INDIA – Verso l’assoluto

San Giustino (II secolo d. C.) li chiamava «semi del Verbo»: con concetti
e verità presenti in tutte le culture e religioni. Anche nei testi sacri indù incontriamo varie somiglianze con il cristianesimo.

Dio, Allah, Javhè, Brahaman, Ahura Mazdah sono sinonimi? Se è difficile porsi tale domanda, ancora più arduo è dare una risposta. Ma, dal momento che Dio è uno solo, esiste per lo meno il dubbio che l’umanità lo abbia cercato, in modi diversi, nel tempo e nello spazio. Le grandi religioni monoteistiche si sono sviluppate in una area geografica che si estende dal vicino all’estremo Oriente e hanno consolidato il loro sviluppo attraverso millenni.
Senza pretendere di dare una risposta organica al quesito, è sempre utile esplorare i libri fondamentali delle religioni monoteistiche, cercando le verità e i concetti che coincidono o si avvicinano a quelli del Cristianesimo.
È quanto tentiamo di fare spulciando alcuni versi del Bahagava-Gita («Il canto del beato»), un poema scritto in sanscrito, che fa parte di una opera più vasta, il Mahabharata, redatta in un periodo di tempo che spazia dal V secolo a.C. al II d.C.
Il Bahagavad-Gita è un poema filosofico, con preponderanti elementi didattici; si presenta come un dialogo tra la guida spirituale e divina, Krishna, e l’eroe Arjuna che, nell’imminenza di una battaglia definitiva contro i cugini, si pone dei problemi sulle conseguenze delle sue azioni. Tale battaglia racchiude il valore simbolico della lotta tra le forze buone e cattive che si svolge nell’intimo di ogni persona.
Questo libro ha lasciato una profonda impronta nella vita culturale e religiosa dell’India, da essere considerato un testo sacro.

N el poema viene esplicitato il concetto di Brahaman: l’Assoluto, l’Eteo, l’Imperituro, a cui l’uomo deve tendere senza avere la pretesa di comprenderlo. Brahaman è il principio vitale di ogni cosa, la sostanza della conoscenza che, all’interno di una mente ricettiva, ne diventa la saggezza.
Brahaman, infatti, è «l’inizio, la metà e la fine di ogni vita» (canto X, strofa 20). Concetto che richiama l’espressione biblica con cui nell’Apocalisse si definisce il Cristo: «Io sono l’Alfa e l’Omega» (Ap 1,8). «Il mondo dipende da me – afferma ancora Brahaman -, come le perle sono sospese al loro filo» (VII,7).
Nel Bahagavad-Gita viene espresso perfino una verità del credo ebraico-cristiano, anche se non frequentemente utilizzata: il concetto di mateità di Dio: «Io sono il padre e la madre di questo mondo, io lo mantengo e lo purifico» (IX,17).
Seguendo i precetti adeguati, l’anima raggiunge la saggezza e sarà salvata: nella credenza indù ciò significa che essa sarà in grado di uscire dal ciclo delle reincarnazioni. «Chi raggiunge la suprema perfezione, raggiunge anche me; per una tale anima pura non c’è più l’afflizione della rinascita» (VIII,15).
Quindi è già esplicito il concetto salvifico insito in Brahaman, cui ogni uomo deve aspirare e tendere.
Tale salvezza non è raggiungibile con la logica, perché a un certo punto non è possibile dare risposte su argomenti religiosi; occorre, invece, un altro atteggiamento: quello della fede. Non è il potente a raggiungere la salvezza, ma il fedele: nella sua umiltà questi non è mai respinto, anche quando si presenta in forme tanto ingenue: «Anche gli adoratori di immagini, in realtà adorano me; la loro fede è reale, sebbene i loro mezzi siano poveri» (IX,23).
L’umiltà di Brahaman si piega verso il credente: «Io accetto ogni dono, un frutto, un fiore, una foglia, anche l’acqua, se ogni cosa è offerta in modo puro e devotamente e con amore» (IX,26).
La fede non è un aspetto logico; al credente non è richiesto di capire la natura e potenza divina. Occorre l’abbandono: «Abbi fede in me, sappi che esisto e che sostengo il mondo» (X,42). In presenza di una fede sincera, Brahaman stesso diventa operativo nel credente. In questo caso infatti: «Io mi insedio nel loro cuore e la mia compassione, come una lampada accesa di saggezza, disperderà l’oscurità della loro ignoranza» (X,11).

B rahaman possiede una gloria inimmaginabile alla mente umana. Per spiegarla si ricorre ad una poetica analogia paradossale: «Qualora mille soli dovessero esplodere all’improvviso nel cielo, la loro luminosità non riuscirà ad approssimare la gloria della mia vista» (XI,12).
È interessante notare che questa strofa è stata utilizzata dal fisico nucleare Oppenheimer, che conosceva il sanscrito, per descrivere la prima esplosione nucleare realizzata nel deserto del Nevada, di cui era stato testimone.
Anche per noi cristiani Dio è luce. Le citazioni bibliche sono al riguardo innumerevoli. Così i mistici e altre creature privilegiate descrivono la propria esperienza di Dio con immagini di luce sfolgorante.

D ove risiede Brahaman? Egli abita in un suo mondo che non possiamo vedere, poiché, come creature, siamo sottoposte alla illusione del maya: ciò che nel mondo appare reale ai nostri sensi, in realtà è illusorio. Anche per noi cristiani Dio risiede in un «luogo inaccessibile», cioè fuori di ogni nostra capacità di comprensione.
Il concetto di illusorietà della filosofia indù possiamo intuirlo se consideriamo alcune apparizioni di Gesù dopo la risurrezione. I vangeli raccontano che il Cristo risorto è apparso ai suoi discepoli «mentre erano chiuse le porte dove essi si trovavano» (Gv 20,19), dando l’impressione di passare attraverso i muri. In realtà questa era l’impressione di creature umane come noi; ma per i corpi celesti il mondo sensibile, compresi i muri, non ha consistenza e non può ostacolare i loro movimenti: da qui deriva l’illusorietà del nostro mondo materiale e visibile, di fronte a quello reale ma invisibile di Dio.

C ome si può raggiungere la salvezza? Occorre seguire la via della purezza e del controllo dei propri aspetti negativi. «Mi è caro l’uomo che non odia nessuno, che è sensibile a tutte le creature, che ha lasciato perdere l’“io” e il “mio”, che non è sconvolto dal dolore e dalla gioia, che è paziente e sereno, risoluto e sottomesso. Caro mi è chi non disturba e non è disturbato, chi è libero dalle passioni, dalla gelosia, dalla paura e dalla preoccupazione» (XII,13-15).
Cosa succede a chi non segue la via della virtù? Anche nella concezione indù esiste un inferno, come situazione di sofferenza da cui il Bahagavad-Gita mette in guardia: «L’inferno ha tre porte: la lussuria, l’ira e l’avidità» (XVI,21). Dante Alighieri riferirebbe dell’ostacolo di tre fiere: la lonza (pantera), simbolo della lussuria; il leone, simbolo dell’orgoglio; il lupo, simbolo della cupidigia (cfr. I,I,31-51).
Da qui scaturisce un ulteriore ammonimento: «Chi lascia perdere queste tre (porte) ed è assorbito nel suo proprio miglioramento, costui può raggiungere il suo obiettivo supremo» (XVI,22), che nel nostro linguaggio possiamo chiamare salvezza eterna.
È interessante notare che lo sforzo per migliorarsi è più importante dei risultati raggiunti. «Il vostro compito è lavorare, non raccogliere i frutti del lavoro» (II,47). E per fare ciò bisogna essere tenaci e sereni: «Ma l’uomo stabile pensa a me e comanda i suoi desideri. La sua mente è stabile, perché i suoi desideri sono soggiogati» (II,61).
Il risultato di tale fatica è la pace: «O Arjuna, la pace consiste nell’essere in Brahaman, per non soffrire più delusioni. Nella pace è eterna l’unità con Brahaman, la pace del Nirvana» (II,72).

I n conclusione, questi pochi versi del Bahagavad-Gita fanno intravedere varie somiglianze tra la concezione di Dio nel mondo indù e quella della fede cristiana. Esistono, naturalmente, profonde differenze su molti concetti di base. È tuttavia confortante constatare che le radici più profonde di culture e religioni tanto lontane siano così somiglianti, più di quanto appaia a prima vista.
Sono i «semi del Verbo», diceva san Giustino, scrittore cristiano del II secolo: sementi di verità che lo Spirito ha sparso in culture e religioni attraverso i secoli e ad ogni latitudine e che attendono la luce di Cristo per maturare frutti di salvezza.

Piergiorgio Motta




Un’antenna per l’indio

Assemblee dei capi, «una mucca per l’indio», progetti sanitari sono state tappe importanti per il processo di liberazione degli indios di Roraima.
È in vista un altro traguardo:
la stazione radio che trasmetterà i valori del vangelo
nella loro lingua.

D a oltre 50 anni i missionari della Consolata lavorano nella regione di Roraima. Dopo i primi contatti con le popolazioni indigene, essi si sono impegnati nel riscatto della loro dignità, aiutandole a riscoprire l’identità culturale e difendere i propri diritti. Tra incomprensioni, calunnie e minacce da parte della società dominante, gli indios hanno cominciato a diventare protagonisti del proprio futuro. Ma il cammino è ancora lungo e insidioso.
ASSEMBLEE DEI CAPI
Una tappa storica iniziale fu raggiunta nel gennaio del 1977 con la prima riunione dei capi villaggio. Fu un evento caratterizzato da dubbi e timori, angustie e sofferenze, che avviò un cammino di cambiamenti inarrestabili. Per la prima volta gli indios trovarono il coraggio di denunciare apertamente le angherie che dovevano subire da parte dei bianchi, invasori delle loro terre. Al tempo stesso s’impegnarono a lottare contro certe abitudini, come l’alcornolismo, che contribuivano a mantenerli in stato di emarginazione e semischiavitù.
Presa coscienza della situazione di emarginazione e oppressione in cui vivevano, gli indios cominciarono ad affermare la volontà di reagire pacificamente, ma con determinazione, per prendere in mano le redini del proprio futuro. Il processo di coscientizzazione è continuato nelle successive assemblee annuali, in cui sono emerse nuove idee e progetti concreti per realizzare un autentico riscatto sociale e culturale.
«UNA MUCCA PER L’INDIO»
L’idea era balenata nella mente dei missionari fin dal 1983: i bianchi dicono che «terra senza bestie è terra di nessuno»; allora gli indios della savana possono riappropriarsi del loro territorio allevando il bestiame. Dopo alcune esperienze fatte in pochi villaggi, fu tracciato un piano insieme alle comunità indigene e nel 1985 fu varato il progetto «una mucca per l’indio».
Lanciata in Italia, presso amici e conoscenti, in breve tempo l’iniziativa conquistò la simpatia di migliaia di persone, che contribuirono generosamente all’acquisto del bestiame. Dal 1985 al 1993 la diocesi di Roraima poté distribuire 7.800 mucche alle comunità, già preparate ad assumersi le responsabilità previste dal piano. Grazie alla riproduzione delle bestie, la distribuzione è continuata negli anni seguenti, in misura ridotta, ad altre comunità preparate per entrare nelle regole del progetto.
Oggi gli indios possiedono circa 30.000 capi di bestiame, senza contare quelli macellati o venduti per vivere o quelli morti durante la grande siccità di due anni fa. Il numero è destinato ad aumentare.
Più rilevanti dei numeri sono gli effetti straordinari di tale iniziativa, che ha provocato un profondo cambiamento nella vita sociale e culturale dei makuxí, wapixana e altre etnie minori, e di riflesso sui yanomami.
Oltre a sollevare gli indios dalla situazione di miseria, il progetto ha istillato e nutrito in individui e comunità un profondo senso di dignità e responsabilità collettiva, coesione e solidarietà tra i villaggi nella lotta per la comune sopravvivenza, crescita nella fede cristiana (gli indios della savana sono quasi tutti battezzati) e senso di appartenenza alla chiesa, grazie alla solidarietà dei fratelli nella fede che da lontano hanno pensato a loro e li hanno sostenuti con l’aiuto economico.
Tale sentimento di appartenenza e unità ha dato forza e coraggio alle popolazioni indigene per esigere dal governo la demarcazione delle loro terre, come mezzo indispensabile per vivere secondo la propria cultura.
SANITÀ COMUNITARIA
Fin dal 1952 la chiesa di Roraima si è preoccupata della salute degli indigeni, organizzando un ospedale con una ventina di letti nella missione di Surumú. Piccolo segno di fronte alla vastità dell’area indigena. I malati dovevano affrontare enormi distanze per raggiungere l’ospedale.
Suor Rosa Claudia, missionaria della Consolata, ebbe un’idea geniale: radunò 12 giovani, ragazzi e ragazze di 15-16 anni; per due anni trasmise loro una buona conoscenza di anatomia e fisiologia, igiene, malattie e relativi rimedi con farmaci che si comperano in farmacia e con quelli estratti dalle piante locali. A tale scopo organizzò nel terreno dell’ospedale un orto con erbe medicinali, quelle già note ai giovani, per averle viste nei villaggi, ed altre di cui la suora stava prendendo conoscenza.
Finita la preparazione, i giovani tornarono alle loro comunità con due compiti: costruire una piccola capanna, denominata «posto medico comunitario», e dar vita a un orticello di piante medicinali, chiamato «farmacia comunitaria». Al tempo stesso i giovani cominciarono a curare ferite, raffreddori, diarree di adulti e bambini, tossi, febbri malariche ed altri malanni comuni nella zona, usando sia medicine naturali che quelle comperate.
Inoltre erano capaci di applicare flebo, fare iniezioni e altri trattamenti di ordinaria amministrazione. Per i casi più gravi dovevano ricorrere all’ospedale della missione. La prima esperienza di questi giovani fu meravigliosa; grande fu, soprattutto, il senso di responsabilità e competenza con cui lavoravano.
Così, accanto alla chiesetta e alla scuola con catechisti e maestri, nei villaggi iniziava ad apparire il «posto medico» con i suoi responsabili, avviando un nuovo capitolo di attività che migliorò enormemente la vita comunitaria.
L’esperienza continuò. Altri giovani vennero formati e i centri sanitari si moltiplicarono in tutta la savana, con enorme beneficio delle comunità indigene, che imparavano a conoscere le malattie, difendere la propria salute, rispettare le norme igieniche, proteggere le piante medicinali. Con il progetto-mucche era migliorata l’alimentazione, con i posti medici anche la salute.
Qualche anno dopo, mentre i centri sanitari erano in piena funzione, un giovane medico brasiliano si offrì di lavorare a favore della salute degli indios della diocesi di Roraima. Si mise al lavoro con entusiasmo e ancora oggi accompagna con impegno e professionalità il settore sanitario del piano diocesano.
Nel frattempo fu costruita, presso la città di Boa Vista, la «casa di cura», un ospedale riservato prevalentemente agli indios yanomami, che vivono nella foresta, molto distante dalla regione dei makuxí. Anche questa struttura si è rivelata provvidenziale per la sopravvivenza di questo gruppo etnico.
LAICI CORAGGIOSI
Di fronte al perpetuarsi dei soprusi contro gli indios e le sfacciate calunnie e diffamazioni lanciate contro la diocesi di Roraima dalla classe politica e imprenditoriale locale, tra la popolazione bianca è maturato un folto gruppo di laici cattolici praticanti, che hanno preso posizioni ferme nel difendere i diritti degli indios e il lavoro del vescovo e dei missionari.
Più di una volta hanno sfidato con lettere aperte l’élite che controlla la vita politica, economica e sociale di Roraima; l’ultima, di pochi mesi fa, si è schierata a difesa di padre Giorgio Dal Ben, vigliaccamente attaccato da una popolare rivista brasiliana. Ne presentiamo alcune frasi.
«Noi, laiche e laici cattolici della diocesi di Roraima, coscienti del nostro dovere di evangelizzazione e ispirati dall’opera liberatrice di Cristo, gridiamo la nostra protesta, ripudio e indignazione contro gli attacchi lanciati alla nostra diocesi dalla élite capitalista, nel tentativo d’infangare l’immagine della chiesa di Roraima, perché essa difende con coraggio la causa degli esclusi, poveri, emarginati… Ripudiamo con veemenza calunnie, ingiurie e diffamazioni dirette contro i missionari e missionarie della Consolata, da una rivista di circolazione nazionale, che divulga menzogne e informazioni infondate e senza ascoltare le parti interessate. Affermiamo di nuovo pubblicamente la nostra solidarietà al vescovo, ai sacerdoti, religiosi e religiose di Roraima nel difficile compito di promuovere la giustizia, difendendo coloro che sono sfruttati».
UNA RADIO PER LA VERITÀ
Nel suo impegno in difesa degli indigeni la chiesa di Roraima deve affrontare autentiche persecuzioni, scatenate con l’appoggio dei mezzi di comunicazione, giornali, radio e spesso televisione: tutti strumenti in mano al governo. È quasi impossibile far sentire la sua voce oltre la cerchia dei fedeli che frequentano le funzioni religiose.
Da tempo si pensava a una stazione radio, sia per spiegare l’operato della chiesa, sia come strumento di evangelizzazione, per diffondere il messaggio e i valori del vangelo a tutti gli abitanti di Roraima.
L’impresa non era facile: la concessione di una emittente radiofonica dipende dal ministero delle comunicazioni e occorre l’appoggio dei politici. Per quelli di Roraima una radio cattolica è come il fumo negli occhi. Nonostante tutto tentammo la scommessa.
Per aggirare l’ostacolo, con l’aiuto di persone competenti fu costituita la «Fondazione educativa e culturale Giuseppe Allamano» a cui affidare la responsabilità della nuova struttura davanti alle autorità, senza far figurare la diocesi. Quindi, con l’aiuto di tecnici, fu preparato il progetto con estrema precisione: scopo della radio, esclusivamente educativo e culturale e non commerciale; potenza e area di irradiazione; programmi da mandare in onda; temi specifici per le varie ore della giornata, responsabilità legale della fondazione.
Dopo un anno di lavoro, nel 1990 il progetto fu presentato al ministero competente e fu elogiato per la perfezione con cui era stato elaborato. Sapevamo, però, che l’approvazione avrebbe richiesto molto tempo. Ma eravamo disposti ad attendere. Ogni volta che passavo nella capitale, facevo una capatina al ministero per sollecitare l’approvazione.
Quando giunse il tempo di lasciare la diocesi a un altro vescovo (1996), raccolsi copia di tutta la documentazione, la chiusi in una scatola di cartone e l’affidai alla segretaria perché la conservasse, anche se ormai avevo perso ogni speranza.
Ma alla fine del 1998 una lettera proveniente da Roraima mi comunicava che il ministero aveva approvato il progetto per l’installazione della radio. Il mio successore, mons. Apparecido, mi chiese di interessarmi del caso per reperire i fondi.
Grazie a Dio e all’interessamento del card. Ersilio Tonini, che da tempo ha preso a cuore la sorte degli indios di Roraima, sono arrivati i fondi per finanziare il progetto e sono iniziati i lavori di installazione.
Rimane ancora un punto interrogativo, sollevato a suo tempo da mons. Apparecido: «E poi chi sosterrà le spese di funzionamento e manutenzione?». Non esitai a rispondere: «Coloro che hanno reso possibile il progetto delle mucche faranno anche questo miracolo».
Negli anni passati, attraverso la campagna «una mucca per l’indio», gli amici italiani ci hanno aiutato a salvare gli indigeni di Roraima dalla fame e dalle malattie; sono certo che la loro solidarietà continuerà a sostenerci, per raggiungere un nuovo e più importante traguardo: aiutare i nostri fratelli indios a crescere spiritualmente e intellettualmente, oltre a difenderli e liberarli dalle menzogne dei loro oppressori. È questo lo scopo della «Radio educativa e culturale» che sta nascendo in Roraima.

Aldo Mongiano




MOZAMBICO – Ma era proprio biondo?

Appartengono alla «Scuola d’arte macúa» del Niassa.
Diversi per carattere, formazione culturale e vicende familiari,hanno in comune l’odio per la guerra
(tutte le guerre) e il gusto per il «nuovo». Anche nel ritrarre la bibbia.

J oão Torchio e Luís Prisciliano entrano titubanti nella redazione di Missioni Consolata. Vengono dal Mozambico: ed è la prima volta che escono dal loro paese. Li accompagna padre Giuseppe Frizzi, missionario della Consolata.
Fa abbastanza caldo a Torino. Ma il signor Prisciliano se ne sta rannicchiato in un giaccone grigio-nero: ha l’aria severa, espressione accentuata dalla barba ispida. Invece il compagno Torchio, dal volto più disteso, spicca per una camicia gialla a mezze maniche. Entrambi sono artisti della Escola de arte «macúa», fondata da padre Frizzi.
«Benvenuti, amici, e accomodatevi! Grazie della vostra visita».
un orfano alla ribalta
– Signor Torchio, il suo cognome è un po’ curioso…
– Infatti non è mozambicano. È italiano. Sono figlio di un vostro connazionale.
– E dov’è oggi suo padre?
– Dovrebbe essere in Italia.
Dunque João Torchio, 43 anni, è figlio di un italiano. La mamma invece è del Malawi. Però João si ritiene orfano, perché da molto tempo ha perso ogni traccia dei genitori. Era ancora bambino quando il padre lo «consegnò» ai missionari della Consolata di Massangulo: di tanto in tanto, fino al 1975, il genitore visitava il figlio. Lo stesso facevano la madre e uno zio materno. Poi più nulla.
Il padre di João ritoò in patria, dove tutt’oggi vivrebbe con moglie e figli.
«Considero genitori padre Pietro Calandri e suor Franca Cavicchi – dichiara il meticcio -, cui devo grande riconoscenza, come pure ad altri missionari della Consolata. Oggi sono sposato con 10 figli: insieme alla moglie, sono la mia unica gioia. Ciò non toglie che la mia esistenza sia ancora dura. Mia compagna è sempre la solitudine».
Una solitudine resa più acuta dale tragedie sofferte dal Mozambico. João era ancora bambino quando, negli anni ’60-70, il suo paese lottava contro il Portogallo per l’indipendenza nazionale: uno scontro armato durato circa 15 anni. Poi, quasi subito dopo l’indipendenza del 1975, la devastante guerra civile tra Frelimo e Renamo, terminata solo nel 1992. «Due conflitti sanguinosi – commenta Torchio -, senza contare le persecuzioni religiose, le nazionalizzazioni forzate, i profughi interni, la fame, l’ingiustizia».
Nel frattempo il giovane João, abbandonato dai genitori, cresceva accanto ai missionari. Il ragazzo era attratto, soprattutto, da padre Calandri «pittore»: le «nature morte» e i «paesaggi sconfinati» del missionario lo affascinavano. Suor Franca capì che nel ragazzo non c’era solo curiosità: e gli mise in mano carta e pastelli. Fu così che João si rivelò un cartellonista e fumettista prodigioso: con i suoi disegni rallegrava tutte le feste della missione di Massangulo…
Se ne accorse anche padre Frizzi, che gli propose di lavorare nella Escola de arte «macúa» presso la missione di Maúa. «João Torchio – afferma il missionario – varia molto lo stile, alternando quello realista con quello semirealista, impressionista ed altri stili: cubico-geometrico, circolare-duale. Ma, al di là della tecnica, l’autore ha sempre presente la bibbia, che traduce secondo la cultura africana».
– Signor Torchio, qual è la fonte di ispirazione delle sue raffigurazioni?
– Innanzitutto la mia fantasia. Poi, quando padre Frizzi, mi ha chiesto di ritrarre il Vangelo di Luca e gli Atti degli apostoli, fonte di ispirazione sono i fatti della bibbia.
– Fatti che, tuttavia, lei non copia, ma «interiorizza».
– L’artista non copia; trasfigura, interpreta.
– Come sono stati accolti i suoi lavori?
– Non sempre con favore.
Ad esempio: fu chiesto a Torchio di pitturare l’abside della cattedrale di Lichinga; ma il suo progetto venne respinto dai «tradizionalisti». E l’artista fu costretto a modificarlo. Questo lo ha molto rattristato. Oggi, però, non mancano segnali di comprensione ed accettazione del suo stile.
– Signor Torchio, in questi giorni lei è in Italia. Quali sono le sue impressioni?
– Finora sono stato solo a Roma. Ma penso di avere già visto molto nella vostra capitale, che è anche quella di tutti i cattolici del mondo. Roma è pure un centro storico unico e un immenso tesoro d’arte. Io sono rimasto senza parole nel camminare lungo le strade della «città eterna», perché le emozioni erano troppe.
– Ora, in Italia, non le piacerebbe sapere anche qualcosa di preciso su suo padre?
– E me lo domanda?
un «eretico» estroverso
«Se l’amico João è interamente figlio dei missionari della Consolata, io lo sono solo per metà: infatti devo la mia formazione anche a padri monfortani…». Esordisce così Luís Prisciliano, senza attendere la nostra domanda. Nel frattempo si liscia i baffi con il pollice e l’indice. Il suo volto, ora illuminato dal sorriso, appare meno «nero».
Ma ritorna «nerissimo», quando bolla le «guerre criminali patite dal popolo mozambicano». Al che ci sentiamo quasi obbligati di replicare, ricordando che nel paese la situazione è migliorata.
– Oggi, finalmente, vivete in pace e godete della democrazia!
– Certo, certo. Ma bisogna passare dalla democrazia delle parole a quella dei fatti. Il popolo vuole gesti concreti, non ideologie.
Prisciliano è un eclettico. È stato maestro e contabile, con alle spalle un buon bagaglio culturale. Voleva anche fare l’infermiere. «Poi, come mestiere, ho cominciato a dipingere per guadagnare. Però non sono diventato ricco, anzi!».
Un giorno capisce che la vera arte ha bisogno di una ispirazione pura, profonda. «E dove potevo trovarla se non nella mia cultura africana?». Ha cessato di dipingere per soldi e ha iniziato a farlo per «vocazione»: e comunica il messaggio evangelico. Però sentiva il bisogno di vagliare la sua ispirazione. «L’ho fatto – dice il pittore – vivendo nella foresta con la gente, per capire meglio la religiosità tradizionale. La foresta è un santuario: qui avvenivano e avvengono i sacrifici antichi». Tanti gli hanno dato del matto. Ma il «nuovo pittore» non ha demorso.
Così l’artista ha recuperato la tradizione e, soprattutto, «l’obbedienza ai sogni. Ogni mio progetto, prima di essere schizzato, è visto nel sogno».
– Signor Prisciliano, che cosa intende per «sogno»?
– La visione di simboli. Questi (elemento tipico della nostra tradizione) consentono di trasmettere il messaggio biblico con categorie africane. I simboli non si possono pensare; si ricevono nel sogno.
– Li riceve da chi?
– Dagli spiriti degli antenati.
Il ricorso ai simboli ci rimanda al libro «Gesù mediatore e medico», curato da padre Frizzi in lingua italiana e macúa, che raccoglie anche numerosi disegni di Torchio e Prisciliano. Vi si legge che Gesù è… gazzella, tartaruga, camaleonte.
Qual è il significato cristiano di tale simbologia? «Gesù è la gazzella per eccellenza, che con la sua innocenza primordiale cura e redime l’umanità; Gesù è la tartaruga, che con l’umiltà scala la montagna, ottiene da Dio l’indicazione del deposito d’acqua e l’offre all’umanità assetata; Gesù è il camaleonte, che si fa tutto a tutti, cioè ebreo con gli ebrei, greco con i greci, macúa con i macúa».
– Signor Prisciliano, i cattolici del Niassa, abituati ad un Gesù biondo e con gli occhi azzurri, si ritrovano nel suo Cristo… camaleonte?
– Ma è proprio vero che Gesù era biondo?… In ogni caso, il Cristo-camaleonte, oltre che valorizzare la nostra tradizione, è in sintonia con l’insegnamento di Paolo apostolo.
– E i cristiani approvano?
– I seminaristi, studenti di teologia, mi hanno duramente contestato.
– Allora?
– Allora costoro devono sapere che sono succubi dei colonialisti religiosi.
– Non teme di offendere i suoi concittadini con una simile espressione?
– Già! Qualcuno ha detto che la verità offende… Però mi consola che il popolo capisce, a differenza dei preti.
– E i missionari?
– Tutto dipende dal cuore di ognuno. Numerosi missionari si sforzano di capire.
«Luís Prisciliano – commenta padre Frizzi – è un pittore dalla fantasia fervida e non sempre viene capito. Ha rischiato anche di essere espulso dalla comunità cristiana. Io mi sono opposto e l’ho rilanciato nell’attività artistica con temi biblici. Nella nostra escola si dedica alle via crucis e ne ha prodotte parecchie dalle tinte forti».
Il pittore è certamente imprevedibile, anticonformista, provocatorio. A differenza di Torchio (affascinato dalla «grande» Roma), Prisciliano in Italia è rimasto colpito dai cimiteri delle auto. «Da noi sarebbero ancora tutte sulla strada. Da voi sono il segno della ricchezza o dello spreco?».
D opo cena saliamo con gli ospiti sul Monte dei Cappuccini, per ammirare Torino by night, sotto l’occhio distaccato della luna. Un improvviso vento rende quasi fredda la notte. Giunti in vetta, usciamo dalla Fiat Uno: João Torchio indossa un K-way a maniche lunghe, mentre Luís Prisciliano si sfila il giaccone e resta a braccia nude, sotto lo sguardo divertito persino delle stelle.
Paese che vai… artista che trovi.

CORRUZIONE IN MOZAMBICO

Padre Couto, da mesi sei preoccupato del modo con cui si parla della corruzione in Mozambico. Perché?
Secondo alcuni, nel paese tutto è corrotto: governo, polizia, magistratura, banche… Io non sono d’accordo, perché, se tutto è negativo, lo è anche l’evangelizzazione. Lo squalificare l’intera nazione è disonesto. I mezzi di comunicazione, le istituzioni culturali e le religioni dovrebbero affrontare il problema «corruzione» con la dovuta responsabilità e discrezione.

Ma la corruzione esiste o non esiste?
Esistono diverse forme di corruzione. Però bisogna dimostrarle in modo chiaro e definito per superarle.

Che fare per «dimostrare», «definire», «superare»?
Occorre fissare dei presupposti come punti di partenza per agire. Primo: creare un nuovo contesto legale. Ci sono mozambicani che hanno accumulato beni mobili e immobili, che noi generalmente riteniamo corrotti. Nel «nuovo contesto legale» queste persone dovrebbero essere riconosciute come proprietarie dei beni accumulati e diventerebbero la classe degli imprenditori, in accordo con le leggi. Dovremmo legittimare tale classe.
Secondo: legare l’azione degli imprenditori alla politica del paese. Goveo, assemblea della repubblica, partiti, sindacati… dovrebbero concertare la loro azione anche secondo gli interessi degli imprenditori.

Da quando esiste la classe degli imprenditori?
Dall’indipendenza del paese (1975). Sono persone e gruppi che provengono dal «Fronte di liberazione del Mozambico» (Frelimo): alcuni hanno formato e formano l’apparato del governo; altri sono direttori di banche, porti, ferrovie, trasporti, comunicazioni. Esistono membri del Comitato centrale del Frelimo che hanno una partecipazione dei capitali di Compagnie industriali dell’Asia, Europa e America. Esistono quindi «Joint Venture» fra imprenditori mozambicani e stranieri.
E fra i partiti dell’opposizione?
Ci sono pure gruppi che stanno diventando la classe imprenditrice del paese.

Dunque: bisogna proteggere legalmente i mozambicani che, dopo l’indipendenza del paese, hanno rimpiazzato i colonialisti portoghesi e ora si stanno legando a capitali nazionali e stranieri. È forse un’amnistia per chi ha accumulato beni anche in modo illecito?
Io dico che gli imprenditori sono il motore per formare una società meno corrotta. Vado oltre: le istituzioni della società civile, quelle religiose e umanitarie devono avvicinarsi alla classe degli imprenditori per essere loro di esempio nel «senso della patria», nell’etica sociale e nella politica in favore del bene comune. Prospetto un compromesso fra tutte le forze del paese.

È un compromesso tra chi ha già molto e chi non ha niente, con l’avallo della legge. Non è pericoloso?
È l’unica via ragionevole per costruire un ordine sociale dove giustizia e sicurezza incomincino a funzionare. Gli imprenditori, legalizzati i loro capitali, saranno interessati alla pace del paese per salvaguardarli; nello stesso tempo dovranno lavorare per accrescere gli utili: così facendo, investiranno parte del loro patrimonio in opere che andranno a beneficio di chi ha un livello di vita molto basso.

Hai in mente qualche modello di riferimento?
Paesi come Belgio, Germania, Olanda e le nazioni scandinave hanno fatto il «compromesso». Se sono riusciti loro, perché non noi in Mozambico?

E pensi anche di superare le «differenze di classe»?
Queste esisteranno sempre. Ma una cosa sono le differenze in una società «abbastanza soddisfatta» un’altra in una società «totalmente insoddisfatta».

Queste riflessioni entrano pure nell’Università Cattolica del Mozambico?
Stanno entrando in tutte le università del paese. Queste devono lavorare per raggiungere la «tranquillità dell’ordine» (sant’Agostino di Ippona). Legare le università agli imprenditori è un dovere, anche per tutelare i valori della società. di F. B.

Francesco Beardi




KENYA – L'”8.4.4.” dà i numeri

Sistema scolastico e ragazzi di strada:
due fenomeni che rivelano il malessere del paese africano.
Ormai tutti ammettono che bisogna intervenire.
Ma come? Intanto, il 25 marzo scorso, 58 studenti sono arsi vivi.
Forse una vendetta per una bocciatura generale.

Scuole in crisi
«8. 4. 4.». No, non sto dando i numeri del lotto, né quelli del calcio! Sto, invece, parlando dell’ordinamento scolastico del Kenya. Otto anni di elementare, quattro di superiori e quattro di università: il sistema introdotto dal governo di Moi, all’inizio degli anni Ottanta.
Sembrava il fiore all’occhiello. Invece ha dimostrato di fare acqua da tutte le parti. Dalla fine di aprile del 1998 una commissione ha studiato cosa e come cambiare: segno che pure il governo ha cominciato ad ammettere ciò che tutti dicevano da tempo: bisogna cambiare!
Costo della commissione? Un miliardo di scellini (uno scellino vale circa 30 lire).
Fin dal 1985, quando il sistema è stato introdotto, maestri, genitori e esperti in educazione si sono accorti che qualcosa non andava. Allora la lamentela maggiore era che c’erano troppe materie (nell’ultimo anno delle elementari ben 13). Troppe discipline e troppo approfondite. Con l’introduzione di questo sistema, il governo ha iniziato anche la politica del cost-sharing nel campo dell’educazione: una delle richieste degli organismi inteazionali di aiuto, che esigevano una partecipazione alle spese di chi usufruisce di un servizio pubblico.
Nel piano di sviluppo 1974-78 ci si era accorti che l’educazione assorbiva somme sempre più elevate. Secondo il programma governativo, il sistema dell’«8. 4. 4» avrebbe dato agli studenti una formazione tecnica; per cui sarebbe stato facile per loro trovare un lavoro o crearselo essi stessi. Ma c’era bisogno di laboratori e attrezzature e questo ha richiesto una spesa enorme per un paese come il Kenya. Una spesa che il sistema scolastico precedente (7. 6. 3.) non aveva mai domandato ed era un sistema «tried, tested and trusted» (provato ed efficace).
Il governo si è praticamente tirato fuori e l’onere di provvedere tutte le nuove strutture è ricaduto sui genitori. Chi non poteva pagare aveva e ha un’unica amara possibilità: non mandare più i figli a scuola. C’è stata poi, da parte delle autorità, una grande preoccupazione per dare sviluppo alla struttura universitaria. Si sono aperte nuove università: Egerton, Moi e Kenyatta University. I fondi che prima andavano alle elementari e superiori hanno incominciato ad essere dirottati alle università e il livello accademico si è abbassato di molto.
I critici hanno sempre sostenuto che questo sistema è stato introdotto troppo in fretta ed è stato troppo politicizzato. Ora bisogna fare fronte a tre grossi problemi.

1. Il costo del sistema, che ha ridotto di molto la percentuale dei bambini che vanno a scuola. Sembra che, nel 1989 (prima cioè che il sistema entrasse completamente in vigore), quasi il 95% dei bambini andasse a scuola; nel 1996 si era scesi all’80%. Nelle zone più povere, la percentuale è tra il 25 e il 32%. Molto bassa. Studi recenti hanno dimostrato che la povertà e l’alto costo dell’educazione sono le cause del declino di scolarità. Moltissimi sono i bambini che non riescono ad arrivare alla fine delle elementari. Intervistati, il 71% dei genitori ha dichiarato che i testi scolastici costano troppo.
2. Nessun sistema di giustizia nell’educazione. Tutti i bambini di età scolare non hanno uguali opportunità di andare a scuola. Secondo l’Ufficio centrale di statistica, il 74% dei kenyani guadagna meno di 5.000 scellini (circa 90 dollari) al mese. Il 23% guadagna tra i 5.000 e 10.000 scellini. Solo il 3% ne ottiene più di 10.000 al mese. Il costo della vita è sempre più elevato: cibo, trasporto, affitto… e molti genitori non possono dare un’educazione ai loro figli. Quando mancano aule, laboratori, libri di testo, anche i maestri non possono fare miracoli e la qualità dell’educazione diventa scadente. Solo il 53% di quanti finiscono le elementari può continuare nella scuola secondaria.
3. L’obiettivo della scuola secondaria era di insegnare discipline pratiche e tecniche, per avere più facilità di trovare lavoro. Mancando le strutture, anche questo insegnamento diventa scadente. Secondo statistiche del Ministero dell’educazione, solo il 3% dei candidati all’esame di form 4 prendono soggetti tecnici e di avviamento professionale. Troppa teoria a scapito della pratica.
Sembra che questo sistema abbia creato tutta una generazione di disoccupati. Ben venga, pertanto, la commissione di revisione del sistema, anche se molto in ritardo. Era dal 1985 che i genitori, i maestri e gli esperti in educazione la desideravano. Troppe famiglie messe sul lastrico. Troppi giovani ridotti alla disoccupazione perenne, pur con un diploma in mano.

Sulla strada

Se sei fortunato, riesci a parcheggiare la macchina nel centro di Nairobi. In un momento sbucano (chissà da dove) alcuni ragazzini sporchi e stracciati e ti tendono la mano… Una volta succedeva solo nella capitale; oggi in molte altre cittadine del Kenya. Il fenomeno è in rapida crescita.
Sto parlando dei ragazzi di strada, gli street boys. Solo a Nairobi sono circa 70 mila: la metà di loro torna a casa alla sera; l’altra metà ha come dimora perenne strade e ponti.
Da studi fatti per il Ministero della giustizia, nel 1991 risultava che 300 mila bambini/giovani, tra i 6 e i 18 anni, non frequentavano la scuola. E dove stavano? Molti sulle strade. Sembra che il 10% di questi ragazzi siano delinquenti… Il dottor Onyango, uno psicologo-sociologo dell’università di Nairobi, osserva: «Non dobbiamo sorprenderci di vedere molti bambini per le strade. Nel 1991 più del 90% dei bambini era a scuola. Da allora, però, la percentuale è scesa di molto». Secondo il piano nazionale di sviluppo 1997-2001, solo il 76% dei bambini tra i 6 e i 13 anni era iscritto alla scuola nel 1995; e solo il 27% dei giovani frequentava la scuola superiore. Un aumento del 10% l’anno.
Anche l’Aids contribuisce a tale aumento. Sempre secondo Onyango, la maggior parte dei 300 mila orfani a causa dell’Aids finisce sulle strade o nel lavoro minorile. Da un rapporto pubblicato nell’opuscolo Aids in Kenya sulle conseguenze socio-economiche della malattia, si legge che il 54% degli orfani ha già lasciato la scuola. Spesso i bambini sono maltrattati dai familiari, devono cibarsi dei rimasugli, vengono derubati della proprietà lasciata loro dai genitori. L’unica soluzione, per molti di loro, rimane la strada. Questi orfani «di Aids» stanno aumentando tremendamente. Secondo alcuni studi, hanno superato i 600 mila nel 2000 e saranno 1 milione nel 2005.
Recentemente l’università di Nairobi ha condotto una ricerca interessante. Scelti a caso 150 di questi ragazzi, gli studiosi si sono fatti portare a casa loro. Il 90% dei bambini ha solo un genitore che non si cura di loro e Onyango ricorda che, quando entravano in queste baracche o tuguri (un unico stanzone che serve per tutto), le madri e le nonne chiedevano al ragazzo: «Ma dove sei stato? Cosa hai combinato?». Molte delle mamme sono venditrici ambulanti o prostitute e in queste immense baraccopoli il crimine è di casa.
Dallo studio risulta che la maggior parte dei ragazzi è stata a scuola e l’ha abbandonata dopo la terza classe… Nell’unico stanzino di tre metri per tre si svolge la vita della famiglia. Non c’è spazio per studiare. Gli adolescenti non possono dormire con i genitori. In campagna le cose sono diverse: il giovane si costruisce la sua capanna. Però negli slums… che fare? La strada può diventare il dormitorio.
Il problema degli street children non è nato ieri. Alcuni, ormai adulti, si sono sposati, hanno bambini… Un fatto, capitato a Nairobi, ha rivelato quanto siano organizzati. Sull’imbrunire, l’auto di una compagnia di guardie nottue ha involontariamente urtato uno di questi ragazzi, sbattendolo a terra. Nulla di grave. Ma i ragazzi si sono sentiti attaccati e sono passati alla carica. Ne è risultato una battaglia per le strade: due i morti (uno per parte), parecchi i feriti. Molti i danni materiali a negozi e macchine parcheggiate nelle vicinanze.
Interessanti i commenti sui giornali: questa, dei ragazzi di strada, è una bomba che può esplodere ad ogni momento. È già esplosa!
Divenuti adulti, non possono più elemosinare e, allora, cercano di far soldi con altre attività: più illecite che lecite. Sono coscienti di essere stati rifiutati dalla società e questo li indurisce, crea in loro un senso di ribellione che li porta alla criminalità.
Il dottor Onyango divide i ragazzi in due categorie: quelli che hanno rotto completamente con la famiglia e la strada è la loro casa (circa la metà) e quelli che tornano a casa la sera. Questi ultimi vengono spesso mandati dai genitori a raccogliere soldi, e il loro gruppo aumenta molto più rapidamente del primo. Talora i genitori stessi li accompagnano in città e si servono di loro per raccogliere fondi. Molti rompono ogni relazione con la famiglia e vanno sulla strada a causa della violenza. Povertà, problemi familiari e desiderio di avventura sono i motivi che portano i ragazzi sulle strade. Poiché le baraccopoli sono congestionate, la strada può sembrare uno spazio dove si può respirare.
Ancora, secondo Onyango, il fenomeno è causato anche dalla rottura delle relazioni familiari. Nella società tradizionale la parentela sostituiva, in qualche modo, i genitori che abdicavano al loro lavoro nell’educazione dei figli. L’urbanizzazione e le trasformazioni sociali ed economiche hanno distrutto gli usi tradizionali della società africana. Anche se i bambini sono portati a scuola (ammesso che accettino di continuare), creano problemi per la mancanza totale di disciplina, il linguaggio volgare e certe abitudini asociali… Il loro stato di salute lascia a desiderare: molti hanno la scabbia, malattie della pelle e veneree; altri hanno l’Aids e tutti hanno grossi traumi psicologici. Onyango conclude il suo studio, dicendo che ormai le ricerche sono molte, troppe; continuare sarebbe solo uno spreco di soldi e tempo.
È tempo di agire. Ma come?
Molte Ong e chiese (compresa la cattolica) stanno facendo qualcosa. Le «Piccole ancelle del Sacro Cuore» hanno una casa ad Embu per questi ragazzi e anche i missionari della Consolata ne hanno aperta una a Nairobi.
Padre Franco Cellana (cfr. box), con il collega padre Daniel Ortega, argentino, cerca di recuperare i ragazzi e le donne che vivono per la strada, dormono sotto i tunnel e sui marciapiedi. Lo chiamano «padre-ragazzo di strada», in quanto trovano in lui il papà, la mamma e il maestro che nella vita non hanno mai avuto. Sono persone rimaste sole al mondo, vivono di espedienti e il loro sogno è di avere una famiglia e un’istruzione per poter vivere. Non chiedono denaro, ma lavoro, cibo e la possibilità di poter frequentare la scuola, poiché non hanno soldi per pagarla.
Un lavoro ammirevole, ma difficilissimo e scoraggiante. Il numero dei ragazzi che si riesce a raggiungere è minimo. Non più del 3-4%, ad essere molto generosi. Il governo locale ha troppi altri problemi da risolvere: tante parole e pochi fatti. Il fenomeno continua ad essere una bomba ad orologeria.
E se scoppiasse?

LUCI E OMBRE A NAIROBI

Padre Franco Cellana, missionario trentino, lavora nella parrocchia della Consolata a Nairobi. La capitale del Kenya conta 4 milioni di abitanti e in città si trovano 110 baraccopoli (slums), nelle quali vivono circa 2 milioni di persone (il 55% della popolazione). Gli slums più popolati sono Kibera (con 140 mila abitanti), Korogocho (120 mila), Mathari (70 mila) e Kankemi (80 mila): dati approssimativi, in quanto la popolazione qui non è censita. Non c’è acqua, luce, servizi igienici, fogne; niente di niente! Mucchi di immondizie fanno da contorno e i bimbi giocano a piedi scalzi fra scatolette, lamiere e rifiuti degli alberghi della città.
Queste cifre rappresentano la drammaticità di tante persone provenienti da ogni parte del Kenya, senza i valori tradizionali della famiglia, la religiosità, il rispetto per il bambino, la donna e l’anziano. Ognuno cerca di sopravvivere con mille espedienti: furti, violenza, convivenze saltuarie, usura. Qui le malattie, come malaria e Aids, si propagano molto velocemente. Le persone ogni giorno devono affrontare la realtà di una vita difficile, vissuta in baracche abusive di 10 mq. costruite con fango e cartoni e coperte con pezzi di lamiera; all’interno il pavimento è in terra battuta, non vi sono finestre e una tenda divide il letto da una cucina comprendente un piccolo fornello, due pentole di latta, qualche piatto di plastica e taniche per l’acqua. Com’è possibile vivere così? Considerando che il terreno è del governo, oppure di privati ai quali devono pagare l’affitto sia del terreno che delle baracche stesse.
Girando a piedi, padre Franco ha avuto modo di conoscere Nairobi, la città dei contrasti, fra palazzi, ville e baracche, la «città del sole, con tante ombre». Racconta: «Ho visitato gli insediamenti di Deep Sea, Suswa, Kirua Be Masai, che sono vicini alla mia parrocchia. Sotto il sole cocente, fra cumuli di immondizia e baracche di cartone e lamiere, ho visto un’infinità di gente che sopravvive per un domani che non riesce a trovare. Un giorno ho trovato un biglietto sull’altare, dove c’era scritto che, durante la notte, erano state bruciate in un incendio doloso, nello slum Deep Sea, 34 baracche».
Ma la gente, che lo vede girare a piedi, ha subito intuito che è una persona speciale, della quale si possono fidare e ora gli chiedono aiuto. Tutti ormai lo conoscono, perché è disponibile a tutti; quando un dottore arriva dall’Italia a trovarlo, si reca con lui a visitare bambini, donne e ammalati degli slums.
Mentre camminiamo per la città di Nairobi, è un continuo brulichio di «Father Franco» e tutti questi giovani, stracciati e sporchi, porgono la mano al missionario in segno di riconoscenza e amicizia. Al mattino presto c’è già una lunga fila di persone che lo attendono sulla panchina, di fronte alla porta della missione, per parlare con lui; se non è in parrocchia, lo attendono fino al tramonto. Il mercoledì e venerdì offre il pranzo a tanti ragazzi di strada; per qualcuno, sono gli unici due pasti della settimana.
Nasce anche un’«Associazione amici di Padre Franco», che opera a Tione di Trento (tel 0465.321.914), i cui scopi sono: ricostruzione delle baracche, costruzione di una serie di tornilettes e docce negli slums, costruzione di un edificio polifunzionale adibito anche a dormitorio per il recupero dei ragazzi di strada e costruzione di un dispensario; è, inoltre, in previsione un programma di adozioni a distanza. Chi volesse dare una mano…

D io ha dato all’Africa un cielo azzurro e un sole caldo; ai suoi abitanti ha donato un caloroso sorriso e tanta giovialità,
mentre l’oscurità della notte è ravvivata
da infinite stelle che brillano nel cielo.
Mille luci e colori, suoni e odori,
rivestono Nairobi, città delle contraddizioni.
Le umili baracche che si moltiplicano ogni giorno
sono testimoni della vita di tanti disperati
e la strada illuminata dalla luna,
è il giaciglio di giovani, mamme e bambini.
Fra tutti aleggia la speranza
di un futuro migliore,
e, mentre si affidano all’aiuto di father Franco,
dai loro sguardi, dalle strette di mano
e dai tanti ashante (grazie),
traspare la riconoscenza
per questo missionario della Consolazione.
Dio mio, dona a questo popolo
un tetto e un letto per coricarsi,
un pezzo di pane e un sorso d’acqua,
affinché sui loro volti
splenda il sorriso della serenità.
E alle persone «speciali» che (come i missionari)
ogni giorno, con fatica e amore
si fanno carico del dolore di questa gente
dona salute, forza, pace e bene.
Adriana Valenti

Motto wa siasa




Quando non si scherza

Amnesty inteational un rapporto-denuncia su 144 paesi

Non si scherza con i diritti umani, non solo nelle aree di conflitto, ma anche nelle operazioni di «peace keeping» e «peace building».
Secondo le Nazioni Unite, circa 200 milioni di persone nel mondo sono ridotte
in schiavitù, sfruttate in lavori infimi, abietti e pesanti;
e la tratta di esseri umani aumenta ad un tasso del 40-50% l’anno.
Se i governi credono nella giustizia, specialmente per le popolazioni povere,
non devono permettere che i soprusi abbiano il sopravvento.

PULIZIA ETNICA
O BOMBARDAMENTI?

Molte le popolazioni che nel 2000 hanno subìto repressioni. E non sono poche le nazioni in cui carcerazioni, torture e omicidi (soprattutto per motivi politici) sono stati commessi dai governi, per mantenere il loro potere. Si è così accentuato il divario tra «ricchi» e «poveri», innescando proteste sfociate in violenza.
È questa, in sintesi, l’introduzione al Rapporto annuale (2000) di Amnesty Inteational (A.I.). Si tratta del consueto appuntamento con 144 paesi e le preoccupazioni di milioni di persone che, ogni giorno, subiscono umiliazioni e abusi. Ecco invasioni e bombardamenti, che tentano una giustificazione proprio in nome dei diritti umani: giustificazione che è al centro di dibattiti sia tra i movimenti umanitari inteazionali sia tra gli esponenti delle Nazioni Unite.
Nel 1999 il dibattito si è concentrato soprattutto sugli interventi militari in Kosovo e Timor Est, giustificati per proteggere i civili dalle brutalità delle autorità politiche locali, e sul «silenzio» della comunità mondiale circa i bombardamenti russi in Cecenia.
«Noi riteniamo opportuno il dibattito – spiega Pierre Sané, segretario generale di Amnesty Inteational -, perché sono in gioco le vite e il futuro di milioni di persone. Ma, anche se siamo lieti per il dibattito, non accettiamo i termini in cui viene generalmente posto: invasione o non-azione non dovrebbero essere le uniche due opzioni possibili. La pulizia etnica o i bombardamenti: questa è una scelta che un attivista per i diritti umani non dovrebbe mai fare. Noi sosteniamo che le crisi dei diritti umani possono e debbono essere prevenute, poiché non sono assolutamente inevitabili».
Pur non respingendo l’uso della forza e affermando che la legge deve essere applicata, A.I. chiede ai governi di proteggere le persone dalle violazioni dei diritti umani e di consegnare i colpevoli alla giustizia.
Dalla Cina alla Russia
I governi che approvano l’intervento armato straniero in un paese lo fanno per motivi morali.
Pierre Sané ricorda che il presidente degli USA, Bill Clinton, ha giustificato i bombardamenti della Nato su Belgrado, perché il voltare le spalle alla pulizia etnica sarebbe stato «un disastro morale e strategico». Altri fautori degli interventi estei ricordano gli sviluppi della legislazione internazionale: per esempio, la Carta delle Nazioni Unite permette al Consiglio di Sicurezza di prendere misure coercitive, anche militari.
I governi contrari a questa tesi si basano sui principi di «sovranità nazionale» e di «non interferenza» negli affari interni di un paese. La Cina, ad esempio, si batte perché i diritti umani non siano sottoposti al controllo internazionale. «Noi – ha detto un portavoce del governo di Pechino in risposta alle critiche sullo scarso rispetto dei diritti umani – ci opponiamo a un tale atto di interferenza negli affari interni di un altro paese».
La Russia sostiene che i suoi bombardamenti sui civili in Cecenia sono un affare interno.
Sulla medesima posizione è Abdelaziz Bouteflika, presidente dell’Algeria e dell’Organizzazione dell’unità africana. Questi compara l’intervento internazionale all’irruzione nella casa del vicino, perché (si dice) che un bambino sia stato picchiato dai genitori. «Questa – ha affermato – sarebbe una grave violazione della libertà. Nuove teorie vengono tirate in ballo soltanto per privare i popoli e gli stati della loro sovranità internazionale».
Il dibattito è costante con l’obiettivo comune di reagire alle tragedie umane, quali gli omicidi di massa e le amputazioni in Sierra Leone, le uccisioni etniche in Afghanistan, le deportazioni nell’ex Jugoslavia o a Timor Est. «Per gli attivisti di Amnesty Inteational – sottolinea il segretario Sané – il dibattito è acceso dall’angoscia per le sofferenze dei paesi divisi da conflitti armati o dal collasso delle strutture di governo; ma soprattutto dalla frustrazione, perché le tecniche tradizionali di A. I. (che riguardano singole vittime) non sembrano essere efficaci in situazioni caotiche e di fronte ad abusi commessi su larga scala».
La guerra in Kosovo
Nel marzo 1999 nell’ex Jugoslavia la situazione dei diritti umani è degenerata in una crisi internazionale. La Nato ha condotto attacchi aerei contro obiettivi della Serbia, dopo il fallimento degli sforzi politici per porre fine al conflitto tra le forze governative e l’Esercito di liberazione del Kosovo. I bombardamenti della Nato hanno causato notevoli violazioni dei diritti umani: sono state allontanate circa 750 mila persone, con una marea di rifugiati a livello regionale, cui sono seguite uccisioni, sparizioni, torture e stupri verso donne albanesi.
I membri di A.I. si sono mobilitati in tutto il mondo: hanno reso pubblici i fatti; hanno chiesto ai governi di intervenire per porvi fine, di assicurare alla giustizia i colpevoli e di garantire protezione ai rifugiati; ma hanno anche espresso preoccupazione per la mancanza di misure, da parte della Nato, per ridurre le uccisioni di civili e la possibile violazione delle regole di guerra, nonostante che siano emerse numerose prove di abusi dei diritti umani in terra kosovara.
Timor est e indonesia
Alla fine di agosto 1999 il 98% dei timoresi orientali, aventi diritto di voto, l’ha esercitato nella consultazione promossa dalle Nazioni Unite per definire il futuro del territorio. Dal 1975, allorché l’Indonesia occupò illegalmente Timor Est, la popolazione ha dovuto affrontare una repressione brutale: almeno un terzo degli abitanti è stato eliminato.
In seguito all’aumento della violenza, A.I. ha mobilitato il suo milione di membri per esercitare pressioni sulle autorità indonesiane. I governi hanno bloccato il commercio di armi, l’addestramento militare e, nel settembre 1999, le Nazioni Unite hanno dispiegato una forza multinazionale guidata dall’Australia. Allorché le truppe sono arrivate – si legge nel Rapporto di A.I. -, la maggior parte dei timoresi era già fuggita o era stata espulsa con la forza; al loro ritorno i rifugiati hanno dovuto affrontare la distruzione del tessuto sociale e delle infrastrutture essenziali.
A.I. si è prodigata per combattere l’impunità, sostenendo i difensori dei diritti umani di Timor Est e foendo protezione ai rifugiati, criticando pubblicamente il ritardo nello spiegamento di truppe da parte della Commissione di inchiesta delle Nazioni Unite.

IL CASO PINOCHET
In Cile i parenti dei desaparecidos per via extragiudiziaria, durante il governo militare del generale Augusto Pinochet, attendono ancora di sapere cosa è successo ai loro cari. Anche migliaia di individui, vittime di arresti arbitrari, torture ed esilio, aspettano di ottenere giustizia, mentre resta impunita la maggior parte di coloro che, approfittando del ruolo rivestito nell’apparato statale cileno, hanno ordinato e compiuto violazioni dei diritti umani tra il 1973 e il 1990.
È ancora nella memoria di molti quell’11 settembre del 1973, quando il generale Pinochet guidò un sanguinoso colpo di stato e la sua giunta militare si distinse nella repressione: le garanzie costituzionali vennero sospese, il parlamento fu sciolto e in tutto il paese fu dichiarato lo stato d’assedio. La tortura fu sistematica e le «sparizioni» una pratica ufficiale.
Nel novembre 1974 A.I. pubblicò il primo rapporto sulle gravi violazioni dei diritti umani in Cile e, in seguito, produsse altre centinaia di documenti e appelli in favore delle vittime, appoggiando la battaglia delle famiglie dei desaparecidos nella ricerca della verità e giustizia. Il destino della maggior parte di essi resta sconosciuto; però esistono prove secondo le quali gli «scomparsi» sono stati vittime di un programma governativo, teso ad eliminare tutti i potenziali oppositori.
La lotta all’impunità di Pinochet è iniziata nel luglio 1996, con la presentazione al tribunale spagnolo delle prime denunce, sino ad arrivare al dicembre 1999, quando due giudici dell’Alta Corte hanno fissato al marzo 2000 l’udienza per l’appello del militare cileno contro la sentenza del giudice Bartle. Oggi il generale è in Cile in attesa di giudizio.
bambini-soldato
Quasi tutti i governi non hanno mantenuto le promesse di protezione speciale per i bambini. In tutto il mondo i minori non solo continuano a subire molti degli stessi abusi patiti dagli adulti, ma sono anche vittime di particolari infamie, perché più vulnerabili e dipendenti da altri.
Esistono oltre 300 mila ragazzi, sotto i 18 anni, che fanno la guerra: di questi oltre 120 mila sono coinvolti nei numerosi conflitti in Africa.
Inoltre, secondo stime dell’Onu, superano i due milioni i bambini oggetto di abusi sessuali, per un giro d’affari di oltre 5 miliardi di dollari: il solo mercato delle cassette poografiche frutta oltre 280 milioni di dollari. A.I. ha partecipato a iniziative nazionali e inteazionali, come la Conferenza panafricana sull’impiego dei bambini-soldato, nel corso della quale è stato previsto un Protocollo opzionale che elevi l’età minima per un soldato a 18 anni. La campagna di A.I. sui diritti dei bambini si è attivata con lo slogan «Diritti dei bambini: il futuro inizia qui», dando risalto al concetto che i diritti dei bambini sono una pietra miliare per costruire una solida cultura di pace per le generazioni future.
donne: «delitti di onore»
I diritti delle donne sono centrali nell’azione di A.I., che ha lanciato campagne contro le violazioni dei diritti femminili in Stati Uniti, Pakistan e Brasile.
Milioni di donne in Pakistan, ad esempio, sono limitate dalla tradizione, che le confina nella segregazione e sottomissione al maschio. Gli uomini «possiedono» le parenti femmine e puniscono le loro trasgressioni con la violenza. Quando le donne rivendicano i propri diritti, per quanto minimi, la reazione è dura e immediata. Così i «delitti d’onore» sono aumentati, ma anche la crescente consapevolezza delle donne. Tuttavia sono molti i casi che restano sconosciuti e quasi tutti impuniti.
Non meno drammatico è il problema delle donne in carcere. Il relativamente contenuto numero di detenute rivela che i penitenziari femminili sono talvolta improvvisati e inadeguati. In Brasile le celle presso le stazioni di polizia sono affollate all’inverosimile: e, sebbene sia la legge carceraria sia la costituzione stabiliscano che alle detenute siano garantite agevolazioni, per prendersi cura dei figli piccoli e per mantenere contatti regolari con quelli più grandi, tali diritti sono spesso negati con disprezzo. Per non parlare dei servizi sanitari: per le detenute in carcere sono inadeguati, mentre non esistono affatto per le donne trattenute in stazioni di polizia.
La campagna di A.I. contro i «delitti d’onore» in Pakistan evidenzia, soprattutto, la responsabilità dello stato nella mancata tutela delle donne; nello stesso tempo A.I. auspica nuove leggi inteazionali che obblighino gli stati a prevenire, indagare e punire gli atti di violenza contro le donne. Circa il Brasile, A.I. condanna la situazione delle prigioni, ma fornisce anche raccomandazioni costruttive alle iniziative di riforma carceraria nel paese.

Questi sono alcuni casi di violazioni dei diritti umani nel mondo. Ma il Rapporto di Amnesty Inteational 2000 (un volume di 648 pagine) esamina 144 nazioni, documentando la situazione di ognuna: geografia, capo di stato e governo, popolazione, lingua ufficiale, esistenza o meno della pena di morte o altre pene restrittive… E c’è da riflettere.

Eesto Bodini




FILIPPINE – Rivoluzione dei rosari

Per la seconda volta in 15 anni il popolo filippino ha cacciato
un presidente, definito dai vescovi «moralmente inadatto a governare».
È subentrata Gloria Macapagal Arroyo:
ha giurato di combattere povertà, ingiustizia, corruzione.
Sono sfide secolari, affrontate con grande speranza
e con il supporto di una chiesa
incarnata nelle realtà del paese.

D opo quattro giorni di cortei, con preghiere e proteste, il capo di stato Joseph Estrada, accusato di «saccheggio economico», è dichiarato decaduto. A mezzogiorno del 20 gennaio 2001 Gloria Macapagal Arroyo presta giuramento come 10° presidente delle Filippine. La cerimonia avviene davanti al santuario dell’Edsa (iniziali di Epifanio de los Santos Avenue, principale arteria di Manila), lo stesso luogo dove era partita l’insurrezione del 1986 contro il dittatore Marcos.
La neo-presidente enuncia le priorità della sua amministrazione: sconfiggere la povertà, combattere la corruzione, riformare lo stato, riportare la pace nel sud del paese. Programma ambizioso e urgente: tre quarti di risorse e poteri del paese sono in mano a pochi privilegiati; mentre il resto della popolazione è in via di «sviluppo». I problemi sono gravi e con radici secolari.
STORIA DI (IN)DIPENDENZA
Scoperte nel 1521 da Ferdinando Magellano, navigatore portoghese a servizio di Filippo II re di Spagna, le Filippine cominciarono a essere colonizzate nella seconda metà del secolo XVI. L’arcipelago era abitato da varie etnie autoctone e una miriade di comunità rurali autonome, discendenti da migrazioni malesi, cinesi, indonesiane avvenute nel corso di molti secoli.
Il sistema coloniale, basato su latifondismo e monoculture da esportazione (canna da zucchero, noce di cocco, canapa), espropriò molti contadini e li ridusse allo stato di servi dei grandi proprietari terrieri. Ancora oggi la terra appartiene allo stato o ai ricchi. Varie insurrezioni furono duramente represse dagli spagnoli.
Alla fine del secolo XIX la borghesia meticcia e varie categorie di oppressi formarono un movimento indipendentista, che nel 1897 riuscì a cacciare gli spagnoli dalla colonia, con l’aiuto degli Stati Uniti, già in guerra contro la Spagna per Cuba e Puerto Rico. Il 12 giugno 1898 fu proclamata la Repubblica delle Filippine, «sotto la protezione della potente e benevola nazione nordamericana».
Cinque mesi dopo, addio benevolenza: al trattato di Parigi, la Spagna cedette la colonia agli Stati Uniti in cambio di 20 milioni di dollari.
Tra il 1899 e il 1911 un milione di filippini morirono invano lottando contro i nuovi occupanti: l’economia del paese fu sottomessa agli interessi americani; l’inglese rimpiazzò lo spagnolo; fu diffuso lo stile di vita americano. Un effetto positivo: fu imposta la scuola d’obbligo e gratuita, per cui oggi il 95% dei filippini sono alfabetizzati.
Nel 1941 le Filippine furono occupate dai giapponesi e riprese la lotta di resistenza armata: il movimento degli huks, a base contadina e d’ispirazione socialista, forte di 118 mila armati, cacciò gli invasori. Toarono gli Usa e si affrettarono a concedere l’indipendenza: 4 luglio 1946.
Con una serie di trattati «ineguali» gli americani si assicurarono la salvaguardia dei loro interessi economici e strategici: una ventina di basi militari perpetuava il regime di protezione americana; le ultime due furono smantellate nel 1991-92: il senato rifiutò di rinnovare il contratto e le ceneri del vulcano Pinatubo seppellirono la base aerea di Clark.
CORRUZIONE GALOPPANTE
Per oltre 25 anni (1946-72) la vita politica delle Filippine fu dominata da un sistema bipolare, rappresentato dal Partito nazionalista e Partito liberale, sotto lo sguardo «benevolo» Usa. Ideologicamente molto simili, i due partiti si alternarono alla guida del paese basandosi sulle élites locali, capaci di procurare voti, specie nelle campagne, ma sempre pronte a coalizzarsi o cambiare campo a seconda della convenienza e del migliore offerente. Finite le elezioni, i vincitori s’affrettavano a recuperare le somme investite; finanziatori e sostenitori riscuotevano il premio della scommessa.
Così corruzione e frode si sono radicate nel sistema elettorale e amministrativo delle Filippine. Nazionalismo e riforme sociali, lotta alla corruzione, pace e ordine, progresso economico, indipendenza totale diventarono esercizi di retorica.
Anche Ferdinando Marcos, nel 1965, conquistò l’uomo della strada sbandierando i soliti temi elettorali, ma poi trasformò le Filippine in un feudo personale, affidando a parenti e amici le cariche nevralgiche del paese. Nella campagna elettorale del 1969 ridusse lo stato in bancarotta. Poiché la Costituzione non prevede un terzo mandato, nel 1972 proclamò la legge marziale, arrogando a sé tutti i poteri. Sciolse il Partito liberale e tarpò le ali alle élites locali, così che solo lui e i suoi amici potevano arricchirsi. Marcos divenne l’uomo più ricco dell’Asia.
Col supporto dei militari, cui diede mano libera nella corruzione, il dittatore soffocò nel sangue ogni tipo di opposizione: 6 milioni di filippini subirono l’«evacuazione forzata»; le loro terre furono cedute alle multinazionali americane. La vittima più illustre della dittatura fu Benigno Aquino, popolare oppositore del dittatore, assassinato nel 1983.
PARLAMENTO DELLA STRADA
Vista l’impossibilità di cambiare la società con i partiti tradizionali, nacquero numerose «organizzazioni popolari»; alcune scelsero la guerriglia, come il New People’s Army (Npa), d’ispirazione maoista; altre si battevano nella legalità per difendere interessi specifici di operai e contadini, donne e studenti. Sotto la dittatura tali organizzazioni si moltiplicarono e rafforzarono, riuscendo a convocare spettacolari manifestazioni di massa e dando vita al cosiddetto «parlamento della strada».
Nel febbraio 1986, l’indignazione per la morte di Aquino e per la rivelazione delle ricchezze nascoste del dittatore fu tale che Marcos fu costretto a indire elezioni anticipate. A sfidare il dittatore scese in campo la vedova di Benigno, Corazón (Cory). Con l’aiuto del cardinale di Manila, James Sin, la candidata riuscì a coalizzare l’opposizione moderata e mobilitare le organizzazioni popolari per vigilare contro i soliti brogli. E quando il dittatore si dichiarò vincitore, nonostante la sconfitta, decine di migliaia di persone scesero in strada per difendere la vittoria di Cory Aquino.
Dalla sua parte si schierarono anche il ministro della difesa Enrile e il comandante dell’esercito, il generale Fidel Ramos. Marcos mandò i blindati contro le caserme ammutinate; da Radio Veritas il cardinal Sin lanciò un appello alla popolazione «in difesa della verità e libertà»: centinaia di migliaia di persone, da tutte le province del paese, si ammassarono davanti al santuario dell’Edsa per poi invadere le strade della capitale, circondando i blindati con le mani tese, cantando e pregando, offrendo ai soldati viveri e bevande, recitando insieme il rosario.
Cinque giorni di rivoluzione pacifica misero fine a 20 anni di regime, 13 dei quali di dittatura: un evento memorabile, passato alla storia delle Filippine con varie definizioni: «miracolo», «rivoluzione dei rosari», vittoria del «potere popolare» contro quello delle élites, spirito dell’Edsa.
POLITICA NUOVA
Il governo di Cory Aquino ristabilì leggi e strutture democratiche; tentò di pacificare il paese concedendo l’autonomia ad alcune province di Mindanao e della Cordigliera; mise in cantiere riforme economiche e sociali, come quella agraria. Le sue buone intenzioni si scontrarono con le realtà del paese. Le riforme di Cory innervosirono i militari e inquietarono i politici tradizionali; i nostalgici di Marcos tentarono due colpi di stato. La «guerra totale» ai gruppi guerriglieri e indipendentisti, con relative violazioni dei diritti umani, appannò il prestigio della presidente, pur continuando a tenere viva la speranza in un futuro migliore.
Tale speranza si rivelò nelle elezioni del 1992, le più ordinate e trasparenti nella storia del paese, in cui fu eletto presidente Fidel Ramos. Sotto il suo governo migliorarono l’economia, i rapporti inteazionali, la pace sociale. La crescita economica faceva sperare che nel giro di 10 anni le Filippine avrebbero raggiunto il rango di «Nuovo paese industrializzato» (Nic), come le vicine nazioni del sudest asiatico.
PRESIDENTE SCERIFFO
Dalla rivoluzione del 1986 è nata la cosiddetta «nuova politica», anche se di nuovo c’è ben poco: gli aspiranti presidenti devono fare i conti col «potere popolare», deciso a votare più i programmi che le persone. Chi può forma un suo partito, come è capitato nel 1998: i candidati erano una quindicina, tra i quali quattro figli di ex presidenti.
Vinse Joseph Estrada, mediocre attore di telefilm polizieschi, riuscendo ad attirarsi le simpatie dei poveri, contadini e classi medie. Sembrava proprio la fine della vecchia politica, legata agli interessi delle élites.
Un passato da playboy, biscazziere e bevitore, Estrada non era uno stinco di santo. Per 16 anni sindaco di un sobborgo di Manila, per quattro senatore, non era neppure uno sprovveduto in politica. Presidente della commissione per la lotta alla criminalità, aveva radiato migliaia di poliziotti corrotti. La gente lo pensava una specie di «sceriffo», capace di perseguire la giustizia in modo deciso e implacabile, come nei films.
Invece le promesse elettorali restarono nel cassetto. L’economia cominciò a precipitare paurosamente. Frequentazioni di affaristi vicini alla famiglia Marcos, atteggiamenti da donnaiolo maschilista, favoritismi verso amici e parenti, sospetti di corruzione minarono il prestigio dello «sceriffo». Corruzione e impunità nell’amministrazione continuavano più di prima; anzi, si scoprì che anche lui era corrotto e corruttore.
All’inizio di ottobre del 2000, uno dei principali gestori del jueteng (lotteria illegale, diffusissima nelle Filippine) rivelò di aver consegnato al presidente una tangente di 10 miliardi di lire. Seguirono 100 giorni di fuoco. I vescovi dichiararono Estrada «inadatto a governare il paese» e lo invitarono a dimettersi. Molti suoi deputati passarono nelle file dell’opposizione: il 13 novembre il Parlamento approvò la mozione che metteva il presidente in stato d’accusa. Il 7 dicembre il Senato iniziò il processo. Al tempo stesso la chiesa continuava a chiedere le dimissioni con mobilitazioni di massa, in cui sfilavano Cory Aquino e il card. Sin.
Estrada respingeva ogni accusa. Il 16 gennaio 2001, quando il Senato rifiutò d’indagare su alcuni conti bancari segreti del presidente, il popolo insorse in massa, ripetendo, come da copione, la «seconda rivoluzione dei rosari»: il cardinal Sin lanciò l’appello e quasi due milioni di persone, 70% giovani, si riversarono nel santuario dell’Edsa, per poi sfilare pacificamente per le strade della capitale, chiedendo la destituzione di Estrada. Dopo quattro giorni di proteste, canti e preghiere, la Corte Suprema destituì Estrada e la vicepresidente, Gloria Macapagal Arroyo, prestò giuramento come nuovo capo dello stato.
SFIDE E SPERANZE

I regimi passano; i problemi restano. I salari sono bassi. Disoccupazione e inflazione galoppano. Per la maggioranza della gente la vita è una lotta quotidiana contro la povertà, ingiustizia sociale, corruzione e oppressione. Il divario tra ricchi e poveri continua ad allargarsi e approfondirsi. La crescita demografica è tale che le strutture sociali esistenti non riescono a far fronte ai bisogni della gente: 7,5 milioni di filippini lavorano in 194 paesi esteri (Italia compresa) per sostenere le proprie famiglie. Per il governo sono «eroi»: le loro rimesse superano i 15.000 miliardi di lire l’anno.
Tante sono le sfide; altrettante le aspettative. La rivoluzione del 1986 ha portato al paese la speranza e qualche sprazzo di prosperità; la «seconda rivoluzione dei rosari» l’ha riaccesa: questa volta bisogna fare in fretta per non deluderla.
Laureata in scienze economiche (fu compagna di classe di Clinton a Georgetown), figlia d’arte (suo padre Diosdado fu presidente nel 1962-65), Gloria Arroyo Macapagal, 53 anni, ha già lavorato sodo per attrarre nuovi investimenti; nel 1998 ha ottenuto molti più voti del popolarissimo Estrada (presidenza e vicepresidenza hanno elezioni distinte). La neo-presidente gode di grande prestigio e può contare su una popolazione giovane e scolarizzata al 95%, su numerose organizzazioni popolari, comunità coscienti e coraggiose, in lotta per il cambiamento del paese, e su una chiesa incarnata nelle realtà della gente.
CHIESA DEI POVERI
Negli anni ’60 la chiesa ha intensificato l’impegno nella difesa dei poveri; sotto il regime di Marcos, ha denunciato chiaramente le violazioni dei diritti umani e sostenuto le organizzazioni popolari: per questo è stata accusata d’infiltrazioni «comuniste» e decine di preti sono stati denunciati e arrestati.
Il prestigio dell’episcopato filippino, a partire dal card. Sin, è cresciuto negli ultimi 15 anni, riuscendo a esprimere leaders politici di grande statura, a partire dalle due donne che hanno conquistato il potere a furor di popolo. Ciò è stato possibile perché tale potere non è usato per fini politici, ma per difendere gli strati più deboli della popolazione.
Quella filippina è una chiesa fatta di poveri e per i poveri. Il suo ruolo profetico è stato riaffermato dal card. Sin in occasione del giuramento di Gloria Arroyo. Assicurando l’appoggio della chiesa, il cardinale ha detto alla neo-presidente: «Non mancheremo di criticarti per il bene della nazione». «Se il cardinale mi criticherà per il bene della nazione, ascolterò e cercherò di fare meglio» ha risposto la signora.

MINDANAO: LA GUERRA INFINITA

Troppo semplice scambiarla per guerra di religione. Il conflitto ha radici antiche. Quando occuparono l’arcipelago filippino, gli spagnoli incontrarono una quindicina di gruppi islamizzati, detti moro, che da oltre un secolo, avevano invaso il versante occidentale di Mindanao e l’arcipelago Sulu (Basilan, Jolo, Tawi-Tawi). L’immigrazione musulmana fu bloccata, ma i moro lottarono ferocemente contro la colonizzazione spagnola e la penetrazione del cristianesimo, rimanendo ai margini della formazione dello stato filippino.
Nella cessione dei suoi territori agli Stati Uniti, nel 1898, la Spagna incluse anche queste isole, benché non vi avesse alcuna sovranità. Le tensioni aumentarono. Ma agli americani bastò una manciata di anni per riuscire dove gli spagnoli avevano fallito per tre secoli. Mindanao e Sulu furono prima conquistati con autentici massacri, che suscitarono l’indignazione perfino negli Usa, poi «filippinizzati»: a partire dal 1912 ondate di famiglie cristiane dall’affollata Luzon furono risistemate nelle pianure di Mindanao. Dal 1926 industriali americani (Del Monte, Goodyear, Goodrich, Firestone) occuparono enormi distese di terra per coltivare ananas, banane, legname, caucciù e altri prodotti da esportazione.
Oggi i musulmani di Mindanao e Sulu sono un quarto dell’intera popolazione, anche se in qualche isola raggiungono il 97%. Inoltre i moro sono rimasti ai margini dello sviluppo economico e sociale delle Filippine: tra le 16 province più povere del paese, 13 si trovano a Mindanao, tutte con predominanza islamica.

Nel 1969 nacque il Fronte nazionale di liberazione moro (Fnlm), guidato da Nur Misuari, per rivendicare il Bangsamoro: stato islamico indipendente dalle Filippine. Rivendicazioni e relativi disordini offrirono a Marcos la scusa per proclamare la legge marziale. Scoppiò la ribellione vera e propria. Il dittatore inviò l’esercito contro i rivoltosi. La repressione provocò enormi distruzioni, la morte di 120 mila civili e la fuga di centinaia di migliaia di persone.
Alla fine del 1976, fu stipulato un accordo di cessate il fuoco, con la promessa di creare una regione autonoma per i musulmani di Mindanao. A tale soluzione si oppongono i cristiani presenti nella regione in causa, provocando la ripresa della guerra. Le trattative di pace ripresero nel 1986 con Cory Aquino, che concesse l’autonomia amministrativa a 4 province a maggioranza musulmana. Nel settembre 1996, un accordo tra Mnlf e governo centrale di Fidel Ramos istituì la Regione autonoma musulmana di Mindanao, composta dalle 4 province già autonome e aperta ad altre da stabilire attraverso referendum popolari. Gran parte dei guerriglieri del Mnlf furono integrati nell’esercito nazionale e polizia, il leader Nur Misuari diventò governatore.
Ma l’ala più radicale del Fronte nazionale non accettò il compromesso, fondò il Fronte islamico di liberazione moro (Film) e continuò la lotta di secessione. In seno al Milf, poi, è nato il gruppo Abu Sayyaf che rifiuta ogni autonomia e chiede uno stato indipendente, formato da tutta l’isola di Mindanao, gli arcipelaghi di Sulu e Palawan: il 40% dell’attuale territorio delle Filippine. Attestato nelle isole di Jolo e Basilan, Abu Sayyaf continua l’offensiva con fanatico terrorismo: «Allah guida i proiettili delle nostre armi». Minacce, omicidi, massacri, sequestri, rapimenti, saccheggi, distruzioni, estorsioni, contro civili e molti missionari, non si contano più. Nel luglio 2000 Estrada ha rilanciato il pugno di ferro contro il Milf, provocando altri 300 mila profughi.

Pur essendo la principale vittima di tale terrorismo e fanatismo, la chiesa continua nella testimonianza di carità: opere di promozione umana alla periferia delle città; cura dei profughi musulmani; rilancio del dialogo islamo-cristiano. Nel 1996 è nato il Bishop-Ulama Forum, che raccoglie leaders cristiani e musulmani attivi nella mediazione dei conflitti; nel maggio 1999 il movimento Silsilah ha inaugurato un Istituto di formazione, con corsi di educazione al dialogo interreligioso e alla pace per laici e religiosi, cristiani e musulmani.
La maggioranza degli stessi musulmani, infatti, sono convinti che una soluzione militare è impossibile e che uno stato islamico, staccato dalle Filippine, prolungherebbe la loro situazione di miseria. Ben venga l’autonomia, purché sia vera e accompagnata da impegni concreti nello sviluppo economico e sociale per tutti. Fino a quando non sarà sconfitta la miseria, questa continuerà ad essere il brodo di cottura dell’attuale guerra infinita e violenze di ogni genere.

Benedetto bellesi




ETIOPIA – Missionari del “permesso”

Ma dove sta la differenza?

I missionari che lavorano in Etiopia devono confrontarsi con numerose sfide e l’evangelizzazione incontra molte difficoltà. Queste vengono, prima di tutto, da parte dello stato, molto esigente nel concedere il permesso di soggiorno a tempo indeterminato. I missionari non sono accettati come tali, ma debbono fornire un diploma di specializzazione nel campo della salute pubblica, educazione o sviluppo e giustificare la loro competenza e servizio, presentando un rapporto ogni anno.
A questa non lieve difficoltà, si può aggiungere anche la sfida di vivere insieme ai musulmani e, naturalmente, alla chiesa locale «ortodossa». Questa è molto potente nel paese. Legata ad Alessandria d’Egitto, ha conservato per parecchio tempo la denominazione di «chiesa copta». Ben radicata nella cultura locale, perfettamente strutturata fin nelle minime istituzioni, ha avuto la fortuna di veicolare senza problemi la fede cristiana nel corso dei secoli. La bellezza delle sue chiese, l’indimenticabile splendore delle sue icone (sempre circondate da candele accese), il colore vivo degli abiti liturgici, i canti in lingua ghez (un po’ come il latino di un tempo nella chiesa cattolica), l’atmosfera mistica che regna nei monasteri… colpiscono immediatamente lo spirito del visitatore.
Sul sagrato della basilica della Ss. Trinità, ad Addis Abeba, dove veniva a pregare l’imperatore Hailè Selassié, un monaco sorridente mi accoglie e benedice con la croce che tiene nella mano sinistra. La croce ricorda la sofferenza e la morte del nostro Salvatore e bisogna abbracciarla tutte le volte che ci si avvicina ad un santuario, dove Dio è presente.
Si rimane sorpresi nel vedere la folla, seduta davanti alle chiese e che prega all’aperto. L’impressione di essere impuri e peccatori (molto sviluppata in Etiopia) proibisce ai fedeli di penetrare dove si trova il Santo e comunicare con lui.
Mi interrogo sull’impatto reale di questa chiesa nella società di oggi. La preghiera: sì, questa è indispensabile alla vita; ma la giustizia, la salute, la lotta contro la miseria, la formazione continua che permette di ampliare gli orizzonti… non sono cose altrettanto necessarie? È bene restare ancorati alle tradizioni del passato, ma il dialogo con il mondo di oggi non ha la stessa importanza? La chiesa è sale della terra, luce del mondo. Essa dovrebbe avere la potenza del lievito, la capacità di trasformare una società arroccata nell’arcaismo.

Ho vissuto il mio viaggio in Etiopia come una ricerca, un’inchiesta sul senso del lavoro missionario svolto e sono giunto alla conclusione che questo paese rimane un terreno privilegiato per i missionari della Consolata. La «consolazione» di questo popolo si impone e l’evangelizzatore crede che debba passare attraverso Gesù Cristo.
Fare conoscere Gesù, proporre i suoi valori e le sue parole nello spirito delle beatitudini, predicare la frateità universale sotto l’egida di un solo Dio Padre: questo è mettere in evidenza da dove viene la forza principale per trasformare una società. Là dove ristagnano immobilismo e tradizionalismo, ingiustizia e povertà, sottosviluppo e segregazione razziale, il missionario inietta un seme di rinnovamento, di vita e risurrezione. Là dove il dialogo tra persone di differenti culture e religioni non riesce a instaurarsi, il missionario (talvolta profeta solitario) rimane colui che ne predica l’urgenza, per costruire una comunità fratea, dove i diritti di tutti sono rispettati.
C’è di più. In Etiopia il lavoro quotidiano del missionario è direttamente orientato verso il benessere della popolazione più povera. Allora si comprende, senza troppe spiegazioni, il senso di opere come l’ospedale di Gambo, il dispensario di Modjo, la scuola superiore di Meki, il centro per handicappati di Gighessa, la scuola per non vedenti di Shashemane, il centro per la cura della lebbra.
Ciò che si dimentica troppo facilmente è che questo lavoro, compiuto con sforzo e competenza, viene fatto per amore di Gesù. E questa è la grande differenza, che ci qualifica rispetto agli altri «operatori sociali».
Un dialogo
difficile

Le giornate iniziano molto presto ad Addis Abeba. Dalla mia camera, ancora mezzo addormentato, sento il grido del muezzin che, dall’alto del minareto della moschea centrale, invita tutti alla preghiera, prima di iniziare il lavoro.
«Bismillahi rahman arrahim» (nel nome di Dio clemente e misericordioso): la preghiera comincia prima della levata del sole. Si direbbe che in Etiopia tutti pregano: nei monasteri ortodossi le vigilie delle feste si prolungano fino a tarda notte; il mattino presto è l’ora dei musulmani, mentre i cattolici preferiscono celebrare Dio nel corso della giornata.
L’islam è molto presente nel paese: il 45% della popolazione professa la sua fede in Allah, dichiarandosi sottomesso alla sua volontà (muslim, musulmano, cioè «sottomesso»). Cinque regole fondamentali sono alla base di una giusta condotta:
– la professione di fede in un Dio unico e la proclamazione di Maometto come suo profeta;
– la preghiera personale, cinque volte al giorno (e pubblica il venerdì), con la faccia rivolta in direzione della Mecca;
– l’elemosina ai poveri e (secondo alcuni) «la guerra santa»;
– il digiuno totale nel mese del Ramadan;
– il pellegrinaggio alla Mecca, una volta almeno in vita.
Il missionario che lavora in tale contesto ha a che fare con grandi sfide: da una parte, ammira la vita di fede radicata nelle persone e la loro incrollabile credenza in un Dio unico; ma, dall’altra, non può non osservare un’assenza totale di dialogo tra musulmani e credenti di altre religioni.
In questo tempo di globalizzazione e modeità, il dialogo diventa una priorità indispensabile. Di fronte alla crescita musulmana, non soltanto in Etiopia ma nel mondo intero, l’esigenza di condividere la fede e di verificare i supporti culturali che la manifestano… si presenta come il cammino più sicuro per un dialogo fruttuoso.

Per comprendere l’islam, bisogna partire da Maometto e dal suo progetto. Egli mirava ad unificare tutte le tribù arabe sotto la guida di una sola persona, fino a stabilire un unico impero nella penisola d’Arabia. Egli stesso realizzò l’idea a Medina, dopo la sua fuga dalla Mecca, nel 622: il popolo lo accolse come un profeta di Dio.
La religione e la fede nel Dio unico avevano un posto importante nel progetto di Maometto. In effetti le antiche tradizioni arabe si rifacevano alla discendenza di Abramo e Ismaele e le persone si sentivano sottomesse alla volontà di un Dio, che le aveva create e protette. La circoncisione diventerà il segno visibile per ricordare l’alleanza.
Occorre apprendere dalla storia che l’islam costituisce una entità socio-politica, culturale e religiosa. Il sistema di vita integrato che ne deriva può scivolare verso un fondamentalismo totalitario, incapace di distinguere tra «fede» e «cultura». La moschea ne è un esempio evidente: infatti non viene concepita solo come luogo di preghiera o incontro, ma anche come un’istituzione dove, oltre alla preghiera e ai sermoni dell’imam, si fanno studi, dibattiti politici e processi civili.
Nel mondo musulmano è, dunque, del tutto normale che la radio interrompa la sua programmazione per permettere la lettura del corano e che la televisione faccia lo stesso; che la legge proibisca l’unione tra musulmani e cristiani; che l’allevamento di porci e animali impuri sia interdetto. Si nota pure che le differenze tra il sistema dell’islam e quello occidentale non sono soltanto religiosi, ma culturali. L’uomo è il capo dell’unità familiare, la donna è al secondo rango: il suo ruolo è soprattutto legato alla procreazione e alla sessualità e deve accettare la poligamia come un fatto normale. Non può ereditare che la metà di quello che appartiene all’uomo e, se ripudiata, non ha il diritto agli alimenti. A livello giudiziario, occorre la testimonianza di due donne per controbattere quella di un uomo.
Il rifiuto di questi princìpi e altri comporta l’esclusione dell’individuo dalla società in cui vive. La persona in se stessa non è importante, ma è rilevante la comunità, dove ogni credente si sente legato alle persone che professano la stessa fede.
Per il musulmano tutto è religioso. Ogni aspetto della vita sociale, politica, economica, ogni dettaglio della vita quotidiana è diretto dal corano, che è l’unica vera legge.
Tuttavia le differenze socio-culturali non dovrebbero impedire il dialogo. Il missionario conosce le sfide, ma crede che anche i musulmani abbiano diritto alla libertà religiosa. Così essi hanno certamente il diritto di confessare la loro fede in Allah, ma hanno ugualmente il diritto di incontrare Gesù, il rivelatore del Dio cristiano.
In Etiopia il missionario non ha soltanto una «ricchezza» economica, da condividere con le migliaia di poveri che incontra; ma possiede pure il tesoro di Gesù, che può diventare fonte di felicità anche per l’islam. A quando l’avvenimento di un dialogo libero e fruttuoso?

PURTROPPO ANCORA DIPENDENTI

Padre Aristide Piol intervista
Berhane Jesus Souraphiel, arcivescovo
di Addis Abeba e primate di Etiopia.

Quali sono le attuali relazioni tra il governo e la chiesa in Etiopia?

La chiesa cattolica, come altre istituzioni religiose, è considerata un’organizzazione non governativa e non è accettata come chiesa. Ma, pur senza riconoscimento ufficiale, essa può continuare a lavorare nell’ambito apostolico, anche se la sua situazione rimane precaria.

Quali difficoltà incontrate?

Prima di tutto, la mancanza di personale missionario (preti, religiosi e laici), perché quello etiope non è sufficiente. La penuria deriva dal fatto che è molto difficile fare entrare missionari in Etiopia, se non hanno prima un permesso di lavoro. I permessi vengono accordati soltanto per progetti di lavoro sociale, riguardanti l’educazione o la salute e non per l’apostolato. Sono molto difficili da ottenere.

Nelle attività sociali, potete lavorare liberamente?

Non proprio. Riceviamo sovente la visita di ispettori, che redigono rapporti tendenziosi a nostro riguardo; in più, noi stessi dobbiamo fornire regolarmente dei rapporti, stendere inventari minuziosi del materiale di scuole, ospedali, dispensari, asili matei. Dobbiamo anche indicare da dove provengono i soldi e come vengono spesi.

Ma perché tutto questo?

L’Etiopia è divisa in nove regioni e distretti, ognuno dei quali governati da autorità locali e ciascuno ha la sua parola da dire. Questa divisione non favorisce l’unità del paese (bisogna sapere che ci sono diverse etnie e che in Etiopia si parlano 82 lingue differenti!). Credo che non ci conoscono abbastanza e non sanno il bene che apportiamo al paese. Bisognerà fare di più per farci conoscere.

Avete la possibilità di organizzare il lavoro apostolico?

Sì, ma nascono altre difficoltà. Dal momento che il personale deve donarsi completamente all’attività sociale, non può concentrarsi unicamente sul lavoro apostolico. Noi dipendiamo, dunque, dalle chiese cattoliche di Europa e America del nord, sia per il personale che per i mezzi materiali. Da soli, non possiamo fare grandi cose.
La chiesa cattolica ha fatto qualcosa per la guerra con l’Eritrea?
La Conferenza episcopale si è associata al nunzio apostolico, mons. Tommasi, e alle altre professioni religiose per esercitare una certa pressione. Ma il governo si aggrappa a filosofie e mentalità differenti e i nostri interventi non sono sempre ascoltati. Abbiamo detto che questa guerra non ha senso, perché Etiopia ed Eritrea sono nazioni sorelle. Infatti hanno la stessa fede cristiana, sono cresciute insieme e hanno quasi le medesime tradizioni, lingue e culture.

Cosa si aspetta la chiesa dalla commissione «Giustizia e pace»?
Abbiamo accolto la commissione con viva speranza. Essa dovrebbe informare l’opinione pubblica mondiale sulle ingiustizie commesse dai governi locali e inteazionali. È necessario fare intervenire i paesi occidentali e l’Onu, perché la libertà di stampa e religione venga garantita, e che i cattolici abbiano le stesse opportunità degli altri cittadini nella pubblica amministrazione. L’annullamento del debito internazionale è un altro obiettivo. Così, come la denuncia delle nazioni che vendono armi ai governi di paesi poveri. «Giustizia e pace» dovrebbe vigilare perché i soldi dati per opere sociali vengano spesi soltanto per queste e non per arricchire le tasche di alcuni dirigenti.

C’è speranza che la chiesa cattolica etiopica divenga autosufficiente?
Per la gerarchia, anche se ci sono vescovi etiopici, abbiamo ancora bisogno di vescovi stranieri. Così per il clero, i missionari e religiosi.

Come sono le relazioni con la chiesa ortodossa copta?
A livello di gerarchia, c’è rispetto e ci invitiamo reciprocamente. Tuttavia, sul piano del lavoro apostolico, constatiamo ostilità e concorrenza. Questo dipende dal fatto che la chiesa ortodossa copta era (oggi non più) «chiesa di stato» e beneficiava di alcuni privilegi.

Come giudicate la crescita dei musulmani in Africa?

Questa avanzata ci preoccupa. Constatiamo che agiscono secondo un piano ben strutturato per raggiungere i loro scopi. Con i soldi del petrolio cercano innanzitutto di ottenere il potere economico, poi quello politico e religioso. Vediamo che portano degli etiopi a lavorare in Arabia Saudita o in altri paesi musulmani; poi fanno loro regalo del corano e li obbligano a vestirsi come i musulmani. Crediamo che si tratti di una minaccia seria.
Aristide Piol

Giuseppe Ronco




CONGO, RD – Con le mani nel fango

Uno è italiano e l’altro congolese.
Entrambi missionari della Consolata,
alle prese con una nuova missione.
In un lembo di terra fuori del mondo.
E in guerra dal 1996.
Dove tutti sono poveri.
E i pigmei anche discriminati.

In mano a Piero e Clément

«Siamo pazzi o stupidi? O entrambe le cose insieme?». Ce lo domandiamo (senza risposta), mentre varchiamo la soglia della casetta di Bayenga, scuotendo l’abbondante fango dai piedi. Il vescovo di Wamba e i nostri superiori ci hanno chiesto di «far ripartire la missione»! Ma come?
Bayenga è un grosso villaggio, a 23 chilometri da Wamba, sulla strada Niania-Kisangani, nell’Alto Uele (repubblica democratica del Congo). La collettività è nata artificialmente nel tempo in cui si estraeva oro nelle miniere dei dintorni. La popolazione appartiene a diverse etnie bantu: wabudu, walika, waberu…
Bayenga, nel passato recente, è stato un centro importante, perché sede amministrativa della Forminière, una compagnia belga che estraeva l’oro nei villaggi di Mambati, Bolebole e Bonzunzu. La società ha chiuso i battenti già prima dell’indipendenza del Congo nel 1960.
Oggi le miniere sono sfruttate in modo artigianale da migliaia di persone, specialmente giovani, che vengono da ogni parte con la speranza di far fortuna. Purtroppo i cercatori d’oro e diamanti, nella maggioranza dei casi, si riducono ad una vita di miseria materiale e morale.
Dato il degrado sofferto dal Congo durante il regime-ladro del dittatore Mobutu, anche a Bayenga il collasso è totale: ad esempio, non esistono più strade. Ci si sposta a piedi, in bicicletta o al massimo in moto.
Finora la «parrocchia» di Bayenga si è potuta occupare solo saltuariamente della realtà umana. Tuttavia, poiché tanta gente frequenta la zona e gran parte della produzione agricola è destinata a chi lavora in miniera, come missionari ci sentiamo coinvolti direttamente.
Il territorio della missione, oltre Bayenga, comprende altre 16 cappelle succursali, già costituite. Altre due dovrebbero sorgere presto… fra i cercatori d’oro. Di regola queste cappelle sono seguite da animatori di comunità e volontari. La popolazione vive in abitazioni di fango e paglia, costruite lungo la strada. Si contano, complessivamente, 25 mila abitanti, di cui 3.500 cattolici.
La fondazione della missione risale al 1962. I missionari belgi del Sacro Cuore e le suore comboniane italiane, che vi lavoravano, nel 1964 dovettero abbandonarla a causa della ribellione dei Simba. Furono assassinati un sacerdote e un medico, che gestiva un piccolo ospedale.
Nel 1968 a Bayenga ritoò un altro missionario del Sacro Cuore, che lavorò fino alla morte (1980). Successivamente la comunità cristiana si è mantenuta viva grazie all’opera di un catechista, assistito di tanto in tanto da un missionario che veniva da Wamba.
Oggi Bayenga è in mano ai missionari della Consolata, cioè noi due: padre Piero, italiano di 65 anni, e padre Clément, congolese di 42.
Cercando casa
La parrocchia di Bayenga non ha strutture proprie. Finora si è servita dei locali che la società mineraria belga aveva, a suo tempo, concesso alla diocesi di Wamba perché li custodisse, permettendo così la continuazione dell’ospedale e delle scuole. Attualmente la Forminière è proprietà di un congolese.
La missione è costretta a cercarsi un’altra sistemazione, pur provvisoria. Però la nostra casa (tre stanzette) è ancora della Forminière. Ma prestissimo sloggeremo.
Dunque bisogna edificare la missione dalle fondamenta. È prevista la costruzione di un complesso con chiesa, scuole elementari e secondarie, ospedale, nonché locali per le attività parrocchiali e sociali. Le prime strutture saranno in fango. Il tutto poco a poco e in un mare di guai.
Tra le difficoltà, quella cruciale è senz’altro costituita dalla guerra in corso e dallo stato di incertezza che regna nella nazione. È difficile trovare il materiale da costruzione, come cemento, ferro, ecc. Dovendolo acquistare a Kampala, in Uganda, e trasportarlo con aerei privati, i prezzi diventano esorbitanti.
A Dio piacendo e, soprattutto, allorché il paese raggiungerà un minimo di stabilità, si potrà realizzare il grande sogno. Un sogno, però, che noi iniziamo già ora partendo… dal fango.
In barba alle ricchezze
La povertà è una realtà generalizzata, a dispetto delle ricchezze ingenti del paese. Da anni non arrivano più camion con mercanzie. Queste vengono trasportate in bicicletta da giovani, che vanno a Bunia, Butembo e Kisangani percorrendo oltre 1.000 chilometri in due o tre settimane. E spesso ci rimettono la salute.
Quanto alla scuola, su 6 mila ragazzi, solo un terzo ha la possibilità di ricevere un po’ d’istruzione. Noi missionari non possiamo sostituirci allo stato, ma non dobbiamo nemmeno rimanere a guardare. Pertanto la maggior parte delle scuole è gestita dalla chiesa.
A Bayenga abbiamo appena iniziato una scuola secondaria con 29 studenti del primo anno, con aule in fango naturalmente. Nel territorio della missione ci sono anche tre scuole primarie, complete, con un curriculum di sei anni; altre scuole succursali, specialmente per i primi due anni, sono disseminate in vari villaggi. Ma è pochissimo.
La poche scuole funzionano avvalendosi del contributo dei genitori degli allievi: circa 2.700 lire l’anno. Da tale entrata si ricava lo stipendio degli insegnanti. Questi a loro volta, per sopravvivere, si arrangiano coltivando i campi e, talora, «si fanno aiutare» dagli alunni.
La cronica penuria di mezzi impedisce alla maggioranza di studiare. Le più penalizzate risultano le bambine: devono anche dare la precedenza ai maschi, mentre loro restano in casa ad aiutare la mamma e accudire i fratellli più piccoli.
La missione gestisce pure un piccolo dispensario medico. Per la popolazione è un punto di riferimento importante, perché l’ospedale di Wamba è lontano e l’unico mezzo per arrivarci (per chi può permetterselo) è la bici. Nel dispensario lavorano due infermieri e tre ostetriche. Funziona con l’apporto economico (del tutto insufficiente) dei malati… C’è bisogno di materiale da laboratorio, medicine, letti e di riparare le strutture cadenti.
L’evangelizzazione, in senso stretto, viene portata avanti con la collaborazione essenziale degli animatori di comunità. Sono un centinaio di buoni cristiani, che lavorano come volontari a tempo parziale. La missione li aiuta per le cure mediche e in caso di estrema necessità. Per loro abbiamo programmato incontri di formazione della durata di quattro giorni, per altrettante sessioni annuali.
Ovviamente la missione si fa carico di vitto, alloggio ed altre necessità. Un sacrificio non indifferente, ma necessario per fare crescere la comunità che il Signore ci ha affidato.
ultimi i pigmei
Un’altra realtà importante, che ci ha spinto ad accettare la missione di Bayenga, è la presenza di alcuni accampamenti di pigmei (bambuti). Si calcola che, nel territorio, la popolazione pigmea sia di circa 2 mila persone. Spesso nomadi, i pigmei vivono di caccia e raccolta, in relativa simbiosi con i bantu. Di regola risiedono nella foresta e, dopo il tempo della caccia, ritornano agli accampamenti per scambiare i propri prodotti (carne affumicata, miele e frutti della foresta) con quelli agricoli dei bantu.
La convivenza con le etnie bantu non è né semplice né pacifica, perché queste ritengono i bambuti degli esseri inferiori e senza diritti: da alcuni sono considerati una specie intermedia tra la scimmia e l’uomo. Con la possibilità di fare confusione!
Anche nei loro accampamenti i pigmei non sono del tutto liberi, ma spesso vengono considerati «proprietà» di un capo o di un membro della famiglia regnante. Ad esempio: quando un’autorità ha bisogno di qualcosa, non ha che da dire al suo luogotenente: «Manda subito i tuoi pigmei a cercare carne e miele per me!».
Il baratto con i bantu si fa anche con alcornol e droga. Così i bambuti si abbrutiscono sempre di più.
I pigmei, rinomati per le danze, in molte occasioni vengono invitati nei villaggi per rallegrare le feste dei bantu. Questo li tiene occupati per mesi. Nel frattempo continuano a cacciare selvaggina nella foresta, pena la sopravvivenza.
C’è il problema dell’alfabetizzazione. Sono stati fatti dei tentativi per convincere i pigmei a mandare i loro figli a scuola; ma i risultati sono deludenti. Oggi si sta prospettando un «insegnamento speciale» con programmi e tempi adatti. Però le difficoltà sono tante (cfr. Missioni Consolata, dicembre 2000).
Nel nostro lavoro missionario riteniamo prioritario stabilire rapporti di amicizia con i gruppi minoritari e discriminati e riconoscere la loro cultura. Fra i pigmei, oltre ad insistere affinché mandino a scuola i loro bambini, li assistiamo con cure mediche e li incoraggiamo a coltivare campi «propri», per rompere la dipendenza economica dai bantu.
Si sta pure valutando come introdurre i bambuti nel catecumenato cristiano. Forse ci vorrà un lungo periodo di pre-catecumenato per portarli ad accettare e vivere alcune esigenze fondamentali del vangelo.
Nella missione di Bayenga tutti sono poveri, ma i pigmei sono miseri. Veramente gli ultimi.

PIGMEI PROTAGONISTI

La diocesi di Wamba ha, da sempre, desiderato una vera integrazione dei suoi 35.200 pigmei (dei quali 7.500 bambini), che popolano una buona parte delle sue 18 parrocchie.
Popolo nomade che vive di pesca e caccia, i pigmei sono considerati i primi e più antichi abitanti della foresta dell’Uele e dell’Ituri; eppure, a causa del loro modo di vivere, sono sempre stati lasciati al margine e discriminati.
Di fronte a questa ingiustizia, ci sono stati diversi tentativi di avvicinamento e accoglienza. In modo timido, all’inizio, la diocesi di Wamba aveva sognato di integrarli nell’ambito della società modea; per questo era stata decisa la creazione della prima scuola per pigmei già nell’anno 1959, nella parrocchia di Nduye e, nel 1984, di un centro di formazione per pigmei a Imbau, diretto da padre Pedro (missionario spagnolo) e suor Docita (olandese).
Ma si è dovuto aspettare il 1989 perché l’idea si concretizzasse meglio e diventasse realtà. È nato il «Progetto diocesano pigmei», la cui espressione «visibile» sono state le scuole per pigmei nelle parrocchie di Mungbere, Bangane e Maboma.
Il progetto ha come obiettivo l’integrazione e lo sviluppo totale dei pigmei, rispettando le loro esigenze e abitudini. Per esempio, la scolarizzazione dei ragazzi (e, quindi, il… calendario) deve tener conto della realtà «della foresta»; le lezioni vengono interrotte durante la stagione secca (gennaio-marzo), essendo il periodo favorevole alla ricerca e raccolta di miele selvatico.
La scuola segue una metodologia speciale, rispettosa della cultura pigmea. Le lingue da insegnare, come swahili, lingala e francese, non devono annientare la lingua matea. Il metodo ORA (osservare-riflettere-agire), concepito e strutturato da fratel Antonio Huysman del Camerun, sembra essere il migliore finora adottato.

La scuola non è l’unica preoccupazione del progetto.
C’è anche la pastorale, che ha di mira una vera promozione dei pigmei, considerati alla stessa stregua degli altri gruppi etnici: è chiamata a collaborare in diversi ambiti, come l’agricoltura, il commercio, la salute, ecc. Nessuno ignora quanto i pigmei restino insuperabili in materia di caccia, pesca e uso di alcune medicine naturali. Forte di questi elementi, i pigmei si impongono come partners con cui si deve lavorare in uguaglianza, invece di considerarli esseri inferiori.
Secondo Laurent Badukanayaa, cornordinatore aggiunto del progetto diocesano, il vescovo Janvier Kataka ha rafforzato l’impegno verso i pigmei, inserendolo però nel piano più vasto di un cammino d’insieme, per assicurae la continuità. La pastorale mira all’integrazione dei pigmei e di altre etnie nell’unica chiesa, famiglia di Dio, e nell’unica società congolese di oggi.
L’iniziativa della diocesi di Wamba è lodevole per il fatto che questi nostri fratelli, «primi abitanti del paese», sono sempre rimasti ai margini della società modea, nonostante i mille tentativi fatti per la loro integrazione.
Ora è il loro momento di… entrare in scena e diventare protagonisti!

Piero Manca e Balu Futi




TURKMENISTAN – Dalla via della seta a quella del petrolio

Il paese è ricchissimo di gas naturale e petrolio, ma i suoi cinque milioni di abitanti vivono
in condizioni
di arretratezza.
L’ex repubblica sovietica è oggi nelle mani
di Saparmuryad Niyazov, presidente che, al pari
di Gheddafi e Saddam,
riempie strade e piazze
con le sue immagini.

Le formalità alla frontiera uzbeko-turkmena sono state lunghe. Abbiamo aiutato e raccolto anche due giovani francesi, che non avevano un mezzo di trasporto. Uno dei due sta male, piegato in due dal mal di pancia. Daniel invece parla abbastanza bene l’italiano, perché ha lavorato a Torino per qualche mese. Ci racconta le avventure passate sul traghetto, attraversando il mar Caspio.
Il pullmino prosegue in territorio turkmeno, tra campi di cotone e villaggi che denunciano l’arretratezza del paese, ma anche la sua tranquillità. La gente è occupata nei campi e si vedono muli bendati girare intorno alla macina del grano. Non vi è traffico d’auto e, quando dobbiamo fermarci per una foratura, possiamo apprezzare l’ospitalità della gente. Da un piccolo incidente si possono fare incontri che rimangono tra i ricordi più belli del viaggio. Un fossato e una fila di pioppi ci dividono da una bassa costruzione di mattoni di fango. Il portone di legno scolpito si apre sulla corte ombreggiata dalla vite: la padrona di casa ci fa cenno di entrare con un largo sorriso. Beviamo l’acqua offerta, mentre arrivano i ragazzini e ci circondano curiosi. Non è necessario parlare la stessa lingua, per capirsi. Proseguiamo poi per il villaggio di Igor, il nostro autista, dove troviamo ospitalità per il ragazzo francese infermo.
La moglie di Igor è una maestra di origine russa. La casa è di mattoni crudi di fango a un solo piano. L’interno è fresco e arioso, con la stanza dei giochi, il televisore e tanti tappeti sul pavimento, che danno un tono di benessere alla famiglia.
«Ci siamo trasferiti da pochi anni da Kazan, la capitale del Tatarstan, – ci spiega Olga -, una città in mano alla mafia e alla delinquenza. Abbiamo accettato il lavoro in questo tranquillo villaggio e siamo molto contenti». Intanto arrivano i vicini, attirati dalla visita inaspettata di noi turisti. Il paese si sta aprendo da poco ai visitatori, anche se gli interessi stranieri sono già ben radicati, come vedremo ad Ashkabad, la capitale.

F inalmente arriviamo al sito archeologico di Khonye Urgench. Chi potrebbe immaginare che il tessuto di seta più bello e sottile, l’organza, trae il suo nome da questo paese? Ormai da giorni percorriamo l’antica via della seta, tuttora segnata da file di gelsi: qui passavano le carovane che collegavano l’Estremo oriente all’Europa.
Rasa al suolo dalle truppe di Gengis Khan, Khonye Urgench fu la capitale dei turchi selgiuchidi, il cui impero andava dall’Oxus (l’Amu Darya, che abbiamo attraversato in Uzbekistan) al Mediterraneo.
Architetti geniali, lasciarono nei loro territori una ricca eredità culturale. Il governo turkmeno ha avviato da qualche anno i lavori di restauro degli edifici antichi: moschee, mausolei e madrase, che sono sparsi in un’area molto vasta.
Arriviamo che il sole è già alto, implacabile, caldissimo. Le cupole azzurre sono state quasi interamente ricostruite; ma qui manca la frescura dei cortili e dei pergolati di Bukhara e Samarkanda.
Cammino su quello che, nel 12° secolo, fu il campo di battaglia dei mongoli di Gengis Khan, che punirono l’insolenza di chi aveva tradito e aveva rifiutato la resa. Muhammad II si credeva troppo forte e rispose con disprezzo alle offerte di amicizia del capo mongolo. Il vuoto che ora circonda i preziosi resti e le tombe dei sovrani selgiuchidi denuncia l’abbandono successivo alla seconda e ultima distruzione, attuata da Tamerlano, che vedeva nella risorta Khonye Urgench una rivale della sua Samarkanda.
I russi arrivarono qui già in epoca zarista. Dopo molti tentativi falliti di conquista armata, la Russia riuscì a penetrare nel territorio delle bellicose tribù turkmene, inviando famiglie cosacche di coloni che si insediarono lungo il tracciato della ferrovia in costruzione. Fu quindi la ferrovia il mezzo usato per poter conquistare l’impero del Centro Asia. Si arrivò così facilmente all’annientamento della forte resistenza dei tekkè, e delle altre tribù nomadi che si opponevano all’invasione. In epoca sovietica arrivarono coloni e maestranze a migliaia da Russia e Ukraina.

A rriviamo stanchi, dopo giorni e giorni di viaggio in pullman. Troviamo pure un pezzo d’Italia nella capitale più sconosciuta che abbia visitato. Infatti chi conosce Ashkabad? Chi sa dove si trova?… Certo, così non me l’aspettavo. Avevo già sorriso davanti a monumenti e manifesti con le immagini di Assad (Siria), Gheddafi (Libia), Saddam (Iraq). Sapevo che anche quello turkmeno è un regime autoritario e che il capo è sempre lui, il turkmenbashi, il «capo di tutti i turkmeni»: Saparmuryad Niyazov, il presidente-dittatore di stampo sovietico che riesce a farsi rieleggere, sempre con una maggioranza altissima.
I monumenti che si è fatto erigere sulle piazze e agli incroci sono luccicanti d’oro e sovente sono sormontati da una corona imperiale. Vorrei fotografae uno, ma è proibito e qui la polizia fa presto a materializzarsi. Ti sequestrano la macchina fotografica e ti portano subito in questura. Abbiamo avuto già l’esperienza di un amico, trascinato via dai poliziotti perché sorpreso mentre si accendeva una sigaretta. È anche proibito fumare, ovunque.
Ovviamente i partiti d’opposizione sono fuorilegge, mentre il paese rimane il più arretrato tra le repubbliche centro-asiatiche. Dove vanno i proventi delle sue immense risorse?
La capitale è una strana città, con un bel mercato dove si trovano in vendita, oltre a frutta, verdura e mercanzie varie, i tappeti annodati delle tribù nomadi. Espressione di un’antica cultura, i loro disegni non sono solo decorativi, ma simboli di comunicazione tribale. Hanno teso le corde e li hanno appesi al sole, nella polvere per farceli vedere. La lana è quella delle pecore della tribù, tinta con i colori naturali delle erbe raccolte dalle donne, secondo procedure tramandate da generazioni. I colori sono scuri, il nero e il rosso, che richiama il culto del fuoco. Il motivo ricorrente è il gul, fiore, soggetto araldico di una tribù o famiglia. Cerco di individuare le tracce dei simboli solari, zoroastriani: la ruota della fortuna, le 5 lune, le stelle a 8 punte.
Siamo sulla via della seta e noto che alcuni tappeti, tessuti con prezioso filo, portano i disegni del bozzolo e del baco. I turkmeni hanno da poco abbandonato l’organizzazione tribale nomade, che aveva loro consentito l’indipendenza sino alla fine del 19° secolo. Ciascuna famiglia o tribù aveva un totem, costituito da uccelli, animali e piante, riprodotto sul tappeto, la cosa più importante per un turkmeno.
«Dove è il mio tappeto è la mia casa» si diceva. Ora il significato dei segni è difficile da decodificare, forse oggi neppure le artigiane dei tappeti li conoscono. È un’antica lingua pittografica, un testo storico stilizzato e misterioso. Lascio questo settore affascinante del bazar e seguo i gruppi di donne che fanno la spesa: indossano eleganti costumi in velluto devouré e un copricapo da cui a volte scende sulle spalle un velo colorato, largo come una mantiglia. Alcune sono disposte a vendermi le spille e i giornielli rustici che indossano e le loro borsettine ricamate da piccoli punti brillanti.
Un contrasto forte con questo settore della capitale si trova nei quartieri di tipo sovietico e in quelli nuovissimi voluti dal presidente. Una strana architettura neoclassica, che pare lo sfondo in cartapesta di qualche improbabile film. Poi c’è la strada degli alberghi, nuova, tagliata nella periferia: solo alberghi uno in fila all’altro, di cui due sono italiani.
Gigi non ha perso l’accento emiliano e neppure il gusto della cucina di casa. Quando è approdato ad Ashkabad, dopo aver girato il mondo come imprenditore alberghiero, ha deciso di creare una cosa un po’ speciale. Una struttura modea in una città dove mancavano gli alberghi di stile occidentale, con una bella piscina di 25 metri con trampolino e il tappeto verde tutto intorno. Il tocco esotico lo si trova solo nei negozi interni di artigianato artistico. Certo fa piacere gustare le lasagne e il prosciutto di Parma quando si è lontani da casa.
«Il clima è splendido: caldo secco in estate, che non da fastidio; l’inverno è relativamente mite. I problemi sono altri». Gigi è diplomatico e non vuole sbilanciarsi troppo: qui deve vivere e lavorare. Pare sia ben voluto anche dal presidente.

I l museo è monumentale, nuovissimo e ricco di reperti preziosi, in maggioranza di arte ellenistica, sintesi armoniosa della cultura delle tribù nomadi e di quella greca, portata da Alessandro Magno. Molti oggetti, tra cui i raffinati Ritha, provengono da Nisa, la capitale dei parti, i cui resti si trovano a pochi chilometri. Tutto il paese è cosparso di testimonianze del ricco passato della regione, abitata fin dal neolitico, da sempre attraversata da eserciti e commercianti. Nei primi secoli della nostra era, questa regione consumava la maggior quantità di seta, il prezioso filato che veniva dalla Cina.
A Nisa lavora un gruppo di archeologi italiani, che non riusciamo purtroppo ad incontrare. Alessandra Peruzzetto, dell’Università di Torino, è una giovane, appassionata studiosa torinese che ora sta scavando in un sito in riva al Caspio.
Un volo breve su un vecchio Antonov sovietico ci porta presso Merv, l’oasi di Zoroastro, conosciuta al tempo di Alessandro come Alessandria Margiana. La sua millenaria storia sembra inghiottita dalla sabbia del Karakum, dove muore anche il Murghab, il fiume che scende dai monti afghani.
Sembra impossibile che in questa distesa desolata sorgesse, intorno all’anno 1000, una metropoli di importanza culturale e commerciale dello stesso livello di Baghdad, il Cairo o Damasco. Solo il vasto perimetro di mura di fango, sfatto dal tempo, ci dà l’idea della grandezza che il sito aveva prima che Gengis Khan lo radesse al suolo. Unico edificio superstite, il gigantesco mausoleo selgiuchide del sultano Sanjar che, con la sua maestosa architettura a doppia cupola, anticipò di 300 anni il Brunelleschi.
Nella vicina casetta di mattoni crudi vive l’unico abitante della zona, il custode con la sua famiglia. Beviamo il tè dell’ospitalità seduti sulle stuoie che ricoprono il pavimento, in compagnia della nonna e della moglie che sta allattando l’ultimo nato. Sulle pareti sono appesi i simboli portafortuna, che scacciano gli spiriti del male, tipici della gente del deserto.
L asciamo il paese con un volo per Francoforte. Accanto a me una famiglia di turkmeni di origine russa. Ivan è un ingegnere che parla un perfetto inglese, nato ad Ashkabad: ha studiato in Germania e si occupa di informatica. Gli affari lo riportano talora in patria, dove ancora vivono genitori e nonni.
«Le scuole in questo paese sono molto scadenti, a parte quelle private della capitale, frequentate dai figli dei ricchi e degli stranieri», mi dice. I suoi ragazzi li farà studiare in Germania, dove conta di continuare a vivere.

POCO GAS MOLTA VODKA

Tashkent era un’antica città carovaniera, prima del terremoto. Circondata da mura, le case di mattoni crudi, era attraversata da canali ricchi d’acqua. Dopo la distruzione, fu ricostruita dai sovietici seguendo lo schema tipico dell’urbanistica delle capitali dell’Unione. Grandi viali e parchi ricchi di prati e alberi ombrosi, dove oggi si vedono pascolare pecore e montoni: un’ottima soluzione per affrontare questi tempi duri. Sono passati due anni dalla mia prima visita, ma la situazione economica del paese non è certamente migliorata e vedo che la gente si arrangia come può.

Cinque ore di bus attraverso la campagna coltivata a cotone, con una sosta al mercato dei nomadi. Vanno e vengono sui loro muli, e indossano ancora i costumi tradizionali: gli uomini col lungo cappotto di velluto blu e il turbante multicolore, le donne hanno le vesti rosse sopra i larghi calzoni di seta a righe. Alcuni arrivano su vecchissimi sidecar.
Dobbiamo anche attraversare un pezzo di territorio kazako, dove i cavalli pascolano nei prati fioriti di una primavera già calda.
All’arrivo a Samarkanda, trovo ad aspettarmi l’amica Ludmilla. L’abbraccio e mi mancano le parole. Fatico a riconoscere la bella donna, energica e polemica, che solo due anni fa mi aveva accompagnato nella mia prima visita. Ludmilla è stata molto male. È stata operata e il suo fisico porta i segni della sofferenza. Mi si stringe il cuore. Me lo dirà più tardi, spiegandomi che ormai in Uzbekistan i vecchi ospedali, pur numerosi, non funzionano. Mancano attrezzature e farmaci, il paese è allo sfascio. Avevo creduto nella sua speranza di un miglioramento, dopo i primi caotici anni del dopo URSS. Invece la situazione è precipitata. Non c’è lavoro, i prezzi sono alti e la gente non ha neppure i soldi per pagare il gas del riscaldamento. Così il governo lo ha tagliato, con gli invei rigidissimi che ci sono. E questo è un paese produttore di gas e petrolio.
Ludmilla è nata qui, ma i suoi genitori, insegnanti ucraini, furono mandati dal governo dell’URSS in Asia centrale negli anni ’30. Bisognava aiutare le popolazioni locali ad istruirsi e svilupparsi: migliaia di tecnici e insegnanti furono «invitati» a trasferirsi quaggiù. Ludmilla ha un unico figlio, che lavora a Mosca come meccanico. Il viaggio in aereo è troppo caro per fargli visita e ormai sono due anni che non lo vede. Questa lontananza la fa molto soffrire e si sente sola, con un marito che le crea molti problemi.
L’uomo, frustrato per la mancanza di lavoro, si è dato al bere, come molti in questo paese. La vodka qui la vendono in latteria, in bottiglie uguali a quelle dell’acqua minerale, e costa pochissimo. Ludmilla è una donna intelligente e volitiva. Ha studiato l’italiano da sola e lo parla perfettamente. Ha visitato l’Italia per la prima volta quest’anno, per pochi giorni. Ora il sogno di Ludmilla è di poter partire, trasferirsi nel sud della Siberia, presso la città di Omsk. In quella terra sconfinata e poco abitata non c’è la violenza e il crimine di Mosca e di altre città russe. La vita è tranquilla, meno cara e pare non faccia poi così freddo.
C. C.

Claudia Caramanti




COLOMBIA – Grilletto Facile

Guerriglia, narcotraffico, paramilitari, delinquenza comune… All’origine di tutto c’è il sistema perverso dell’economia mondiale. Accompagnate dai missionari, le popolazioni indigene e contadine del Cauca (Colombia) si oppongono a tali forme di violenza con l’organizzazione popolare, difendendo il diritto alla terra e al rispetto delle proprie tradizioni culturali.

A El Nilo, località situata sulle pendici delle Ande, il 16 dicembre 1991, uno squadrone della morte, con la collaborazione e protezione della polizia locale, ha trucidato 20 giovani indios, 3 donne e 17 uomini, riuniti insieme ad altri per progettare la gestione delle terre da poco recuperate.
Il tempo ha cancellato l’eco internazionale dell’eccidio e il ricordo delle condanne dei responsabili , come capita spesso quando sono i poveri a morire; ma ne rimane vivo il messaggio, scritto insieme ai nomi dei martiri sul muro bianco di un edificio diroccato: «Le vostre vite stroncate sono le pietre vive della nostra comunità».
Non tutti sono sepolti in quel luogo, dove l’erba è soffice e il filo di recinzione impedisce alle mucche di pascolarvi liberamente. Lo sguardo spazia sulle montagne, pendii e pianura: meditazione e preghiera sgorgano spontanee dal profondo dell’anima; il silenzio avvolgente pare messaggero di pace, ma non è così.
Questo sguardo d’insieme valica le montagne ed entra nei palazzi del potere, dove è stato deciso il Plan Colombia: investimenti clamorosi per 1.300 milioni di dollari, con cui gli Stati Uniti, col pretesto di combattere il narcotraffico, stanno introducendo nel paese militari specializzati per controllare il territorio e difendere ricchi e privilegiati.
Per ora l’Europa pare incerta. Speriamo che tale incertezza non nasconda oscure complicità o pilatesche neutralità, ma si trasformi presto in una ricerca di dialogo e collaborazione attiva con quella parte della società colombiana impegnata nella giustizia, legalità e diritti umani.

SOFFOCATI DALLA VIOLENZA
Avverto profonde sintonie con i padri Antonio Bonanomi ed Ezio Roattino, due amici, missionari della Consolata di cultura e spiritualità, coscienza lucida e coerenza trasparente. Insieme a un’équipe di altri preti, laici, religiose, essi condividono progetti, difficoltà, durezze e speranze degli indios nasa, una popolazione di 120 mila persone sulla cordigliera centrale delle Ande, nella regione sud-occidentale del paese.
«Questo popolo – spiega padre Antonio – vive una profonda memoria mitica, nella quale interpreta avvenimenti e persone, fra cui le grandi figure che ne hanno segnato la loro storia. Una di esse è padre Alvaro Ulcué, prete indio ucciso nel 1984. Anche per noi egli è un costante riferimento dell’uomo nuovo che, alla luce di Cristo liberatore, riprende il processo storico per costruire una nuova comunità. Per gli indios è lo stesso Spirito che si incarna in queste figure di profeti, liberatori, salvatori, nelle fasi di resistenza, ribellione e speranza».
Padre Antonio si fa triste e perplesso quando gli chiedo una valutazione sulla situazione della Colombia. «Dieci anni fa, avrei risposto in modo più positivo. Nella società civile di allora, insieme al conflitto, c’erano spazi di movimento, elaborazioni e scelte. Tali spazi, oggi, sono venuti meno. Ci sentiamo soffocati dalla violenza, che colpisce soprattutto i civili. I paramilitari, cresciuti nell’esercito, uccidono in modo diffuso e terribile le persone sospettate di sopportare o fare parte della guerriglia. I guerriglieri uccidono i simpatizzanti dei paramilitari; sono diventati prepotenti; pare che abbiano perso gli ideali originari di lotta per la giustizia e mirino solo al potere. Lo affermo con cognizione di causa, avendo avuto colloqui con loro che, pur non condividendo il nostro lavoro, lo apprezzano.
Poi ci sono la violenza legata al narcotraffico e la delinquenza comune, alimentata da una crisi economica spaventosa e da una grande disoccupazione. La situazione, quindi, è molto difficile. Ciò non sminuisce il nostro impegno quotidiano con le comunità, sostenendo il movimento indigeno, che pretendono e difendono l’autonomia nelle decisioni che riguardano la loro vita. Parlo di autonomia, non di neutralità, che è impossibile e rifiutata dalla gente. Tale sforzo può sembrare un’utopia, eppure il cammino continua. Da parte nostra occorrono costante formazione delle coscienze e partecipazione attiva ai progetti, impegni e verifiche».
Quando chiedo che senso abbia continuare a essere missionario in una situazione del genere, padre Antonio insiste sull’importanza di entrare in profondità negli spazi, luoghi e tempi delle persone e delle comunità, del contributo per costruire una chiesa dal cuore e volto indio.
Indicando una nuova costruzione appena terminata, il missionario aggiunge: «Sono strutture semplici ed essenziali, destinate agli incontri comunitari, anche di lunga durata, per riflettere sulla fede, cultura, spiritualità india alla luce liberatrice del vangelo di Cristo».
PADRE ALVARO… VIVE
A poca distanza da Toribio, sorge un centro scolastico e culturale, destinato all’istruzione di 600 giovani, incontri di formazione per adulti e assemblee di vario genere.
Costruita con i contributi della Comunità Europea e altri organismi di solidarietà, la struttura si autogestisce finanziariamente: i percorsi formativi, infatti, includono allevamento di bestiame, galline e pesci; coltivazioni di caffè, banane e ortaggi, destinati al sostentamento di alunni e insegnanti.
Nel settembre 2000, la popolazione indigena ha celebrato i 20 anni del «Progetto Nasa», iniziato nel 1980 da padre Alvaro Ulcué, che ne ha indicato anche obiettivi, criteri e metodi di operazione. Si tratta di un progetto culturale fatto di lavoro, resistenza, lotta, organizzazione e progettazione comunitari.
L’anniversario ha offerto l’occasione per valutare, verificare e rilanciare i progetti, con la costante ricerca di conciliare i valori tradizionali con le novità imposte dalle sfide e insidie della modeizzazione.
Padre Ezio Roattino mi guida a Pueblo Nuevo, paese natale di padre Alvaro. Sostiamo in preghiera davanti alla sua tomba. Il missionario rievoca il senso della vita e della morte di questo profeta, la presenza sempre viva nelle comunità e le parole ridette in ogni assemblea: «Pensate con profondità, studiate con impegno e passione, lottate con coraggio, siate persone di valore».
Nei lunghi colloqui durante i viaggi di trasferimento, padre Ezio ribadisce le preoccupazioni di padre Antonio sulla situazione colombiana. Come contrastare tante e continue uccisioni e violenze contro la popolazione civile? Combattere la violenza con la violenza aumenterebbe solo il caos, continua il padre pensando ad alta voce; l’ipotesi della violenza come situazione estrema per abbattere il tiranno è impraticabile in una situazione storica così complessa: se è facile individuare il tiranno nel neoliberismo, nelle multinazionali, nel latifondismo, è difficile muoversi fra tutti i soggetti armati. L’autonomia dei popoli indigeni può sembrare un’ingenuità, ma è un cammino di realismo, l’unico tentativo valido di liberazione dalla violenza.

CHI SONO I DEBITORI?
Padre Ezio passa all’analisi del debito estero, cominciando dall’espropriazione dei nomi originali, sostituiti con quelli europei: America da Amerigo Vespucci, Colombia da Cristoforo Colombo.
Lo sviluppo del mercantilismo, poi del capitalismo, in Europa e Usa ha provocato il saccheggio di manodopera e materie prime in quantità impressionante: è l’Occidente in debito nei confronti degli indigeni latinoamericani. Ed è enorme, se si aggiungono le decine di milioni di persone oppresse o eliminate, i milioni di schiavi neri, importati come manodopera a buon mercato.
È questo il debito che, iniziato da oltre 500 anni, dovrebbe essere smascherato con più evidenza alla luce profetica della bibbia e del grande Giubileo, proclamato ma non attuato come severo vincolo storico di restituzione.
Il diritto internazionale non detta all’economia le regole dell’equità e della giustizia che la vita di questi popoli esige. Siamo in un circuito perverso: i governi di paesi nel Sud del mondo sono debitori a Europa, Usa, banche: devono pagare gli interessi per uno sviluppo che non è stato tale; anzi, si è risolto in un continuo impoverimento; non riuscendo a pagarli, il debito aumenta sempre più, determinando una condizione di soffocamento.
Bisognerebbe ribaltare completamente la prospettiva: l’Europa e gli Usa dovrebbero restituire ai paesi amerindi le immense ricchezze rubate con la forza; e sarebbe solo un parziale risarcimento materiale, perché la negazione delle diversità culturali e religiose richiedono un lungo cammino di liberazione dalla logica del dominio; i milioni di vite umane eliminate resteranno sempre una drammatica domanda aperta all’imperdonabile ed omicida presunzione.
Sono frammenti dei lunghi dialoghi con padre Ezio, uomo ricco di umanità e spiritualità, minacciato, qualche tempo fa, perché pienamente inserito nei processi delle comunità indigene.
Per celebrare l’anno santo ha proposto che le mete giubilari per gli indios nasa fossero la tomba di padre Alvaro, luogo sacro per la spiritualità indigena, dove è stata collocata una grande pietra simbolica; El Nilo, dove sono stati massacrati i 20 giovani, e la cattedrale di Popayan, come centro della celebrazione eucaristica. Tre luoghi strettamente legati alla profezia, al martirio e ai valori della fedeltà. E non si è parlato di indulgenze, ma d’impegno per rinnovare le comunità, con missioni sulle montagne, affidate a donne e uomini provenienti da luoghi diversi.

LA RADICE DELLA VIOLENZA
A Popayan incontro gli amici della Fundacion Aurora e del sindacato degli insegnanti Asoinca. La prima è un’iniziativa comunitaria a cui partecipano rappresentanti di organizzazioni di quartiere, ecclesiali, contadine e indigene. Impegnata nella prevenzione e lotta alla violenza, la fondazione si muove in varie direzioni. Sotto l’ispirazione e guida delle tradizioni e culture autoctone, essa promuove lo studio e la conoscenza dei diritti umani nella famiglia, scuola, organizzazioni comunitarie. Raccoglie documenti e notizie su conflitti armati, sparizione di persone, uccisioni, sfollati, condizione di indigeni e contadini e altre violazioni dei diritti fondamentali, per poi diffonderle attraverso organismi nazionali e inteazionali.
La fondazione, inoltre, cerca di rafforzare le organizzazioni comunitarie, sostenendo progetti di produzione, distribuzione e consumo per combattere le coltivazioni illecite, promuovendo l’autogestione delle stesse comunità, nell’ambito di uno sviluppo sostenibile che integri produzione e difesa delle risorse naturali e dell’ambiente.
Nella sede dell’Asoinca è appesa una lista impressionante di nomi: 187 persone hanno ricevuto minacce di vario genere; 28 sono state assassinate tra il 1985 e 1999; numerosi sono i maestri uccisi nel 2000.
L’impegno del sindacato degli insegnanti consiste nell’essere presenti nelle comunità, organizzazioni popolari e contadine. Ma la situazione è preoccupante: nei primi sei mesi del 2000 tredici insegnanti sono stati uccisi dall’esercito e dai paramilitari. Ricatti e violenze continuano contro coloro che sono direttamente e apertamente impegnati nel sindacato.
Incontro un prete italiano incaricato del cornordinamento delle associazioni italiane impegnate in iniziative e progetti di sviluppo nella regione del Cauca. Chiedo anche a lui un giudizio sulla situazione del paese. «La Colombia è la pietra di paragone per capire la strategia dei poteri economici e finanziari per controllare tutte le risorse naturali del pianeta. Il capitale non guarda in faccia nessuno: né alle popolazioni né all’ambiente; i governi nazionali non contano nulla: sono burattini manovrati; l’Onu e altri organismi inteazionali sono impotenti, talora legati ai capitali. È questa violenza macroscopica, che si vuole ignorare, la causa della violenza sociale sistematica sulle persone così diffusa in Colombia e in altri paesi latinoamericani. Ad opporsi a tale processo mostruoso restano comunità e organizzazioni che non hanno nulla da perdere e che sono le più esposte e colpite».

TERRORE DILAGANTE
Gli amici di Popayan ribadiscono quanto ho sentito da padre Antonio e padre Ezio: la minaccia dei paramilitari, o «Gruppi uniti di autodifesa» come si proclamano, diventa sempre più preoccupante. Nel maggio 2000 hanno solennemente annunciato la loro presenza organizzata in tutta la regione del Cauca.
Questi gruppi armati sono sostenuti logisticamente e operativamente dall’esercito. Con la motivazione ufficiale di combattere la sovversione, entrano nelle zone ricche di risorse naturali o in posizioni strategiche per appropriarsene o per aprire la strada ai megaprogetti delle multinazionali. Terrorizzano le popolazioni, indios e campesinos, uccidendoli e scacciandoli dalle loro terre. Minacciano sindaci, leaders popolari, insegnanti, sindacalisti e quanti sono impegnati nella difesa e promozione dei diritti umani.
Lo stato afferma che combattere il fenomeno dei paramilitari non fa parte del suo programma politico; in pratica, però, tale inerzia si traduce in connivenza con le multinazionali e in copertura del diffusissimo sistema di impunità.
I paramilitari entrano anche nell’attuazione del Plan Colombia, che impone la fumigazione delle piantagioni di coca con un fungo micidiale: questo non distrugge solo le foglie di coca o di papavero, ma attacca tutto ciò che trova, producendo effetti collaterali devastanti e ancora imprevedibili. I contadini sono costretti ad abbandonare i loro campi o, nel migliore dei casi, diventano braccianti sottomessi ai padroni dei terreni di cui erano proprietari.

UN PRETE SULLA MONTAGNA
Gli amici di Fundacion Aurora mi portano nel sud del Cauca. Lasciata l’auto a Sucre, continuiamo il viaggio a cavallo e a piedi, fino a raggiungere la comunità di Tequendama: 12 famiglie con 105 persone, che da tre anni si sono organizzate in cornoperativa per lavorare la terra data loro in comodato, utilizzando metodi di produrre tradizionali.
Parte del tempo è impiegato nel lavoro comunitario, parte per coltivare l’orto familiare. Hanno tutti il fermo proposito di non abbandonare la terra, di non lasciarsi condizionare e fagocitare dal mercato, di conservare i semi naturali per la produzione. Una casa per incontri comunitari è in costruzione con canne incastrate in modo perfetto.
Gli uomini mostrano con orgoglio la «loro» canna da zucchero, piante di caffè che possono resistere 80 anni, il terriccio del sottobosco custodito gelosamente, perché ricco di alimenti. Il volto di una giovane contadina s’illumina di orgoglio mentre descrive i vari prodotti che crescono nell’orto sperimentale.
A sera, scrivo sul diario: «Passa un prete (sono io) su questa montagna, dove i preti non salgono mai. Uno arriva fino a Sucre, celebra i riti e se ne va. Un uomo mi dice che darà il mio nome al suo bambino; una donna mi chiede una preghiera; un’altra la benedizione di un po’ d’acqua e l’aspersione di persone e ambiente. Un medico tradizionale cerca di guarire un’ammalata. Prima della preghiera e delle benedizioni dico “qualcosa”: che sono fra loro per ascoltare; che Dio è unico, chiamato con nomi diversi; che noi europei abbiamo preteso di imporre loro il nostro Dio, confondendolo con i nostri concetti e riti; che sto imparando da loro come Dio parli attraverso la creazione, gli spiriti, le persone; che l’acqua è vita, segno di purificazione, cambiamento e ripresa; che preghiera e benedizione ci aiutano a camminare accompagnati da Dio e accompagnandoci tra noi, come figli dello stesso Padre».

Paolo Moiola