di rafforzare il nostro sistema sanitario basato sulla medicina ancestrale e il riconoscimento di aspetti culturalmente appropriati della salute occidentale».

Si chiede di riconoscere e proteggere gli anziani come garanti della saggezza ancestrale e della memoria culturale, di fronte alla commercializzazione delle conoscenze amazzoniche. E di sviluppare l’educazione comunitaria interculturale per la costruzione di una cittadinanza plurinazionale come popoli amazzonici.

Un’iguana. Foto Paolo Moiola.

Nell’area territori e cammini di vita, il manifesto del Fospa ricorda di promuovere l’agroforestazione ecologica, l’agricoltura familiare contadina e la gestione comunitaria della giungla e delle foreste, per assicurare la sicurezza e la sovranità alimentare.

Nel campo dell’autonomia, si chiede di valorizzare le iniziative di governo comunitario e le organizzazioni proprie; di valorizzare le unioni meticce (bianchi con indigeni) e mulatte (bianchi con neri) come parte integrante della costruzione sociale del territorio andino-amazzonico; di rafforzare le esperienze della guardia indigena, contadina e afro come protezione dell’Amazzonia e dei processi comunitari.

Tra gli obiettivi prioritari la Carta di Mocoa vede la promozione della «Dichiarazione universale sui diritti dei fiumi» e sull’intangibilità dei bacini, sorgenti d’acqua, fiumi e foreste nei territori dell’Amazzonia, per evitare gli impatti negativi delle attività estrattive, agroindustriali, idroelettriche e delle vie navigabili transnazionali.

Viene inoltre sottolineata l’esigenza che nessun territorio amazzonico sia dichiarato «distretto minerario», rispettando il suo status di soggetto di diritti come riconosciuto dalle normative nazionali e internazionali per la protezione e la cura dell’Amazzonia.

Il manifesto chiede di promuovere campagne e richieste internazionali per comminare sanzioni legali e sociali contro le imprese che violano i diritti umani. Domanda agli stati coinvolti di ratificare e attuare l’accordo di Escazú (firmato da 24 paesi latinoamericani nel 2018, ma ancora inapplicato) per la protezione della natura e dei suoi difensori. Chiede altresì di favorire azioni che promuovano la consapevolezza ambientale in seno alle varie società.

La Carta di Mocoa chiede, infine, agli stati di riconoscere i «diritti della natura».

Un ragazzo, probabilmente figlio di un ribeiriño, su una canoa nelle acque intorbidite del Rio delle Amazzoni, in Brasile. Foto Paolo Moiola.

Le direzioni della storia

Discorsi interessanti e spesso affascinanti, ma – volendo leggere con occhi critici – si tratta forse di un elenco eccessivamente lungo e ambizioso, con proposte a volte troppo generiche, a volte ripetitive.

La filosofia di fondo espressa nel manifesto è però totalmente condivisibile e riassunta nelle poche righe di quest’appello: «Tutto indica che abbiamo perso l’orizzonte della vita ed è necessario recuperarlo con urgenza. Ecco perché l’appello a tornare alle origini, alle nostre radici territoriali e culturali, a correggere in profondità le direzioni che la storia ha preso, in particolare in Amazzonia».

Correggere il cammino della storia è un programma impegnativo, ma dimostra che c’è ancora qualcuno che non si arrende ai vari Bolsonaro, alle imprese minerarie, agli sfruttatori, agli invasori. Qualcuno che ha ancora voglia di combattere per difendere l’Amazzonia e le proprie scelte di vita.

Paolo Moiola

Delfini di fiume in un affluente del Rio delle Amazzoni. Foto Paolo Moiola.




L’occidente  e l’enigma cinese

testo di Paolo Moiola |


Quello che fu il «Celeste impero» è un paese continente difficile da decifrare senza qualche solida conoscenza. Per guardare oltre le accuse odierne e gli antichi stereotipi, ci siamo fatti aiutare da due esperti, Michelangelo Cocco e Simone Pieranni. Perché con la Cina – volenti o nolenti – tutti noi dobbiamo fare i conti. Adesso.

Per gli occidentali comprendere e relazionarsi con la Cina è sempre stato complicato. Lo era ai tempi dell’impero. Lo è ancora di più da quando il partito comunista è andato al potere e il paese ha accresciuto in maniera irrestistibile la propria forza economica e la propria influenza internazionale. Le imprese e i capitali cinesi sono ormai radicati in moltissimi paesi dell’Africa e dell’America Latina. Mentre un suo gigantesco progetto infrastrutturale, noto come nuova Via della seta (ufficialmente, Belt & Road Initiative), sta cercando di fare breccia in Europa. Insomma, oggi Pechino lotta per strappare agli Stati Uniti il ruolo di prima potenza mondiale. Di tutto questo abbiamo parlato – separatamente – con due esperti, Michelangelo Cocco e Simone Pieranni, giornalisti e scrittori con una lunga esperienza in Cina.

Mappa della Cina con la suddivisione in province e regioni autonome. Immagine Pixabay.

Una Cina «perfetta»

«Mi raccomando: non scrivere che sono sinologo perché sarebbe una bugia. Il mio livello di mandarino è basic, il che significa che mi faccio capire e capisco qualcosa, ma purtroppo (almeno per ora) nulla di più».

Michelangelo Cocco vive a Suzhou, nella provincia dello Jiangsu. È direttore esecutivo del Centro studi sulla Cina contemporanea (Cscc) e scrive per Il Messaggero, dopo essere stato corrispondente da Pechino per il Manifesto. Da poco è uscito il suo libro «Una Cina “perfetta”. La Nuova era del Pcc tra ideologia e controllo sociale» (Carocci, 2020).

«Il titolo fa riferimento al tentativo del Partito – in particolare attraverso la rinnovata centralità dell’ideologia e del controllo della popolazione mediante strumenti high tech – di dar vita a una governance “perfetta” del XXI secolo: favorire una gigantesca modernizzazione del sistema economico cinese, promuovere una cultura ambientale, garantire a tutti “una vita migliore”, come ha promesso Xi Jinping. Una governance “perfetta” per un paese continente pieno di problemi e contraddizioni: è questa la sfida epocale lanciata da un Partito che da 70 anni è sempre più la guida dell’economia e della società cinese».

Parlare oggi di «perfezione» è dura, viste le accuse di responsabilità per la diffusione del Sar-CoV-2, il «virus cinese» come lo chiamava l’ex presidente Usa Trump.

«Eventuali responsabilità cinesi – commenta Michelangelo – al momento sono estremamente difficili da accertare, anche perché gli scienziati non hanno ancora chiarito definitivamente dove e in quali circostanze si è sviluppato e trasmesso all’uomo questo nuovo coronavirus. Ciononostante un gruppo di governi (statunitense, britannico, brasiliano), che hanno negato a lungo la gravità della pandemia, l’hanno poi utilizzata a fini politici, per accusare la Cina con la quale – ormai da un paio d’anni – è in corso uno scontro che investe tutti gli ambiti: tecnologico, commerciale, politico, e valoriale. Probabilmente le autorità dello Hubei hanno reagito all’epidemia in ritardo, negandola in un primo momento e censurando i medici che avevano lanciato l’allarme sulle polmoniti misteriose. Ma tutta la polemica che si è scatenata – in un contesto ormai polarizzato Cina versus Occidente – non ha alcun valore scientifico. Si tratta di una battaglia politica che aggrava tensioni preesistenti, che ha pregiudicato quella che sarebbe stata un’utilissima cooperazione sanitaria internazionale e che impedirà qualsiasi indagine indipendente sul Sars-CoV-2».

I tre pilastri del nuovo Impero cinese

Prima dell’arrivo del Covid-19, nell’immaginario collettivo occidentale la Cina non era più quella delle campagne, ma quella moderna, ipertecnologica e simil-occidentale delle sue grandi città. Cioè, provando a sintetizzare, i pilastri del marxismo e del confucianesimo innestati nel cosiddetto «socialismo di mercato». Chiediamo a Michelangelo Cocco se questa sia un’interpretazione corretta.

«Diciamo che il “socialismo di mercato” – affermatosi “definitivamente” dopo la repressione di piazza Tiananmen (era il 1989) e dopo il viaggio al Sud di Deng Xiaoping del 1992 – ha introdotto, in un paese ufficialmente socialista, dosi sempre più massicce di capitalismo. Tuttavia, a un certo punto – approssimativamente durante il decennio 2003-2013 (con Hu Jintao presidente e Wen Jiabao primo ministro) -, il Partito ha capito che, alle riforme di mercato e al deficit ideologico, andava posto un limite, altrimenti il sistema sarebbe crollato per le tensioni create dalle disuguaglianze crescenti e dal distacco tra il Partito e la società. Xi Jinping ha assunto il compito – in maniera esplicita a partire dal XIX Congresso del 2017 – di riprendere il controllo sull’economia e sul popolo. Il pendolo Stato-mercato con Xi ha oscillato decisamente più dalla parte del primo, anche se il mercato resta un elemento imprescindibile dell’economia cinese. Attraverso un potente mix ideologico fatto di marxismo, confucianesimo e nazionalismo, la leadership ha riaffermato la propria autorità sul Partito, ricompattandolo, e sta provando a ridare un certo inquadramento ideologico-patriottico a una società che, fino a poco tempo fa, era attratta soprattutto dalle opportunità di avanzamento sociale (che, peraltro, oggi si stanno restringendo)».

il presidente cinese Xi Jinping con António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite. Foto: Yun Zhao / UN Photo.

Non soltanto Hong Kong

La cronaca delle recenti rivolte nell’ex colonia britannica di Hong Kong ha riportato alla luce anche i conflitti nella regione autonoma del Tibet e nel Xinjiang a maggioranza islamica. «Anche se si tratta in tutti e tre i casi di periferie ribelli all’interno del nuovo Impero cinese, sono tre situazioni molto diverse – spiega Michelangelo -. Il Tibet e il Xinjiang esprimono un nazionalismo debolissimo e, di fatto, non hanno rappresentanti riconosciuti, né all’interno della Cina né all’estero. In questa situazione, ritengo che il Partito potrà portare avanti – a ritmo accelerato, approfittando dell’attuale vantaggio – le sue politiche di assimilazione culturale e di controllo del territorio di queste due immense regioni frontaliere, povere e scarsamente popolate ma che, assieme, rappresentano un terzo del territorio del paese.

Diverso è invece il discorso per Hong Kong, una regione amministrativa speciale piccola, ricca e densamente popolata. Qui la società è fortemente polarizzata: una parte sta con Pechino, l’altra contro. I contestatori dell’ordine costituito sono spesso giovanissimi e di ceto medio alto, hanno i loro partiti e movimenti politici, comunicano col resto del mondo e sono riusciti ad attirare la simpatia e l’appoggio delle democrazie liberali per la loro causa. Nonostante la recente approvazione della Legge sulla sicurezza nazionale, le tensioni con questa parte importante della società dell’ex colonia britannica potrebbero rappresentare una “nuova normalità” in una Hong Kong profondamente divisa e destinata a diventare meno rilevante da un punto di vista economico per la Repubblica popolare, “sostituita” da Shanghai o dalla confinante Shenzhen».

Il volto espressivo di una donna tibetana. Foto: Smokefish – Pixabay.

«La nuova Silicon Valley è cinese»

A Pechino è rimasto per quasi 10 anni. Nella capitale cinese – era il 2008 – è stato cofondatore di China Files, agenzia editoriale che riunisce giornalisti, sinologi ed esperti di comunicazione specializzati in affari asiatici. «Quando non lavoravo come giornalista, mi divertivo a fare l’allenatore dei bambini in una scuola di calcio locale», ricorda con una punta di nostalgia. Rientrato in Italia per motivi personali, oggi Simone Pieranni è caporedattore al Manifesto e da poco ha pubblicato «Red mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina» (Laterza, 2020). Lo disturbiamo mentre è alle prese con i suoi due gemelli di quindici mesi.

Da Huawei a Tiktok: tecnologia e controllo

«Red mirror», il suo terzo lavoro dedicato alla Cina (d’imminente uscita anche in Francia e in America Latina), inizia descrivendo una giornata a Pechino usando il cellulare e WeChat (Weixin, in mandarino), un’applicazione della multinazionale cinese Tencent.

«Sono arrivato in Cina nel 2006 – racconta Simone – e in pochi anni mi sono ritrovato a fare tutto con il cellulare. Il libro nasce dall’esperienza di quanto è accaduto in quel paese a livello tecnologico».

Già, la tecnologia cinese. È contro di essa che si sono scagliati Donald Trump (la vicenda del social TikTok è emblematica) e, a ruota, il premier inglese Boris Johnson. Stati Uniti e Gran Bretagna spingono gli alleati a respingere l’avanzata tecnologica cinese e in particolare quella del gigante Huawei. Anche se – almeno finora – i maggiori scandali legati allo spionaggio digitale sono nati proprio nei paesi accusatori, con la National Security Agency statunitense (scandalo Datagate del 2013) e la britannica Cambridge Analytica (scandalo del 2018).

«Il pericolo dietro Huawei – conferma il nostro interlocutore – è identico a quello delle grandi aziende americane o occidentali. Qualunque sia l’impresa che gestisce i dati, c’è sempre il rischio di un utilizzo fuorilegge delle informazioni raccolte. Sulla Cina – questo è vero – si innescano però altre dinamiche che rendono tutto ancora più complicato. Inutile nascondersi dietro a un dito, la scelta è e sarà politica».

«Socialismo di mercato»

La strada dei barbieri a Kashgar, capitale dello Xinjiang, stato a maggioranza islamica. Foto: F. Charton / UN Photo.

Il caso Huawei riporta il discorso sull’economia cinese e sul modello del «socialismo di mercato».

«Un apparente ossimoro – spiega Pieranni -, ma non per Pechino. La Cina non si chiede cosa sia il suo modello, ma se funzioni o no. E ugualmente fa con tutto il resto. Chiedersi inoltre se il paese sia più capitalista o più socialista trovo sia una nuova forma di orientalismo. Neanche i cinesi sanno come definire il loro sistema, ma pescano dalla cassetta degli attrezzi della storia per trovare le soluzioni che sembrano funzionare meglio. Per loro».

Secondo Pieranni, l’economia spiega anche perché le situazioni di crisi interne al paese – Tibet, Hong Kong e Xinjiang – rimangono circoscritte e senza conseguenze pesanti per Pechino.

«Il Tibet è praticamente dimenticato. Hong Kong, dopo la legge sulla sicurezza nazionale (che di fatto riporta la città dentro all’ordinamento cinese) e qualche protesta, è ormai un elemento acquisto. La regione dello Xinjiang invece mette a nudo la nuova Cina, iper tecnologica e iper controllante. Tuttavia, è una situazione che si protrae da anni e che è riemersa di recente soltanto perché utilizzata da Trump in chiave elettorale. Purtroppo, nessuno ha veramente interesse a chiedere spiegazioni alla Cina, dato che sono ancora troppi i vincoli economici che legano il paese asiatico al mondo occidentale».

Pechino e la Chiesa di Roma

Abbiamo visto che dipanare l’enigma cinese non è facile e, in questo senso, i mezzi di comunicazione non aiutano.

Chiediamo a Simone se, secondo la sua prospettiva privilegiata, i media italiani e occidentali in generale parlino in maniera corretta e veritiera della Cina o prevalgano invece maschere ideologiche e preconcetti.

«Difficile – spiega – fare un ragionamento generale, perché esistono eccezioni. Però possiamo dire che i media mainstream hanno un atteggiamento, se non pregiudiziale, piuttosto superficiale sulla Cina, creando nello spettatore e nel lettore la necessità di vedere tutto o bianco o nero. Sono i media che creano le tifoserie. Purtroppo, sulla Cina accade così da tempo».

Tifosi. Proprio come avviene per la Chiesa di papa Francesco: o sei con lui o contro di lui. A metà ottobre, gli Usa dell’ex presidente Trump e del suo segretario di stato Mike Pompeo avevano cercato d’interferire in maniera pesante sulle relazioni tra il Vaticano e la Cina che stavano lavorando per rinnovare l’accordo provvisorio del 22 ottobre 2018 sul processo di nomina dei vescovi.

Sul Corriere della Sera del 2 ottobre, Ernesto Galli della Loggia aveva parlato di «una patetica resa di fatto, e quindi in un gigantesco regalo, ai governanti cinesi» da parte di un «papa terzomondista». Vaticano e Cina non hanno badato alle critiche e, alla scadenza, hanno rinnovato l’accordo.

«Mi si perdoni l’iperbole – chiosa Pieranni -, ma io penso che sia il rapporto tra due organismi politici molto simili. Si tratta di due istituzioni che ragionano con tempi molto più lunghi di qualsiasi governo al mondo, hanno gli stessi modi, talvolta, di gestire questioni interne e sono molto abituati a “segreti”. Credo sia realpolitik: la Chiesa sa che in Cina la crisi dei valori favorisce l’evangelizzazione; la Cina sa che un accordo con la Chiesa la mette al riparo da certe critiche occidentali».

Paolo Moiola

Repubblica popolare cinese

  • Superficie:
    9,5 milioni di chilometri quadrati (quarto paese più vasto al mondo dopo Russia, Canada e Stati Uniti).
  • Popolazione:
    1,4 miliardi di persone (primo paese al mondo).
  • Sistema politico:
    Repubblica popolare a partito unico
    (Partito comunista cinese).
  • Economia:
    socialismo di mercato; 2° Prodotto interno lordo (Pil) al mondo dopo quello degli Stati Uniti.
  • Etnia principale:
    Han (92 per cento) e altre 55 etnie ufficiali.
  • Lingua ufficiale: mandarino.
  • Religioni:
    ateismo (ufficiale); taoismo, buddhismo, islam, cristianesimo (tra il 3 e il 5 per cento).
  • Criticità interne: Tibet, Xinjiang, Hong Kong.
  • Info in italiano: www.cscc.it; www.china-files.com.
  • Pa.Mo.

Dall’Impero alla Cina comunista

  • Immagine storica di Mao Zedong, il «grande Timoniere». Foto: Anefo.

    1912 – Dopo 2mila anni, cade l’Impero cinese.

  • 1927-1949 – Guerra civile cinese.
  • 1949 (ottobre) – Dopo la sconfitta dei nazionalisti, Mao Zedong fonda la Repubblica popolare cinese.
  • 1949 (dicembre) – I nazionalisti, sconfitti dai comunisti di Mao, si ritirano sull’isola di Taiwan, da allora «provincia ribelle» secondo Pechino.
  • 1950 – L’esercito di Mao occupa il Tibet.
  • 1989 (aprile-giugno) – Rivolta e repressione di piazza Tiananmen.
  • 1997 (luglio) – Hong Kong passa dal Regno Unito alla Repubblica popolare cinese.
  • 2013 (marzo) – Inizia la presidenza di Xi Jinping.
  • 2019 (marzo) – L’Italia firma un Memorandum d’intesa con la Cina sulla «Belt and road initiative» (Bri), popolarmente nota come «nuova Via della Seta».
  • 2019 (novembre) – Primi casi di Covid-19 nella provincia di Hubei (Wuhan).
  • 2020 (20 settembre) – L’amministrazione Trump vieta in Usa le applicazioni cinesi TikTok e WeChat.
  • 2020 (22 ottobre) – Viene rinnovato l’accordo (provvisorio e segreto) tra Vaticano e Cina sulla nomina dei vescovi.

Pa.Mo.

La copertina del libro «Red Mirror» di Simone Pieranni.

La copertina del libro «Una Cina “perfetta”» di Michelangelo Cocco.

 




Oltre il Circolo polare artico

testo e foto di Valentina Tamborra |


Una storia che ha dell’incredibile. E affonda le sue radici in sei secoli fa.  Ma c’è qualcuno che la tiene viva, in un remoto e sconosciuto angolo del mondo. Una vicenda che crea legami tra due popoli. E pochi lo sanno.

Il 25 aprile del 1431 Pietro Querini, un nobiluomo veneziano, mercante ed esploratore, salpò da Candia (l’odierna Creta) alla volta delle Fiandre con un carico di 800 barili di Malvasia, cotone, spezie e altre merci.

Non poteva immaginare che si sarebbe ritrovato sulle coste delle allora sconosciute isole Lofoten, precisamente sull’isola disabitata di Sandøy, vicino a Røst. Furono i venti e i mari a decidere la sorte del capitano e del suo equipaggio. Questa è la storia di un naufragio che da sventura diventò opportunità, che da tragedia si trasformò in un secolare rapporto di amicizia: ancora oggi infatti, l’isola nella quale Querini e i superstiti del suo equipaggio furono accolti e ospitati, serba intatto il ricordo di quell’avvenimento.

Di 68 uomini della «Cocca Querina», solo 11 si salvarono, toccando terra il 14 gennaio del 1432: decimati dal naufragio, dalle condizioni terribili del mare, dalla notte polare e dal freddo artico, affamati e ridotti allo stremo delle forze, vennero salvati da alcuni pescatori dell’isola di Røst, che li ospitarono per circa quattro mesi nelle loro case. Quando il capitano Querini e i suoi uomini ripartirono, portarono con sé, insieme al ricordo della bontà d’animo e della semplicità di vita dei pescatori, un carico di quello che era il bene primario per l’isola: lo stoccafisso.

Fu così che un pesce dell’artico, che appartiene alle gelide acque del Nord, arrivò in Italia, precisamente a Venezia, diventando la prelibatezza che tutti conosciamo.

Il racconto di questa vicenda è oggi custodito in due luoghi affascinanti e carichi anch’essi di storia: la Biblioteca Apostolica Vaticana e la Biblioteca Marciana di Venezia. Il capitano Querini, infatti, scrisse di proprio pugno un diario che oggi è custodito in Vaticano, mentre alla Marciana viene conservata la deposizione di due marinai: Cristofalo Fioravante e Nicolò De Michiele, che con Querini scamparono al naufragio.

Ma oltre ai due manoscritti, cosa resta oggi di questo incontro?

Røst, l’ultima

Røst è un’isola piatta. A spezzare la linea dell’orizzonte solo un picco che ricorda il cappello di un mago, la montagna di Stavøya.

L’ultima isola delle Lofoten, non raggiunta, o quasi, dal turismo, è dedita interamente alla pesca e essiccazione del merluzzo che viene spedito principalmente in Italia, Spagna, Portogallo e Nigeria. Sono le particolari condizioni climatiche dell’Artico, infatti, a permettere l’essiccazione perfetta di questo pesce.

Singolare è anche il nome del particolare tipo di merluzzo pescato qui: Skrei. Il termine Skrei deriva infatti da un vocabolo (å skrida) che in antica lingua vichinga significa «viaggiare, migrare, muoversi in avanti».
Lo Skrei, infatti, compie ogni anno una vera e propria migrazione dal mare di Barents verso le acque più calde della costa settentrionale norvegese al fine di riprodursi.

Già nell’epoca vichinga le qualità del merluzzo erano conosciute e apprezzate. Una volta essiccato, poteva durare mesi ed essendo altamente proteico, costituiva un importante elemento per la dieta piuttosto povera degli abitanti delle isole remote.

Ancora oggi lo stoccafisso viene prodotto usando gli stessi ingredienti e lo stesso metodo dell’epoca in cui il capitano Querini naufragò su sull’isola: tutto naturale.

Røst conta oggi circa 500 abitanti, fra questi un solo medico, un poliziotto e un prete. La comunità è completamente coinvolta nella vita di mare. Chi non è un pescatore, pur non uscendo in mare ogni giorno, si dedica in qualche modo all’industria della pesca, per lavoro o per diletto.

I bambini ad esempio, durante le vacanze scolastiche, aiutano genitori e nonni nella pulizia del pesce. In particolare, imparano a tagliare le lingue che, una volta impanate e fritte, sono considerate una vera prelibatezza.

L’Italia

La piccola isola di Røst ha una peculiarità: l’eredità del passaggio degli italiani è talmente forte, da aver ispirato ben due realtà davvero particolari.

Qui infatti ha sede il comitato più a Nord della Società Dante Alighieri: il suo presidente è  Kjell-Arne Helgebostad, l’unico medico dell’isola. Kjell-Arne parla perfettamente italiano ed è ben lieto di fare da guida a chiunque desideri approfondire la storia di questa dimenticata porzione di mondo.

Il medico ha fondato anche una piccola biblioteca dove è possibile trovare libri in italiano e norvegese dedicati alla storia dell’isola e di Pietro Querini.

C’è poi una donna, un’artista eclettica e sognatrice: Hildegunn Pettersen. Cantante lirica originaria dell’isola, padre pescatore, vive oggi a Oslo dove canta e insegna musica.

È lei ad aver dato vita a un’opera lirica interamente dedicata alla vicenda del Querini. Ogni anno in agosto, viene organizzato il Querini Festival, durante il quale l’opera viene rappresentata sull’isola di Røst e coinvolge buona parte della comunità. Dalle altre isole, in molti raggiungono Røst per assistere alla rappresentazione.

Sul palcoscenico insieme a Hildegunn si possono trovare pescatori e produttori, esportatori di pesce, insegnanti della scuola, il medico e chiunque, sull’isola, voglia far parte della tradizione e della memoria.

I ragazzi della scuola hanno aiutato a costruire le scenografie, e sul palcoscenico campeggia un leone di Venezia in polistirolo dipinto d’oro che è in tutto e per tutto «uguale» all’originale.

Parte dell’opera Querini è cantata in italiano. Il sogno di Hildegunn è portare lo spettacolo a Venezia, magari proprio accanto al mercato ittico di Rialto, sotto il quale si celano le rovine di quella che fu «Casa Querina».

Un ristorante e una stele

Per ricordare il naufragio, sull’isola di Sandøya, nel punto più alto, si erge la stele dedicata a Pietro Querini. Furono gli abitanti di Røst a porla qui nel 1932 in ricordo dell’evento che sancì l’antica amicizia.

Sono passati quasi 600 anni da quando un pescatore dell’isola e i suoi due figli si imbatterono in quel gruppo di sopravvissuti

che non appartenevano al loro mondo: «Dopo che a parole e a gesti gli facemmo comprendere che eravamo naufraghi bisognosi di aiuto, cominciarono a parlare, ci dissero il nome dell’isola e tante altre cose di cui non capimmo nulla», scriveva Pietro Querini nel suo diario, e ancora oggi quell’antica ospitalità viene tenuta in vita.

Oltra alla stele di Sandøya sull’isola di Røst esiste un piccolo ristorante che è anche il punto di ritrovo della comunità: è il Querini Pub.

Gestito da Anna Cecilie, propone ricette locali e rivisitazioni del piatto più importante di queste parti: lo stoccafisso.

Svolvaer, Henningsvaer e «le altre»

La tradizione della pesca al merluzzo però, non fa parte solo del retaggio culturale della piccola isola di Røst.

Anche isole come Svolvaer, Henningsvaer, Leknes, seppure più conosciute come meta turistiche, hanno una fortissima storia legata al merluzzo.

L’economia di tutto l’arcipelago è strettamente legata alla pesca e ci sono luoghi come Ballstad, non lontano da Leknes, che sono essenzialmente villaggi di pescatori.

Le tipiche casette rosse costruite a ridosso della costa, chiamate rorbuer, sono nate come abitazioni dei pescatori norvegesi. Tradizionalmente spartane, ospitavano gli uomini che ormeggiavano la propria barca lungo i porti delle Lofoten. Oggi molti rorbuer accolgono turisti e sono diventate luoghi esclusivi, dai quali è possibile ammirare non solo la bellezza della natura, che pure in questi luoghi domina, ma anche l’andirivieni dei pescatori che ogni mattina, dalle quattro e mezza in avanti, salpano dal porto verso il mare aperto.

La vita e i ritmi della natura

Hemingway nel suo «Il vecchio e il mare» scriveva: «Chiunque sa fare il pescatore di maggio». E viene proprio da pensarlo qui, oltre il Circolo Polare Artico, dove la natura domina ed è l’uomo a doversi adattare a lei e non viceversa. Se è pur vero che i moderni sistemi di navigazione hanno ridotto di molto i rischi, è altrettanto vero che i mari del Nord sono particolarmente difficili da navigare. Capita talvolta, specialmente tra gennaio e aprile, i mesi durante i quali lentamente la luce fa capolino dopo la «blue season» (una stagione dell’anno dove la luce del sole è solo un tenue bagliore blu all’orizzonte), che in una giornata si arrivi a vivere quattro stagioni: il vento infatti, può cambiare nel giro di pochi secondi e un cielo azzurro e terso può trasformarsi in un «muro» di neve  che rende impossibile definire l’orizzonte. Se è vero che il gps aiuta a trovare la rotta, è anche vero che bisogna conoscere a menadito «le strade del mare», i fondali bassi, le rocce che con gli strani giochi di luce e le maree scompaiono alla vista e rischiano di far incagliare le barche.

Si esce in mare ogni giorno da queste parti, con qualsiasi condizione climatica: quello della pesca resta un mestiere pericoloso, e lo sa bene Håvard, un giovane pescatore la cui barca porta il nome del nonno, Åge Steinar.

Quando lo incontro, mi racconta dell’incidente di pesca che fu fatale per il nonno, esperto pescatore, nonché suo maestro.

La barca carica di pesce stava rientrando in porto quando all’improvviso una forte tempesta rese difficile la navigazione. La barca affondò portando con sé l’uomo. A nulla valsero gli sforzi di altri pescatori accorsi sul luogo della tragedia: solo Håvard riuscì a salvarsi. Eppure, nonostante tutto, come dicono da queste parti, nessuno vorrebbe cambiare mestiere perché: «Puoi togliere una barca al suo uomo, ma non un uomo dalla sua barca».

Storie di donne

Arrivando sul porto di Svolvaer, è facile scorgere, proprio poco distante dalla battigia, posta a picco su alcuni scogli, una statua dalla figura esile: è la moglie del pescatore. Una mano alzata a schermare gli occhi dalla luce Artica, scruta il mare in attesa del ritorno del suo uomo. È la rappresentazione tipica delle mogli dei pescatori. Donne che attendono e sembrano poco coinvolte nella vita di mare. Ma non è per nulla questo il ruolo di donne, come Lone e Line.

La prima, una trentenne con un tatuaggio sulla schiena che rappresenta tre stoccafissi e quello di un’ancora sul braccio destro, è una pescatrice. Fuggita dai ritmi della città, si è rifugiata a Røst dove oggi vive di pesca.

Lone ha dovuto farsi strada in un mondo ancora oggi prettamente maschile: inizialmente guardata con stupore, oggi è a tutti gli effetti «un lupo di mare». Nel tempo libero ama suonare il pianoforte e colleziona strumenti antichi, come un arpicordo che tiene appeso in salotto.

Line invece è una vraker, ovvero una selezionatrice. Figlia di pescatori, ha imparato il mestiere da un vero e proprio maestro: Ansgar Pedersen, dell’azienda Glea. Ogni giorno Line annusa migliaia di stoccafissi per stabilirne la qualità e il mercato di destinazione. Ha provato per un periodo a trasferirsi in città, abbandonando l’isola, ma non faceva per lei. Ha deciso di restare quindi a Røst dove oggi è sposata e ha due bimbi.

Line racconta che, fino a una ventina di anni fa, addirittura si diceva che «le donne in barca portassero sfortuna». Oggi invece il ruolo femminile all’interno del mercato della pesca è pienamente accettato.

Dove lavorare

Eppure non solo i norvegesi sono esperti pescatori: ogni anno infatti, durante la stagione della pesca al merluzzo da gennaio ad aprile,  sono in molti a raggiungere le Lofoten da zone come la Lituania, in cerca di lavoro.

È il caso di Arturas che, nella sua terra natale, era fotografo e cameraman. Dopo la crisi economica che ha colpito il suo paese ha dovuto reinventarsi. Oggi da gennaio a maggio si sposta alle isole Lofoten dove ogni giorno prende il mare con il suo capitano, Odd Helge Isaksen, a caccia dei migliori skrei.

Tra leggenda, superstizione e tradizione

Ogni uomo di mare, si sa, ha una storia da raccontare. Un’avventura particolare, una tempesta cui è scampato fortunosamente o una pesca particolarmente disastrosa.

Ma c’è sempre una «storia» a cui ogni pescatore è particolarmente affezionato. E ad essa, un po’ per superstizione, un po’ per tradizione, si collegano alcuni piccoli riti di buon auspicio. È il caso ad esempio, del saluto alla montagna di Vågakallen, un picco che domina il porto di Svolvær.

Nelle prime ore del giorno, quando il buio ancora avvolge il villaggio, i pescatori preparano le barche e prendono il mare. Prima di partire, però, fanno un inchino e un saluto a questa montagna: che li protegga, che li accolga nuovamente nel porto sicuro, carichi di pesce, al ritorno.
Durante la stagione della pesca non è difficile imbattersi in quello che è forse uno degli spettacoli naturali più affascinanti al mondo: l’aurora boreale.

In Norvegia queste scie colorate che accendono la notte artica, vengono chiamate Nordurljos: «Luci del Nord».

La leggenda narra che, ogni qualvolta il cielo si accende di questi colori brillanti, da qualche parte le Valchirie sono in battaglia: secondo il mito, i bagliori in cielo, dal verde al rosso al rosa, non sono altro che il riflesso del sole sulle armature delle guerriere.

Valentina Tamborra

Questo lavoro è diventato una mostra fotografica e un libro: «Skrei. Il viaggio», Valentina Tamborra, Silvana Editoriale, 2020.




Rd Congo: Ripartire dalle donne (vittime di violenza)

testo di Luca Salvatore Pistone |


L’Est di uno dei paesi più ricchi d’Africa non trova pace. Nonostante la presenza delle Nazioni unite, decine di milizie imperversano. I civili subiscono ogni sorta di vessazione. Mentre il mondo sta a guardare o, meglio, si gira dall’altra parte.

La guerra nel Nord della Repubblica democratica del Congo (Rdc) è un abominio. Covava da lungo tempo, ma è con il genocidio ruandese del 1994 che, nell’immenso stato dell’Africa centrale, si è scatenata la catastrofe. Vertiginosa diffusione di gruppi armati, negligenza delle autorità, saccheggio di risorse naturali sono solo alcuni degli ingredienti di quello che gli esperti definiscono «conflitto a bassa intensità». Una barbarie, che si protrae da oltre due decenni (di cui MC ha più volte parlato, ndr).

La prima vittima di tanta violenza? La donna. Seni amputati, clitoridi tagliati e ani sventrati sono le firme dei macellai. In Congo il corpo della donna è diventato un campo di battaglia la quale è lecito infliggere dolore, umiliazione, terrore.

Goma

Raggiungiamo Goma, il capoluogo della provincia del Nord Kivu, via terra dal Ruanda. Lasciati i bagagli in albergo, la prima cosa che facciamo è recarci al comando regionale della Monusco (Missione dell’Onu per la stabilizzazione nella Repubblica democratica del Congo). Bisogna muoversi per tempo per trovare posto a bordo di uno dei suoi aerei diretti a Bunia, capoluogo della provincia di Ituri, prima meta del nostro viaggio.

Sbrigata la burocrazia dell’Onu e strappata a un funzionario indiano la promessa che saremo inseriti al più presto nella lista dei passeggeri, ci rechiamo all’appuntamento con Caleb in un bar con terrazza sul lago Kivu. Il tramonto contribuisce a rendere il paesaggio ancora più mozzafiato.

«Finalmente ci conosciamo!». Quarantacinque anni, alto, pochi denti in bocca, Caleb è un simpaticone. Giornalista, ha collaborato con prestigiose testate internazionali. È lui il nostro fixer (la persona che negli scenari di guerra o di crisi, assiste il giornalista che si muove sul campo). «Fidati di me, per capire come le cose vanno in Congo bisogna parlare con le donne».

La casa delle donne

La mattina seguente Caleb passa a prendermi con il suo fuoristrada. In meno di mezz’ora raggiungiamo il villaggio di Bulengo. Continuiamo per un paio di chilometri di strada sterrata e, nascosta da una fittissima vegetazione, troviamo un’enorme villa. Siamo alla Maison des femmes. Ci accolgono una ventina di donne con altrettanti bambini. Terminati i convenevoli, tutte tornano alle loro attività. C’è chi si dedica alla tintura di stoffe per abiti femminili, chi all’intreccio di cestini di plastica riciclata e chi all’allevamento di polli e maiali.

Justine Masika è la presidente di Synergie des femmes pour les victimes des violences sexuelles (Sfvs), una piattaforma nata nel 2002 che raggruppa 35 piccole Ong locali con sede a Goma. «Sfvs gestisce il progetto Maison des femmes. Teniamo dei corsi di formazione professionale e, grazie al microcredito, contribuiamo all’avvio di piccoli esercizi commerciali. Qui le nostre assistite parlano dei traumi che hanno vissuto. Capiscono di non essere sole e che si può andare avanti. Operiamo sulle conseguenze dello stupro, ma ci siamo rese conto che è necessario intervenire alla base di questo male, e cioè lavorare sulle cause che rendono la violenza sessuale un fenomeno così diffuso».

Justine ha un bel da fare. Alla porta del suo ufficio bussano in continuazione le sue collaboratrici per farle firmare pile di scartoffie. «Per porre un freno a questo crimine bisogna combattere l’impunità di cui godono gli stupratori, coinvolgere maggiormente i politici e gli investitori stranieri per mettere fine al saccheggio delle materie prime e, quindi, ai conflitti per il sottosuolo che dilaniano il nostro Congo. Occorre anche capire che gli stupri non distruggono solo il fisico di chi li subisce, ma l’intera società. Le donne, dopo essere state abusate, vengono considerate colpevoli per ciò che è successo loro: vengono ripudiate dai mariti e i figli restano abbandonati a se stessi».

Sfvs si assume le spese per la riparazione chirurgica di fistole retto-vaginali, dei test per l’Hiv e dei trattamenti per malattie sessualmente trasmissibili. Ha istituito venti consultori dove vengono invitate sia le vittime che i loro familiari, allo scopo di far capire a questi ultimi che la «gogna» perpetrata anche da loro non è la via giusta. La sezione per la difesa legale fa pressioni presso le Corti, dinanzi alle quali vengono portati i casi delle donne stuprate, e ha avviato un’intensa campagna per la creazione di tribunali che si occupino esclusivamente di violenze sessuali.

Il dolore

È mezzogiorno. Può avere inizio il douleur (dolore), come Justine chiama l’orario dei colloqui dello psicologo del centro con le vittime di violenza sessuale.

Provengono tutte dalla zona di Masisi, una città del Nord Kivu nota per essere il centro di conflitti che vedono coinvolti almeno 140 piccoli gruppi armati irregolari. «Mettetevi comodi. Vedrete quanto in basso può arrivare l’uomo», ci annuncia Justine.

La prima a entrare è Judithe, di 57 anni. Dieci anni fa dovette assistere all’assassinio del marito e dei due figli, fatti a pezzi col machete. «Il nostro villaggio fu attaccato dai miliziani Mai Mai. Piangevo e quelli mi violentarono uno dopo l’altro, picchiandomi a sangue. La mia comunità mi ripudiò».

È il turno di Mamy, di 35 anni, madre di tre bambini: «Ero andata al pozzo per prendere dell’acqua e ho incontrato degli uomini armati. Mi hanno detto che potevo scegliere tra la vita e lo stupro. Quando vieni stuprata vieni marchiata a vita. Il tuo uomo si sente umiliato e ti caccia via di casa. Per l’intero villaggio sei come morta o una prostituta. Io invece nella disgrazia sono stata fortunata perché mio marito ha capito la situazione e mi ha tenuta con sé».

Therèse ha da poco compiuto 15 anni ed è al settimo mese di gravidanza. Sorride solo quando pensa a Julie, il nome che ha scelto per sua figlia. Per più di un mese è rimasta nelle mani di criminali nella foresta. «Quando mi volevano venivano nella capanna in cui mi avevano rinchiusa. Lo facevano a turno, anche in due, per più volte al giorno. Ero la donna di tutti. Mi costringevano pure a cucinare per loro. Poi un giorno all’improvviso mi bendarono e mi riportarono all’ingresso del mio villaggio».

Chantal ha 19 anni e tra un mese partorirà: «Al mio villaggio non c’è una sola famiglia che non abbia una donna violentata. Io ho tre cugine che sono state abusate. La mia famiglia è in ginocchio, nessuno ci rivolge più la parola».

Secondo le stime delle Nazioni unite, nella regione si verifica uno stupro ogni trenta minuti. Una pratica che non accenna a placarsi.

Ringraziamo la Maison des Femmes e torniamo alla macchina. Regna il silenzio. A infrangerlo, una volta immessi sulla strada asfaltata, è Caleb: «Adesso capisci come siamo messi? In Congo la donna è il campo di battaglia». Mi squilla il cellulare e sul display compare il nome del funzionario della Monusco. È stato di parola: tra un paio di giorni potremo volare su Bunia.

Bunia

Un’enorme distesa bianca e blu. È così che Bunia appare dall’alto. Poi, a mano a mano che l’aereo plana, ci si rende conto di come migliaia di teli di plastica dei colori dell’Onu abbiano inghiottito l’intera città. Sono le tende degli sfollati provenienti da tutto l’Ituri, la martoriata provincia di cui Bunia è capoluogo.

Ituri, un vasto territorio di circa 65mila chilometri quadrati nel Congo Nord orientale, è da lungo tempo teatro di abominevoli scontri tra due etnie, gli Hema e i Lendu. I primi storicamente pastori, i secondi agricoltori. Le rivalità tra i due gruppi risalgono al periodo coloniale, quando i belgi favorirono gli Hema, creando non poche disparità che i governi succedutisi fino ai nostri giorni non hanno voluto e saputo limare.

Le dispute vere, quelle sfociate nel sangue, sono iniziate negli anni Settanta in concomitanza della promulgazione di leggi sulla distribuzione delle terre che avevano avvantaggiato gli Hema. Picchi di violenza si sono registrati nel 1972, 1985, 1996, 2001 e 2003, mentre scontri minori si sono protratti fino al 2007. Negli anni Novanta gli sfollati raggiunsero la cifra record di 400mila. Le varie missioni di stabilizzazione dell’Onu nella Rdc non sono riuscite a fermare i massacri, registrando peraltro un alto numero di morti tra i propri militari. Negli ultimi mesi hanno avuto luogo nuovi scontri con almeno una ventina di morti tra i civili, e le rappresaglie, fomentate da gruppi armati vicini alle due etnie interessati dalle ricchezze del posto, sembrano non avere fine.

Un mare di sfollati

L’Onu ritiene che gli sfollati dovuti a quest’ennesimo incidente, sparsi in campi ufficiali e irregolari soprattutto a Bunia, o rifugiatisi nel vicino Uganda, siano 340mila, circa l’8% dell’intera popolazione della provincia.

Per motivi di sicurezza dobbiamo alloggiare a Bunia, dove ha sede una base della Monusco, gestita dai contingenti marocchino e bengalese. Il responsabile dell’ufficio stampa della missione, un sergente marocchino, ci dà un lasciapassare per raggiungere autonomamente Djugu, la terza città per estensione di Ituri, divenuta uno degli epicentri delle violenze, a patto di tornare a Bunia prima di sera. Un percorso di 70 chilometri su strada sterrata con buche che inghiottirebbero una jeep. Caleb scorre la rubrica di uno dei suoi tre Iphone e contatta Richard, un autista locale. «Tutto ok, domattina alle 4 in punto ci passa a prendere con un pick up».

Richard spacca il minuto. Lasciamo Bunia e a ogni curva rimaniamo a bocca aperta per la bellezza del territorio. Colline verde smeraldo, cascate azzurrissime, fiori mai visti prima. Il viaggio procede liscio e in meno di tre ore siamo alle porte di Djugu.

La città bruciata

Il colore che domina in città è il nero: non c’è un solo edificio o catapecchia che non sia stato incendiato. La cenere è ovunque. Per la loro opera di devastazione sia gli Hema che i Lendu si servono di «serbatoi incendiari», ovvero serbatoi di motociclette lanciati a come molotov contro le case di quelli che ritengono nemici.

Pochissime le persone che incontriamo per strada. Nessuno ha voglia di parlare con noi e così decidiamo di proseguire per un’altra ventina di chilometri fino a Fataki, una piccola località sotto l’amministrazione di Djugu dove è attivo l’unico ospedale del circondario.

Da una stanza provengono urla strazianti di una giovane. Yvonne sta per dare alla luce il suo primogenito. Il dottor Bavi, il giovane direttore dell’Ospedale di Fataki, ci chiede se vogliamo assistere ma decliniamo l’offerta, rimanendo al di qua della tenda che delimita la sala parto. Ephala, la madre della ragazza, è seduta su una sedia in un angolino. Quella che tra pochi minuti diverrà nonna ha appena trent’anni. «Prima è toccato a me, adesso a lei. A sedici anni fui violentata, Yvonne a quattordici. Mia figlia nacque in seguito a quello stupro, come il figlio che ora sta partorendo. Spero sia un maschio, così non potrà essere violentato come noi».

Prendiamo la direzione per Bunia e siamo in hotel prima di sera, come promesso al sergente marocchino.

I campi profughi

Il giorno seguente ci viene assegnata una scorta di caschi blu bengalesi per visitare il Site1 e il Site2, i due campi ufficiali per sfollati di Bunia, uno a poche centinaia di metri dall’altro. Gli chiedo il perché di una simile misura di sicurezza, apparentemente eccessiva, e lui non mi lascia diritto di replica: «Un poliziotto è stato ucciso all’interno del Site1. Tranquillo, avrete massima libertà di movimento».

Il Site1 è il campo più grande della regione. Sorto lungo la recinzione dell’Ospedale Generale di Bunia, ospita circa diecimila sfollati in stragrande maggioranza di etnia Hema. Nel Site2, nato poco dopo su un terreno messo a disposizione dalla Diocesi di Bunia, ce ne sono quasi novemila.

È la Ong congolese Lasi (Ligue anti-sida en Ituri), diretta dal pastore Ignaci Bingi, ad aver ricevuto dal governo provinciale l’incarico di gestire gli aiuti al Site1 elargiti dal Pam (Programma alimentare mondiale) e Oxam (Oxford committee for famine relief). Per distribuire meglio le derrate alimentari, il pastore ha personalmente diviso il campo in dieci blocchi, facendo eleggere dalla comunità un rappresentante per ogni blocco. «Gli sfollati mi riferiscono tutto ciò che non va nel campo in modo che io possa portare le loro rimostranze a chi di dovere. È gente esausta, che ha perso tutto ciò che aveva, incattivita. Una bomba a orologeria insomma».

A occuparsi invece del Site2 sono Caritas Congo e Unicef (Fondo delle Nazioni unite per l’infanzia). Di scuole non ce ne sono e così l’unico spazio aggregativo che i bambini possono frequentare è un piccolo centro costituito da quattro pareti di legno all’interno delle quali alcuni animatori li intrattengono con balli e canti. «Tantissimi dei nostri sfollati sono minori – dice Clementine Pelosi, funzionaria Unicef – e tantissimi sono orfani perché i loro genitori sono stati uccisi durante gli scontri».

I due campi sono un distillato di atrocità. Testimonianze verbali e testimonianze visibili sulla loro pelle. La storia di Grace e Rachel appartiene a queste ultime. Non lascia molto spazio alla fantasia. Due bambine, sorelle, rispettivamente di undici e due anni. Da pochi giorni sono uscite dal reparto di chirurgia dell’Ospedale generale di Bunia, dove erano state condotte due mesi prima in fin di vita.

A raccontarcela è loro zia Charlotte: «I Lendu hanno attaccato Tchee, il nostro villaggio. Hanno violentato davanti agli occhi di Grace e Rachel la loro madre, mia sorella. Sempre davanti ai loro occhi hanno ucciso i loro genitori e i tre fratelli più grandi. I Lendu, non soddisfatti, si sono divertiti coi machete. Hanno tagliato parte del braccio sinistro di Grace e l’hanno ferita alla nuca. Poi sono passati a Rachel. L’hanno squarciata da guancia a guancia e da orecchio a orecchio. Io ho già i miei figli a cui badare, come posso sfamarle? Sapete che nessuno le sposerà in queste condizioni?». Grace è appoggiata alla sua spalla mentre Rachel dorme tranquillamente tra le sue braccia.

Accanto a me un casco blu bengalese. Ha gli occhi lucidi. Infila in tasca a Grace una merendina. Si è fatto buio, dobbiamo andare.

Luca Salvatore Pistone


Dieci anni dal «Rapporto Mapping»

Il genocidio senza storia

Il primo ottobre 2020 ricorrevano i 10 anni dalla pubblicazione del «Rapporto Mapping» dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani (Unhchr) sulla Repubblica democratica del Congo.

Per capire meglio di cosa si tratta, occorre fare un passo indietro. Nel 1994, al termine del genocidio in Ruanda, durato 100 giorni senza che la comunità internazionale intervenisse, il Fronte patriottico ruandese (Fpr) di Paul Kagame assunse il controllo del paese (milizia a maggioranza Tutsi anglofona, ndr). Nella speranza di salvarsi dalle violenze dell’Fpr, deciso a vendicarsi del genocidio subito dagli Hutu, circa due milioni di ruandesi di etnia Hutu si rifugiarono nell’allora Zaire di Mobutu. Questi era malato, stanco e ormai abbandonato dagli alleati.

Con il genocidio in Ruanda, l’invasione dello Zaire da parte di quest’ultimo era solo questione di tempo e, con la scusa di inseguire i genocidari hutu, si è concretizzata con la «Prima guerra del Congo» che si è combattuta fra il 1996 e il 1997 e che ha messo fine al regime di Mobutu. Per non destare sospetti durante l’invasione, è stato messo a capo dell’avanzata un cittadino zairese, Laurent-Désiré Kabila che è diventato presidente nel paese nel 1997. Nel 1998 Kabila ha intimato ai ruandesi di ritornare a casa loro e così è iniziata la «Seconda guerra del Congo», detta anche Guerra mondiale africana, che, con milioni di vittime, si è conclusa nel 2003 con un governo di transizione guidato da Joseph Kabila, al potere dal 2001, dopo l’assassinio di Laurent-Désiré Kabila.

In seguito alla scoperta di molte fosse comuni nel 2005, l’Unhchr decise di investigare, e mandò i suoi esperti che indagarono sul decennio 1993-2003 producendo il Rapporto Mapping, uno studio molto dettagliato che sarà pubblicato il 1 ottobre 2010, ma subito messo nel cassetto, in seguito a pressioni di Paul Kagame e dei suoi alleati. Questo rapporto denunciava la morte di 6 milioni di persone e individuava 617 massacri classificabili come crimini di guerra, crimini contro l’umanità e, alcuni, come crimini di genocidio. Tutti crimini imprescrittibili.

Oggi sono in tanti, congolesi e amici del Congo, a chiedere la verità su questo dramma. Nel decimo anniversario del Rapporto Mapping, il dottor Denis Mukwege (cfr. Mc aprile 2018), Premio Nobel per la Pace 2018, ha lanciato, insieme alla società civile congolese ed esponenti della diaspora, una campagna di sensibilizzazione per chiedere alle Nazioni unite l’applicazione delle raccomandazioni di quel rapporto. In particolare, la creazione di un Tribunale penale internazionale ad hoc per giudicare i crimini commessi nella Rd Congo negli ultimi decenni, crimini, lo ricordiamo, che avvengono tuttora nel silenzio, seppure sotto gli occhi della comunità internazionale. Nessuno si illuda però. La strada per arrivare alla verità e alla giustizia è davvero molto lunga e piena di insidie. Ricordiamoci che le responsabilità non si limitano al solo Ruanda ma toccano potenze mondiali ed esponenti della politica congolese. E soprattutto, non dimentichiamoci i troppi interessi economici in ballo.

John Mpaliza*

*Attivista per i diritti umani e per la pace
FB: facebook.com/johnmpaliza/ (ospite di MC giugno 2016)




Bolivia. La rivincita della democrazia

testo di Paolo Moiola |


Per la Bolivia è stato un anno vissuto pericolosamente. Il paese andino è passato dal golpe del novembre 2019 al ritorno alla democrazia dell’ottobre 2020. Un periodo molto difficile dal punto di vista politico e sociale, complicato anche dalla presenza della pandemia.

Non sarà facile governare il paese. Rimangono divisioni gravi e problemi seri. Eppure, almeno per ora, i boliviani ce l’hanno fatta: dopo un golpe e un anno di governo de facto il paese andino ha scelto il ritorno alla democrazia attraverso un processo elettorale libero, pacifico e molto partecipato.

Nonostante una tensione diffusa e le difficoltà imposte dalla pandemia, le elezioni dello scorso 18 ottobre hanno infatti registrato una grandissima affluenza, pari all’87 per cento degli aventi diritto. Il risultato è stato netto: Luis Arce Catacora, candidato del Mas-Ipsp (Movimiento al socialismo – Instrumento por la soberanía de los pueblos), ha vinto con il 55,1 per cento dei voti, con un vantaggio abissale su Carlos Mesa di Comunidad ciudadana (28,83%) e Luis Fernando Camacho di Creemos (14%). La presidenta de facto Jeanine Áñez e Carlos Mesa hanno subito riconosciuto la vittoria di Arce e del Mas. Cosa che non è avvenuta con Camacho, il leader dell’estrema destra separatista. È facile prevedere che da quest’ultimo arriveranno i maggiori problemi per il nuovo presidente e il suo governo.

Subito dopo la vittoria, il vincitore aveva scritto un tweet sobrio e distensivo: «Siamo molto grati per il sostegno e la fiducia del popolo boliviano. Recuperiamo la democrazia e riacquisteremo stabilità e pace sociale. Uniti, con dignità e sovranità».

L’ex presidente Evo Morales con Paolo Moiola, autore di questo articolo, a La Paz nel 2005. Foto: archivio Paolo Moiola.

Gli anni di Evo Morales

I boliviani – 11 milioni di persone di cui circa il 60 per cento indigeni (Aymara, Quechua e altre 34 etnie minori) – hanno scelto la continuità con i quasi 14 anni (gennaio 2006 – novembre 2019) di governo di Evo Morales, il primo indigeno eletto presidente.

I meriti di Evo Morales sono indubitabili, a iniziare dal riscatto e dall’inclusione sociale dei popoli indigeni. Con lui questi ultimi hanno riconquistato dignità e orgoglio, pure sulla scia delle tutele introdotte dalla nuova carta costituzionale, in vigore dal febbraio 2009. Anche in campo economico i risultati raggiunti sono stati estremamente lusinghieri.

È altrettanto certo che Evo Morales abbia commesso alcuni errori: sul tema della coltivazione della foglia di coca, sul parco nazionale del Tipnis, sulla gestione dell’Amazzonia boliviana. Probabilmente, il suo sbaglio più grande è stato però quello di forzare la mano per un nuovo mandato presidenziale (sarebbe stato il quarto). Detto questo, il golpe contro di lui del novembre 2019 e il (pessimo) governo de facto che ne è seguito non hanno avuto nulla a che vedere con la democrazia.

In questo momento, l’ex presidente, rientrato in patria dopo l’esilio prima in Messico poi in Argentina, ha sulle spalle una serie impressionante di accuse: dal terrorismo fino alla pedofilia e allo stupro. A tal punto che anche l’organizzazione Human rights watch, pur non lesinando critiche ai suoi anni di governo, nel rapporto «La giustizia come arma» (dell’11 settembre 2020) non ha esitato a etichettare come persecutorie e politicizzate le iniziative giudiziarie contro di lui.

Dopo la vittoria elettorale del 18 ottobre, ci si interroga su un eventuale ruolo politico di Morales. Tuttavia, se è vero che l’ago della storia boliviana non si è spostato a destra e il Mas è tornato centrale, è altrettando vero che oggi i protagonisti sono altri.

Luis Arce (al centro), economista del Mas, festeggia la sua elezione a presidente della Bolivia a far data dall’8 novembre 2020; a destra, il suo vice David Choquehuanca, di etnia aymara. Foto: Ronaldo Schemidt / AFP.

L’oggi di Luis Arce

Il nuovo presidente è Luis Arce, nato a La Paz nel 1963 da una famiglia di insegnanti. Economista, Arce è stato funzionario pubblico, professore universitario e soprattutto ministro dell’economia sotto Evo Morales. Durante il suo lungo operato come ministro (interrotto soltanto per curare un tumore), l’economia boliviana è cresciuta in maniera sorprendente (una media del 4,9 per cento all’anno) e soprattutto ha visto la drastica riduzione del tasso di povertà. Il tutto nell’ambito di una politica economica contraria al pensiero unico neoliberista e iniziata – era il maggio del 2006, primo governo Morales – con la nazionalizzazione del petrolio e del gas.

Al fianco di Arce, come vicepresidente, ci sarà David Choquehuanca, già ministro degli esteri, ex sindacalista e soprattutto aymara, caratteristica importante per quella parte di indigeni boliviani scontenta di aver lasciato la presidenza a un bianco (meticcio, a voler essere precisi).

Luis Fernando Camacho mostra la Bibbia ai sostenitori durante un comizio a Santa Cruz il 4 novembre 2019, nei giorni del golpe; un anno dopo, si piazzerà terzo alle elezioni per la presidenza del paese. Foto: Daniel Walker / AFP.

Dal gas al litio

A parte la presenza di grandi bellezze culturali e naturali (dalle Ande all’Amazzonia), che cosa rende la piccola nazione latinoamericana strategicamente rilevante? La Bolivia del 2020 non è più soltanto il paese con giacimenti di gas (importanti, ma in rapido calo). È anche e soprattutto il paese con le più grandi riserve di litio al mondo, precedendo Argentina e Cile, come dimostrano tutte le principali rilevazioni geologiche (fonte Bbc). Il litio è il metallo del presente e del futuro se si considera che esso è componente essenziale delle batterie delle auto elettriche (oltre che di cellulari e vari dispositivi elettronici). Con l’elezione di Arce pare esclusa la privatizzazione della Yacimientos de litio bolivianos (Ylb), la compagnia statale che tratta il prezioso metallo. Tuttavia, il neopresidente non dovrà cadere nell’errore di puntare sull’estrattivismo, affidandosi cioè a una politica di semplice sfruttamento ed esportazione delle materie prime. La sfida è la creazione di una industria nazionale e la ricerca di una (difficile) compatibilità ambientale.

L’ex presidente Carlos Mesa, secondo più votato nelle elezioni del 18 ottobre 2020, intervistato da Paolo Moiola a Palazzo Quemado, a La Paz, nel 2005. Foto: Francesco Zaratti.

La foglia di coca e la mezza luna bianca

Come per tutti i paesi amazzonici, anche in Bolivia la preservazione dell’ambiente è, e sarà, un tema fondamentale. Finora l’Amazzonia boliviana (che interessa il 44 per cento del territorio) non è stata difesa in maniera adeguata, ripetendo gli errori dei paesi vicini (disboscamento ed espansione della frontiera agricola).

Il nuovo presidente dovrà affrontare anche la controversa questione della produzione della foglia di coca e il problema dei rapporti con la regione chiamata Media Luna (Mezza Luna, per via della sua forma).

La foglia di coca è parte della cultura boliviana e come tale protetta dalla legge (articolo 384 della Costituzione). Il problema nasce dalle quantità prodotte e dal loro uso. Secondo l’agenzia delle Nazioni unite contro la droga (Unodc), nel 2019 la Bolivia ha aumentato del 10 per cento le sue coltivazioni di foglia di coca (stimate in circa 25mila ettari). Nel paese il consumo di coca è legale per alcuni usi (infusione, rituali religiosi andini e mascado, la sua masticazione). Il problema è dato dal fatto che la Bolivia è anche il terzo produttore mondiale di cocaina dopo la Colombia e il Perù.

Produttori di foglie di coca nella provincia del Chapare (dipartimento di Cochabamba). Foto: J. Sailas – UN Photo.

Quanto alla regione della Mezza Luna, essa comprende le pianure orientali del paese e quattro dipartimenti (Santa Cruz, Pando, Beni e Tarija). È abitata da una popolazione bianca o meticcia. Si tratta della regione più ricca della Bolivia per via dell’agricoltura estensiva, dell’allevamento. e dei campi petroliferi, che nel 2006 Evo Morales riportò – attraverso la compagnia pubblica Ypfb – sotto il controllo dello stato, con grandi proteste delle compagnie private e della comunità internazionale neoliberista.

Queste diversità hanno prodotto nella regione la nascita di un forte movimento separatista (Nación Camba), reso ancora più aggressivo dall’arrivo al governo del Mas. Proprio da Santa Cruz de la Sierra, capoluogo politico della Mezza Luna, arriva il personaggio dell’opposizione più controverso, sicuramente pericoloso: quel Luis Fernando Camacho giunto terzo nelle elezioni di ottobre. Cattolico fondamentalista (ma che strizza l’occhio agli evangelici), durante i suoi comizi era solito ripetere: «Dios va a volver a Palacio». E così ha fatto, rispettando tutti i canoni della visibilità mediatica: domenica 10 novembre 2019, in concomitanza con le dimissioni (forzate) del presidente Morales, Camacho è entrato a Palazzo Quemado, sede del governo a La Paz, e si è inginocchiato davanti a una Bibbia, aperta al centro di una bandiera boliviana. Due giorni dopo è stata la senatrice Jeanine Áñez, appena proclamatasi presidenta ad interim della Bolivia, ad affacciarsi al balcone del palazzo mostrando la Bibbia alla folla assiepata nella piazza sottostante.

Un anno dopo, alle elezioni del 18 ottobre 2020, la bianca Áñez si è ritirata, mentre il bianco Camacho si è piazzato molto lontano da Arce e Mesa, raccogliendo però parecchi voti nei dipartimenti della Mezza Luna.

Cosa l’estremista Camacho vorrà fare di quel consenso è una questione rilevante per il futuro del paese andino.

La senatrice Jeanine Áñez, appena proclamatasi presidenta ad interim, si affaccia al balcone del palazzo presidenziale per salutare la folla con la Bibbia in mano (La Paz, 12 novembre 2019). Foto: Aizar Raldes / AFP.

«No hay plata»

In una riunione tenuta pochi giorni prima di assumere la guida del paese, Arce e Choquehuanca hanno affermato che dovranno ridurre il numero dei ministeri perché «no hay plata» (non c’è denaro). Il vicepresidente ha polemicamente aggiunto che il governo transitorio è venuto per «assaltare» invece che per «governare».

A proposito di ricchezze, in «Le vene aperte dell’America Latina», il compianto Eduardo Galeano parla molto della Bolivia e del suo «aver nutrito la ricchezza dei paesi più ricchi». Proprio per il suo passato di dipendenza e sottomissione, oggi per il paese andino la cosa più importante è proseguire lungo la strada che assicuri un’esistenza degna a tutti i suoi abitanti e una reale sovranità nazionale.

Insomma, per il nuovo presidente Luis Arce governare la Bolivia si prospetta più impegnativo di quanto non sia stato vincere le elezioni.

Paolo Moiola