Burundi: Il nuovo corso di Evariste

testo e foto di Marco Bello |


Il paese vive in un regime repressivo che nega le libertà fondamentali dal 2015. Da giugno scorso ha un nuovo presidente che fa sperare in future aperture. Ma occorre dargli tempo, dicono gli osservatori. E l’Unione europea, che ha imposto sanzioni al paese nel 2015, fa prove di dialogo.

È il 22 febbraio, parlo con il mio amico burundese in esilio, ed ecco che mi comunica la notizia di oggi: «Radio Bonesha Fm potrà di nuovo trasmettere in Burundi!». Lo ha annunciato Nestor Bakumukunzi, presidente del Consiglio nazionale per le comunicazioni (Cnc). È un primo debole segnale di apertura di un regime repressivo. Così come la liberazione dei quattro giornalisti del giornale Iwacu, alla vigilia del Natale scorso, dopo 430 giorni di prigionia. Liberazione arrivata poche settimane dopo che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il 4 dicembre 2020, aveva tolto il Burundi dalla sua agenda politica, ovvero dei paesi da monitorare almeno trimestralmente. Il Consiglio aveva adottato una dichiarazione nella quale «[…] prende nota del miglioramento delle condizioni di sicurezza nel paese e delle misure prese per lottare contro l’impunità […]. Il Consiglio sottolinea che molto resta da fare in materia di riconciliazione nazionale, promozione dello stato di diritto e di un sistema giudiziario indipendente ed efficace, la preservazione dello spazio democratico e il rispetto delle libertà fondamentali […]».

La dichiarazione del Consiglio indicava inoltre la «una nuova fase per lo sviluppo» intrapresa dal Burundi, ed esortava la comunità internazionale a continuare a «interagire con il paese».

Ma di quale nuova fase si tratta? Facciamo un passo indietro.

Anno spartiacque

Aprile 2015, il presidente Pierre Nkurunziza, del partito Cndd-Fdd (gli ex guerriglieri hutu durante la guerra civile terminata con gli accordi del 2003), in carica da 10 anni, forza la Costituzione e si ricandida per un terzo mandato (cfr. MC marzo 2016). La società civile, i partiti di opposizione e gran parte della popolazione contestano la candidatura incostituzionale. Il regime reprime le piazze nel sangue. Le vittime sono decine. Il 13 maggio alcuni generali, Godfroid Niyombare e Cyrille Ndairukure in testa, tentano un colpo di stato per rovesciare Nkurunziza, ma vengono scoperti.

La repressione è violentissima e diretta a tutti i settori della società. Inizia una vera e propria caccia all’uomo. Molti intellettuali, giornalisti, leader della società civile e di partiti politici considerati conniventi, vengono arrestati, altri fuggono all’estero. Gli Imbonerakure, i giovani del partito, costituiscono una vera e propria milizia che svolge i lavori di repressione più sporchi.

Nkurunziza va avanti, organizza le elezioni per luglio, impedisce la partecipazione di osservatori stranieri e vince senza difficoltà. La comunità internazionale, che aveva già contestato la candidatura fuori della Costituzione, mette il paese in isolamento. L’Ue attiva sanzioni economiche. Il 2015 diventa un anno spartiacque per il piccolo paese centro africano.

«Dopo il tentato golpe di maggio 2015, la maggior parte dei media indipendenti e i leader della società civile, sono stati obbligati a scappare. A livello dei media abbiamo contato più di cento giornalisti che sono fuggiti nei paesi confinanti o in Europa, e così anche io, che sono partito un po’ tardi. Dopo c’è stato davvero un passo indietro della libertà di espressione, del pluralismo politico», così ci racconta il direttore di un popolare giornale burundese, che chiede l’anonimato.

Nei cinque anni che seguono, il partito al potere occupa tutti gli spazi politici e annulla ogni opposizione dei partiti e della società civile, diventando l’unico attore sia a livello centrale che locale sul territorio. Gli Imbonerakure svolgono un lavoro di controllo capillare nei quartieri delle città. «Chi non è stato arrestato o ucciso, se ha un po’ di soldi, tenta la via dell’esilio. Chi non riesce, resta in patria adottando un profilo basso», ci dice il giornalista, contattato telefonicamente. Molti burundesi passano la frontiera con Rwanda e Tanzania, dove si creano campi profughi, come già negli anni ‘90 durante la guerra civile. Si parla di oltre trecentomila rifugiati. Il regime inoltre isola il paese dal resto del mondo: nell’ottobre 2017 il Burundi esce dalla Corte penale internazionale, nel febbraio 2019 il governo chiude l’ufficio locale dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu.

Evariste Ndayishimiye e la First Lady Angelique Ndayubaha / Photo by TCHANDROU NITANGA / AFP

Cambio al vertice?

Per le elezioni del 2020 Nkurunziza non si ricandida, e il partito al potere Cndd-Fdd sceglie il generale Evariste Ndayishimiye. «Nkurunziza voleva Pascal Nyabendo, presidente dell’Assemblea nazionale, ma questi non aveva fatto la guerra. I generali hanno preferito Ndayishimiye. Lui è di certo il generale meno coinvolto in affari sporchi, in storie di corruzione e in massacri. Benché ai tempi fosse alla presidenza, e quindi al corrente di tutto, era la figura più presentabile», ci racconta una altro giornalista, che ancora vive e lavora a Bujumbura.

Nel maggio 2020, senza difficoltà, le elezioni consacrano vincitore il candidato del Cndd-Fdd. Nadyishimiye dovrebbe prendere la presidenza ad agosto, ma Pierre Nkurunziza muore improvvisamente l’8 giugno. Così l’investitura è anticipata al 18 giugno.

La morte di Nkurunziza resta avvolta nel mistero: c’è chi dice sia stato avvelenato, altri che sia morto per Covid. Probabilmente non si saprà mai.

Il nuovo presidente esordisce con un ammorbidimento. «Nel suo discorso, diceva ai partiti politici di opposizione di non avere più paura di criticare il governo, affinché esso si possa migliorare. Ha chiesto ai membri del suo partito di non considerarli come nemici, ma piuttosto come partner. È un atteggiamento un po’ paternalistico però», ci racconta il giornalista. Il 28 gennaio 2021, il presidente esorta il Consiglio nazionale di comunicazione a «sedersi con i responsabili dei media per trovare soluzioni». Ricordiamo che, all’indomani del tentato golpe, alcune radio come Radio Publique
Africaine
(Rpa), Radio-télévision Renaissance, sono state distrutte e i giornalisti sono dovuti fuggire. Per altri media sono scattate sanzioni, come la sospensione. Anche radio internazionali come Bbc e Voice of America sono state silenziate. Molti giornalisti si sono organizzati in esilio per continuare a informare attraverso piattaforme social, web radio e gruppi Whatsapp o Telegram (cioè tramite la diffusione di servizi audio via programmi di messaggistica).

Il sito del giornale Iwacu, l’unico indipendente rimasto, bloccato da anni, così come il popolare forum dei lettori, dovrebbe essere ripristinato a giorni (al momento in cui scriviamo è ancora inaccessibile dal Burundi).

Un altro aspetto interessante è che il presidente si dice per la «tolleranza zero» contro la corruzione. Anche in questo caso occorrerà vedere se ci sarà un seguito alle parole.

Ci dice il giornalista: «Ho chiesto al leader del principale partito di opposizione, il Cnl (Congresso nazionale per la libertà), Agathon Rwasa, e lui ha risposto: “Vorrei crederlo, ma il discorso sarà applicato?”. Il dubbio c’è. Sì, il nuovo presidente ha la buona volontà di cambiare le cose, fa discorsi di aperture, ma sarà seguito dal suo partito, dalla maggior parte dei membri?».

La squadra di governo

Ci si domanda se il cambio politico espresso dal presidente sia reale. «Sì e no – ci risponde il giornalista in esilio -. Sì nella misura in cui ci sono nuove personalità, delle novità, ma non abbiamo notato un vero cambiamento come la lotta alla corruzione, la riduzione delle violazioni contro i diritti umani. In generale possiamo dire che c’è una certa stabilità, una certa pace politica, ma è così perché ci sono pochissime voci critiche attive in Burundi». E continua: «I leader della società civile sono per la maggior parte in esilio, l’attività dei partiti politici è minima, non c’è ancora il pluralismo, occorre dare tempo al nuovo presidente, vedremo cosa farà».

Qualche dubbio resta soprattutto sulla squadra che lo circonda. «Sono sempre gli stessi, anzi qualcuno è uscito ancora più allo scoperto». Il nostro interlocutore si riferisce ai due falchi del partito, i generali Alain-Guillaume Bunyoni e Gervais Ndirakobuca, nominati premier e ministro dell’Interno e della sicurezza, entrambi sotto sanzioni dirette dell’Unione europea dal 2015 per «atti di violenza, repressione e incitazione alla violenza».

«Il presidente ha delle buone intenzioni ma non avrà la possibilità di realizzare la sua politica, perché è circondato da uomini molto duri. Sono quelli che gli aveva indicato Nkurunziza e lui ha seguito queste direttive perché considera il suo predecessore come il suo grand père (nonno)», ci confida una fonte burundese. Qualcuno dice addirittura che non è il presidente a dirigere il paese, ma il primo ministro. «Ad esempio, non nomina nessuno, sono tutti uomini di Bunyoni».

Un altro aspetto, critico per un cambio di passo, è la base del partito, quella che controlla il territorio. Tutte le autorità locali, province, comuni, fino al livello più capillare di divisione amministrativa, la collina, sono dirette da gente del Cndd-Fdd. «Il paese è totalmente controllato. Se, come giornalista devo andare a fare un servizio nell’interno, devo chiedere il permesso al governatore, che mi segnala al cumune e infine al capo collina», ci dice il giornalista di Bujumbura. La struttura piramidale difficilmente cambierà, e il rischio è che manterrà la sua rigidità.

Le attese della gente

I burundesi, in generale, sono in attesa di vedere se ci sarà un effettivo miglioramento, con un minimo di speranza e una certa preoccupazione.

«Da quando è stato eletto il nuovo presidente, molte persone vivono uno stato di attesa e allerta. Aspettano e cercano di capire cosa sta succedendo. Inoltre, si comincia a parlare di rotture interne al partito. Ci sono stati arresti di personalità del Cndd-Fdd. Una probabile lotta interna per il potere», ci racconta Valeria Alfieri, ricercatrice, esperta della regione dei Grandi Laghi africani.

Un altro fronte contro il regime burundese è quello dell’opposizione armata. Sebbene il governo la neghi, esistono dei gruppi armati burundesi che hanno le basi nella confinante Repubblica democratica del Congo (Rdc) e conducono assalti di disturbo.

«Si tratta di partiti di opposizione che stanno cercando di mettere in piedi dei movimenti armati.
Altri sono legati ai golpisti del 2015. Avvengono reclutamenti nei campi di rifugiati burundesi all’estero. Cominciano a dare fastidio quando riescono a muoversi tra Congo e Rwanda, e se riescono a mettere le mani su risorse minerarie per finanziarsi. Tutto è molto legato a quello che succede in Congo». Continua la ricercatrice. «In Rwanda il presidente Paul Kagame non è interessato all’instabilità, ma chiude un occhio su questi movimenti».

Il 2 febbraio scorso una delegazione dell’Unione europea è stata in visita a Bujumbura dove ha iniziato una serie di incontri con il ministro degli Esteri Albert Shingiro. Le due parti hanno previsto un percorso per giungere all’eliminazione delle sanzioni entro fine novembre.

Le sanzioni, oltre quelle dirette ad alcuni alti funzionari, hanno privato il governo del Burundi di aiuto budgetario di circa 430 milioni di euro in cinque anni. D’altro canto, i rappresentanti dei paesi membri non sono stati più ricevuti nei ministeri burundesi, la repressione dei diritti umani è aumentata, mentre il Burundi ha intensificato gli affari con la Cina e la Russia. Insomma, come dire, dopo cinque anni di separazione, approfittiamo del nuovo presidente più presentabile, per cercare di ricostruire una relazione che conviene a tutti, con buona pace dei diritti umani.

Marco Bello


I giovani burundesi e le sfide del futuro

Un paese benedetto da Dio?

Il piccolo Burundi ha poco spazio per coltivare. I giovani, anche quelli che studiano, non hanno possibilità di trovare un lavoro. Alcuni missionari e Ong tentano di dare loro una speranza per l’avvenire.

Quando si atterra a Bujumbura si sorvola il lago Tanganika situato a 773 m d’altitudine e si vede lontano il monte Heha, di 2.670 m, a 30 km a Nord Est della città. Laggiù, è la zona detta Bujumbura rural, dove il clima è fresco e la nebbia copre spesso le montagne. La città di Bujumbura si estende a perdita d’occhio lungo i grandi assi stradali che la attraversano. In meno di venti anni ha cambiato aspetto. Le automobili hanno invaso le grandi arterie e il traffico è oggi regolato da semafori. Nuovi quartieri si stendono lungo gli ampi viali che escono dalla città e le colline intorno, un tempo coltivate, vedono spuntare case come funghi, mentre i quartieri popolari si addensano e si estendono con una rapidità sconcertante.

Tutte le province del paese conoscono un’evoluzione simile. Le costruzioni in mattoni cotti, cemento e tetti in lamiera sostituiscono poco alla volta quelle in mattoni di terra compattata coperte di tegole. L’accesso all’acqua e all’elettricità è migliorato nei quartieri della città, come sul territorio nazionale. Anche internet e telefono cellulare sono oggi presenti ovunque.

Un anno complesso

Nel 2020 il Burundi ha conosciuto molti cambiamenti. Le elezioni hanno portato al potere un nuovo presidente, sempre del partito dell’aquila, simbolo del Cndd-Fdd, affisso a tutti gli angoli delle strade. Molti governatori di provincia e amministratori comunali sono stati cambiati. La popolazione ha reagito all’annuncio dei risultati senza manifestare né gioia né tristezza.

Il Tanganika ha visto le sue acque alzarsi di oltre due metri e rovinare numerose case del litorale nel marzo dello scorso anno.

Nello stesso mese la pandemia di Covid ha causato la chiusura di frontiere e il blocco dei voli commerciali. Misure tolte e rimpiazzate da periodi di quarantena di sette giorni obbligatori in hotel, con test sistematici dei passeggeri. Ma le frontiere terrestri restano chiuse, a eccezione del traffico delle merci tramite camion. Tutto questo ha avuto ripercussioni economiche sugli scambi transfrontalieri, in particolare sugli assi che collegano il Burundi con  Congo RD e Rwanda.

Le feste di matrimonio e le cerimonie di fidanzamento, o celebrazioni di lutti, continuano a ritmare la settimana della vita sociale del paese. Le chiese sono pure piene. Cattolici e protestanti costituiscono l’85% della popolazione. Ma la povertà crescente e l’aumento della disoccupazione iniziano a creare problemi. Il Fondo monetario internazionale ha appena classificato il Burundi come primo dei paesi più poveri del mondo. In un paese tradizionalmente agricolo, dove il 90% della popolazione attiva è ancora occupata nei campi, ci si chiede quali prospettive ci siano per la gioventù. Come vivono i giovani in un paese in piena esplosione demografica e urbanizzazione accelerata, dove le terre non bastano più a dare lavoro a tutti?

Missione giovani

Padre Kinglesy, missionario nigeriano dei missionari d’Africa, responsabile della pastorale dei giovani a Buyenzi, un quartiere densamente popolato del centro di Bujumbura, ci spiega come accompagna i giovani: «Cercano di cavarsela con pochi mezzi. Qui cristiani e musulmani vivono insieme. Si capiscono. Il quartiere è misto, conta diverse moschee e si parla volentieri lo swahili, la lingua privilegiata dei musulmani. A Buyenzi ci sono molti meccanici di origine congolese venuti all’epoca coloniale. Ci sono anche molti giovani migrati dall’ambiente rurale. Alcuni tentano di fare dei piccoli commerci, o dei lavoretti. Ma vediamo anche sempre più delle ragazze molto giovani cadere nella prostituzione. Vengono a confidarmi che è il loro unico mezzo di sopravvivenza, non hanno altra opzione. Ci sono anche diversi furti che constatiamo essere in aumento in questo quartiere che è vicino al mercato. È a causa della fame. Molti giovani dormono fuori, sotto le verande dei negozi, perché mancano alloggi, ma non sono disperati. E quelli che hanno un piccolo spazio per abitare, quando lo vediamo, ci diciamo che sono coraggiosi.

La nostra missione è la promozione della pace. Spingere i giovani a cercare in se stessi i talenti non sfruttati. Attraverso la danze e i concerti si dà loro uno spazio d’espressione. Organizziamo delle competizioni di danza moderna, e sviluppiamo anche il canto e abbiamo qualche strumento musicale per chi vuole esercitarsi».

Alcuni giovani utilizzano anche le danze e il canto per guadagnare qualcosa, proponendosi di suonare nei matrimoni e nelle feste. Questo può permettere loro di pagarsi gli studi.

«Noi ci occupiamo anche dei bambini di strada. Una Ong ci ha proposto di costruirci un forno per il pane, che permetterà di sviluppare una piccola attività generatrice di reddito per qualcuno di loro. Abbiamo pure creato una piccola biblioteca con una sala di lettura per gli studenti che vengono a cercare un posto calmo e illuminato per studiare».

Avvenire sospeso

Spesso gli universitari alla fine degli studi hanno come unica opzione quella di proporsi a una società di sicurezza o a uno sportello di vendita di carte telefoniche, o come camerieri nei baretti di quartiere. Una giovane laureata non ha trovato altro che lavorare come baby sitter per una famiglia ricca. Un’altra che ha terminato la scuola secondaria è tornata alla campagna per coltivare. Perché, dice, «almeno qui posso trovare un sapone per lavarmi». Ma questo ritorno alla terra non sempre è auspicabile, in quanto constatiamo che in certe province i fratelli coltivano i campi a stagioni alternate, perché la terra è diventata troppo poca.

Il regime attuale ha concentrato molte risorse nella mani del colonnelli del partito. Essi gestiscono o controllano una parte dell’economia e investono nei trasporti, bus o piccole moto a tre ruote, i took-took, che sono diventate i principali trasporti di merce, o ancora in certe imprese, come il primo produttore di concime del paese, la Fomi. Il settore minerario è pure trainante.

I giovani del partito, chiamati Imbonerakure, che significa «quelli che vedono lontano», pattugliano il paese sotto l’occhio benevolo dei militari. Un contributo obbligatorio è dovuto per i giovani, ai quali è chiesto di arruolarsi con la promessa di un successivo ipotetico impiego. Un quadro che sembra molto scuro per l’avvenire dei giovani.

Diversi programmi di appoggio all’inserimento lavorativo fanno sforzi per creare opportunità per i giovani, e favorire lo sviluppo delle filiere, siano esse agricole, di allevamento o per la trasformazione del latte o la produzione del miele. Anche tramite il trasferimento di competenze degli artigiani verso i giovani, stimolando i più dotati a fornire formazione o possibilità di apprendistato.

Sarebbe il caso anche di aiutare gli universitari a inventare dei lavori creativi, a posizionare meglio il paese sui mercati regionali, a innovare utilizzando gli strumenti digitali.

È vero, il Burundi è un paese che ha del potenziale, ma è tempo di uscire dal torpore creando le condizioni per scappare alla corruzione e garantire la sicurezza e l’uguaglianza delle possibilità per tutti.

Jérémie Kabisa*
*Espatriato congolese che vive e lavora a Bujumbura.

Bibliografia

• Valeria Alfieri, Le Burundi sous Ndayishimiye: une page qui se tourne?, Revue Hommes et libertés, marzo 2021.

Archivio MC

• Marco Bello, Scivolando del baratro, MC 03 2016.
• Marco Bello, La verità sono io, MC 06 2013.
• Marco Bello, Radio incontro, MC 05 2011.

 

 




Il «game» infinito dei respingimenti

testo e foto di Simona Carnino |


Perseguitati in patria, vendono tutto e partono. Obiettivo Germania. Dai Balcani alle Alpi, tenteranno di attraversare diverse frontiere, anche a piedi, nella neve. Ma sono più volte respinti. Abbiamo seguito una famiglia in fuga per la vita.

Oulx. La sera del 31 dicembre, Nadim, sua sorella Tamkin e la madre Fawzia arrivano a Oulx, in alta Valle di Susa, con uno degli ultimi treni da Torino.

Davanti alla stazione ferroviaria, è parcheggiato l’autobus di linea che li porterà a Claviere.

Fawzia ha 61 anni, è una maestra d’asilo e vedova di un dentista. Nadim ha 24 anni e Tamkin 18, ma alle spalle un’esperienza di vita di gran lunga superiore all’età anagrafica. In questa notte a cavallo tra il 2020 e il 2021, il loro obiettivo è solo uno: superare la frontiera con la Francia, attraverso i sentieri montani, e arrivare a Briançon. Se ci riusciranno, la Germania, traguardo del loro viaggio, sarà più vicina.

Nadim alza lo sguardo verso il cielo. Le nuvole basse e dense non lasciano dubbi. Nevicherà. Anche nel loro paese di origine, l’Afghanistan, le strade sono spesso ricoperte da una pesante coltre di neve durante l’inverno. Sanno bene cosa significhi addentrarsi tra i boschi, con il rischio di perdersi o di essere vittime di ipotermia.

Ma l’urgenza di arrivare dall’altra parte supera la paura, in particolare ora che non hanno più un soldo e sono riusciti a lasciarsi alle spalle la Serbia e la rotta balcanica, dove sono stati intrappolati per un anno, continuamente respinti dalla polizia croata e rumena nei loro tentativi di oltrepassare i confini dell’Europa.

La vita in Afghanistan

Nadim è un attivista per i diritti umani. «Tutto è iniziato nel 2015, quando Farkhunda Malikzada è stata lapidata da una folla imbestialita, accusata ingiustamente di aver bruciato il Corano – racconta Nadim -. Quella brutalità mi ha spinto a scendere in piazza per chiedere giustizia e da quel giorno sono diventato un attivista e membro del Civil society human rights network, un consorzio di organizzazioni per i diritti umani in Afghanistan. Partecipavo spesso a programmi radiofonici per parlare di diritti delle donne e degli sfollati».

Qualche tempo dopo, un gruppo di persone armate e a viso coperto ha fatto irruzione in casa di Fawzia, minacciando di uccidere tutta la famiglia se Nadim non avesse chiuso la bocca. «Mia madre ha smesso di lavorare e mia sorella di andare a scuola, per paura di essere uccise in strada – continua Nadim -. Abbiamo lasciato il quartiere, ma ci hanno ritrovati. La cosa che mi rattrista di più è che non ho mai capito chi fossero quelle persone, se affiliati del governo o militanti Talebani. Scappare era l’unica possibilità che vedevamo. Abbiamo barattato la casa, l’automobile e i gioielli di mia madre con un nostro cugino, in cambio dei soldi per il viaggio».

E così, una mattina di inizio dicembre 2019, Nadim, Tamkin e Fawzia si sono lasciati alle spalle Kabul. Con un biglietto aereo e il loro passaporto sono volati a Dubai, ma dagli Emirati Arabi non c’era modo di arrivare liberamente in Germania. Il passaporto afghano permette di viaggiare unicamente in 30 paesi al mondo, e nessuno di questi è uno stato europeo.

«Abbiamo speso 45mila dollari per acquistare tre passaporti di nazionalità inglese – spiega Nadim -. Quasi tutti i nostri soldi sono andati in fumo così, ma non vedevo alternativa». Il passaporto inglese permette ancora oggi di muoversi senza richiesta di visto turistico in 130 stati, nonostante le restrizioni di movimento imposte dal Covid-19.

Acquistati tre biglietti per Francoforte, durante uno scalo a Budapest, la polizia ungherese si è resa conto che i passaporti della famiglia erano falsi. Senza dar loro la possibilità di richiedere asilo politico e, contravvenendo al principio di non refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra, la polizia di frontiera ha trasportato Fawzia e i suoi figli di fronte alla recinzione innalzata dall’Ungheria sul confine con la Serbia. Aperto il cancello, li ha scaricati nel paese dell’ex Jugoslavia.

I Balcani

Il governo di Viktor Orbán, da anni, si distingue per una politica xenofoba e aggressiva nei confronti dei migranti. Il 17 dicembre 2020, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha condannato l’Ungheria per non aver rispettato l’obbligo di garantire l’accesso alla procedura di richiesta d’asilo in particolare alle persone in arrivo dalla frontiera serba.

Nadim, Tamkin e Fawzia sono rimasti un anno in Serbia, tra i campi per migranti di Vranje, nel Sud del paese, a Šid, a pochi chilometri dal confine croato, e a Krnjača, Belgrado.

«Niente era umano, neppure il cibo – continua Nadim -. Non potevamo lavorare, non avevamo assistenza legale, e la gente ci chiamava terroristi. Abbiamo provato a scappare dalla Serbia a piedi dieci volte, ma siamo sempre stati respinti. Le prime quattro volte abbiamo provato a entrare in Romania, ma all’ultimo tentativo la polizia di frontiera mi ha picchiato e rotto il naso. Siamo tornati in Serbia dove sono stato operato. Poi abbiamo provato a passare sei volte in Croazia, ma siamo stati respinti. All’undicesima volta abbiamo pagato uno smuggler (trafficante, ndr) per arrivare in Italia. Il viaggio è costato 15mila euro per circa 650 km».

Nessun migrante si mette in cammino con i contanti in mano. In genere, così come ha fatto il cugino di Nadim, un parente nel paese di origine paga in maniera telematica un’organizzazione criminale che si occupa di gestire il viaggio a prezzi esorbitanti, approfittando delle restrizioni imposte dall’Europa e della disperazione delle persone. Di solito il trasporto avviene in automobile e furgoncino, ma le frontiere più spesso vengono attraversate a piedi.

Proprio durante il passaggio a piedi del confine tra Croazia e Slovenia, Fawzia, stremata dal viaggio, è svenuta. Abbandonati dal trafficante, Nadim e Tamkin hanno cercato aiuto, consegnandosi alla polizia slovena intenta a intercettare i migranti nel bosco per respingerli in Croazia. Dopo il ricovero all’ospedale di Lubiana, Fawzia e i suoi figli sono stati trasferiti a un campo per migranti e registrati nel sistema Eurodac, il database europeo per l’identificazione delle impronte digitali di coloro che richiedono protezione internazionale.

Senza volerlo, Nadim, Fawzia e Tamkin hanno fatto domanda d’asilo in Slovenia, l’unico modo possibile per non essere deportati nuovamente in Croazia.

«Appena mia madre si è ripresa, abbiamo ricontattato la persona con cui eravamo arrivati in Slovenia, perché ci trasportasse fino a Udine», spiega Nadim. Infine, dalla città friulana, un treno li ha portati a Oulx, dove giungono dopo più di un anno dalla partenza da Kabul.

Alle 19.50 Fawzia e i suoi figli acquistano tre biglietti e prendono posto sull’ultimo autobus per Clavière. Dopo pochi minuti la corriera parte, lasciandosi indietro la cittadina.

I sopravvissuti alla rotta balcanica

A partire da maggio 2020, a Oulx è aumentato il numero di passaggi dei sopravvissuti alla rotta balcanica. Chi riesce a fuggire dalla Bosnia e dalla Serbia, scampando fisicamente ai respingimenti a catena attuati da Croazia, Slovenia e anche dall’Italia a Trieste e Udine, si dirige a Ventimiglia o a Oulx per superare il confine italo-francese. La frontiera tra Slovenia e Austria è quasi del tutto inaccessibile da tempo, per cui, chi vuole andare in Germania e in Nord Europa è costretto ad allungare il viaggio verso l’Italia e la Francia.

Come Fawzia, Nadim e Tamkin, molte persone che transitano per il valico transfrontaliero del Monginevro sono afghane, ma anche pachistane, iraniane e del Nord Africa. Queste ultime preferiscono evitare la Libia, provando a raggiungere l’Europa attraverso la Turchia e i paesi dell’ex Jugoslavia. Secondo i dati del Danish refugee council, l’85% sono famiglie, a volte con bambini piccoli o nati durante il viaggio.

Continuano a tentare la sorte anche persone provenienti dall’Africa subsahariana, attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, e richiedenti asilo in Italia, ma che puntano verso la Francia.

Secondo i dati raccolti dal Refuge solidaire di Briançon, il primo ricovero per migranti in transito in territorio francese, tra luglio 2017 e dicembre 2020, sono arrivate in Francia dal Monginevro 11.632 persone. È probabile che il numero sia superiore, perché non tutti i migranti si fermano al rifugio.

La frontiera tra la neve

Alle 20.20, l’autobus su cui viaggiano Fawzia, Nadim e Tamkin si ferma sulla strada principale di Clavière. L’abitato, nota meta sciistica della Via Lattea, è immerso in un silenzio inusuale per una vigilia di Capodanno. Le restrizioni nazionali per ridurre il contagio di Covid-19 hanno imposto la chiusura degli impianti sciistici e dei ristoranti. Il termometro del centro di informazione turistica segna i sette gradi sotto zero.

Insieme a Fawzia e i suoi figli, scendono a Clavière quattro ragazzi iracheni. Davanti alla chiesa del paese, i volontari della Croce Rossa, con il progetto MigrAlp, fin dall’inverno del 2017, si occupano di informare i migranti delle difficoltà del cammino nella neve, oltre a fornire assistenza sanitaria in caso di emergenza.

«Tra gennaio e il 15 febbraio abbiamo assistito 420 persone, tra chi prova ad attraversare la frontiera e chi è stato respinto dalla polizia francese – dichiara Michele Belmondo della Croce Rossa di Susa -. Ogni sera consegniamo ai migranti un volantino con i numeri di emergenza da chiamare se si trovano in difficoltà».

Fawzia e gli altri spariscono dietro alla chiesetta di Clavière, verso le piste da sci di fondo, e iniziano a camminare in direzione Francia. Le seggiovie sopra di loro si ergono immobili contro la luna quasi piena, che appare e scompare dietro le nuvole gravide.

Come previsto, inizia a nevicare. Fawzia sente che le forze la stanno abbandonando e si appoggia a sua figlia Tamkin. La fitta nevicata non le permette di proseguire il cammino. Nadim ha già visto questa scena sulla frontiera tra Slovenia e Croazia e, per evitare che la situazione della madre si complichi, prende una decisione. La famiglia torna indietro e chiede aiuto alla Croce Rossa, che la soccorre e la trasporta al rifugio Fraternità Massi, a un centinaio di metri dalla stazione di Oulx.

«Aperto da settembre 2018, il rifugio è gestito operativamente dalla Fondazione Talità Kum negli edifici dell’ordine dei Salesiani, con il supporto della prefettura, del comune e il finanziamento della Fondazione Magnetto e della Curia – spiega don Luigi Chiampo, fondatore di Talità Kum -. Abbiamo una capienza di 30 posti letto e in quest’ultimo periodo ospitiamo circa 20-30 persone a notte. Al momento stiamo presentando un progetto con la prefettura per poter continuare a fornire assistenza».

Dalle 4 del pomeriggio alle 10 del mattino, gli operatori del rifugio forniscono un pasto caldo, abbigliamento pesante e un letto ai migranti in transito, bloccati dalle condizioni meteorologiche o respinti dalla polizia francese. Qui l’associazione Rainbow for Africa fornisce assistenza sanitaria e l’Associazione di Studi giuridici per l’immigrazione consulenze legali, così come fanno gli operatori della Diaconia Valdese in un ufficio a pochi passi dalla stazione di Oulx.

Oltre al rifugio Fraternità Massi, da dicembre 2018, a Oulx è stata occupata una casa cantoniera, attualmente a rischio di sgombero, che offre accoglienza 24 ore su 24, diventando un punto di riferimento per numerosi migranti in transito che possono sostare nelle ore diurne, prima di tentare l’attraversamento notturno. La chiusura della casa limiterebbe l’assistenza ai migranti, che non avrebbero un ricovero dove ripararsi di giorno.

Il game infinito

Alle 16.40 di alcuni giorni dopo il primo tentativo di superamento del confine nella neve, Fawzia, Nadim e Tamkin provano a lasciarsi alle spalle l’Italia in Flixbus, la compagnia internazionale di autobus low cost. Pur avendo acquistato un regolare biglietto fino a Lione, la traversata dura meno del previsto. Infatti, arrivati in prossimità del tunnel del Frejus, la polizia di frontiera francese procede al controllo dei documenti. In pochi istanti Fawzia e i suoi figli si ritrovano fuori dall’autobus. Senza fornire maggiori spiegazioni, la gendarmerie rifiuta l’ingresso alla famiglia, affidandola alla polizia italiana che la scarica a Oulx, a pochi passi dal rifugio Fraternità Massi. «Chi arriva dalla rotta balcanica sa che la logica dei respingimenti da parte della polizia si ripete sulle successive frontiere. Una sorta di “game infinito”, un gioco al massacro che, in maniera più o meno violenta, inizia da quando i cittadini extracomunitari arrivano ai confini dell’Unione europea fino al paese di destinazione – dichiara Davide Rostan, il pastore valdese di Susa -. Dopo decine e decine di tentativi di attraversamento, i migranti spesso riescono a superare le frontiere, ma il costo in termini economici, fisici e psicologici è incalcolabile».

Fawzia, Nadim e Tamkin sono stati respinti lungo tutto il viaggio, dall’Ungheria, dalla Romania, dalla Croazia e infine dalla Francia.

Da novembre 2020, in seguito all’attentato terroristico di Nizza del 29 ottobre, il governo francese ha investito nella militarizzazione del valico transalpino, stanziando 60 nuovi gendarmi sulla frontiera, per intensificare i controlli migratori. La Police aux frontières perlustra anche i sentieri montani, in cerca dei migranti che attraversano il confine camminando nella neve, spesso rincorrendoli per fermarli e respingerli al Monginevro.

«Dai dati raccolti emergono profili inquietanti sulle violazioni compiute dalla polizia francese – dichiara Giulia Spagna, responsabile dei programmi regionali per l’Europa del Danish refugee council -. I richiedenti asilo vengono respinti senza alcuna procedura ufficiale, ma in tacito accordo con la polizia italiana, con cui è in atto una collaborazione informale per aggirare le leggi internazionali sulla protezione e asilo, che prevedono invece il controllo dell’avvenuta registrazione delle impronte digitali delle persone migranti in un paese dell’Unione europea prima di attuare un respingimento. Di recente ci siamo abituati alle immagini scioccanti di persone e famiglie al freddo, derubate e picchiate lungo la rotta balcanica. Il Piemonte e la Liguria sono le tappe successive di quella rotta, e vi troviamo le stesse persone, ancora più stremate, nuovamente umiliate nei loro diritti umani».

Verso la Germania

Di fronte all’impossibilità di superare il valico transalpino, Nadim, Fawzia e Tamkin cambiano strategia e si dirigono verso la frontiera di Ventimiglia, per provare a raggiungere la Francia da quel versante.

«Dopo un controllo dei documenti, la polizia ci ha fatto scendere dal treno prima di raggiungere Nizza – racconta Nadim al telefono -. Il giorno dopo ci abbiamo riprovato e, incredibilmente, abbiamo avuto fortuna e siamo arrivati a Mentone».

A molti, invece, è andata peggio.

Finalmente in Francia, la famiglia prende l’ennesimo bus e arriva a Parigi. Da lì, pagando 1.100 euro a un ultimo passeur, il viaggio termina ad Amburgo, in Germania. È il 18 gennaio del 2021. Un anno, un mese e circa 15 giorni dalla partenza da Kabul.

«Abbiamo speso intorno ai 65mila dollari per il viaggio – racconta Nadim -. A volte mi sembra impossibile che non abbiamo più un soldo e che siamo sopravvissuti a quest’anno. Ma so anche che siamo fortunati. Ho visto persone in Serbia che viaggiavano da tre anni e non riuscivano a trovare i soldi per superare la frontiera».

Nadim, Fawzia e Tamkin richiedono asilo politico ad Amburgo, ma la registrazione delle impronte digitali in Slovenia mette la famiglia di fronte a una grande incertezza. Secondo il regolamento di Dublino, le procedure di richiesta di asilo devono essere gestite nel primo paese europeo di ingresso. L’eventuale ricollocazione in un altro stato dell’Unione europea avviene in un secondo tempo e non sempre con successo.

«Abbiamo un permesso di soggiorno di tre mesi in Germania, ma non sappiamo se la nostra pratica di asilo può essere gestita qui o se siamo obbligati a tornare in Slovenia», racconta Nadim.

A oggi, la famiglia di Fawzia si trova in un campo per migranti in attesa di capire cosa ne sarà del loro futuro.

«Le restrizioni delle frontiere arricchiscono solamente i trafficanti – spiega il pastore valdese Rostan -. Se ai migranti venisse concessa l’opportunità di ricevere un visto per raggiungere l’Europa, potrebbero investire i loro soldi per affittare una casa, acquistare un corso di lingua e avere il tempo di cercarsi un lavoro, invece di essere costretti a pagare organizzazioni criminali per raggiungere la propria meta».

L’umanità del confine

Nel libro di Marco Balzano «Le parole sono importanti», l’autore spiega che il termine «confine», dal latino cum e finis, è letteralmente il luogo dove si finisce insieme, la soglia dell’incontro, la frontiera nel suo senso etimologico, uno spazio dove si sta di fronte e si intravvede l’altro.

Il confine tra Francia e Italia è un muro difficile da valicare, ma è anche il luogo dove organizzazioni e persone italiane e francesi cooperano per assistere i migranti in transito, dando loro cibo, vestiario e cure mediche. Una sorta di gestione umana delle frontiere, che si oppone di fatto alla militarizzazione dei confini imposta dalle istituzioni europee.

Dal 2017 a oggi, quattro persone sono morte durante l’attraversamento del confine del Monginevro. Eppure le temperature rigide, i sentieri impervi, la neve, la mancanza di indumenti pesanti e l’inesperienza dei viaggiatori avrebbero potuto provocare un numero di vittime superiore. Dietro a disgrazie scampate ci sono i ragazzi della casa cantoniera, gli operatori della Fondazione Talitá Kum, la Croce Rossa, il Soccorso alpino, il personale medico di Rainbow for Africa, Medici per i diritti umani, i volontari del Refuge solidaire di Briançon, ma anche singoli cittadini.

La società civile ha saputo creare un cordone di umanità così organizzato che spesso sfugge anche alla comprensione dei migranti, ma che permette a persone come Fawzia, Tamkin e Nadim di non perdere i loro sogni e neppure la loro vita sulla sottile linea di frontiera.

Simona Carnino




Papa Francesco in Iraq: Sui fiumi di Babilonia

testo di Luca Lorusso |


 

Sui fiumi di Babilonia

Un viaggio in sospeso fino all’ultimo, in una terra gravida di violenze, in dialogo con leader religiosi, politici e civili, e con le ferite di un popolo. La fratellanza umana cercata nella culla della civiltà. Il papa in Iraq secondo due esperti del paese.

«Se Dio è il Dio della vita, e lo è, a noi non è lecito uccidere i fratelli nel suo nome. Se Dio è il Dio della pace, e lo è, a noi non è lecito fare la guerra nel suo nome. Se Dio è il Dio dell’amore, e lo è, a noi non è lecito odiare i fratelli». L’appello di papa Francesco alla pace, al dialogo e alla fratellanza umana, non è nuovo. Ma ha avuto una forza speciale durante il suo viaggio in Iraq dal 5 all’8 marzo scorso.

Già da tempo il pontefice voleva visitare il paese dei due fiumi, la terra di Ur dei Caldei dove nacque Abramo, padre della fede per ebrei, cristiani e musulmani, e finalmente ci è riuscito.

In mezzo alla tempesta della pandemia, il suo primo viaggio dopo più di un anno, papa Bergoglio l’ha compiuto là, dove la tradizione colloca l’Eden, il giardino bello e fertile della prima coppia umana, oggi mosaico di etnie e religioni e campo di battaglia bagnato dal sangue di troppi conflitti.

La terra di Ur dei caldei

«Dopo la prima guerra del Golfo del 1991, e la seconda del 2003, sull’Iraq c’è stato il silenzio per troppo tempo, fino all’arrivo dell’Isis nel 2014». Don Renato Sacco, parroco di Cesara (Vb), è coordinatore di Pax Christi Italia, legato all’Iraq e amico del cardinale Louis Raphaël I Sako, dal 2013 patriarca della chiesa caldea a Baghdad, fautore del viaggio apostolico e in particolare dell’incontro tra Francesco e il grande ayatollah ʿAlī al-Husaynī al-Sīstānī a Najaf, città santa dell’islam sciita.

«L’Iraq è la mezza luna fertile, il paradiso terrestre della Genesi, la terra dei monasteri del Nord, dove c’è Mosul, l’antica Ninive convertita da Giona. È anche la terra di Nabucodonosor e dell’esilio: “Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion” (Sal 137). Infine, è la terra di Ur dei Caldei, di Abramo.

In un paese che ha visto guerre coperte da motivazioni religiose, sancire un dialogo di religione e non una guerra di religione è stato estremamente importante».

Photo by – / VATICAN MEDIA / AFP

Terra di persecuzione

Francesco è stato il primo papa a visitare l’Iraq. Ha realizzato un sogno che era stato già di Giovanni Paolo II, che sarebbe voluto andarci nel 2000. Centro del suo viaggio è stato l’incontro con i musulmani sunniti e sciiti, e con le minoranze etniche e religiose del paese, come gli yazidi e i mandeisti, ma altrettanto centrale è stato l’incontro con le chiese cristiane, eredi di alcune delle comunità più antiche.

A inizio Novecento i cristiani in Iraq rappresentavano il 6,4% della popolazione (vedi box), nel 2005 erano il 2%, e oggi circa lo 0,6%. Se nel 2003 erano 1,4 milioni, oggi sono circa 250mila.

«La chiesa irachena fonda le sue origini sulla predicazione dell’apostolo Tommaso. È sempre stata una chiesa di testimonianza e di martirio, e lo è anche adesso. Quando Sako è diventato patriarca, ha chiesto ai cristiani di non lasciare il paese. Anche perché, come dicono pure i musulmani, l’Iraq sarebbe più povero senza di loro.

Il papa è stato a Mosul, nella piana di Ninive, e a Qaraqosh, una delle rare cittadine irachene a maggioranza cristiana, per incoraggiare quelle comunità. Io ci sono stato. È una chiesa viva che non ha perso la speranza».

Forte simbolismo

Nei tre giorni di visita, le tappe del papa sono state molteplici, tutte fortemente simboliche. Ha incontrato i governanti a Baghdad e le autorità civili del Kurdistan iracheno a Erbil, ha visitato il grande ayatollah ʿAlī al-Sīstānī, punto di riferimento dell’islam sciita a Najaf, e ha partecipato all’incontro interreligioso nella piana di Ur, infine ha portato il suo sostegno ai cristiani di Mosul, di Quaraqosh e di tutto l’Iraq.

«Il papa ha incontrato le autorità, alle quali fa bene sentirsi dire che devono essere al servizio del popolo e non della corruzione o di poteri esterni; i capi religiosi; poi le vittime dell’Isis e, più in generale, le vittime della guerra, perché ricordiamoci che prima dell’Isis ci sono state le due guerre del Golfo.

L’America nel 2003 ha tolto tutte le responsabilità politiche, militari, amministrative a chi era stato legato a Saddam Hussein, e il paese è rimasto sguarnito.

Il silenzio sull’Iraq non si è rotto nemmeno con il rapimento e l’uccisione nel 2008 dell’arcivescovo caldeo di Mosul, mons. Paulos Faraj Rahho. Io ero stato da lui pochi giorni prima del rapimento. Lo hanno fatto poi trovare morto in una discarica. Però di tutto questo non si è parlato, così, quando nel 2014 è arrivato l’Isis, molti lo hanno interpretato come un fungo nato all’improvviso, ma l’Isis non è un fungo, è il frutto di una gestione economica, politica, militare che ha alimentato rabbia e odio».

al-Sīstānī, Sako e il papa

Nella prima bozza di programma del viaggio, la tappa di Najaf per l’incontro con il novantenne leader sciita non era prevista.

Fin da subito, il cardinal Sako si è speso perché venisse inserita. Il suo auspicio era quello che i due leader firmassero il documento sulla fratellanza umana di Abu Dhabi, firmato il 4 febbraio 2019 da Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb, punto di riferimento per l’islam sunnita. Il papa avrebbe così avuto, in qualche modo, anche un ruolo di mediazione tra l’islam sciita e l’islam sunnita.

Il tempo a disposizione per maturare un passo così importante, però, non era sufficiente. Ciò non toglie che l’incontro sia stato un evento fruttuoso con possibili risvolti futuri: «Presto ci recheremo in Vaticano per assicurarci che questo dialogo continui, si sviluppi e non si fermi qui», ha detto, infatti, dopo la visita papale Sayyed Jawad Mohammed Taqi Al-Khoei, uno degli esponenti di spicco del mondo sciita iracheno, segretario generale dell’Istituto Al-Khoei di Najaf.

Don Renato Sacco ci racconta che lo stesso Sako si trova a svolgere quotidianamente un ruolo di mediazione tra le diverse fedi ed etnie irachene: «Da sempre, fin da quando era parroco a Mosul, Sako crede nel dialogo. Ricordo che una volta a Kirkuk, dove è stato vescovo, mi sono trovato a una cena di Sako con tutti i capi religiosi e politici della zona. Tutti erano venuti con la scorta, con tanto di kalashnikov. A un certo punto nel salone è andata via la luce. Al buio, con tutti questi capi l’uno contro l’altro armati, ho avuto paura. Ma non è successo niente.

Sako mi aveva detto che quei capi sarebbero andati volentieri alla cena da lui, perché da soli non sarebbero mai riusciti a incontrarsi. Sako faceva da mediatore, da punto di riferimento.

L’incontro del papa con al-Sīstānī è conseguenza di questo cammino. È un messaggio per l’Iraq e per il mondo: i capi dialogano».

Il viaggio e la pandemia

In un suo intervento su «La Civiltà cattolica», Antonio Spadaro dà un’interpretazione forte a questo primo viaggio del papa dopo i mesi di stop dovuti alla pandemia. Scrive: «Il viaggio in Iraq si deve inquadrare in questa emergenza sanitaria dello spirito come missione della Chiesa in quanto “ospedale da campo”. Il luogo ideale per porre la tenda di questo ospedale è la piana di Ninive». E prosegue: «Il Pontefice ha identificato in questi mesi […] un chiaro punto focale della sua missione: la fratellanza umana, per la costruzione della quale le religioni possono offrire un “prezioso apporto” […]. Per questo ha deciso di ripartire da Baghdad». La chiesa «ospedale da campo» trova nella lotta alla pandemia il simbolo di una possibile lotta delle fedi religiose unite per il bene comune nella fratellanza umana.

«Condivido molto quello che scrive Spadaro», dice il coordinatore nazionale di Pax Christi. «Il motto del viaggio in Iraq era il versetto di Matteo che dice “Voi siete tutti fratelli”, scritto in caldeo, arabo, inglese e curdo.

Andare in Iraq accanto alle vittime, recitare l’angelus a Qaraqosh, un luogo di sofferenza e di speranza, ha voluto dire scegliere da che parte stare.

Il viaggio poi è stato un sostegno anche per chi lavora lì nel silenzio accanto ai profughi, alle vittime della violenza, a chi ritorna nelle proprie case e le trova distrutte, e continua a farlo, a chi lotta per la pace».

Luca Lorusso


Le chiese irachene

In Medio Oriente si stima che vivano circa 15 milioni di cristiani. In alcuni paesi crescono di numero grazie alle migrazioni, soprattutto nella penisola arabica; in altri, come la Siria e l’Iraq, diminuiscono in modo drastico svuotando alcune tra le comunità più antiche del mondo. Se in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti, nel 1900 i cristiani erano prossimi allo 0% della popolazione, oggi rappresentano il 4% e il 13%. Al contrario, se in Siria e Iraq nel 1900, i cristiani erano rispettivamente il 18% e il 6,4%, oggi sono il 2% e lo 0,6%. Con un calo esponenziale a partire dal 2010 in Siria e dal 2003 in Iraq.

Il rapporto di Acs (Aiuto alla Chiesa che soffre), I cristiani in Iraq, pubblicato a gennaio e scaricabile dal sito acs-italia.org, parla di un esodo provocato soprattutto negli ultimi 20 anni dai conflitti, dalla povertà e dalle persecuzioni.

Pluralità di confessioni

In Iraq i cristiani sono concentrati soprattutto nel Nord (Erbil, Dohuk, Sulaymaniyah, Kirkuk e nella provincia di Ninive). Dagli anni 70, molti sono emigrati a Baghdad e a Bassora, ma dopo il 2003 si è registrato un corposo fenomeno di ritorno.

Una delle caratteristiche più vistose dei cristiani iracheni è la pluralità di confessioni alle quali appartengono. La più consistente è la chiesa cattolica caldea, il cui patriarca, dal 2013, è il card. Louis Raphaël I Sako. Essa raduna il 67,5% dei cristiani del paese. Le altre chiese cattoliche sono quella cattolica siriaca (6,5%), la cattolica armena (0,5%) e la cattolica latina (0,5%). Le chiese ortodosse sono invece quella assira orientale (13%), l’ortodossa siriaca (6%), l’apostolica armena (4%) e la greco ortodossa (0,5%). Mentre gli evangelici contano circa l’1,5% dei cristiani.

Esodo e timori

Il rapporto di Acs, ripercorrendo le varie fasi dell’esodo, ricorda che all’arrivo dell’Isis a Mosul e nella piana di Ninive nell’estate 2014, 120mila cristiani sono fuggiti in pochi giorni nelle zone curde. Negli anni tra il 2014 e il 2019, le persone uccise a causa della guerra sono state in totale 73mila, solo nella zona di Mosul si sono contati 384mila sfollati.

E riguardo ai timori che i cristiani della piana di Ninive hanno ancora oggi, Acs scrive: «Sconfiggendo [l’Isis], il paese ha piegato il peggior nemico della libertà religiosa […]. La minaccia però non è annientata perché molti dei suoi combattenti […] si sono dati alla clandestinità, attaccando occasionalmente le minoranze religiose anche negli ultimi anni». Riguardo alle milizie sciite: «La preoccupazione più immediata per la sicurezza nella Piana di Ninive è rappresentata dalle milizie sostenute dall’Iran che […] hanno aiutato a sconfiggere l’Isis. Tuttavia, alcuni cristiani le accusano di corruzione e di violazioni dei diritti umani». Infine, riguardo alla Turchia: «Gli interventi turchi nel Nord dell’Iraq diretti contro i militanti del Pkk (il Partito dei lavoratori del Kurdistan, nda) stanno colpendo diverse minoranze religiose tra cui cristiani e yazidi. Dall’inizio del 2020 almeno 25 villaggi cristiani nel Nord del paese sono stati svuotati […]».

L.L.


Mosaico di religioni

Dei circa 40 milioni di abitanti iracheni, si stima che gli arabi siano il 75-80%, i curdi il 15-20%, e che un restante 5% sia costituito da una pluralità di minoranze etniche come turkmeni, assiri, persiani.

La stragrande maggioranza della popolazione è di fede musulmana, il 98% circa. Tra le fedi minoritarie che formano il restante 2%, la cristiana, la mandeista, la yazida.

All’interno della vasta maggioranza musulmana vanno distinti poi tre gruppi principali: gli arabi sciiti che rappresentano la maggioranza, circa il 64%, concentrati soprattutto nella parte Sud orientale del paese, gli arabi sunniti, 17%, nell’Iraq centro meridionale, e i curdi sunniti, 17%, nella zona Nord, l’area maggiormente abitata dalle minoranze (vedi cartina pag. 30).

Gli sciiti

All’interno dell’islam, gli sciiti si caratterizzano per il ruolo speciale assegnato ad Ali, cugino e genero del profeta Muhammad, e alla sua discendenza attraverso Fatima, figlia del profeta.

Gli sciiti rappresentano il 10-15% di tutti i musulmani del mondo (circa 130-195 milioni), e rappresentano l’80% della popolazione che vive sui giacimenti di petrolio del golfo.

Le tre principali etnie che compongono l’islam sciita sono l’araba, l’iraniana persofona, e l’azera turcofona.

Gli sciiti arabi iracheni sono la più grande comunità sciita del mondo arabo. Le altre si trovano in Libano (20% della popolazione), Siria (10-12%), Kuwait (20-25%), Arabia Saudita (10-15%), Bahrain (50-70%), Yemen (35%), Turchia (20%).

In Iran, gli sciiti persiani e azeri costituiscono oltre il 90% del paese. In Azerbaigian gli sciiti sono il 75-80%, in Afghanistan il 20-25%, in Pakistan il 20%.

I santuari

I luoghi nei quali la tradizione colloca le sepolture di alcuni dei membri della famiglia del profeta Maometto, sono quelli nei quali sorgono i più importanti santuari che svolgono un ruolo centrale nella fede sciita.

Il santuario di Najaf, dove riposano le spoglie di ‛Alī ibn Abī Ṭālib, cugino a genero del profeta, è considerato il più importante, e sede della più prestigiosa scuola teologica sciita. Suo «rivale» in Iran è il santuario di Qom, dove è seppellita Fa’ṭima, sorella dell’ottavo imām ‛Alī ibn Mūsā ar-Riḍā, anch’esso sede di un’importante scuola teologica secondo i caratteri iraniani.

L.L.


Lo sciismo dialogante di ʿAlī al-Sīstānī

Il grande ayatollah di Najaf è il massimo interprete di una lettura «quietista» dell’Islam sciita, rifiutando l’interferenza religiosa nella politica. Nonostante ciò, ha oggi un ruolo centrale nello scenario iracheno, ed è considerato un fattore di stabilità nel suo paese. È per questo che il cardinale Sako guarda a lui come un punto di riferimento nel dialogo, e che la «visita di cortesia» del papa a Najaf è stata uno dei momenti più significativi del suo viaggio in Iraq.

Abbiamo sentito Andrea Plebani, ricercatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Associate research fellow all’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), vicedirettore scientifico del Centro studi internazionali di geopolitica. I suoi interessi di ricerca sono concentrati sull’evoluzione dello scenario geopolitico mediorientale, con particolare attenzione a Iraq, Siria ed Egitto, e sulle dinamiche interne alla galassia islamista.

Photo by – / Ayatollah Sistani’s Media Office / AFP

Qual è il ruolo del grande ayatollah al-Sīstānī?

«‘Alī al-Husaynī al-Sīstānī è il massimo rappresentante del quietismo sciita che riconosce la centralità del ruolo dei giurisperiti (esperti di diritto islamico, nda), ma prevede un loro non coinvolgimento diretto nell’ambito politico. L’opposto dello sciismo khomeinista che in Iran si è affermato dalla rivoluzione del ’79.

Questa diversità si riflette in una competizione tra i due santuari chiave dello sciismo: quello di Najaf, e quello di Qom in Iran.

Ciò detto, c’è anche da dire che l’impostazione quietista di al-Sīstānī non gli ha impedito negli ultimi decenni di giocare comunque un ruolo chiave sul piano politico. Ad esempio, nel 2014, quando l’Isis è entrato a Mosul, ha emanato una fatwa per chiamare gli iracheni (non solo gli sciiti, ma tutti, e questo è significativo) a imbracciare le armi. Cosa che ha contribuito non poco alla vittoria contro i terroristi.

La sua centralità informale sul piano politico è sempre stata segnata da un ruolo di mediatore, dall’appello al dialogo, al rispetto delle minoranze. Consideriamo che l’Iraq post 2003 è un paese che ha subito dei cambi di equilibri interni fortissimi che l’hanno destabilizzato sotto molti profili.

In questa realtà così frammentata e dilaniata, al-Sīstānī ha giocato un ruolo di moderatore, invitando, ad esempio, a non rispondere alla violenza con altra violenza anche in tempi difficili come gli anni dal 2004 al 2006 nei quali gli attacchi colpivano in modo sempre più duro la popolazione civile.

Da sempre, poi, non esita a far sentire la sua voce in favore dei diritti dei più deboli. Penso alle manifestazioni di protesta che sono esplose nel 2019: quando i manifestanti hanno chiesto il suo intervento, lui, mentre il governo reprimeva anche nel sangue le proteste, ha risposto chiedendo che i loro diritti venissero tutelati.

Al-Sīstānī ha una statura unica nel sistema iracheno: in un paese destabilizzato, negli ultimi decenni lui è stato una costante che è riuscita a tenerlo assieme».

La visita del papa ad al-Sīstānī può aver irritato l’Iran?

«Non penso. Ho parlato di competizione tra le due visioni sciite, ma la competizione non implica necessariamente ostilità. Il papa, con la sua visita ad Al-Sīstānī gli ha voluto anche riconoscere il fatto che si è speso molto per creare un clima non ostile alle minoranze, un clima di dialogo. Questo non vuol dire che le minoranze siano tranquille in Iraq, ma il tentativo di al-Sīstānī va evidenziato».

Riguardo alle proteste, quali erano, e sono, le loro istanze?

«Sono proteste molto frammentate, senza una leadership univoca, che hanno riunito anime diverse: dagli studenti, anche giovanissimi, ai giovani disoccupati (il 57% della popolazione in Iraq ha meno di 24 anni, l’età media è di 21, nda). Non sono manifestazioni settarie, di una componente che mira ad affermare la sua centralità.

Uno dei loro slogan più significativi è: “Noi vogliamo una patria”. Cioè, da un lato, che il paese sia realmente indipendente, non soggetto all’influenza degli Usa, dell’Iran, ma anche che l’Iraq non sia ostaggio di una cricca di politici i cui interessi sono diversi da quelli della collettività.

L’Iraq è un paese potenzialmente ricchissimo, non solo per gli idrocarburi. È una terra fertile. Ha uno sbocco sul Golfo Persico, ha buone capacità industriali.

Anche sulla base di queste considerazioni, le proteste chiedono risposte a istanze basilari: che i diritti degli individui vengano tutelati, che ci siano opportunità lavorative, che sia garantita la dignità. Si chiede un netto cambiamento. E che vengano realizzate le aspettative generate dalla caduta del regime di Saddam».

Una delle problematiche è anche la suddivisione «settaria» delle cariche istituzionali.

«Il sistema iracheno non è consociativista come quello libanese nel quale è previsto che alcune cariche vengano affidate a esponenti di specifiche comunità. Nel sistema iracheno la costituzione non dice nulla in tal senso, però di fatto, sul piano sostanziale, dal 2005 il primo ministro è un arabo sciita, il presidente è curdo, lo speaker del parlamento è arabo sunnita, il ministro dell’Interno è un arabo sciita, quello della difesa è un arabo sunnita, e così via. È anche questo uno degli aspetti contro i quali i manifestanti si scagliano: il settarismo è rifiutato da sempre dalla popolazione irachena».

Un ulteriore elemento di complessità nel quadro iracheno è aggiunto dalla regione autonoma del Kurdistan.

«Nell’autunno 2017, quando la lotta contro l’Isis volgeva al termine, la classe dirigente del Kurdistan iracheno ha indetto un referendum sull’indipendenza. Questo anche alla luce del notevole credito internazionale acquisito grazie agli sforzi nella lotta all’Isis.

Il Kurdistan porta avanti almeno dal 2003 una campagna che tende a rappresentarlo come una realtà diversa dal resto dell’Iraq. Nella prima decade del 2000 c’era una campagna pubblicitaria che presentava il Kurdistan come l’altro Iraq, quello che funziona, che cresce, si sviluppa, dove si rispettano i diritti, ecc.

Con il ritiro delle forze di sicurezza irachene nel 2014 da Mosul, le forze curde, ex peshmerga, avevano occupato molti dei territori contesi da tempo tra Baghdad ed Erbil, territori chiave dal punto di vista sociale, culturale, storico, ma anche economico. In particolare la città di Kirkuk attorno alla quale ci sono giacimenti che avrebbero garantito le basi economiche del Kurdistan iracheno indipendente.

Il problema è che la questione non è solo tra Baghdad ed Erbil. Ci sono comunità curde in Siria, ma soprattutto in Turchia e Iran. La Turchia ha da sempre una linea di opposizione nei confronti di un Kurdistan indipendente, e questi si è di fatto trovato circondato dall’opposizione di Ankara, Teheran e Baghdad, e abbandonato dagli Usa».

Fino all’ultimo, il viaggio del papa è stato in bilico. I timori per la sicurezza erano forti.

«Anche io ero molto preoccupato, perché l’Iraq è un paese con problemi di sicurezza enormi. Sono felice che sia andato tutto bene. La visita di un’autorità come il papa ha restituito all’Iraq la centralità che dovrebbe sempre avere. È stata, oltre che uno strordinario atto di coraggio personale e di amore nei confronti della popolazione irachena, non solo cristiana, l’occasione per dare centralità a chi spesso è stato dimenticato».

L.L.


Archivio MC:

Valentina Tamborra, Iraq: la rivolta e la speranza, agosto 2020.
Angelo Calianno, I sopravvissuti (alla follia dell’Isis). Reportage da Kirkuk, maggio 2019.
Angelo Calianno, Le bombe non conoscono religione. Reportage da Mosul, aprile 2019.
Marta Petrosillo, Ricostruire dopo l’Isis. Il ritorno dei cristiani nella piana di Ninive, aprile 2019.
Simone Zoppellaro, Kurdistan: Orgoglio Kurdo. Reportage dal Kurdistan iracheno, dossier, luglio 2017.
Simone Zoppellaro e Paolo Moiola, Popolazioni perseguitate: Yazidi, dossier, marzo 2017.




Myanmar: Con tre dita al cielo

testo di Piergiorgio Pescali |


I militari non avevano mai abbandonato il potere.  Oggi se lo sono ripreso per intero, sotto lo sguardo accondiscendente della Cina. La leader Aung San Suu Kyi è stata posta agli arresti, ma neppure lei è esente da responsabilità.

Proteste di piazza, vittime, persone incarcerate, coprifuoco. Il colpo di stato avvenuto lo scorso primo febbraio ha fatto precipitare il Myanmar nella paura di un ritorno alla dittatura militare, già sperimentata tra il 1962 e il 2010. Allora le conseguenze furono sanguinose per il popolo e la politica: l’embargo voluto dagli Stati Uniti assieme alla Gran Bretagna, e in seguito da tutte le democrazie occidentali aveva messo in crisi non tanto un’economia già poco sviluppata e concentrata nelle mani di pochi conglomerati controllati in gran parte dai generali, quanto milioni di birmani, in particolare donne, impiegati a centinaia di migliaia nelle industrie tessili e artigianali del paese che furono costrette a chiudere. Per mantenere i loro profitti, ai generali bastò però cambiare partner commerciali, raccogliendosi attorno agli abbracci di Cina e Thailandia. Dal punto di vista politico, ogni opposizione venne cancellata, e i leader più in vista incarcerati o, come nel caso di Aung San Suu Kyi, posti agli arresti domiciliari. Gli ufficiali che oggi guidano il Tatmadaw, l’esercito birmano, non sono gli stessi che per cinque decenni tennero la nazione sottomessa ai loro assurdi voleri: questi hanno viaggiato e studiato all’estero, hanno tessuto rapporti con diplomazie e imprenditori di tutto il mondo, hanno vissuto la rivoluzione sociale che, in quest’ultimo decennio, ha trasformato il paese. Ma, pur essendo più disponibili dei predecessori ai compromessi e al dialogo, non sono immuni da rigurgiti totalitaristici. In Myanmar, così come nella vicina Thailandia, il confine tra dittatura e democrazia è alquanto labile.

Il generale Min Aung Hlaing con il presidente cinese Xi Jinping nella capitale birmana Nay Pyi Taw il 18 gennaio 2020. Foto Ju Peng / Xinhua / AFP.

Il ruolo del Tatmadaw

Per governare un paese etnicamente frammentato in miriadi di lingue, culture, fedi, economie, società, ci vuole un’istituzione forte e trasversale. Dispiace ammetterlo, ma l’unica organizzazione in grado di rappresentare tutte queste tendenze è proprio il Tatmadaw. Del resto, la stessa Aung San Suu Kyi non ha mai negato la necessità di avvalersi dei militari per governare. Sin dal suo primissimo comizio, tenuto nel 1989, la Lady ha sempre detto chiaramente che una Birmania senza il Tatmadaw (peraltro fondato da suo padre) non avrebbe potuto esistere.

Questo è il nodo più nevralgico e problematico della democrazia birmana: una nazione che, per mantenere la propria unità, deve poggiarsi sulle forze armate sarà sempre caratterizzata da estrema fragilità. Per questo ha bisogno di un leader non solo forte e autorevole, ma anche politicamente capace di gestire i delicatissimi equilibri esistenti tra il parlamento e l’esercito. Il primo più o meno rappresentativo delle forze democratiche, il secondo necessariamente forte per intervenire con determinazione ogni qual volta l’unità del paese venga messa in pericolo.

Aung San Suu Kyi, The Lady, oggi ha 75 anni. Foto Claude Truong – Ngoc – Global Media Sharing.

La signora e il generale

Nel Myanmar del 2021 si sono venuti a confrontare due leader capaci di rappresentare queste identità: Aung San Suu Kyi e Min Aung Hlaing. La prima è sostenuta dal voto popolare ed è a capo di un partito, la «Lega nazionale per la democrazia» (Lnd), che detiene la maggioranza assoluta nella camera dei rappresentanti (258 seggi su 440). Il secondo è comandante delle forze armate, un generale a cinque stelle, uomo duro che ha speso otto anni della sua carriera nello stato dello Shan entrando in conflitto con il Myanmar national democratic alliance army, la coalizione di eserciti etnici che controllavano il commercio dell’oppio e quello, ormai più redditizio e sicuro, delle metanfetamine.

Due personalità che, seppur differenti per formazione professionale, provenienza famigliare e idee politiche, sono molto simili tra loro in fatto di ambizioni e suscettibilità. Nessuno dei due sopporta l’altro, ma mentre Min Aung Hlaing non aveva bisogno di Aung San Suu Kyi, questa non poteva governare senza Min Aung Hlaing.

I due piatti della bilancia hanno mantenuto una difficile stabilità sino a quando i due leader si sono limitati a regnare entro i loro limiti. Aung San Suu Kyi ha approfittato della momentanea debolezza dei vertici del Tatmadaw monopolizzando la scena politica e accentrando su di sé tutte le cariche più importanti delle istituzioni parlamentari: consigliere di Stato (premier),
ministro degli Esteri, presidente della Lega nazionale per la democrazia, presidente del Comitato per la pace nel Rakhine e presidente del Comitato per il dialogo con le nazioni etniche. Non potendo, per Costituzione, occupare la carica di presidente ha fatto eleggere il proprio avvocato Win Myint per poi occupare il posto di ministro dell’ufficio del presidente e divenire lei stessa presidente de facto della nazione. Un raggiro costituzionale che in qualunque altro paese democratico sarebbe stato oggetto di proteste e accuse di scandalo e disonestà, ma che nel nuovo corso della politica birmana è stato addirittura portato ad esempio in una famosa intervista fatta a Tin Oo, il patron (93enne) e uno dei fondatori della Lega per la democrazia di cui la Signora è presidente. Le dichiarazioni, imprudenti ma significative, di Tin Oo dimostrano quanto misteriosa e ambigua sia la visione di democrazia posseduta dai politici locali.

Le mosse del generale

Sul lato opposto, l’ascesa di Min Aung Hlaing ha posto di fronte alla premier birmana un formidabile avversario che si è rivelato ancora più scaltro di lei nell’aprirsi nuovi spazi. A differenza della sua rivale, il generale ha iniziato a tessere un dialogo con le «nazioni etniche», in particolare con i kachin cristiani e con i rakhine buddhisti, meritandosi l’approvazione dell’inviato giapponese del programma per la riconciliazione nazionale Yohei Sasakawa. Nel maggio 2020 Min Aung Hlaing ha riorganizzato i vertici militari rafforzando la presenza di una nuova leva di giovani ufficiali a lui fedeli. Al tempo stesso, ha iniziato a preparare una poltrona di presidenza dell’Union solidarity democratic party (Usdp) per blindare la posizione della sua famiglia in campo imprenditoriale in previsione del suo imminente (a giugno 2021) ritiro in pensione. La protezione dei beni acquisiti durante la carriera è una costante sempre presente nella politica birmana, in particolare tra i militari. Questi hanno sempre approfittato del loro potere per accumulare ricchezze e piazzare nei posti chiave loro famigliari dedicando gli ultimi anni della loro vita professionale a instaurare legami con i loro potenziali successori affinché non cadessero in disgrazia.

Grazie al decennio passato nello stato Shan, Min Aung Hlaing ha potuto costruire un impero economico immenso, ma l’arrivo nel 2016 di Aung San Suu Kyi al potere ha rischiato di mettere in pericolo la sua ricchezza. Ha posposto quindi il suo pensionamento di cinque anni (dal 2016 al 2021) iniziando a muovere le sue pedine. E quando, il prossimo giugno, si ritirerà dalla carica di comandante delle forze armate, cercherà di traslare la sua influenza in campo politico candidandosi a presidente dell’Usdp.

Il putsch militare del 1° febbraio è quindi da vedersi anche in una visione personalistica della politica birmana.

Un taxi particolare a Mingun, frequentato sito storico vicino alla città di Mandalay. Foto Martine Auvray – Pixabay.

Vittorie ed errori

Aung San Suu Kyi, The Lady, è forse una delle poche personalità oneste del paese e a lei dobbiamo molto: la sua perseveranza nel continuare a denunciare le nefandezze dei militari durante gli anni della dittatura è stata d’esempio per chiunque lottasse per i diritti umani. La Lady ha dimostrato che, con la tenacia, è possibile raggiungere obiettivi che appaiono impossibili. Tuttavia, come spesso accade ai personaggi pubblici, quando Aung San Suu Kyi si è trovata a dover mettere in pratica i proclami e le promesse lanciate mentre era all’opposizione, la sua inadeguatezza e inesperienza sono uscite allo scoperto, smantellando la sua figura idealizzata.

Al netto delle interferenze e dei giochi di potere che si sono realizzati nel parlamento con i militari, Aung San Suu Kyi ha pesantissime responsabilità nella disastrosa gestione dei rapporti con le nazioni etniche e con la classe lavoratrice del paese.

Per favorire gli interessi minerari cinesi, ad esempio, ha costretto migliaia di contadini ad abbandonare i loro villaggi e le loro terre a Letpadaung affermando che il bene della nazione è superiore a quello individuale. Lo stesso è avvenuto con i Mon e i Kachin.

Sul piano dei rapporti con le varie etnie, la consigliera di stato è stata pesantemente criticata dalle stesse associazioni, organizzazioni e governi che le avevano garantito incondizionato appoggio negli anni della sua prigionia. Più volte ha glissato l’argomento Rohingya, Kachin, Mon rifiutando ostinatamente di condannare le violenze perpetrate ai loro danni. Su questo tema si è consumato l’ultimo atto dello scontro con i militari.

Già nello stato Kachin, il Tatmadaw aveva iniziato, con la mediazione giapponese, una serie di colloqui con la Chiesa battista (i Kachin hanno una forte rappresentanza di cristiani protestanti) e con il Kachin independence organisation nonostante Aung San Suu Kyi avesse cercato di ostacolare il dialogo.

Due monaci buddhisti si riposano sulla panca di una stazione birmana. Foto Aline Dassel – Pixabay.

Buddhisti e Musulmani

Nello stato Rakhine, il doppio confronto che vedeva governo e militari uniti contro i Rohingya musulmani a Sud e contro i buddhisti dell’Arakan army a Nord, si è sviluppato in modo completamente divergente. Mentre i Rohingya continuano a essere oggetto di brutalità e persecuzioni da parte della maggioranza buddhista rakhine con la complicità sia del governo che della chiesa buddhista e delle forze armate, nelle zone settentrionali, dove i musulmani sono praticamente assenti, è la guerriglia indipendentista dell’Arakan army a impegnare le forze governative.

Lo stato Rakhine (Arakan è il nome storico della regione, mentre Rakhine è il nome dato dai militari nel 1989 in conformità con l’etnia maggioritaria) è l’unico che, nelle elezioni del 2015, ha visto prevalere con una maggioranza assoluta l’Arakan national party (Anp). Secondo la Costituzione, avrebbe, quindi, dovuto essere questo partito a formare il governo regionale, ma Aung San Suu Kyi, con un colpo di mano anticostituzionale, ha imposto un gabinetto a guida Lnd. Questo ha inasprito la già delicata situazione sociale portando a una recrudescenza delle attività della guerriglia.

Il 14 ottobre 2020, tre settimane prima delle elezioni generali che hanno visto la vittoria dell’Lnd sul piano nazionale, tre membri del partito sono stati rapiti dall’Arakan army. Due giorni dopo la Commissione elettorale ha deciso di annullare le elezioni nel Rakhine. Questa mossa ha generato proteste e nuove manifestazioni che sono rientrate solo dopo che il Tatmadaw, ancora con la mediazione giapponese, ha raggiunto un accordo con l’Anp e l’Arakan army. Secondo i punti dell’accordo, non ratificato dal governo di Aung San Suu Kyi, gli elettori dello stato avrebbero potuto recarsi alle urne entro la fine di gennaio 2021.

Sr Ann Nu Thawng inginocchiata davanti alla polizia.

La protesta delle tre dita

A seguito del colpo di stato militare, manifestazioni popolari si sono susseguite in tutta la nazione. Anche suore e preti si sono mobilitati scendendo in piazza con manifesti e mostrando le tre dita, un gesto divenuto simbolo di protesta in Thailandia nel novembre 2014 sull’onda dell’emotività suscitata dalla serie cinematografica Hunger Games e adottate, come altre mode provenienti dalla vicina nazione, anche in Myanmar.

Le contestazioni si sono ripetute in tutto il paese, ma se nelle regioni che comprendono la Birmania storica, abitata dall’etnia maggioritaria bamar (la stessa di Aung San Suu Kyi), sono state partecipate e sparse su tutto il territorio, negli stati etnici i cortei sono stati sporadici e limitati nelle grosse città dove si concentrano i Bamar.

Sui media occidentali sono apparse anche foto di rifugiati rohingya con le tre dita alzate accompagnate con didascalie che pretendevano che anche questi musulmani, del cui dramma erano responsabili sia i militari che Aung San Suu Kyi, si fossero schierati accanto alla leader birmana incarcerata. Nulla di più infondato. Quasi nessuno dei siti amministrati da attivisti rohingya ha espresso solidarietà con Aung San Suu Kyi, ma tutti hanno mostrato la loro «solidarietà con il popolo del Myanmar» o con «coloro che lottano per la democrazia». «La dittatura deve finire, ma Aung San Suu Kyi non è la risposta», è il commento che si legge più frequentemente. Non sono inoltre mancate le foto in cui si vede il monaco Sitagu Sayadaw, il più rispettato monaco della sangha buddhista dello stato Rakhine e strenuo sostenitore della lotta contro i musulmani, ricevere doni dal generale Tun Tun Naung assieme ad altri due comandanti regionali dello stato Rakhine all’indomani del colpo di stato.

L’età del futuro

Quale sarà allora il futuro del Myanmar? Se si vuole riprendere la strada della democrazia, alternative ad Aung San Suu Kyi non sembra ve ne siano, con buona pace per le minoranze etniche.

La Lady è l’unica personalità in grado di convogliare le idee assai confuse e frastagliate della Lega nazionale per la democrazia. Allo stesso tempo, però, Aung San Suu Kyi non è quello che si può definire un genio politico: ha inanellato un errore dopo l’altro nella sua gestione governativa (e anche prima, tra cui rifiutare il dialogo con Khin Nyunt quando era agli arresti domiciliari dando così via libera all’ascesa del generale Than Shwe).

Del resto, un governo di soli civili sarebbe impossibile, non solo perché non sarebbe in grado di contrastare la disintegrazione del Myanmar, ma anche perché i militari sono appoggiati da tutti i governi del Sud Est asiatico. I militari birmani, infatti, reprimono quelle istanze centrifughe etniche che minano non solo l’unità del loro paese, ma anche quella della Thailandia (che non concede cittadinanza alle proprie etnie), della Cina (che già deve fronteggiare le richieste di autonomia dei tibetani e degli uiguri) e dell’India (che non ha ancora risolto il problema dell’Assam). Se il governo birmano concedesse ampia autonomia o addirittura indipendenza ad alcune delle proprie nazionalità etniche, si rischierebbe di attivare quell’«effetto domino» profetizzato da Eisenhower e sul quale si scrisse la dottrina di McNamara in Vietnam (se un paese diventa comunista, anche gli altri potrebbero seguirlo).

Quindi, se non c’è alternativa democratica ad Aung San Suu Kyi, l’unica speranza è che, dopo il colpo di stato, la Lady si trovi in condizione tale da cercare appoggio internazionale e rivedere così la sua politica nei confronti delle etnie (non solo Rohingya) e la sua politica di svendita economica del paese. Certo è che l’ex consigliera di stato ha già 75 anni e non è in ottima salute. Occorre quindi trovare quanto prima un suo successore. Al momento però all’orizzonte non si vede nessuno in grado di sostituirla.

Piergiorgio Pescali

Archivio MC:

Piergiorgio Pescali, I Rohingya, dossier Myanmar, aprile 2017.
Piergiorgio Pescali, La nuova via birmana, dossier Myanmar, aprile 2014.

Una donna vende cibo e bevande ai passeggeri di un treno birmano. Foto Richard Mcall – Pixabay.




La regina dei container

testo e foto di Martina Ferlisi, Sarika Strobbe, Amarilli Varesio |


Elettrodomestici, apparecchi elettronici e beni di ogni tipo, buttati via in Europa, sono riutilizzati in Africa. In Italia, alcuni immigrati di lungo corso si sono specializzati nelle spedizioni. Il passo verso il commercio di rifiuti tecnologici però è breve.

«Liberate i nostri container! Stiamo morendo dentro! Basta discriminazioni», sfilano gli striscioni. È un 19 agosto dal cielo coperto, il traffico è paralizzato e la via Gramsci di Genova è invasa da un fiume di magliette rosse, grida, musica e bandiere del Ghana.
Sono più di settecento i ghanesi che, da tutto il Nord Italia, hanno raggiunto la città per manifestare. Circa quattrocento dei container da loro spediti sono fermi, senza nessuna spiegazione, da più di un anno presso la dogana di Genova. «Non capiamo perché, non sappiamo perché, noi siamo oggi qui a chiedere il perché. Non possono bloccare i nostri container, la gente sta male, sono un sacco di soldi quelli che abbiamo speso». Queste le parole di Nanà Pomaah, pronunciate con rabbia al microfono di un giornalista. A guidare il corteo c’è lei. Un passo avanti a tutti, avvolta in un vestito rosso, cammina con fierezza.

Nanà Pomaah nel villaggio ghanese di Dormaa Ahenkro, luogo di origine della madre, ha ricevuto il titolo onorifico e tradizionale di regina. Un riconoscimento che le fa sentire la responsabilità di rappresentare il suo popolo, di sostenerlo nelle sue battaglie anche in Italia, con tutta la sua grinta e determinazione.

Il blocco dei container rappresenta un grande problema per la comunità ghanese, dentro di essi, infatti, ci sono generi alimentari, vestiti, macchine, beni di ogni tipo che gli immigrati raccolgono e spediscono ai loro familiari e soci. La stessa Nanà spiega di avere una fondazione a Dormaa Ahenkro, grazie alla quale aiuta bambini di strada e vedove. Per questo è per lei importante che il suo container arrivi a destinazione. Dopo dieci giorni di fermo del container al porto, inoltre, viene richiesto il pagamento di 130 euro al giorno a chi spedisce.

A seguito della manifestazione, i funzionari della direzione interregionale di Liguria, Piemonte e Valle d’Aosta dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, si sono resi disponibili a incontrare i ghanesi che si occupano delle spedizioni, per spiegare loro le motivazioni del blocco, e soprattutto quali regole dovranno rispettare in futuro affinché non se ne ripetano altri.

A corte, dalla regina

Nanà, alcuni giorni dopo la manifestazione di Genova, ci accoglie nel salotto di casa sua a Como dove vive da ormai 22 anni. Ha indossato per noi gli abiti e i gioielli tradizionali, quelli delle cerimonie ufficiali nelle quali riveste il suo ruolo di regina. Un turbante dorato le copre il capo, e un grande tessuto bianco decorato con melograni d’oro le cade morbido sulla spalla sinistra. A ciascun polso indossa tre bracciali d’oro, e per ogni mano tre grandi anelli, anch’essi d’oro. Sono abiti che un tempo erano esclusivi dei reali ma che ora vengono utilizzati anche nei matrimoni della gente comune. In passato questi gioielli erano d’oro vero, oggi non più. Questo significa essere regina in Ghana oggi: vestiti importanti da indossare, ma che non portano nessuna ricchezza materiale, solo responsabilità.

Nanà ci racconta che dopo essere stata nominata regina nel 2016 non le è stato dato nulla se non qualche appezzamento di terra e il rispetto, quello sì, di grandi e piccoli. «Quando sei regina devi lavorare per il tuo popolo, devi creare qualcosa per il tuo popolo», ci dice. Il suo sogno è infatti quello di costruire, per mezzo della sua fondazione, una scuola tecnica e una clinica per donne incinte, per creare competenze, posti di lavoro e sicurezza sociale.

Nanà non è sempre stata una regina e la sua vita in Italia non è stata sempre facile. Arrivata a Palermo molto giovane, è stata costretta a cambiare più volte città e lavoro. Ha iniziato come parrucchiera, e dopo aver ottenuto il diploma Asa (ausiliario socio assistenziale, ndr), si è dedicata alla cura degli anziani. Nanà sostiene che siano i loro racconti, i loro ricordi, che lei definisce la sua vera «università di vita», ad averle fatto maturare l’esperienza giusta, per farle affrontare con forza e consapevolezza anche i momenti più difficili. Sa bene infatti che solo il confronto e il dialogo potranno aiutare il cambiamento.

Grazie all’incontro tra gli spedizionieri ghanesi e i funzionari delle dogane, la situazione è stata chiarita: il blocco era stato causato da irregolarità nel carico dei container. I controlli avevano fatto emergere la presenza di merci come bombole, batterie usate, motori di frigoriferi, che, secondo le leggi e le convenzioni internazionali come quella di Basilea, non possono essere spediti, perché considerati rifiuti pericolosi e altamente inquinanti.

Nanà ci racconta che in Ghana si trovano principalmente prodotti provenienti dalla Cina di scarsa qualità. Per questo i beni che arrivano dall’Europa sono tanto ambiti e apprezzati. Anche se usati e talvolta rotti, possono comunque essere riparati e durare di più di quelli nuovi cinesi.

Uniti si può

Per gestire le spedizioni nella maniera più corretta, la comunità ghanese ha dato alla luce un’associazione, l’African shipment association. Guidata da Nanà, in quanto portavoce, e presieduta da Yusuf Amoudou, spedizioniere con esperienza quasi trentennale, è stata un’iniziativa molto apprezzata dai doganieri genovesi. Chi vuole farne parte deve infatti conoscere e rispettare le regole. «Adesso anche io insegno alla mia gente», ci dice Yusuf che nel frattempo ci ha raggiunti a casa di Nanà. «Le spedizioni sono diminuite perché prima ognuno mandava qualsiasi cosa, anche i rifiuti. Adesso non più».

Lo spedizioniere

Yusuf sfoggia la sua dentatura bianchissima mentre ci rivolge un sorriso. Ha indossato una cravatta con dei piccoli cavalli in corsa e lucidato le scarpe per la nostra chiacchierata. Yusuf viene dal Ghana, ed è in Italia dal 1989. Lavora come manutentore a Caverago, nella provincia di Bergamo. Negli anni ‘90 ha spedito il suo primo container e, piano piano, si è costituito una solida rete di connazionali che lo pagano per mandare beni, nuovi o usati, in Ghana. Frigoriferi, televisori, pompe, macchine da cucire, ma anche dentifricio, medicinali chiusi dentro grossi bidoni di plastica. Tutti beni che l’uomo raccoglie porta a porta, con il furgone, durante il weekend, e poi ammassa dentro un grande magazzino.

La logica sottostante a questa attività, nelle comunità africane in Italia, è quella di mandare ai propri familiari delle rimesse sotto forma di beni e non di soldi, perché questi ultimi vengono facilmente tassati dallo stato. «Nel container ci sono i miei oggetti più quelli di altre 20 o 30 persone», dice Yusuf definendo quello che in dogana viene chiamata una spedizione «groupage» (mettere in gruppo, ndr). Per Yusuf, questo è diventato il suo secondo lavoro. Una volta al mese, per 3.500 euro, affitta e spedisce un container da 40 piedi.

Riciclo e circolazione

Come Yusuf, molti altri immigrati presenti nelle nostre città, barcamenandosi tra lavori precari, portano avanti questo genere di attività informali di riciclo e riutilizzo, non senza contraddizioni. Spesso, i beni di seconda mano vengono recuperati da chi sgombera le cantine e, invece di portare gli oggetti all’isola ecologica, li rivende agli spedizionieri. Altra fonte sono donazioni di privati, mercati dell’usato, marketplace di Facebook, marciapiedi o rubati all’aziende di smaltimento rifiuti. Nelle comunità di origine intere famiglie ricavano gran parte del loro reddito dalla rivendita dell’usato europeo in piccoli negozi, o dal suo riutilizzo in diverse attività. Le auto, ad esempio, diventano taxi, i forni permettono di aprire delle panetterie, e i frigoriferi di vendere il ghiaccio lungo le strade accaldate delle capitali africane. Con un investimento modesto, si attivano piccole economie locali.

Non prima di aver ricevuto un bacio da parte di Nanà, usciamo di casa per andare con Yusuf nel luogo in cui i suoi collaboratori stanno caricando un container.

Dentro al container

Ci inoltriamo lungo una stradina immersa nel bosco punteggiata da sedie di plastica malridotte usate da prostitute con lo sguardo cupo. Sotto nubi dense, finiamo nel cortile di un grande capannone dove troneggiano cinque container aperti e montagne di oggetti ben incellofanati e accatastati, con i nomi dei proprietari accuratamente scritti sopra. Questa è la condizione necessaria per evitare che, in caso di apertura del container, i doganieri pensino che il carico sia destinato al traffico di rifiuti. Con grande maestria, da ore, quattro uomini stanno incastrando i pacchi nel container in modo da non lasciare neanche una fessura libera. Alcuni, vedendoci arrivare, mostrano un po’ di diffidenza, non sembrano contenti della nostra visita. Ci fermiamo pochi minuti, giusto il tempo per vedere alcuni pneumatici usati ammucchiati. Probabilmente non è ancora ben chiaro a tutti quali sono gli oggetti la cui esportazione è vietata dalla Convenzione di Basilea del 1992.

Per via di questa convenzione risulta molto difficile esportare, per esempio, gli oggetti elettronici. «Le apparecchiature elettroniche di seconda mano, possono essere esportate a condizione che abbiano la certificazione di funzionalità», ci spiegherà Florindo Iervolino, responsabile della dogana di Genova. In poche parole, è necessario che un tecnico compia dei test sull’elettrodomestico e certifichi il suo funzionamento o la possibilità di ripararlo. Ma questa operazione costa circa 60 euro.

Lo stratagemma usato dagli spedizionieri africani è quello di non dichiarare il materiale che necessiterebbe di certificazione. Inoltre, i beni vengono spediti con la dicitura «effetti personali o masserizie», che però dovrebbe essere al seguito di una persona che trasloca. Questo genere di spedizioni viene sottoposta a forme di controllo minori in dogana, e non permette di esportare e commerciare, ma solo di traslocare i propri beni. (questo è uno dei dettagli che indica che è   una pratica illecita).

L’ambiguità si gioca sul fatto che i beni presenti nei container sono di varia natura: oltre a quelli destinati esplicitamente alla rivendita in negozi dell’usato europeo che possono essere definiti merci, ci sono beni inviati come aiuto alle proprie famiglie, oppure spediti su richiesta: cioè oggetti già proprietà del destinatario al momento della spedizione e che quindi non rientrano in un vero e proprio commercio.

Piccoli commerci

Il recupero dei beni, lo stoccaggio, l’organizzazione del container richiedono fatica, pazienza e una capacità logistica non indifferenti. La motivazione che anima questo lavoro è la consapevolezza di poter dare ad altri e a se stessi delle nuove opportunità economiche.

Abu ha 26 anni ed è arrivato in Italia 5 anni fa. Per diverso tempo ha lavorato come rider, senza coperture assicurative. Nei week end vendeva e comprava vestiti ai mercatini dell’usato, e con il tempo è riuscito, assieme ad altri, ad affittare un container e a spedire beni di vario genere alla sorella in Gambia, permettendole così di aprire un negozio dell’usato. Tra i beni più richiesti dai clienti vi sono i frigoriferi. Abu allora ha iniziato a recuperarli da un italiano che effettua sgomberi, e che rivende a basso prezzo ciò che trova. Abu rivende i frigoriferi al triplo del prezzo, riuscendo così ad avere un margine di guadagno che lo aiuta a vivere. Il piccolo commercio del giovane ha un effetto positivo sull’economia della sua famiglia: la sorella rivende i beni, mentre la madre prepara e vende ghiaccioli alla frutta, che conserva in un grande frigorifero speditole dal figlio. Sebbene scelga quelli più nuovi e funzionanti, Abu non effettua nessun test di funzionamento, e come questi vengano spediti, nemmeno lui lo sa bene, è un suo socio a occuparsi della documentazione.

Forse, il motivo di quella certificazione, costosa e insostenibile per chi vorrebbe solo spedire oggetti con buone intenzioni, è chiara a chi lavora nelle grandi discariche a cielo aperto, come quella di Agbobloshie, nei sobborghi di Accra, capitale del Ghana. Lì, ogni giorno, uomini, donne e bambini bruciano apparecchiature di ogni genere per estrarre a mani nude rame, ferro, metalli di valore e guadagnarsi così la giornata.

Tutti in discarica

Mike Anane, giornalista ambientale, vive ad Accra e, da vent’anni, si occupa di documentare la tremenda situazione in cui versano i territori delle discariche e loro suoi abitanti. In questi luoghi vi è un’altissima incidenza di malattie respiratorie, della pelle e tumori. L’esposizione a fumi nocivi e tossici porta le persone a non respirare più, a non riuscire a dormire la notte. «In questi vent’anni, le persone sono diventate più consapevoli – dice Mike -, ma l’arrivo di rifiuti elettronici non si è mai fermato, nonostante le diverse convenzioni e regole che ne impedirebbero la spedizione. Ricevere un frigorifero che potrebbe smettere di funzionare in breve tempo è problematico laddove non vi sono infrastrutture adatte a un consono trattamento e smaltimento». Mike è categorico: «Per impedire che questo inferno continui a bruciare, i paesi dell’Occidente devono rispettare gli accordi, effettuare i controlli e smaltire i beni che non funzionano all’origine».

Le persone da noi incontrate non hanno intenzione di spedire beni non funzionanti, ma solo far arrivare alle proprie famiglie oggetti di qualità, ai quali non avrebbero accesso altrimenti. D’altra parte, il traffico illecito di rifiuti, spesso gestito dalle ecomafie, è un fenomeno che provoca grossi problemi ambientali e sociali in Africa e che va combattuto con fermezza. Come coniugare la volontà di offrire un’opportunità migliore ai propri familiari, con la sostenibilità? Un sistema che agevoli la certificazione del funzionamento dei beni usati, prima della loro partenza – evitando dunque che si trasportino rifiuti – che sia semplice ed economicamente accessibile agli immigrati, potrebbe essere un primo passo per rendere le esportazioni più trasparenti. Inoltre, vi è la necessità di un sistema in Italia che si preoccupi di agevolare pratiche di valorizzazione di beni già esistenti e prepararli al loro riutilizzo e commercializzazione.

Martina Ferlisi, Sarika Strobbe, Amarilli Varesio


Le autrici

Martina Ferlisi, ama scrivere, studia economia.
Sarika Strobbe, artista, studia antropologia.
Amarilli Varesio, cantautrice, studia antropologia.
• Le foto del servizio sono delle tre autrici e di Marta Lombardelli, videomaker.
• Sono state finaliste della nona edizione del Premio Morrione 2020, per la categoria video inchiesta con «Un’altra rotta». Qui il trailer: www.premiorobertomorrione.it/inchieste/unaltra-rotta/




Quei bravi «ragazzi»

testo e foto di Valentina Tamborra e Angelo Anzalone |


Sono donne e uomini tra i 18 e i 28 anni. Percorrono le strade di notte, portano aiuto e sollievo a senza tetto e persone in difficoltà. A chi vive in isolamento, ma già era ai margini prima della pandemia. Siamo stati con loro dal Sud al Nord Italia.

In collaborazione con Croce Rossa italiana (Cri) abbiamo dato vita al progetto «Quei bravi ragazzi, l’Italia che aiuta». Volevamo raccontare l’esperienza e la dedizione dei giovani volontari di Croce Rossa italiana nella loro quotidianità a supporto dei cittadini, in particolare dei più fragili, durante l’emergenza Covid-19.

Abbiamo voluto verificare se è vero che «i ragazzi» sono indifferenti alle sorti del mondo. Abbiamo incontrato uomini e donne fra i 18 e i 28 anni impegnati in attività, come la consegna della spesa, il supporto ai senzatetto e l’assistenza sanitaria in ambulanza in alcune delle aree più colpite della Lombardia, come Legnano, Parabiago, la stessa Milano, e Acireale e Catania in Sicilia.

C’è un elemento che ci ha colpiti in maniera ancora più profonda: l’aggravarsi dell’isolamento di quanti già nella vita quotidiana pre covid vivevano isolati.

Abbiamo lavorato sul campo a Catania e a Milano seguendo i volontari nell’assistenza ai senzatetto, e abbiamo scoperto un mondo parallelo, ignorato, che con l’emergenza pandemia è rimasto ancor di più lontano dai riflettori e in qualche modo abbandonato a se stesso.

Solidarietà milanese

Milano, alle spalle del Duomo, sotto i portici di Galleria Vittorio Emanuele, ma anche tra le vie che costeggiano corso Europa, si consuma una vita parallela: è in questi luoghi che trovano riparo fra portici e androni centinaia di senzatetto. Sono le 20 circa quando da una delle sedi di Croce Rossa italiana, partiamo insieme ai volontari per seguire il loro abituale giro che ci porterà a distribuire cibo e conforto a moltissime persone.

Di notte, quando tutto tace e la città si svuota, sorgono piccoli ricoveri come tende, cartoni e vecchie coperte. Fungono da casa per chi una casa non ce l’ha. È uno scenario che certo abbiamo visto centinaia di volte abituandoci, in qualche modo, a una coesistenza che non dovrebbe esserci. Ma molte delle strutture che normalmente distribuiscono cibo ai più bisognosi sono state costrette a chiudere i battenti a causa della pandemia. E così, in una città ormai svuotata, i soli a incrociare mani e sguardi, a curare i bisogni di chi è rimasto per strada in attesa che l’incubo finisca, sono i «ragazzi» di Croce Rossa italiana e di pochi altri enti.

Prima di recarci per strada passiamo da un ristorante solidale che, nonostante le difficoltà dovute alla pandemia, ha deciso di aiutare come può chi si trova in difficoltà. Si chiama «Rob de Matt»: un luogo di incontro e scambio situato fra Dergano e Bovisa, zone periferiche della città di Milano.

Un locale che sorge al centro di un delizioso giardino che è anche orto e luogo di ritrovo per famiglie, bimbi, universitari e anziani. Il titolare, Edoardo (Chef e presidente di questa realtà), insieme alla sua squadra, ha preparato durante tutto il periodo della prima ondata di pandemia, circa 150 pasti caldi al giorno.

Pasti consegnati ai volontari di Croce Rossa perché venissero distribuiti nell’abituale giro notturno.

Un rapporto d’amicizia

Recuperato il cibo, è il momento di riunire tutti i volontari e i dipendenti che copriranno il turno della notte.

«Allora, vi ricordate dove sta Francesco? Proprio dietro al Duomo, vicino alla fermata della metro», e inoltre: «E Marina? Marina sta ancora con Alessio? O si sono separati? Dobbiamo trovarli entrambi, sapete che è una situazione delicata».

I nomi, le identità. Il ritorno all’umanità. Qui per strada, mentre nel mondo si parla di etichette, non ci si è mai dimenticati che dietro numeri e statistiche ci sono persone. Il giro fatto dai volontari è sempre il medesimo. Ogni sede di Croce Rossa ha il proprio itinerario così da non lasciare scoperta nessuna zona della città. E ogni volontario è assegnato al medesimo giro perché è importante creare fiducia con le persone che si incontrano. Il cibo, infatti, è solo un pretesto per avvicinarsi, o almeno lo era prima della pandemia, quando c’erano altri enti a distribuire i pasti. I giovani volontari stringono rapporti forti, di reale conoscenza con queste persone che vivono ai margini della società. Prima della pandemia, infatti, non era insolito per i ragazzi fermarsi anche un’ora con una persona. Me lo racconta Tobia Invernizzi, 26 anni, volontario da tre.Gli manca, dice, passare del tempo insieme a quelli che sono diventati in qualche modo vecchi amici. Di cosa si parla di notte, per strada? Quali sono le paure di chi vive in una città che va di corsa, come Milano, e che scavalca spesso con indifferenza coperte e cartoni che per qualcuno sono casa?

Si parla di cose quotidiane. Di amore, di un giornale letto, una notizia di attualità, del pasto consumato il giorno prima, o della diatriba nata per un posto occupato per dormire, posto che era di un altro senzatetto. Si parla di cose umane, e ora, con il Covid, anche questo momento di scambio è a rischio.

Bisogna consegnare il pasto, scambiare due parole e andarsene: niente contatto fisico, nessun abbraccio. Non ci si può sedere vicini, volontario e senzatetto, essere umano ed essere umano, per scambiare due parole, una risata, fumare insieme una sigaretta.

Un cane di nome Stella

«Ma ti ricordi quando ho preso Stella? Era piccola così. Aveva un anno e ora ne ha dodici!»

Stella è una cagnolina nera, somiglia a un bracco. Se ne sta quieta, seduta accanto alle gambe del padrone.

Vivono insieme, in strada, da almeno undici anni.

È uno dei primi scambi di battute cui abbiamo assistito durante la notte per il servizio ai senza dimora.

Un pasto caldo (merluzzo in umido), e un sorriso che raggiunge gli occhi, tanto da cancellare per un attimo quella barriera imposta per nostra e altrui sicurezza: la mascherina. Ci si conosce tutti, in strada. Tra persone che dormono accampate fra tende e giornali, coperte e cartoni, e fra volontari che ogni notte vanno a trovarli per portare cibo, si, ma soprattutto conforto, ascolto, aiuto.

Undici anni di un rapporto che si consuma nella «Milano bene» che, a quest’ora della notte, è ormai svuotata.

Presto arriverà il mattino, farà luce, e allora bisognerà raccogliere le proprie cose e spostarsi in attesa di consumare il giorno e arrivare, nuovamente, all’ora nascosta dal buio.

Paolo prende il suo sacchetto con il cibo, restiamo a parlare ancora un po’, cinque minuti, non di più, perché il Covid ha ridotto questo tempo dello scambio. È una questione di sicurezza, certo, e bisogna rispettarla. Anche qui in strada si distribuiscono mascherine e gel disinfettante. Vengono richiesti, al pari di una coperta, di un panino, di un tè caldo.

Perché l’ansia, la paura, serpeggia anche qui, fra chi al grido «restate a casa» ha potuto rispondere solo rimanendo esattamente dov’era: per strada. Più abbandonato di prima. Più solo di prima.

Fra piazza del Duomo e la periferia, chi vive la strada è rimasto li. Invisibile più che mai.

Il tempo di un abbraccio

Finito il turno, si torna in sede. Che si sia fatto il servizio notturno ai senzatetto o il servizio ambulanza, svolto alla sede di Parabiago (hinterland milanese), ciò che si percepisce ora è stanchezza, sicuramente, ma anche una grande tenerezza e la consapevolezza di aver fatto tutto ciò che si poteva. Ma se lavorando per strada bisogna evitare il contatto a tutti i costi per tutelarsi dal virus, c’è un momento, alla fine del turno in ambulanza, nel quale le barriere, per qualche secondo, possono venire meno.

Con indosso ancora la tuta bianca, i guanti e la mascherina, i ragazzi si lasciano andare a un abbraccio sicuro: il contatto umano, un corpo che si avvicina a un altro, il conforto. Nahomi cerca il suo collega, restano cosi per qualche secondo.

Questa ragazza che studia giurisprudenza e sogna di fare del proprio lavoro una missione, anche nel tempo libero si dona agli altri. Oggi il servizio ambulanza è stato particolarmente duro: un codice rosso, non Covid, ma comunque finito nel peggiore dei modi. Eppure, lei e gli altri ragazzi non desistono: ne vale la pena, sempre. Anche nei momenti più duri, anzi soprattutto in quei momenti.

Guardando questi ragazzi, quel gesto semplice eppure oggi negato, ci si rende ancora più conto di quanto il Covid sia prima di tutto «una malattia dell’amore». Separa, per sicurezza, isola, per necessità. Ma l’essere umano è tale proprio perché animale sociale, proprio perché «l’altro» sia conforto e non timore, non pericolo.

La riflessione più urgente da fare, insieme a quelle su tutte le problematiche connesse a economia e salute, è quella legata al contatto fra persone. Abbiamo necessità di tornare a non temerci, abbiamo necessità di tornare alla vicinanza e alla condivisione. In attesa di poterlo fare, è già molto sapere che, in alcuni luoghi in Italia, sono state istituite «stanze degli abbracci» in alcune Rsa (Residenza socioassistenziale), come a Bollate, nel milanese.

A questo proposito restano impresse le parole di un amico medico: «la medicina deve adattarsi all’essere umano». Non dimentichiamoci, alla fine, che sotto guanti, mascherine, indumenti protettivi, siamo e restiamo, prima di tutto, soprattutto, persone.

La realtà siciliana

Daniela Carbone, consigliere eletta per il comune di Acireale (Catania), è la prima ad accompagnarci.

È lei la responsabile del servizio «pronto spesa e pronto farmaco», iniziativa nata allo scopo di approvvigionare le famiglie svantaggiate e gli anziani in difficoltà.

Il nostro viaggio si snoda tra i magazzini alimentari, scelti tra strutture pubbliche ed edifici sequestrati alla mafia e consegnati a Cri, nei comuni di Aci Catena, Aci Sant’Antonio e Aci Bonaccorsi: è da questi luoghi, sorti a nuova vita, che partono le operazioni di smistamento e consegna cibo alle categorie più fragili.

È proprio Daniela a rivelarci alcuni effetti collaterali e forse meno facili da prevedere di questa emergenza: «Nonostante i numeri dei contagiati, inferiori rispetto alle altre regioni d’Italia, in special modo alla Lombardia, il numero dei richiedenti aiuti alimentari è progressivamente aumentato con l’avanzare delle restrizioni. Il dato non è imputabile al virus in sé ma alle conseguenze dovute alle necessarie limitazioni. In Sicilia il lavoro nero è uno dei principali problemi che da sempre l’attanagliano. Il virus non ha fatto altro che esacerbare un malessere che già preesisteva. Impedendo alle persone di potersi recare al proprio posto di lavoro si è impedito loro di potersi sostenere. Tutte quelle fasce sociali che riuscivano alla meno peggio a “portare a casa la giornata” adesso sono regrediti ad uno stato di semi povertà».

L’elenco degli aiuti è fitto e, tra una casa e l’altra, un vicolo e l’altro, persone di diverso livello sociale e genere attendono il loro cofanetto di alimenti e beni di prima necessità con rigoroso e immobile pudore.

A fine turno una coppia di anziani ultraottantenni attende l’arrivo dei volontari. Uno di questi ultimi ci racconta che i due erano persone molto conosciute in paese perché per anni avevano gestito una piccola bottega di generi alimentari. Al suono del ricordo, però, la coppia scoppia in un pianto amaro rivelando che mai si sarebbero aspettati di finire senza certezze e senza protezione, abbandonati e impauriti, in attesa di finire l’ultimo tempo della loro vita.

Contro emergenza

È una calda domenica di maggio e, dalla sede di Catania, Alberto Leotta ci attende a inizio turno, insieme al suo team, per raccontarci la sua giornata. Non sono previsti interventi oggi, ma una esercitazione, una delle tante da fare necessariamente per mantenere alta la preparazione per una risposta al pronto intervento.

Alberto ci tiene a precisare che, la sede in cui Cri opera, è una importante e lussuosa villa sequestrata nel 1998 a una famiglia mafiosa locale.

Ci mostra tutta la lunga procedura di vestizione che anticipa ogni uscita in ambulanza. «A causa dei tempi lunghi di preparazione e vestizione, il tempo di risposta tra un intervento e un altro si è dilatato».

Il ricordo dei soccorsi è vivo negli occhi di Alberto che fa fatica, ci svela, dimenticherà questo particolare momento storico.

«Quando si ritorna a casa le sera e si sente un po’ di freddo alle ossa, o un po’ di mal di gola, il pensiero inevitabilmente rimanda alla possibilità di aver contratto il virus, di essere diventato un potenziale problema per le persone più care».

Catania, senza dimora

Sono circa 80 i senza fissa dimora che, nei vicoli di Catania, dividono la notte tra gelo e solitudine.

Durante la fase 1 e 2 del lockdown le strutture di accoglienza, mense e ambulatori di assistenza, hanno dovuto barricarsi per evitare il contagio.

L’unità di strada dei giovani volontari di Croce Rossa italiana ha svolto numerose attività di sostegno a favore delle fasce più deboli. Durante la fase 1 del lockdown, Croce Rossa si è posta da tramite tra le varie associazioni per provvedere al fabbisogno di beni di prima necessità: pasti caldi, acqua, indumenti e kit di pulizia. Con l’inizio della fase 2, il 4 maggio, le mense hanno potuto riaprire i battenti così, il servizio di assistenza di Croce Rossa, attraverso ronde settimanali, vigila sulle condizioni sanitarie e psicologiche di tutti gli utenti presenti sul territorio catanese.

«Il cibo è una scusa per monitorare il bisogno dei senza dimora – ci dice Danilo Di Mauro responsabile dell’unità di strada – un legame, il nostro, instaurato nel tempo. Conosciamo le loro storie personali, le loro paure e i loro drammi. Una sorta di famiglia allargata in cui prendersi cura vicendevolmente gli uni degli altri».

Valentina Tamborra e Angelo Anzalone




Armi, Gang e un uomo al comando

testo di Marco Bello |


La deriva autoritaria dell’élite al potere. L’impunità a livelli mai visti. I banditi che controllano la popolazione. Mentre imperversa l’«economica del rapimento». La diaspora guarda con grande preoccupazione il 2021: l’anno di tutte le sfide.

È il 28 agosto 2020, a Port-au-Prince l’avvocato Monferrier Dorval viene freddato con un proiettile. Dorval era il presidente dell’Ordine degli avvocati della capitale, e stava lottando per migliorare la situazione nel suo paese. L’assassinio suscita indignazione in molti settori della società haitiana.

Quattro mesi dopo, il 28 dicembre, in un assalto è ferito gravemente il giornalista Vario Sérant, e ucciso l’ingegnere Obelson Mésidor, che è in auto con lui. Collaboratore della Nazioni unite e insegnate all’Università di stato di Haiti, Sérant viene salvato per il rotto della cuffia.

Due eventi non isolati, segnali di una situazione sociale ormai al limite del collasso nel paese caraibico.

Ma cerchiamo di capire cosa sta succedendo.

© Valerie Baeriswyl / AFP

Uomo solo al comando

Il 7 febbraio 2017, dopo un’elezione contestata (svoltasi tra fine 2015 e gennaio 2016) e un anno di transizione (con presidente ad interim il presidente del senato Joselerme Privert), è diventato capo di stato Jovenel Moise. Grande imprenditore agricolo, anche noto come «Neg banan» (l’uomo delle banane, in creolo), Moise rappresenta una ristretta classe di neo arricchiti grazie a traffici e commerci più o meno leciti. Una classe legata alla destra storica duvalierista, di cui fa parte anche il cantante Joseph Martelly, che lo ha preceduto alla presidenza (2011-2016) (si veda MC aprile 2017).

Come già Martelly, anche Moise ha evitato accuratamente di realizzare elezioni, facendo scadere gli eletti locali prima, e poi, a inizio 2020, la camera dei deputati e due terzi del senato. Da allora, non essendoci più il parlamento (ad eccezione di un terzo del senato, dieci senatori), il presidente, governa per decreto, forzando la Costituzione e facendo diventare Haiti una «quasi» dittatura presidenziale.

Mentre Martelly non era riuscito a creare consenso per un Consiglio elettorale provvisorio (Cep), e, quindi, a costituire questo organo fondamentale, Moise ha avuto a disposizione un Cep riconosciuto e funzionante, durante gran parte del suo mandato. Nonostante questo, non ha realizzato le elezioni, fino alle dimissioni del Cep, nell’agosto 2019, a causa della constatazione, da parte dello stesso, che non c’erano le condizioni per realizzare la consultazione elettorale.

«Moise vuole cambiare la struttura istituzionale del paese, ma vuole farlo tutto da solo», ci confida il giornalista Gotson Pierre. «Non ha mai smesso di criticare il fatto che c’è una condivisione di potere (dettata dalla Costituzione, ndr). Lui è per un potere presidenziale, mettendo il presidente della Repubblica a capo supremo della nazione. Come è stato durante la dittature dei Duvalier».

E continua: «Vuole liberarsi istituzionalmente, per governare liberamente. Per questo motivo dice: da quando non c’è più il parlamento, facciamo molte cose. L’organo legislativo è un ostacolo per lui».

Così dal gennaio dello scorso anno, scadute le due camere, Moise ha firmato molti decreti, alcuni dei quali piuttosto discutibili e, soprattutto, senza il controllo di nessuna altra istituzione. Di fatto sta legiferando in modo diretto, e molti sono decreti che modificano le istituzioni repubblicane. «Ha fatto oltre quaranta decreti nei vari settori, per esempio nell’ambito dell’organizzazione degli ordini professionali, del codice penale, e di altri organi indipendenti, come la corte superiore dei conti».

Alcuni decreti mettono a rischio la libertà e i diritti fondamentali, come quello che istituisce l’Agenzia nazionale d’intelligence (Ani), molto criticato da opposizione e società civile. Questa struttura, infatti, ricorda tanto la milizia dei famigerati Tonton Macoute: «Sarà un’agenzia dei servizi segreti, i cui membri possono essere armati, e andare a casa delle persone senza mandato. Renderanno conto solo al presidente, il che assomiglia molto ai Macoute del passato. Anche i diplomatici stranieri hanno detto a Moise che è un decreto pericoloso». Da notare che gli ambasciatori delle diverse cancellerie, in generale mantengono una posizione defilata, omettendo di ostacolare la deriva autoritaria del presidente. Chi ci parla ricorda bene i Duvalier e la loro milizia: padre Jean-Yves Urfié, missionario francese della congregazione dello Spirito Santo, ha iniziato a lavorare ad Haiti nel 1964. Da Duvalier è stato pure espulso nel ‘69, per poi tornare nel paese.

© Valerie Baeriswyl / AFP

Ritorno al passato?

Il disegno di Moise è chiaro. Con un decreto del 7 gennaio, il presidente rende pubblico il suo calendario elettorale. Vuole realizzare un referendum costituzionale il 25 aprile di quest’anno e poi elezioni presidenziali, legislative e locali, tra il 19 settembre e il 21 novembre. Per arrivare il 22 gennaio 2022 alla proclamazione ufficiale dei risultati, e procedere all’insediamento del presidente della repubblica il 7 febbraio, data simbolo della caduta di Jean-Claude Duvalier (7 febbraio 1986).

Le questioni sul tavolo sono diverse e complesse. Primo: il mandato dell’attuale presidente scade il 7 febbraio 2021 e non 2022 (su questo punto c’è un’ambiguità nella Costituzione). Secondo: il Consiglio elettorale provvisorio si è dimesso e Moise ha creato il proprio Cep (nell’ottobre scorso) che non risponde alla normale procedura, non ha un consenso tra le istituzioni ed è dunque illegale, non avendo neppure prestato giuramento di fronte alla Corte di cassazione. Terzo: la Costituzione, per essere riformata, prevede un iter complesso di modifica, con diversi passaggi in parlamento, a cavallo tra due legislature. Moise invece ha creato un comitato di redazione, «composto da amici suoi», sottolinea padre Jean-Yves, ai suoi ordini, incaricato di redigere un progetto di Costituzione. Questo sarà votato dal popolo al referendum e diventerebbe dunque valido, nei programmi del presidente, entro maggio. Anche questo procedimento è illegale. Come è possibile tutto ciò? Una spiegazione ce la può dare Jaques Stephen Alexis, grande scrittore, medico e uomo politico haitiano (1922-1961), quando diceva che Haiti è il paese del «Réalisme Merveilleux» (realismo meraviglioso).

Gotson Pierre tenta di spiegarci. «Con il referendum costituzionale, Moise vuole modificare la Costituzione, ma violando la Costituzione attuale. È la prima volta dal 1987, quando è stata promulgata, che chi detiene il potere osa metterla di lato. Ci sono stati i colpi di stato, ma la Costituzione è stata sempre menzionata, e si parlava di ritorno all’ordine democratico. Ma con Moise, siamo fuori dalla Costituzione, e lui agisce senza avvertire, senza un discorso: dice “creiamo un comitato per fare una nuova costituzione”, e questo senza contattare nessuno. È pura arbitrarietà».

Inoltre, si conoscono già le grandi linee della nuova carta fondamentale: «Si ha l’impressione che questa Costituzione l’abbia già pensata: massimi poteri al presidente, soppressione del primo ministro, il parlamento diventa unicamerale, eliminando il senato. Siamo in una grande riforma istituzionale, portata avanti in maniera informale, e tutto è fatto dall’esecutivo da solo».

Il rischio per lo stato è dunque elevato, continua il giornalista: «Il referendum consacrerà l’insieme dei decreti che sono già stati pubblicati sui diversi settori della vita pubblica. Cancellerà tutte le acquisizioni democratiche del 1986 in materia istituzionale. Da circa un anno siamo in questo processo».

Qualcuno non è d’accordo

L’opposizione politica e gli altri settori della società haitiana cosa dicono? «Il movimento popolare era più forte nel 2019, aveva bloccato il paese durante diverse settimane», ricorda padre Urfié, riferendosi al cosiddetto «paylock», ovvero il blocco totale del paese nell’autunno di quell’anno, causato da diversi settori della società che protestavano contro la corruzione del presidente e il suo entourage nell’affare Petrocaribe: aiuti venezuelani ad Haiti dirottati nei forzieri di pochi.

Però l’opposizione politica è variegata e divisa, ci ricorda il missionario, che negli anni ‘90 era stato un promotore dei movimenti sociali e della democrazia nel paese, attraverso le comunità di base, rischiando varie volte la vita: «Nell’opposizione ci sono anche personaggi simili a Moise. Quindi, il popolo non ha fiducia in molti dei suoi dirigenti. Inoltre questi non riescono a mettersi d’accordo. Per essere efficace, occorre che il movimento sia generalizzato, invece ci sono gruppi gli uni contro gli altri. Troviamo quelli che sono più radicali e altri meno, quelli favorevoli al dialogo e altri no. Tra i radicali c’è gente come Yuri Latortue, che faceva parte degli squadroni della morte durante il colpo di stato (si riferisce al putsch di Raoul Cédras, 1991-1994, che lui ha vissuto in prima persona, ndr). È qualcuno che è diventato molto ricco grazie a traffici strani».

Gotson Pierre approfondisce: «C’è rivalità fra i leader, ma forse c’è anche un problema di rappresentazione, che rende le cose difficili. Che messaggio comunicano? Stanno iniziando a cambiare, parlano di transizione, perché, secondo loro, Moise deve rispettare la Costituzione. È una richiesta legittima, anche agli occhi della comunità internazionale, la quale sostiene globalmente Moise, anche se c’è stata qualche dichiarazione contro il governare per decreto».

«Ora fanno incontri, anche se è un po’ tardi. Il processo d’intesa a livello dell’opposizione non è facile, per molteplici ragioni. Tendenze, differenze nel panorama politico haitiano, molti ostacoli.

C’è una ricerca di concertazione, quello che si constata è che non arrivano, per il momento, a invertire il rapporto di forza con il presidente. Occorre mobilitare veramente la gente e smuovere le cose».

Il presidente Jovenel Moise © Valerie Baeriswyl / AFP

Vuoto istituzionale

A inizio gennaio, si è riunito quel che resta del parlamento, ovvero dieci senatori (un terzo del senato, che ad Haiti è rinnovato ogni due anni in modo parziale). Questi reduci hanno eletto il presidente del senato, nella figura di Joseph Lambert, che diventa, oltre a Moise, la sola carica istituzionale di vertice attualmente eletta ad Haiti. Politico di lungo corso, è in parlamento dal 1990, e aveva l’ambizione di fare il primo ministro con Moise.

«Il presidente si è fatto il vuoto istituzionale intorno, gli unici eletti sono i dieci senatori. Come la transizione del dopo Martelly è stata guidata dal presidente del senato dell’epoca, così Lambert sarebbe forse l’unico titolato a sostituire Moise dopo il 7 febbraio. Sembra che abbia avuto contatti con l’ambasciata Usa. Potrebbe essere contro Moise oppure suo alleato», analizza il giornalista.

Lambert è un altro personaggio ambiguo, già consigliere di Michel Martelly, una nostra fonte ci dice che è classificato dalla Dea statunitense come responsabile di traffico di stupefacenti.

Diversi gruppi della società civile e dell’opposizione politica hanno iniziato la mobilitazione delle piazze dal 15 gennaio, per opporsi alla permanenza di Moise dopo il 7 febbraio e per una transizione. La repressione da parte dei corpi speciali di intervento rapido (Cimo) e della polizia, è stata violenta, con l’uso di lacrimogeni, proiettili di gomma ma anche armi reali.

La Rete nazionale per la difesa dei diritti umani, Rnddh, il 22 gennaio ha scritto in un comunicato che: «I recenti avvenimenti […] costituiscono una violazione flagrante delle libertà di espressione, circolazione e libertà individuali del popolo haitiano». Dice inoltre: «[La Rnddh] giudica inquietante che questi casi di violazioni si siano intensificati all’indomani delle dichiarazioni minacciose del presidente Jovenel Moise, il 19 gennaio […], e che la sua Agenzia nazionale d’intelligence, già attiva, gli permetta di raccogliere informazioni relative ai cittadini che partecipano o finanziano i movimenti antigovernativi. Perché, ha affermato, quello che era possibile negli anni scorsi, non lo sarà più nel 2021».

Nelle mani delle Gang

Gotson Pierre ci ricorda che per invertire il rapporto di forza occorre una mobilitazione generale. Ma anche che oggi, ad Haiti, c’è una problematica sociale molto forte: «Se queste mobilitazioni riescono, allora è un segnale molto buono. Ma le difficoltà sono tante, perché praticamente tutti i quartieri sono controllati dalle gang. In certi casi la gente non può uscire di casa, c’è il rischio che non possano andare a manifestare».

In molti quartieri la popolazione è in ostaggio, le gang (termine creolo di origine inglese, che indica bande armate di malviventi), sovente hanno in mano la situazione, malgrado le operazioni di polizia. Gang che intessono legami con i politici, e le più importanti sono vicine, o fanno accordi, con chi detiene il potere.

«È un fenomeno che si è già visto nel passato, ma adesso, non solo è più forte, hanno più gente, più armi, ma si è generalizzato. In tutti i quartieri troviamo delle cellule di gang. In alcuni sono molto più sviluppate che in altri, ma non si può dire che ci sia un luogo esente. E le troviamo anche in altre città, oltre che in capitale. In certi quartieri non c’è un’aggressione evidente: le gang ci sono e fanno i loro affari. Ma in altri, è una vera e propria guerra. Ad esempio, Bel Aire (quartiere centrale di Port-au-Prince, ndr): non si può passare adesso, trovi strade sbarrate, vie vuote, tutto è chiuso».

© Valerie Baeriswyl / AFP

L’economia del rapimento

Un altro fenomeno, legato alle gang, che si sta diffondendo sempre più, è quello dei rapimenti a scopo di estorsione, chiamati qui kidnapping. «È il banditismo. Penso che sia un fenomeno che si nutre dell’impunità, il traffico di armi e di droga. Quando la situazione è questa, chi è senza scrupoli riesce a fare di tutto. Inoltre, tutto questo funziona bene quando si ha il banditismo di stato», racconta Gotson Pierre.

«Attraverso i rapimenti fanno molti soldi, e non parlo dei ricavi dei piccoli rapitori, o dei soldà come li chiamano qui. Si tratta di centinaia di migliaia di dollari, talvolta milioni, tutto in cash, che passano di mano e sono gestiti ai livelli alti delle gang. È una vera e propria industria remunerativa, e tutti questi contanti devono sicuramente andare da qualche parte e servire a qualcosa». Qualcuno fa l’ipotesi che questo denaro servirà a finanziare le prossime elezioni.

Occorre purtroppo osservare, che «quando il kidnapping funziona, tutto funziona». Molti soldi girano, molte persone lavorano, è come se ci fosse un’«economia del kidnapping».

Iliana Joseph, presidente di Haititalia, associazione culturale della diaspora haitiana in Italia, mette l’accento su alcuni aspetti: «Hanno inventato rapimenti che non eravamo abituati a vedere: hanno capito che con questo sistema si fanno tanti soldi, allora la cosa si è diffusa, anche grazie alla televisione. Non erano mai arrivati a rapire bambini o famigliari di persone del popolo». E parla delle paure di chi vive lontano: «Se qualcuno sa che un vicino di casa ha un parente all’estero, questo può essere preso di mira. Chiedono dei riscatti molto elevati che spesso non si possono pagare. Se non si paga, i rapiti vengono ammazzati. Neanche le generazioni più anziane di noi avevano mai visto una situazione così nel paese. Io non ho mai avuto paura di prendere un aereo e andare al mio paese, in 25 anni che vivo in Italia. Oggi ci penso bene. Tutto questo è molto grave».

Il Covid ha colpito poco Haiti in modo diretto. Durante la prima ondata è stato abbozzato un lockdown. Ora non più, e i casi stanno aumentando. Ma un effetto importante è stato indiretto.

Ancora Iliana Joseph: «Chi vive all’estero sostiene la sua famiglia con le rimesse, che sono un’entrata rilevante nel bilancio di Haiti. La pandemia, e il conseguente lockdown, ha fatto perdere il lavoro a una gran parte della diaspora nel mondo, con il conseguente crollo degli invii in valuta pregiata. Questo ha aumentato la povertà in maniera diffusa e contribuito a far degenerare la situazione sociale nel paese».

Marco Bello


Nota

Mentre stiamo chiudendo la rivista, gli eventi ad Haiti sono in rapida evoluzione. Torneremo sulla situazione quando si sarà stabilizzata.


Archivio MC

• Marco Bello, «La cultura ci salverà», MC 04/2017.
• Marco Bello, A due passi dalla Tortuga, MC 07/2016.
• Marco Bello, dossier: La cultura è rivoluzione, MC 05/2016.
• Marco Bello, Il presidente a vita è morto, MC 12/2014




Stati Uniti. È ancora lunga la strada per il sogno

Dopo la schiavitù, gli Stati Uniti conobbero la segregazione. Un periodo di cento anni segnato dalla lotta di personaggi come Rosa Parks e Martin Luther King. Ancora oggi il razzismo è ben presente nella società americana come hanno evidenziato le vicende avvenute durante la presidenza di Donald Trump.

Per soli bianchi: posti a sedere, sale d’attesa, bagni, cabine telefoniche, fontanelle, ma anche scuole e università. Per quasi un secolo (1865-1964), la scritta «Whites only» fu la dimostrazione tangibile che negli Stati Uniti era terminata la schiavitù, ma non il razzismo.

La pratica aveva il nome di «segregazione razziale». Essa consisteva nella separazione fisica delle persone sulla base della razza o, meglio, visto che il concetto non ha valenza scientifica, della presunta razza. Si dividevano i neri dai bianchi all’interno di strutture pubbliche (scuole, tribunali, ecc.), servizi pubblici (mezzi di trasporto) e privati (ristoranti, barbieri, campi sportivi, servizi igienici, ecc.) e li si segregava in aree residenziali a loro dedicate (ghetti).

La segregazione razziale fu la modalità attraverso cui la società bianca dominante riuscì a circoscrivere e limitare le conseguenze prodotte dall’abolizione legale della schiavitù, avvenuta nel 1865.

Per dirla con l’Enciclopedia Britannica: «La segregazione razziale fornisce un mezzo per mantenere i vantaggi economici e lo status sociale superiore del gruppo politicamente dominante».

L’insegna di una lavanderia che lavora soltanto per bianchi.

«Separati ma eguali»

Durante e, soprattutto, dopo il periodo della ricostruzione postbellica (1865-1877), gli stati del Sud, appartenenti alla ex Confederazione (South Carolina, Mississippi, Florida, Alabama, Georgia, Louisiana, Texas, Virginia, Arkansas, Tennessee, e North Carolina), e l’Oklahoma, iniziano ad applicare norme discriminatorie nei confronti della minoranza nera.

Queste leggi sono conosciute sotto i nomi generici di «Black codes» (codici per i neri) e «Jim Crows laws» (leggi Jim Crows, dal personaggio interpretato da un attore che si dipinge il viso di nero). Ecco qualche esempio.

A fine 1865, lo stato del Mississippi emana una legge secondo la quale i neri, senza lavoro o che si riuniscano senza permesso, sono considerati vagabondi e, in quanto tali, punibili con una multa o, a discrezione del giudice, con il carcere. Nel caso che il nero condannato non paghi la multa entro cinque giorni, è compito dello sceriffo trovargli un’occupazione fino al pagamento della somma dovuta. La stessa legge punisce i bianchi che si riuniscano con neri o abbiano con essi rapporti.

Negli stati del Sud si susseguono le norme che richiedono la separazione dei bianchi dalle «persone di colore» (colored, così all’epoca vengono chiamate) sui mezzi del trasporto pubblico (tram, autobus e treni). Il principio applicato è conosciuto come quello del «separati ma eguali» (separate but equal). Secondo questo principio, la segregazione razziale è consentita purché sia prevista una pari sistemazione per i passeggeri neri.

Ne è significativo esempio il «Louisiana Separate Car Act», approvato nel luglio 1890. Al fine di «promuovere il comfort dei passeggeri», le ferrovie della Louisiana devono fornire «posti uguali ma separati per le razze bianche e colorate» sulle linee che percorrono lo stato.

Nel 1896, il principio «separati ma eguali» viene confermato anche dalla Corte suprema chiamata a deliberare sul caso «Plessy v. Ferguson».

Homer Plessy è un calzolaio di New Orleans. Proveniente da una famiglia mulatta, Homer è una persona attiva nel sociale. Per protestare contro le leggi sulla segregazione, nel 1892 acquista un biglietto di prima classe sulla East Louisiana Railroad e si siede nello scompartimento per «solo bianchi». Alla richiesta di allontanarsi, Plessy rifiuta e per questo viene fatto scendere dal treno, imprigionato per una notte e rilasciato dopo aver pagato una cauzione di 500 dollari. Nel processo l’imputato dichiara di aver visto violati i diritti sanciti dal XIII e XIV emendamento della Costituzione, ma il giudice John Howard Ferguson lo dichiara colpevole.

Nel 1986 la causa «Plessy v. Ferguson» (dal nome dei due protagonisti) arriva davanti alla Corte suprema. Questa, con una netta maggioranza (sette contro uno, con un giudice assente), dà torto al ricorrente sostenendo la costituzionalità della segregazione razziale secondo la dottrina del «separati ma uguali».

Avendo dalla loro parte la Corte suprema degli Stati Uniti (composta di nove membri eletti a vita), fino al 1954, gli stati del Sud possono emanare senza problemi leggi di segregazione razziale. Come testimoniano varie sentenze, «la Corte sostanzialmente acconsentì alla “soluzione” del Sud ai problemi delle relazioni razziali» (prof. Melvin Urofsky, Britannica).

In sostanza, queste leggi vengono emanate e sono vigenti pur violando uno o più degli emendamenti della Costituzione americana introdotti dopo la guerra civile: il XIII (che proibisce la schiavitù), il XIV (pari protezione davanti alla legge) e il XV (diritto di voto).

Al Lincoln Memorial una giovane attivista domanda (retoricamente): «Dov’è il sogno?». Foto Victoria Pickering.

Anni cinquanta: la storia cambia

Dopo la Prima guerra mondiale, cambia il clima generale e cambia anche la Corte suprema. Nel 1950, la «Associazione nazionale per il progresso delle persone di colore» (National Association for the Advancement of Colored People, Naacp) chiede a un gruppo di genitori afroamericani tra cui Oliver Brown di Topeka (Kansas) di tentare di iscrivere i propri figli a scuole per soli bianchi (all-white school). Oliver prova a iscrivere la figlia Linda, 9 anni, alla scuola elementare Sumner della cittadina, ma l’iscrizione viene negata in quanto l’istituto non accetta bambini di colore. L’associazione afroamericana raccoglie altri 12 casi e intenta una causa collettiva conosciuta come «Brown contro l’ufficio scolastico» (Brown v. Board of Education of Topeka, Kansas). Nel 1954, la Corte suprema sentenzia che «sistemi d’istruzione separati sono per essenza ineguali. [I ricorrenti], in ragione della segregazione qui contestata, sono stati privati dell’uguale protezione davanti alla legge».

Un anno e mezzo dopo questa storica sentenza accade un altro evento che segnerà la storia dei neri d’America.

Il bus di Rosa Parks

La foto segnaletica di Rosa Parks, l’iniziatrice (1955) della rivolta contro la segregazione sui mezzi pubblici.

Montgomery, Alabama, 1° dicembre 1955. Al termine della sua giornata lavorativa, Rosa Parks, una donna nera di 42 anni, prende l’autobus per tornare a casa sistemandosi sul primo sedile dietro la parte riservata ai bianchi. Le norme della città di Montgomery richiedono infatti che tutti i mezzi di trasporto pubblico abbiano posti separati per bianchi (nella parte anteriore) e neri (in quella posteriore).

Durante il suo percorso l’autobus si riempie e vari passeggeri bianchi rimangono in piedi nel corridoio. L’autista se ne accorge, ferma il mezzo e sposta il cartello che separa le due sezioni indietro di una fila, chiedendo a quattro passeggeri neri di lasciare i loro posti ai bianchi.

Tre di loro obbediscono all’autista, mentre Rosa Parks si rifiuta. «Non credo che debba alzarmi», risponde la donna. A quel punto, l’autista chiama la polizia. Questa arresta la donna per violazione delle norme locali e la porta alla centrale. Verrà rilasciata quella notte dietro cauzione.

Pochi giorni dopo – il 5 dicembre – al processo Rosa Parks viene condannata al pagamento di una multa. La storia della donna fa però nascere tra la comunità afroamericana di Montgomery una protesta civile e pacifica di grande portata: il boicottaggio degli autobus della città. Circa 40mila pendolari afroamericani iniziano a disertare i mezzi pubblici, scegliendo di muoversi a piedi o su taxi da loro stessi organizzati.

La protesta (funestata anche da violenze dei segregazionisti) prosegue per 381 giorni fino al 13 novembre 1956. In quella data la Corte suprema degli Stati Uniti dichiara incostituzionale la segregazione sui trasporti pubblici.

La prigione di Birmingham

La lotta di Rosa Parks è stata guidata dal giovane e preparato pastore della Dexter Avenue Baptist Church di Montgomery. Il suo nome è Martin Luther King.

Nel 1957, assieme ad altri pastori e leader neri, King fonda ad Atlanta, sua città natale, la Southern Christian Leadership Conference (Congresso dei dirigenti cristiani del Sud), organizzazione per i diritti civili. Nel 1959, King viaggia in India, dove approfondisce la filosofia nonviolenta di Ghandi. Il suo lavoro di pastore è ad Atlanta, ma la sua attività principale è ormai girare il paese per parlare di razzismo e diritti civili. Inevitabilmente si scontra più volte con le autorità. A Birmingham, Alabama, una città con alti livelli di segregazione, lancia una grande campagna di resistenza, coinvolgendo nella protesta anche ragazzi. Viene arrestato. Nell’aprile 1963 pubblica la «lettera dal carcere di Birmingham» in cui controbatte alle critiche pervenutegli dagli ecclesiastici bianchi della città e spiega la pratica della disobbedienza civile nonviolenta.

«Per oltre due secoli – scrive Martin Luther King – i nostri antenati hanno lavorato in questo paese senza ricevere compenso; hanno fatto del cotone una ricchezza; hanno costruito le case dei loro padroni mentre pativano macroscopiche ingiustizie e vergognose umiliazioni: e tuttavia, grazie a una inesauribile

vitalità, hanno continuato a crescere e a svilupparsi. Se le crudeltà inaudite della schiavitù non sono riuscite a fermarci, l’opposizione con cui oggi abbiamo a che fare dovrà senza dubbio fallire. Noi conquisteremo la nostra libertà».

La protesta dei cittadini neri, la lettera dal carcere e le violenze della polizia di Birmingham hanno una vasta eco portando la questione razziale all’attenzione generale.

Un’insegna nella stazione delle corriere di Durham, in North Carolina, nel 1943, indica la sala d’attesa per i neri («colored»), come prevedono le norme Jim Crow. Foto Jack Delano.

Il sogno di Martin

Pochi mesi dopo, la protesta si sposta a Washington, dove il Congresso sta discutendo il Civil Rights Act, la legge antidiscriminazione presentata dal presidente John Kennedy. Il 28 agosto 1963 Martin Luther King, davanti a una folla di 250mila persone, pronuncia il suo discorso più famoso: I have a dream, ho un sogno.

Il leader afroamericano delinea chiaramente la meta: «In America, non ci sarà né riposo né tranquillità fino a quando ai neri non saranno concessi i loro diritti di cittadini». Ma le modalità per raggiungere quest’obiettivo sono, secondo Martin Luther King, precise e inderogabili: «In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste. Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. […] Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica». Infine, ecco il sogno: «Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere».

Il 3 luglio 1964, circa un anno dopo la marcia e il discorso di Washington, il presidente Lyndon Johnson (sostituto dell’assassinato John Kennedy) firma il Civil Rights Act, avendo alle spalle Martin Luther King.

La lotta non conosce pause. Pochi mesi dopo (a marzo 1965), ancora nello stato dell’Alabama, Martin Luther King partecipa alle marce da Selma a Montgomery, la prima delle quali repressa dalla polizia, attuate per reclamare il diritto di voto anche per gli afroamericani. Pochi mesi dopo, il 6 agosto 1965, il presidente Johnson firma il Voting Rights Act, con il quale i neri ottengono finalmente l’accesso al voto.

Martin Luther King non potrà però continuare a perseguire il suo sogno perché viene assassinato a Memphis, in Tenneesee, il 4 aprile 1968, all’età di 39 anni.

«La vera pandemia è il razzismo», un cartello eloquente di una afroamericana. Foto Miki Jourdan.

Da Obama a Trump

Nelle elezioni del novembre 2008 viene eletto Barack Obama, primo presidente afroamericano nella storia degli Stati Uniti. I problemi razziali del paese non si risolvono però con la sua elezione. Con Obama la condizione dei neri migliora nel campo dell’istruzione e della salute, ma non in quello del lavoro e del reddito.

A dimostrazione del cammino ancora da percorrere, la circostanza che nel 2013, cioè all’inizio del suo secondo mandato, nasce il movimento Black lives matter (le vite dei neri contano).

Il successore alla Casa Bianca è l’imprenditore e miliardario Donald Trump, che mette subito in mostra la sua totale mancanza di scrupoli negando per lungo tempo la nascita americana di Obama.

Le proteste degli afroamericani dilagano nelle città Usa soprattutto durante il secondo mandato di Trump. Con l’ex presidente i «suprematisti bianchi» (cioè coloro che ritengono i bianchi intrinsecamente superiori alle persone di colore) – riuniti in gruppi come The Proud Boys, gli Oath Keepers o i Three Percenters – hanno molta visibilità e libertà d’azione. Nei drammatici eventi del 6 gennaio 2021, i sostenitori di Trump e assalitori del Campidoglio sono nella quasi totalità bianchi.

Due ragazze mostrano cartelli di appoggio al movimento «black lives matter» (le vite dei neri contano). Foto Tom Hilton.

Joe Biden, finalmente

Sono ormai passati 55 anni dalla fine (formale) della segregazione e discriminazione razziali. Tuttavia, ancora oggi la minoranza nera – oltre 48 milioni di persone pari al 14,7 per cento della popolazione statunitense – è fortemente penalizzata. I neri sono discriminati nei rapporti con la polizia e la giustizia (più morti, arrestati e condannati), nell’accesso a buone scuole e ai lavori migliori, nell’assistenza sanitaria (Pew Research Center, Race in America 2019, aprile 2019).

Non sarà facile per il nuovo presidente Joe Biden porre rimedio a ingiustizie razziali sedimentate e acutizzate durante i quattro anni di Trump.

Tuttavia, i suoi passi iniziali sono di buon auspicio. La vice di Joe Biden è Kamala Harris sulle cui spalle ricadono una serie di primati: la prima donna, la prima nera (il padre è giamaicano), la prima tamil (per parte di madre) a diventare vicepresidente degli Stati Uniti. Inoltre, in considerazione delle età di Biden (78 anni) e di Kamala (56), la ex procuratrice della California è una candidata molto accreditata alla prossima presidenza.

Anche il movimento Black lives matter sembra mostrare speranza e fiducia nel cambiamento attraverso una lotta non-violenta. A gennaio, sul proprio sito, ha scritto: «Ogni giorno che passa, facciamo sempre più passi verso la realizzazione dell’America in cui Martin Luther King ha sempre creduto».

Paolo Moiola


Cronologia: 1865-1968

Dalla segregazione a Martin Luther King

  • 1865-1877

    Martin Luther King, leader della causa degli afroamericani, assassinato nel 1968. Foto Library of Congress.

    È il periodo della «ricostruzione» post bellica. Negli stati del Sud inizia a essere applicata la segregazione attraverso norme specifiche denominate «Black codes» e «Jim Crows laws».

  • 1866
    A Pulaski, in Teneessee, nasce il Ku Klux Klan (Kkk), la più violenta tra le organizzazioni di suprematisti bianchi.
  • 1896
    La Corte suprema stabilisce che la segregazione sui vagoni dei treni della Louisiana è costituzionale sostenendo il principio del «separati, ma eguali» (separate but equal).
  • 1909, febbraio
    Nasce la «National Association for the Advancement of Colored People» (Naacp), una delle prime e più influenti associazioni per i diritti civili degli afroamericani negli Stati Uniti.
  • 1915
    L’Oklahoma entra nella storia Usa come il primo stato a separare le cabine telefoniche pubbliche.
  • 1954, maggio
    Una sentenza della Corte suprema – Brown v. Board of Education (Brown contro l’ufficio scolastico) – dichiara incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche.
  • 1955, 1 dicembre
    A Montgomery, capitale dell’Alabama, l’attivista Rosa Parks si rifiuta di cedere il posto sull’autobus a un passeggero bianco. Viene arrestata. Il giorno successivo incomincia il boicottaggio dei mezzi pubblici della città, protesta che dura per 381 giorni.
  • 1964, 3 luglio
    Una legge federale – il «Civil Rights Act» – rende illegale ogni forma di discriminazione razziale, non solamente da parte degli organismi pubblici, federali o locali, ma anche nelle relazioni commerciali e nel lavoro.
  • 1965, 21 febbraio
    A 39 anni, il leader nero Malcolm X viene assassinato con sette colpi di arma da fuoco durante un discorso pubblico ad Harlem.
  • 1965, marzo
    Per il diritto di voto agli afroamericani si svolgono tre marce da Selma a Montgomery.
  • 1965, 6 agosto
    Il presidente Lyndon B. Johnson firma il «Voting Rights Act», una legge progettata per far rispettare i diritti di voto garantiti dal 14.mo e 15.mo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti.
  • 1968, 4 aprile
    Martin Luther King, leader nero di fama mondiale, viene assassinato a Memphis.

(a cura di Paolo Moiola)


«Sala d’attesa per i colorati»: un’indicazione specifica per i neri nella stazione di Rome, Georgia, nel 1943. Foto Esther Bubley – Library of Congress.

Neri americani*: i numeri (2019)

  • popolazione nera: 48,2 milioni
  • percentuale su totale: 14,7 per cento
  • tasso di povertà: 20,8 per cento (10,1%**)
  • tasso di disoccupazione: 6,1 per cento (3,3%**)
  • educazione superiore (college): 29 per cento (45%**)
  • stati con più neri: New York, California,Texas, Florida e Georgia
  • città Usa con più neri: New York, Chicago, Detroit.

(*) «Black population», «african americans» sono i termini più utilizzati negli Stati Uniti per indicare la popolazione nera. I termini «negro» («negroes», al plurale) e «colored» sono caduti in disuso.
(**) Percentuale per la popolazione «bianca».

Fonti: US Census Bureau (census.gov); US Bureau of Labor Statistics (bls.gov); US Department of Education (ed.gov).

 (Pa.Mo.)


Politica e religione in Usa

Il cattolico Joe Biden

Il nuovo presidente Joe Biden, secondo cattolico (dopo John Kennedy) a ricoprire la massima carica degli Stati Uniti. Foto Matt Johnson.

Joe Biden, dal 20 gennaio 2021 alla guida degli Stati Uniti, è il secondo presidente Usa di fede cattolica. Il primo fu John Fitzgerald Kennedy (dal 1961 al 1963). Si stima che il 3 novembre 2020 circa la metà degli elettori cattolici abbia votato per Biden. L’altra metà si è schierata con l’ex presidente Donald Trump; una buona parte di costoro appartiene alla schiera degli anti Francesco.

Durante il suo mandato, l’ex presidente ha avuto rapporti soprattutto con i cristiani evangelici. Trump aveva l’Evangelical Advisory Board, un organismo composto principalmente da leader di organizzazioni della destra religiosa, predicatori televisivi e pastori conservatori (The Washington Post, 30 agosto 2018). Aveva Paula White, nota televangelista della Florida, come capo consigliere spirituale.

Il primo giugno dello scorso anno, nel pieno delle proteste per l’uccisione di George Floyd, Donald Trump ha camminato dalla Casa Bianca fino alla Chiesa episcopale di San Giovanni. Un centinaio di metri sgombrati dalla polizia con i gas lacrimogeni. Arrivato davanti alla chiesa con il suo stuolo di accompagnatori (peraltro, tutti bianchi e senza mascherine), l’ex presidente si è piazzato davanti all’insegna e ha alzato al cielo la Bibbia che teneva tra le mani. Senza aprirla. Tutto in favore di telecamere e macchine fotografiche.

Per tutto il suo mandato presidenziale, Trump ha usato la religione per i suoi fini politici, un «nazionalismo cristiano» che ha ottenuto molto seguito tra fette consistenti di evangelici e di cattolici.

Ci sono stati politici repubblicani e leader religiosi che hanno parlato apertamente di un intervento di Dio per la sua ascesa al potere. Franklin Graham, noto pastore evangelico, in un’intervista del luglio 2019 ha affermato che «Dio era dietro le ultime elezioni» vinte da Trump.

Anche la frettolosa nomina alla Corte suprema della giudice cattolica Amy Coney Barrett, nominata pochi giorni prima delle elezioni del 3 novembre, rientrava nel disegno politico ed elettorale dell’ex presidente. Questo utilizzo strumentale della fede religiosa da parte di Trump ha contribuito a fomentare un clima fortemente divisivo.

Il 30 agosto 2020, padre James Altman di La Crosse, Wisconsin, è intervenuto nel dibattito con un video pubblicato su YouTube: «Non puoi essere cattolico ed essere democratico […] Pentiti – esorta padre Altman nel suo accattivante filmato – del tuo sostegno a quel partito e alla sua piattaforma o affronterai le fiamme dell’inferno!».

L’opposizione della destra cristiana continua anche dopo la chiara sconfitta del presidente. «Jesus saves» dicevano alcuni cartelli nella manifestazione pro Trump del 6 gennaio 2021 sfociata nell’assalto al Campidoglio. Quei fatti hanno però costretto vari leader religiosi repubblicani (come i pastori Mark Burns, Pat Robertson, ecc.) a prendere apparentemente le distanze dall’ex presidente. Se questi sembra, almeno per il momento, fuori gioco, non lo è però il «trumpismo».

Il giorno seguente all’insediamento del nuovo presidente, il sito del «Falkirk Center» della Liberty University, istituto cristiano (evangelico battista), ha pubblicato un lungo articolo sui «modi in cui tutti noi possiamo glorificare Cristo mentre ci opponiamo alle politiche di Biden».

Nella sua lettera di benvenuto (datata 20 gennaio) al nuovo presidente e alla sua famiglia, l’arcivescovo José Gómez, presidente della Conferenza episcopale statunitense (United States Conference of Catholic Bishops, Usccb), ha scritto che «lavorare con il presidente Biden sarà unico, sarà il nostro primo presidente in 60 anni a professare la fede cattolica». Tuttavia, è facile prevedere che il dialogo non sarà certamente semplice su alcuni temi e, in particolare, sulla questione dell’aborto su cui la lettera dell’arcivescovo si sofferma molto.

Secondo una ricerca del Pew Research Center (4 gennaio), nel 117.mo Congresso degli Stati Uniti la maggioranza assoluta dei parlamentari sarebbe di religione protestante (294 persone, il 55,4 per cento del totale), mentre i cattolici sarebbero 158, pari al 29,8 per cento, più di quanti sono nel paese (20 per cento). Difficilmente i cattolici pro Trump cambieranno idea rispetto al suo successore. È invece molto probabile che, al contrario di Trump, il cattolico Joe Biden non userà la fede religiosa come strumento di lotta politica.

Paolo Moiola

 


Le puntate precedenti:

 




La dignità sotto i piedi

testo di Daniele Biella |


In Piazza Libertà, davanti alla stazione, una coppia si prende cura dei migranti che arrivano in Italia dopo le peripezie e le violenze alle frontiere. Curare le loro ferite sotto gli occhi di tutti, è un urlo contro la normalizzazione del male.

«Avevo un ricordo bellissimo dei boschi della ex Jugoslavia, mi sembravano paesaggi usciti da film della Disney. Ora, quando li guardo, penso alla tragedia che si sta consumando in quei luoghi. Decine di persone – non sapremo mai quante – vi perdono la vita tentando di migrare verso il Nord Europa. È straziante».

Lorena Fornasir ha uno sguardo al quale non si può sfuggire: nei suoi occhi chiarissimi si specchiano le immagini create dalle parole che ci ha appena rivolto.

Non sono immagini belle, ma questa è la realtà: benvenuti in Europa, dove le frontiere uccidono chi cerca di superarle con la speranza di una vita migliore, ma senza documenti validi.

© Daniele Biella

Unico obiettivo: la cura

Incontriamo Lorena in Piazza Libertà, davanti alla stazione di Trieste, in un tardo pomeriggio di settembre, mentre la seconda ondata di Covid inizia a svegliarsi. È qui che la donna, psicologa 67enne, giudice onorario minorile con un’energia inesauribile, si fa trovare tutti i giorni assieme al marito Gian Andrea Franchi – filosofo e storico, ex professore di 84 anni – e ai volontari dell’associazione Linea d’ombra nata nel 2019. Dedicano tempo a presidiare il luogo con un unico obiettivo: la cura.

«Qui c’è un passaggio continuo di migranti che arrivano dalla “rotta balcanica”. Si fermano a Trieste giusto il tempo per riprendere le forze prima di provare ad andare a Nord», spiega Lorena. «Il problema è che molti arrivano a dir poco malridotti e bisognosi di attenzione. Noi veniamo qui proprio per questo, per curarli: medichiamo le ferite a piedi, gambe, braccia, e ascoltiamo i loro tremendi racconti».

© Daniele Biella

Respingimenti e violenze

Nessuna fake news in questa brutta storia. È tutto vero: la controprova dello scempio dei diritti umani in atto ai confini dell’Europa sono proprio loro, i sopravvissuti con i traumi che si portano addosso.

«Tentava di attraversare il confine italo sloveno insieme alla moglie e a un compagno, ma è morto cadendo in un burrone dopo un volo di venti metri, nei pressi del castello di San Servolo, in provincia di Trieste», riporta Radio Capodistria il primo gennaio 2020. È una vicenda che a Lorena Fornasir ritorna spesso in mente, perché ricorda la disperazione della moglie. Così come ricorda i tanti racconti di chi riesce ad arrivare in Piazza Libertà – ribattezzata da loro Piazza del Mondo – e narra di persone care e compagni di viaggio persi nel buio dei boschi, nelle settimane di cammino tra le frontiere balcaniche e, soprattutto, tra un respingimento e l’altro: «Le persone vengono rimandate indietro dalla polizia di confine, sia in Croazia che in Slovenia. Negli ultimi mesi anche all’arrivo in Italia», sottolinea Gian Andrea.

«Ci sarebbe il diritto del migrante a chiedere asilo politico, ma evidentemente non viene rispettato». E c’è di più: «Le persone che assistiamo in piazza arrivano spesso con evidenti segni di violenze, e denunciano pestaggi da parte delle forze di polizia una volta entrati nel confine croato».

Botte documentate da foto e video che anche gli europarlamentari di Bruxelles conoscono almeno dal 2017, grazie alle mobilitazioni di associazioni per i diritti umani di tutta Europa, compresa Linea d’ombra Odv (Organizzazione di volontariato – www.lineadombra.org), la onlus creata da Fornasir e Franchi. Violenze che nessuno pare riuscire a fermare, anche per la resistenza del governo croato ad ammettere le responsabilità delle proprie forze dell’ordine.

The game, il gioco

Gli stessi Lorena e Gian Andrea hanno visto con i loro occhi i segni di quelle percosse quasi in diretta, quando nel 2015 hanno iniziato a fare la spola con altri amici tra Italia e Balcani, portando vestiario e viveri nei campi profughi informali che si erano creati a Bihac e Velika Kladusa, al confine tra Bosnia e Croazia: «Non solo le botte. Alle persone vengono rotti i telefoni cellulari, requisiti gli zaini, e a volte addirittura tolti i vestiti che indossano», aggiunge Gian Andrea, lasciando intuire tutto il proprio sdegno.

Parecchi di quei migranti che avevano conosciuto al confine tra Bosnia e Croazia, ragazzi e giovani soli, ma anche famiglie con bambini e anziani, li hanno poi reincontrati nei pressi della stazione di Trieste: quelli fortunati che sono riusciti ad arrivare in Italia, nonostante tutto. Tra loro, alcuni hanno affrontato l’ultima parte del viaggio anche decine di volte: ogni volta venivano respinti, ma dopo avere recuperato le forze ripartivano, perché non c’era possibilità di tornare indietro nel posto da cui erano scappati. L’unica speranza era quella di andare avanti, raggiungere il Nord Europa.

Questo continuo procedere ed essere respinti, lo chiamano the game, il gioco: un nome che richiama il divertimento, usato però per qualcosa che di giocoso non ha nulla, forse per esorcizzare una realtà che fino a pochi anni fa non si sarebbe immaginata nemmeno nei peggiori incubi, se pensiamo che accade a ridosso di quell’Europa che nel 2012 ha ricevuto il premio Nobel per la Pace per il suo impegno a cancellare guerre e violenze dal proprio vocabolario.

Una straordinaria prova di quella solidarietà che abbatte i muri e crea legami di fratellanza. La comunità senegalese a Trieste si è mobilitata in sostegno di chi arriva dalla rotta balcanica, fratelli migranti che arrivano da altre terre e per altre vie. Un incontro toccante, ieri in Piazza Libertà, quasi un abbraccio. Un aiuto concreto, consegnato a Linea d’ombra, da parte di chi ha vissuto sulla propria pelle la violenza dei confini, destinato a chi ancora è in viaggio.

Davanti alla stazione

Dal 2019, con un flusso di arrivi notevole (almeno 15mila persone secondo i dati ufficiali dell’Agenzia europea Frontex), l’impegno dei volontari di Linea d’ombra in Piazza Libertà è diventato quotidiano. I viaggi solidali si sono interrotti, in particolare con l’arrivo del Coronavirus, e oggi l’attività è concentrata proprio lì.

«Abbiamo appena ricevuto notizie da una famiglia iraniana che è passata qualche settimana fa da Trieste, dopo avere superato la rotta balcanica. È riuscita ad arrivare in Francia e, da lì, ha raggiunto la casa di un parente in Germania, dove ora sta bene», ci racconta Franchi a fine novembre con sollievo. «Li ricordo bene, perché ci ha impressionato il fatto che fosse la loro figlia di 7 anni, che parlava inglese, a relazionarsi con noi per fare capire i loro bisogni».

Storie. Tante storie che i volontari di Linea d’ombra e di altre associazioni con le quali Linea d’ombra collabora, incrociano ogni giorno. Oltre all’associazione di Lorena e Gian Andrea, infatti, in Piazza Libertà sono presenti quotidianamente l’Ics, Consorzio italiano di solidarietà, che agevola le pratiche di asilo per i pochi che non vogliono continuare il viaggio verso Nord; l’associazione Strada SiCura, con dottoresse che medicano le ferite; e c’è chi si occupa di preparare un pasto caldo, di distribuire i vestiti e le scarpe donati.

Tra i migranti che arrivano a Trieste, alcuni si fermano per chiedere la protezione umanitaria: è la scelta di una giovane medico siro palestinese fuggita dalla guerra, che oggi aiuta a curare le ferite di chi arriva, così come quella emblematica e drammatica di Umar Adnan, un ragazzo pachistano oggi poco più che ventenne, partito da solo a 18 anni dal suo paese, dopo un’infanzia segnata dallo sfruttamento lavorativo, e arrivato in Italia dopo aver subito, tra le altre cose, le angherie di un gruppo di poliziotti croati al confine: «Mercoledì 25 settembre 2019 ho incrociato Adnan lungo la strada che scende dal confine di Velika Kladusa in Bosnia Erzegovina, dopo che era stato catturato, seviziato e respinto dalla polizia croata. Gli avevano tolto le scarpe e lo avevano torturato con una sbarra incandescente scorticandogli la gamba», scrive inorridita Lorena in quello che è poi diventato un appello rivolto all’Unione europea intitolato «Torture ai confini d’Europa», diffuso tramite la piattaforma change.org, dove ha raccolto quasi 70mila firme.

Incontro in piazza con gli Scouts sloveni in Italia (Slovenska Zamejska Skavtska Organizacija), venuti per conoscere la realtà di chi arriva dalla rotta balcanica e portare un aiuto concreto e prezioso

La disumanità

Fornasir ricorda nel testo del suo appello anche un’altra persona che però non ce l’ha fatta: si chiamava Alì. «Nel febbraio 2019, Alì era stato catturato e la polizia croata, dopo vari maltrattamenti, dalla Croazia lo aveva respinto in Bosnia, tra la neve e il gelo, levandogli vestiti e scarpe. Alì era ritornato a Velika Kladusa a piedi, tra la neve, vagando per ore. I suoi piedi si erano congelati ed erano andati in necrosi. Dopo mesi di sofferenze, Alì è morto sabato 21 settembre, a causa della disumanità».

Molte persone, non solo Lorena e Gian Andrea, hanno tentato di alzare la voce per Alì, ma nessuna autorità, Onu compresa, è riuscita a evitare la sua morte.

È andata meglio, nonostante tutto, a Umar Adnan che incontriamo in Piazza Libertà dove, una volta recuperato l’uso della gamba ferita, oggi offre aiuto a sua volta ai nuovi arrivati, e scatta foto molto utili a Linea d’ombra per documentare e diffondere informazioni su quello che accade. «I poliziotti croati volevano obbligarmi a dichiarare che ero un trafficante, e quando negavo arrivavano le botte», ricorda, aiutato dal mediatore volontario Raheem Ullah, suo connazionale arrivato a Trieste per il proprio lavoro di ricercatore in biologia. «È passato un anno e mezzo, qui mi trovo bene e posso dare una mano, oltre che ricominciare a vivere. Ma di certo sono ancora molto risentito. Non riesco e non voglio perdonare. Nessuno mi ha chiesto scusa», conclude mostrandoci i segni ancora ben visibili sulla gamba.

Tollerati perché utili

L’aspetto importante è che ora Umar Adnan ha ritrovato il sorriso, grazie anche a questa «normalità dell’aiutare» che, nella Piazza del Mondo, è visibile a occhio nudo. Una normalità quotidiana, anche se precaria. «Siamo tollerati dalle autorità locali perché siamo funzionali», analizza Franchi. «Medicando le persone, tamponiamo un problema, mettiamo in atto quello che dovrebbero fare loro di fronte a persone bisognose d’aiuto».

Anche durante tutto questo periodo di pandemia, infatti, a Linea d’Ombra è stato permesso di operare, ovviamente con tutti i dispositivi di protezione individuale del caso.

L’unica opposizione esplicita al loro operato, di fatto, è arrivata dalle frange di estrema destra della zona, che un giorno di fine ottobre hanno indetto un presidio nella piazza. Quel giorno, dall’altra parte, si sono fatte presenti numerose persone solidali con i migranti e con i volontari che danno loro supporto.

«Dopo quel momento, a livello cittadino è nato un gruppo di persone che ora si ritrova per coordinarsi su come agire per affrontare le problematiche di Trieste. Partendo dai migranti», aggiunge Gian Andrea, «si riflette anche su altri aspetti, politici e sociali, come le condizioni carcerarie, ad esempio».

Scarpe, giacconi, tute

«Un’altra novità degli ultimi mesi è, nonostante le difficoltà causate dal Covid-19, la creazione di una rete organica di attivisti che arriva fino al confine con la Francia, seguendo gli spostamenti dei migranti tra Trieste, Veneto, Milano, Torino, Oulx e poi Briançon, in Francia».

I migranti scelgono la via più lunga per arrivare in Germania perché la frontiera austriaca è quasi del tutto inaccessibile da tempo. Del resto, la situazione, in questi flussi migratori, è in continuo cambiamento: per la paura di essere respinti al confine italo sloveno vicino a Trieste, le persone cercano sentieri tra le montagne e si spostano anche verso la provincia di Udine senza passare dalla città, con il rischio di diventare ancora più invisibili e di rimanere quindi senza assistenza in casi di emergenza.

Il 2021 si preannuncia un anno duro per tutti a causa della pandemia ancora in corso, ma sarà ancora più arduo per chi non ha una casa e sta cercando un luogo sicuro dove arrivare.

Con una meravigliosa catena di solidarietà, Linea d’ombra continua a ricevere donazioni sia di soldi che di materiale, entrambe molto importanti perché il bisogno è sempre alto: «In questo periodo nel quale fa più freddo, a volte ci sono 30 persone al giorno, a volte meno di una decina, dobbiamo essere sempre pronti», ci dice Franchi.

«Abbiamo bisogno più di tutto di scarpe, giacconi, pantaloni, tute e zaini, mentre usiamo i fondi per comprare in particolare cibo e medicinali».

dalla descrizione della foto su FB: “#BalkanRouteEurope Trieste 10 gennaio 2021 Piazza mondo: <>
Carrettino: “sarò anche pazzo ma sono qui in nome delle madri del mondo, amiamo la vita che mettiamo al mondo, ce la consegniamo l’una con l’altra, nel dolore ci rafforziamo. Aspetto i loro figli, giorno dopo giorno, cerco il coraggio di sognare e di provare a far vivere i sogni. Ma, ti prego piazza del mondo, grida a tutti: APRITE LE FRONTIERE. Lipa è sempre, non solo ora che si è incendiato il campo”

La normalità del male

Mentre accompagniamo Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi lungo la strada che porta a casa loro, una volta lasciata la Piazza del Mondo, l’immagine che abbiamo di questa coppia è quella di un mix di umiltà e tenacia talmente forti da risultare sorprendenti, perlomeno a prima vista. Ma pensando alle storie e alle scelte di vita di tanti uomini e donne che hanno fatto la storia con la loro dedizione agli ultimi, dopotutto, capiamo che loro due fanno parte di questa categoria di persone: una coppia splendidamente normale. Due operatori di pace che hanno come orizzonte il bene dell’umanità.

«Tra di noi è un continuo scambio: io ho un approccio più politico e intellettuale, lei è più corporea e immediata», ragiona Franchi. «Ci completiamo», aggiunge la moglie prima di gettare uno sguardo all’indietro, verso Piazza Libertà e la stazione. «Il dolore che provo, a volte, quando volto le spalle alla piazza, è tremendo: so che le persone andranno a dormire in un posto di fortuna, e rimarranno lì, soli con i loro drammi personali, mentre io vado a casa al sicuro. Questo mi pesa tanto. Mi preoccupo soprattutto per i giovani soli, perché le famiglie che arrivano assieme hanno almeno il conforto di essere un gruppo, di avere dei bambini che, quando scherzano e ridono, portano gioia anche nei momenti peggiori. I ragazzi invece no, e spesso sono in giro da anni, tra Serbia e Bosnia, respinti da tutti e con danni psicologici irreversibili. Mi chiedo quale sarà il loro futuro».

Lorena ci confida poi un suo cruccio: quello di sentire dentro sé crescere l’abitudine, conseguenza dell’aver visto per troppo tempo troppe situazioni insostenibili: «Non sento più tanta rabbia come quella che provavo nel 2015, quando ho iniziato. E questo mi stupisce e mi amareggia, perché significa che ti abitui alla bruttura, alle deportazioni, alle violenze. Perdo di vista l’essere umano mentre mi sforzo di capire e poi denunciare i meccanismi con cui i governi respingono le persone alle frontiere. Ci vuole anche questo aspetto, certo, ma la rabbia, se ben canalizzata, è un collante sociale che genera la giusta reattività per chiedere conto a chi di dovere di quanto accade. Invece se il male diventa “normale”, un’abitudine, rischiamo la rassegnazione, l’assuefazione. Per questo il mio sentimento più forte oggi è resistere alla normalizzazione della barbarie in atto».

Sentendo le parole della moglie, Gian Andrea prosegue e rilancia: «La nostra resistenza è continuare a esserci, “esistere” in questa piazza, fare vedere che l’azione diretta è il modo migliore per evitare che quello che accade cada nell’oblio. Stiamo parlando di persone come noi che non chiedono altro se non di trovare un luogo dove stare che sia migliore di quello dal quale sono venute via».

Un gruppo di liceali triestini ha colto al volo il messaggio: a novembre, dopo che una loro professoressa ha invitato una volontaria di Linea d’Ombra in classe, ha raccolto decine di paia di scarpe in ottimo stato.

Quelle scarpe ora sono ai piedi di qualcuno che ne aveva un grande bisogno.

Daniele Biella

Archivio MC




La vita sospesa di Fukushima

testo di Piergiorgio Pescali |


Oltre alle radiazioni scaturite dall’incidente nucleare del 2011, la popolazione e il territorio di Fukushima hanno dovuto sopportare alte dosi di disinformazione. Anche per questo la rinascita è difficile.

Quest’anno il Giappone ricorda il decimo anniversario di tre eventi che hanno condizionato la politica e l’assetto sociale dell’intera nazione. Alle 14.46 dell’11 marzo 2011, un terremoto di magnitudo 9.0 sconvolse le regioni orientali affacciate sull’Oceano Pacifico. Una cinquantina di minuti dopo, una serie di ondate alte tra i tre e i quattordici metri, raggiunse le coste del Tohoku penetrando per diversi chilometri nell’entroterra, e devastando ciò che il sisma non era riuscito a distruggere. Le vittime furono ventimila, il 92% delle quali causate dallo tsunami.

Le due centrali nucleari di Fukushima gestite dalla Tepco (Tokyo electric power company), la più grande compagnia elettrica della nazione, furono inondate dalla marea che invase le stanze dove erano collocati i generatori di emergenza.  Senza elettricità, le pompe non riuscirono a immettere l’acqua di raffreddamento nei reattori i quali iniziarono a surriscaldarsi. La situazione fu riportata sotto controllo a Fukushima Daini (Fukushima 2), ma a Fukushima Daiichi (Fukushima 1) tre dei sei reattori subirono una parziale fusione del nocciolo liberando radioisotopi, in particolare xeno-133, iodio-131, cesio-134, cesio-137, tellurio-132, stronzio-90 che si sparsero nell’ambiente.

I venti trasportarono tra il 70 e l’80% della radioattività sulle acque dell’oceano antistanti la centrale, mentre il restante 20-30% si depositò su una lingua di terra che si incuneò per circa quaranta chilometri nell’entroterra.

Un accumulo di sacchi contenenti terreno contaminato dalle radiazioni della centrale di Fukushima. Foto Piergiorgio Pescali.

Troppe falsità

Migliaia fra artigiani, agricoltori, pescatori rimasero senza lavoro e l’agricoltura della zona, settima tra le prefetture del Giappone in termini di produzione totale, ma seconda per prodotti biologici, si afflosciò.

Il riso e le pesche «made in Fukushima», un tempo vanto della provincia e famosi in tutto l’arcipelago, rimasero a marcire nei campi. Sebbene la radioattività controllata per ogni lotto di raccolto, dopo il primo anno di picco, fosse scesa sotto i livelli di guardia, i consumatori erano oramai sfiduciati, da una parte dalle troppe bugie e verità nascoste del governo e della dirigenza Tepco, dall’altra dalle campagne antinucleari e ambientaliste di alcune associazioni che lanciavano allarmi preoccupanti sullo stato della radioattività. C’era chi, inventando dati e interviste, descriveva una Tokyo deserta e terrorizzata, e chi preconizzava un Giappone per la maggior parte inabitabile, dove l’intera popolazione dell’arcipelago sarebbe stata costretta a trasferirsi nelle poche aree salvatesi dalla nube radioattiva.

Dalla parte opposta, le organizzazioni pro-nucleare e la Tepco, guidate dal governo di Naoto Kan, l’allora primo ministro giapponese del Partito democratico, cercavano di minimizzare i pericoli, assicurando che la popolazione non correva alcun rischio, e che la situazione era sotto controllo. Chi aveva ipotizzato il pericolo di fusione dei reattori (come realmente accadde) venne immediatamente destituito.

In questa guerra sull’informazione, nessuno dei due eserciti aveva la piena ragione dalla sua parte e, come spesso accade nei conflitti, la popolazione civile fu quella che subì le maggiori conseguenze.

Le divergenze non si limitavano a mettere a confronto chi era pro o contro il nucleare, ma si trasmettevano trasversalmente tra chi vedeva messo in pericolo il proprio lavoro di una vita e chi soffiava sul fuoco per meri interessi economici o ideologici. Agricoltori che avevano lottato in tempi non sospetti contro la presenza delle centrali atomiche, si trovarono all’improvviso a contestare gli stessi movimenti antinucleari che propagandavano la propria azione pubblicando rapporti allarmistici, raffazzonati e zeppi di dati privi di fondamento scientifico, illustrati con fotografie falsificate. In questo scenario surreale, Fukushima tentava di rimettersi in piedi.

Oggi, a distanza di dieci anni, si può dire che vi sia riuscita, almeno in parte.

La difficile rinascita

Dal 2014 le zone interdette alla popolazione sono state ristrette sempre più, ed oggi l’area di evacuazione totale si è ridotta a 337 km2 rispetto ai 1.653 km2 del 23 aprile 2011. Al contempo, la popolazione evacuata è scesa da 165mila (maggio 2012) a 37mila (novembre 2020). Le ultime zone riaperte, alla fine del 2020, sono quelle di Futaba, Tamioka e Okuma, tra le più colpite in quei tragici giorni del marzo di dieci anni fa.

Nonostante circa un milione di cittadini e 443mila imprese abbiano ottenuto o stiano ottenendo rimborsi per un totale equivalente a 76 miliardi di euro, le difficoltà a cui vittime e residenti devono far fronte sono ancora evidenti.

E sono problemi che non possono essere risolti con alcun tipo di indennizzo economico.

Anni e anni di sradicamento dalle proprie comunità, dalla terra natia, di convivenza con estranei in case di fortuna che impedivano una pur minima privacy, la consapevolezza di non potere più lavorare come prima, l’emigrazione verso altre prefetture con la conseguente frammentazione delle famiglie, hanno trasformato Fukushima in un baratro psicologico per molte delle vittime.

Un terremoto, uno tsunami, per quanto devastanti e terribili possano risultare, lasciano la speranza della ricostruzione. Al contrario, le invisibili particelle radioattive sprigionatesi da una centrale nucleare, spazzano anche questa eventualità. Non basta più solo ricostruire. Bisogna rivoltare il terreno, raschiare centinaia di chilometri quadrati di superficie, ripulire il suolo, filtrarlo, ridistribuirlo. E il sale marino, che ha impregnato i campi, li ha inariditi diminuendo la fertilità, sconvolgendo l’equilibrio chimico che rendeva così preziosi e unici i raccolti.

Radiazioni e tumori

Gli studi dell’Unscear – United Nations scientific committee on the effects of atomic radiation – confermati anche da altre ricerche scientifiche, affermano che la dose effettiva di radiazioni assorbita dalla popolazione che viveva nelle zone contaminate durante l’incidente è stata inferiore a 10 mSv (millisievert; il «sievert» misura gli effetti provocati dalla radiazione su un organismo), una quantità paragonabile alla dose radioattiva naturale annua assorbita in media dai giapponesi.

Tra i tipi di cancro sensibili alle radiazioni, solo quello riconducibile alla tiroide, causato dallo iodio-131, può essere imputabile con relativa certezza a Fukushima. Per tutte le altre insorgenze tumorali non possono essere tratte conclusioni certe sulla correlazione con le radiazioni rilasciate. Questa forte ambiguità causale aggiunge un altro elemento di scontro scientifico nell’ambito medico riguardante gli incidenti nucleari.

Nel giugno 2011 è iniziato un programma di monitoraggio sanitario trentennale a cui partecipano più di due milioni di cittadini giapponesi, 360mila dei quali di età inferiore a 18 anni. L’obiettivo è quello di monitorare l’andamento dei tumori tiroidali. Nel marzo 2020 la prestigiosa rivista Nature ha pubblicato i primi risultati della ricerca stabilendo la bassa incidenza dei casi di cancro alla tiroide a Fukushima correlati al contenuto di iodio-131 nel suolo e nell’aria.

È comunque difficile convivere con l’incertezza di cosa riserverà il domani: le radiazioni possono manifestare i loro effetti anche a distanza di anni e questa «vita sospesa» influisce pesantemente nei rapporti interpersonali, sia in famiglia che in società.

Specialisti misurano le radiazioni attorno alla centrale di Fukushima. Foto Susanna Lööf / IAEA Imagebank.

Dalla terra al mare

Non sono solo gli agricoltori e gli artigiani a soffrire per l’incidente di Fukushima. I pescatori delle coste limitrofe alla centrale hanno subito perdite e devastazioni altrettanto pesanti. Il Grande terremoto del Giappone orientale e il successivo tsunami hanno danneggiato circa 29mila pescherecci, circa il 10% della flotta totale giapponese, e 319 porti. Nella sola prefettura di Fukushima sono state 873 le imbarcazioni danneggiate.

A causa dei venti, la maggior parte delle radiazioni fuoriuscite dalle Unità 1, 2, 3, 4 di Fukushima Daiichi sono state sospinte sull’oceano portando la Fukushima fisheries cooperative association a vietare la pesca nelle acque antistanti la centrale tra il marzo 2011 e il giugno 2012. Successivamente le attività sono state gradualmente riaperte, ma ancora oggi il pescato totale è il 10% di quello antecedente il disastro nucleare.

Anche in questo caso, come avviene per i prodotti agricoli e pastorizi, tutta la merce è analizzata per misurare la quantità di radionuclidi contenuta. La fetta di mercato nazionale (pari all’1% del totale) che occupavano i pescatori della prefettura prima dell’incidente nucleare è stata riempita da altre comunità e sarà difficile che possa essere riconsegnata alle cooperative di Fukushima. Per sopravvivere ci si è affidati al senso di comunità: come è successo tra i piccoli coltivatori, anche i pescatori hanno potuto contare sulla solidarietà dei concittadini che nei periodi più critici hanno acquistato i prodotti invenduti permettendo una difficile sopravvivenza.

Esperti raccolgono campioni d’acqua nelle acque di mare antistanti la centrale nucleare. Foto NRA / IAEA Imagebank.

Lo sversamento delle acque

Ora però un altro pericolo si sta profilando all’orizzonte. Un pericolo più concettuale che reale: l’annunciato sversamento delle acque di contenimento radioattivo nell’oceano. Per evitare che il «corium» (la massa altamente radioattiva di combustibile nucleare fusa durante l’incidente ed oggi solidificatasi) liberi radioisotopi nell’aria, viene insufflata acqua nei reattori 1, 2 e 3. Successivamente, questa acqua è filtrata e depurata da tutti i radioisotopi tranne per il trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno difficile e costoso da eliminare. Ad oggi circa 1,24 milioni di tonnellate di acque sono immagazzinate in 1.061 serbatoi e ogni giorno se ne aggiungono 160 tonnellate. L’Iaea (International atomic energy agency) prevede che la capacità di stoccaggio si esaurirà nel 2022, ed entro tale data bisognerà decidere come smaltire se non tutta, almeno parte dell’acqua. Già nel 2013, dopo che le prove per eliminare il trizio erano fallite, il governo aveva avvisato che, tra le opzioni considerate, quella dello scarico in mare era la più probabile compatibilmente con la sicurezza ecologica e l’economicità dell’operazione. Nel 2020 la decisione finale è stata accolta con preoccupazione non solo dalle associazioni ambientaliste, che hanno riproposto la visione apocalittica di un oceano Pacifico radioattivo e privo di vita, ma anche dai pescatori locali, preoccupati più per l’impatto negativo di tanto clamore sui consumatori che per l’effettivo inquinamento provocato dal trizio.

Il rilascio programmato delle acque ha una tempistica che durerà tra i sette e i trentatré anni (la durata dipende dal limite di radioattività massimo che si vuole raggiungere e dall’anno in cui si inizierà a sversare l’acqua) e comunque è stata scaglionata in modo da non superare mai il limite imposto dalla legge giapponese. Tenendo conto che la contaminazione da trizio nelle acque da versare in mare è di circa 1 PBq (da 0,5 MBq/l a 4 MBq/l)  e che nei complessivi 1,3 milioni di metri cubi di acqua da scaricare sono presenti in totale circa tre grammi di trizio, è stato calcolato che, se l’intera quantità di acqua oggi presente nei serbatoi venisse scaricata nel giro di un solo anno, l’impatto nelle acque marine sarebbe di 0,00081 mSv/anno. Ben poco se paragonati ai 360 TBq/anno di trizio rilasciato tra il 2008 e il 2011 dalle sole centrali giapponesi o alla quantità di trizio scaricata nelle acque marine da altri impianti nucleari sparsi per il mondo.

Il futuro del nucleare in Giappone

Il disastro di Fukushima accese il dibattito sul futuro energetico del Giappone. L’autosufficienza energetica nazionale, che nel 2010 era pari al 20,3% di cui la quasi totalità proveniente dal settore nucleare, nel 2013, dopo la chiusura dei reattori, era scesa al 6,6% per risalire al 9,6% nel 2017 a causa della parziale ripresa dell’attività atomica e dell’aumento dell’utilizzo delle fonti rinnovabili, potenziate dai forti incentivi concessi dal governo e dal sensibile miglioramento delle tecnologie dedicate a questo campo di sviluppo.

Già alla fine del 2012, quando Shinzo Abe succedette a Yoshihiko Noda alla guida del governo del Giappone, fu chiaro che il nucleare avrebbe avuto ancora un futuro nella politica energetica giapponese. Un futuro incerto e di transizione, in linea con il modello descritto dall’Ipcc (International panel on climate change), ma che lasciava spazio all’energia atomica almeno fino al 2050 secondo i piani del primo ministro per ottemperare anche agli obiettivi di riduzione dell’80% delle emissioni di CO2 che la nazione si è proposta di raggiungere entro quella data.

All’inizio del 2021, secondo l’Iaea, in Giappone sono di nuovo operativi trentatré reattori nucleari che generano una capacità totale di 31.679 MWe pari al 7,5% dell’energia totale prodotta nella nazione. Due reattori, che aggiungeranno un totale di altri 2.653 MWe, sono in fase di costruzione, mentre sono stati chiusi definitivamente ventisette reattori.

La disastrosa condotta dei governi che hanno gestito l’incidente nucleare di Fukushima (in particolare quello di Naoto Kan), si ripercuote ancora pesantemente nell’opinione pubblica giapponese: solo l’1,9% dà credito al governo e ancora meno (1,2%) all’industria nucleare. Il motivo è da ricercarsi nella reticenza da parte di queste due entità nazionali (governo e industria) nel dare notizie veritiere alla popolazione, nell’insufficiente preparazione del personale, nella condotta della dirigenza delle compagnie energetiche e nelle numerose bugie rilasciate sia dagli apparati governativi che dai vari protagonisti privati sul pericolo radioattivo e sul modo con cui è stata gestita l’emergenza.

Nel 2019 un grosso scandalo che ha coinvolto la Kansai electric power company (Kepco), membri della prefettura di Fukui, del Partito liberaldemocratico e dello stesso ex sindaco di Takahama, ha sconvolto, se mai ce ne fosse stato bisogno, ancora una volta l’industria nucleare nipponica.

Lo scandalo ha riportato alla ribalta i loschi interessi del «villaggio nucleare» nazionale, un problema già più volte sollevato da numerosi gruppi antinucleari e che viene spesso associato alla mancanza di controlli adeguati nel campo della sicurezza all’interno delle centrali.

Proprio questo sistema perverso e pericoloso avrebbe dovuto mettere in guardia i vari dicasteri preposti alla sorveglianza nucleare, cosa che in Giappone non è avvenuta ed è uno dei motivi per cui oggi molti cittadini si sentono defraudati della propria sicurezza.

È anche per questo che i giapponesi faranno fatica ad accettare un ritorno al nucleare che sembra oramai già deciso

Piergiorgio Pescali

Archivio MC

● Piergiorgio Pescali, Atomi di pace, atomi di guerra, dossier, agosto-settembre 2018;
● Piergiorgio Pescali-Mirco Elena-Tiziano Tosolini, Giappone. Viaggio nel disastro nucleare, dossier, dicembre 2015.

Esperti della IAEA in visita alla centrale di Fukushima. Foto Greg Webb / IAEA Imagebank.