Quando non si scherza

Amnesty inteational un rapporto-denuncia su 144 paesi

Non si scherza con i diritti umani, non solo nelle aree di conflitto, ma anche nelle operazioni di «peace keeping» e «peace building».
Secondo le Nazioni Unite, circa 200 milioni di persone nel mondo sono ridotte
in schiavitù, sfruttate in lavori infimi, abietti e pesanti;
e la tratta di esseri umani aumenta ad un tasso del 40-50% l’anno.
Se i governi credono nella giustizia, specialmente per le popolazioni povere,
non devono permettere che i soprusi abbiano il sopravvento.

PULIZIA ETNICA
O BOMBARDAMENTI?

Molte le popolazioni che nel 2000 hanno subìto repressioni. E non sono poche le nazioni in cui carcerazioni, torture e omicidi (soprattutto per motivi politici) sono stati commessi dai governi, per mantenere il loro potere. Si è così accentuato il divario tra «ricchi» e «poveri», innescando proteste sfociate in violenza.
È questa, in sintesi, l’introduzione al Rapporto annuale (2000) di Amnesty Inteational (A.I.). Si tratta del consueto appuntamento con 144 paesi e le preoccupazioni di milioni di persone che, ogni giorno, subiscono umiliazioni e abusi. Ecco invasioni e bombardamenti, che tentano una giustificazione proprio in nome dei diritti umani: giustificazione che è al centro di dibattiti sia tra i movimenti umanitari inteazionali sia tra gli esponenti delle Nazioni Unite.
Nel 1999 il dibattito si è concentrato soprattutto sugli interventi militari in Kosovo e Timor Est, giustificati per proteggere i civili dalle brutalità delle autorità politiche locali, e sul «silenzio» della comunità mondiale circa i bombardamenti russi in Cecenia.
«Noi riteniamo opportuno il dibattito – spiega Pierre Sané, segretario generale di Amnesty Inteational -, perché sono in gioco le vite e il futuro di milioni di persone. Ma, anche se siamo lieti per il dibattito, non accettiamo i termini in cui viene generalmente posto: invasione o non-azione non dovrebbero essere le uniche due opzioni possibili. La pulizia etnica o i bombardamenti: questa è una scelta che un attivista per i diritti umani non dovrebbe mai fare. Noi sosteniamo che le crisi dei diritti umani possono e debbono essere prevenute, poiché non sono assolutamente inevitabili».
Pur non respingendo l’uso della forza e affermando che la legge deve essere applicata, A.I. chiede ai governi di proteggere le persone dalle violazioni dei diritti umani e di consegnare i colpevoli alla giustizia.
Dalla Cina alla Russia
I governi che approvano l’intervento armato straniero in un paese lo fanno per motivi morali.
Pierre Sané ricorda che il presidente degli USA, Bill Clinton, ha giustificato i bombardamenti della Nato su Belgrado, perché il voltare le spalle alla pulizia etnica sarebbe stato «un disastro morale e strategico». Altri fautori degli interventi estei ricordano gli sviluppi della legislazione internazionale: per esempio, la Carta delle Nazioni Unite permette al Consiglio di Sicurezza di prendere misure coercitive, anche militari.
I governi contrari a questa tesi si basano sui principi di «sovranità nazionale» e di «non interferenza» negli affari interni di un paese. La Cina, ad esempio, si batte perché i diritti umani non siano sottoposti al controllo internazionale. «Noi – ha detto un portavoce del governo di Pechino in risposta alle critiche sullo scarso rispetto dei diritti umani – ci opponiamo a un tale atto di interferenza negli affari interni di un altro paese».
La Russia sostiene che i suoi bombardamenti sui civili in Cecenia sono un affare interno.
Sulla medesima posizione è Abdelaziz Bouteflika, presidente dell’Algeria e dell’Organizzazione dell’unità africana. Questi compara l’intervento internazionale all’irruzione nella casa del vicino, perché (si dice) che un bambino sia stato picchiato dai genitori. «Questa – ha affermato – sarebbe una grave violazione della libertà. Nuove teorie vengono tirate in ballo soltanto per privare i popoli e gli stati della loro sovranità internazionale».
Il dibattito è costante con l’obiettivo comune di reagire alle tragedie umane, quali gli omicidi di massa e le amputazioni in Sierra Leone, le uccisioni etniche in Afghanistan, le deportazioni nell’ex Jugoslavia o a Timor Est. «Per gli attivisti di Amnesty Inteational – sottolinea il segretario Sané – il dibattito è acceso dall’angoscia per le sofferenze dei paesi divisi da conflitti armati o dal collasso delle strutture di governo; ma soprattutto dalla frustrazione, perché le tecniche tradizionali di A. I. (che riguardano singole vittime) non sembrano essere efficaci in situazioni caotiche e di fronte ad abusi commessi su larga scala».
La guerra in Kosovo
Nel marzo 1999 nell’ex Jugoslavia la situazione dei diritti umani è degenerata in una crisi internazionale. La Nato ha condotto attacchi aerei contro obiettivi della Serbia, dopo il fallimento degli sforzi politici per porre fine al conflitto tra le forze governative e l’Esercito di liberazione del Kosovo. I bombardamenti della Nato hanno causato notevoli violazioni dei diritti umani: sono state allontanate circa 750 mila persone, con una marea di rifugiati a livello regionale, cui sono seguite uccisioni, sparizioni, torture e stupri verso donne albanesi.
I membri di A.I. si sono mobilitati in tutto il mondo: hanno reso pubblici i fatti; hanno chiesto ai governi di intervenire per porvi fine, di assicurare alla giustizia i colpevoli e di garantire protezione ai rifugiati; ma hanno anche espresso preoccupazione per la mancanza di misure, da parte della Nato, per ridurre le uccisioni di civili e la possibile violazione delle regole di guerra, nonostante che siano emerse numerose prove di abusi dei diritti umani in terra kosovara.
Timor est e indonesia
Alla fine di agosto 1999 il 98% dei timoresi orientali, aventi diritto di voto, l’ha esercitato nella consultazione promossa dalle Nazioni Unite per definire il futuro del territorio. Dal 1975, allorché l’Indonesia occupò illegalmente Timor Est, la popolazione ha dovuto affrontare una repressione brutale: almeno un terzo degli abitanti è stato eliminato.
In seguito all’aumento della violenza, A.I. ha mobilitato il suo milione di membri per esercitare pressioni sulle autorità indonesiane. I governi hanno bloccato il commercio di armi, l’addestramento militare e, nel settembre 1999, le Nazioni Unite hanno dispiegato una forza multinazionale guidata dall’Australia. Allorché le truppe sono arrivate – si legge nel Rapporto di A.I. -, la maggior parte dei timoresi era già fuggita o era stata espulsa con la forza; al loro ritorno i rifugiati hanno dovuto affrontare la distruzione del tessuto sociale e delle infrastrutture essenziali.
A.I. si è prodigata per combattere l’impunità, sostenendo i difensori dei diritti umani di Timor Est e foendo protezione ai rifugiati, criticando pubblicamente il ritardo nello spiegamento di truppe da parte della Commissione di inchiesta delle Nazioni Unite.

IL CASO PINOCHET
In Cile i parenti dei desaparecidos per via extragiudiziaria, durante il governo militare del generale Augusto Pinochet, attendono ancora di sapere cosa è successo ai loro cari. Anche migliaia di individui, vittime di arresti arbitrari, torture ed esilio, aspettano di ottenere giustizia, mentre resta impunita la maggior parte di coloro che, approfittando del ruolo rivestito nell’apparato statale cileno, hanno ordinato e compiuto violazioni dei diritti umani tra il 1973 e il 1990.
È ancora nella memoria di molti quell’11 settembre del 1973, quando il generale Pinochet guidò un sanguinoso colpo di stato e la sua giunta militare si distinse nella repressione: le garanzie costituzionali vennero sospese, il parlamento fu sciolto e in tutto il paese fu dichiarato lo stato d’assedio. La tortura fu sistematica e le «sparizioni» una pratica ufficiale.
Nel novembre 1974 A.I. pubblicò il primo rapporto sulle gravi violazioni dei diritti umani in Cile e, in seguito, produsse altre centinaia di documenti e appelli in favore delle vittime, appoggiando la battaglia delle famiglie dei desaparecidos nella ricerca della verità e giustizia. Il destino della maggior parte di essi resta sconosciuto; però esistono prove secondo le quali gli «scomparsi» sono stati vittime di un programma governativo, teso ad eliminare tutti i potenziali oppositori.
La lotta all’impunità di Pinochet è iniziata nel luglio 1996, con la presentazione al tribunale spagnolo delle prime denunce, sino ad arrivare al dicembre 1999, quando due giudici dell’Alta Corte hanno fissato al marzo 2000 l’udienza per l’appello del militare cileno contro la sentenza del giudice Bartle. Oggi il generale è in Cile in attesa di giudizio.
bambini-soldato
Quasi tutti i governi non hanno mantenuto le promesse di protezione speciale per i bambini. In tutto il mondo i minori non solo continuano a subire molti degli stessi abusi patiti dagli adulti, ma sono anche vittime di particolari infamie, perché più vulnerabili e dipendenti da altri.
Esistono oltre 300 mila ragazzi, sotto i 18 anni, che fanno la guerra: di questi oltre 120 mila sono coinvolti nei numerosi conflitti in Africa.
Inoltre, secondo stime dell’Onu, superano i due milioni i bambini oggetto di abusi sessuali, per un giro d’affari di oltre 5 miliardi di dollari: il solo mercato delle cassette poografiche frutta oltre 280 milioni di dollari. A.I. ha partecipato a iniziative nazionali e inteazionali, come la Conferenza panafricana sull’impiego dei bambini-soldato, nel corso della quale è stato previsto un Protocollo opzionale che elevi l’età minima per un soldato a 18 anni. La campagna di A.I. sui diritti dei bambini si è attivata con lo slogan «Diritti dei bambini: il futuro inizia qui», dando risalto al concetto che i diritti dei bambini sono una pietra miliare per costruire una solida cultura di pace per le generazioni future.
donne: «delitti di onore»
I diritti delle donne sono centrali nell’azione di A.I., che ha lanciato campagne contro le violazioni dei diritti femminili in Stati Uniti, Pakistan e Brasile.
Milioni di donne in Pakistan, ad esempio, sono limitate dalla tradizione, che le confina nella segregazione e sottomissione al maschio. Gli uomini «possiedono» le parenti femmine e puniscono le loro trasgressioni con la violenza. Quando le donne rivendicano i propri diritti, per quanto minimi, la reazione è dura e immediata. Così i «delitti d’onore» sono aumentati, ma anche la crescente consapevolezza delle donne. Tuttavia sono molti i casi che restano sconosciuti e quasi tutti impuniti.
Non meno drammatico è il problema delle donne in carcere. Il relativamente contenuto numero di detenute rivela che i penitenziari femminili sono talvolta improvvisati e inadeguati. In Brasile le celle presso le stazioni di polizia sono affollate all’inverosimile: e, sebbene sia la legge carceraria sia la costituzione stabiliscano che alle detenute siano garantite agevolazioni, per prendersi cura dei figli piccoli e per mantenere contatti regolari con quelli più grandi, tali diritti sono spesso negati con disprezzo. Per non parlare dei servizi sanitari: per le detenute in carcere sono inadeguati, mentre non esistono affatto per le donne trattenute in stazioni di polizia.
La campagna di A.I. contro i «delitti d’onore» in Pakistan evidenzia, soprattutto, la responsabilità dello stato nella mancata tutela delle donne; nello stesso tempo A.I. auspica nuove leggi inteazionali che obblighino gli stati a prevenire, indagare e punire gli atti di violenza contro le donne. Circa il Brasile, A.I. condanna la situazione delle prigioni, ma fornisce anche raccomandazioni costruttive alle iniziative di riforma carceraria nel paese.

Questi sono alcuni casi di violazioni dei diritti umani nel mondo. Ma il Rapporto di Amnesty Inteational 2000 (un volume di 648 pagine) esamina 144 nazioni, documentando la situazione di ognuna: geografia, capo di stato e governo, popolazione, lingua ufficiale, esistenza o meno della pena di morte o altre pene restrittive… E c’è da riflettere.

Eesto Bodini




FILIPPINE – Rivoluzione dei rosari

Per la seconda volta in 15 anni il popolo filippino ha cacciato
un presidente, definito dai vescovi «moralmente inadatto a governare».
È subentrata Gloria Macapagal Arroyo:
ha giurato di combattere povertà, ingiustizia, corruzione.
Sono sfide secolari, affrontate con grande speranza
e con il supporto di una chiesa
incarnata nelle realtà del paese.

D opo quattro giorni di cortei, con preghiere e proteste, il capo di stato Joseph Estrada, accusato di «saccheggio economico», è dichiarato decaduto. A mezzogiorno del 20 gennaio 2001 Gloria Macapagal Arroyo presta giuramento come 10° presidente delle Filippine. La cerimonia avviene davanti al santuario dell’Edsa (iniziali di Epifanio de los Santos Avenue, principale arteria di Manila), lo stesso luogo dove era partita l’insurrezione del 1986 contro il dittatore Marcos.
La neo-presidente enuncia le priorità della sua amministrazione: sconfiggere la povertà, combattere la corruzione, riformare lo stato, riportare la pace nel sud del paese. Programma ambizioso e urgente: tre quarti di risorse e poteri del paese sono in mano a pochi privilegiati; mentre il resto della popolazione è in via di «sviluppo». I problemi sono gravi e con radici secolari.
STORIA DI (IN)DIPENDENZA
Scoperte nel 1521 da Ferdinando Magellano, navigatore portoghese a servizio di Filippo II re di Spagna, le Filippine cominciarono a essere colonizzate nella seconda metà del secolo XVI. L’arcipelago era abitato da varie etnie autoctone e una miriade di comunità rurali autonome, discendenti da migrazioni malesi, cinesi, indonesiane avvenute nel corso di molti secoli.
Il sistema coloniale, basato su latifondismo e monoculture da esportazione (canna da zucchero, noce di cocco, canapa), espropriò molti contadini e li ridusse allo stato di servi dei grandi proprietari terrieri. Ancora oggi la terra appartiene allo stato o ai ricchi. Varie insurrezioni furono duramente represse dagli spagnoli.
Alla fine del secolo XIX la borghesia meticcia e varie categorie di oppressi formarono un movimento indipendentista, che nel 1897 riuscì a cacciare gli spagnoli dalla colonia, con l’aiuto degli Stati Uniti, già in guerra contro la Spagna per Cuba e Puerto Rico. Il 12 giugno 1898 fu proclamata la Repubblica delle Filippine, «sotto la protezione della potente e benevola nazione nordamericana».
Cinque mesi dopo, addio benevolenza: al trattato di Parigi, la Spagna cedette la colonia agli Stati Uniti in cambio di 20 milioni di dollari.
Tra il 1899 e il 1911 un milione di filippini morirono invano lottando contro i nuovi occupanti: l’economia del paese fu sottomessa agli interessi americani; l’inglese rimpiazzò lo spagnolo; fu diffuso lo stile di vita americano. Un effetto positivo: fu imposta la scuola d’obbligo e gratuita, per cui oggi il 95% dei filippini sono alfabetizzati.
Nel 1941 le Filippine furono occupate dai giapponesi e riprese la lotta di resistenza armata: il movimento degli huks, a base contadina e d’ispirazione socialista, forte di 118 mila armati, cacciò gli invasori. Toarono gli Usa e si affrettarono a concedere l’indipendenza: 4 luglio 1946.
Con una serie di trattati «ineguali» gli americani si assicurarono la salvaguardia dei loro interessi economici e strategici: una ventina di basi militari perpetuava il regime di protezione americana; le ultime due furono smantellate nel 1991-92: il senato rifiutò di rinnovare il contratto e le ceneri del vulcano Pinatubo seppellirono la base aerea di Clark.
CORRUZIONE GALOPPANTE
Per oltre 25 anni (1946-72) la vita politica delle Filippine fu dominata da un sistema bipolare, rappresentato dal Partito nazionalista e Partito liberale, sotto lo sguardo «benevolo» Usa. Ideologicamente molto simili, i due partiti si alternarono alla guida del paese basandosi sulle élites locali, capaci di procurare voti, specie nelle campagne, ma sempre pronte a coalizzarsi o cambiare campo a seconda della convenienza e del migliore offerente. Finite le elezioni, i vincitori s’affrettavano a recuperare le somme investite; finanziatori e sostenitori riscuotevano il premio della scommessa.
Così corruzione e frode si sono radicate nel sistema elettorale e amministrativo delle Filippine. Nazionalismo e riforme sociali, lotta alla corruzione, pace e ordine, progresso economico, indipendenza totale diventarono esercizi di retorica.
Anche Ferdinando Marcos, nel 1965, conquistò l’uomo della strada sbandierando i soliti temi elettorali, ma poi trasformò le Filippine in un feudo personale, affidando a parenti e amici le cariche nevralgiche del paese. Nella campagna elettorale del 1969 ridusse lo stato in bancarotta. Poiché la Costituzione non prevede un terzo mandato, nel 1972 proclamò la legge marziale, arrogando a sé tutti i poteri. Sciolse il Partito liberale e tarpò le ali alle élites locali, così che solo lui e i suoi amici potevano arricchirsi. Marcos divenne l’uomo più ricco dell’Asia.
Col supporto dei militari, cui diede mano libera nella corruzione, il dittatore soffocò nel sangue ogni tipo di opposizione: 6 milioni di filippini subirono l’«evacuazione forzata»; le loro terre furono cedute alle multinazionali americane. La vittima più illustre della dittatura fu Benigno Aquino, popolare oppositore del dittatore, assassinato nel 1983.
PARLAMENTO DELLA STRADA
Vista l’impossibilità di cambiare la società con i partiti tradizionali, nacquero numerose «organizzazioni popolari»; alcune scelsero la guerriglia, come il New People’s Army (Npa), d’ispirazione maoista; altre si battevano nella legalità per difendere interessi specifici di operai e contadini, donne e studenti. Sotto la dittatura tali organizzazioni si moltiplicarono e rafforzarono, riuscendo a convocare spettacolari manifestazioni di massa e dando vita al cosiddetto «parlamento della strada».
Nel febbraio 1986, l’indignazione per la morte di Aquino e per la rivelazione delle ricchezze nascoste del dittatore fu tale che Marcos fu costretto a indire elezioni anticipate. A sfidare il dittatore scese in campo la vedova di Benigno, Corazón (Cory). Con l’aiuto del cardinale di Manila, James Sin, la candidata riuscì a coalizzare l’opposizione moderata e mobilitare le organizzazioni popolari per vigilare contro i soliti brogli. E quando il dittatore si dichiarò vincitore, nonostante la sconfitta, decine di migliaia di persone scesero in strada per difendere la vittoria di Cory Aquino.
Dalla sua parte si schierarono anche il ministro della difesa Enrile e il comandante dell’esercito, il generale Fidel Ramos. Marcos mandò i blindati contro le caserme ammutinate; da Radio Veritas il cardinal Sin lanciò un appello alla popolazione «in difesa della verità e libertà»: centinaia di migliaia di persone, da tutte le province del paese, si ammassarono davanti al santuario dell’Edsa per poi invadere le strade della capitale, circondando i blindati con le mani tese, cantando e pregando, offrendo ai soldati viveri e bevande, recitando insieme il rosario.
Cinque giorni di rivoluzione pacifica misero fine a 20 anni di regime, 13 dei quali di dittatura: un evento memorabile, passato alla storia delle Filippine con varie definizioni: «miracolo», «rivoluzione dei rosari», vittoria del «potere popolare» contro quello delle élites, spirito dell’Edsa.
POLITICA NUOVA
Il governo di Cory Aquino ristabilì leggi e strutture democratiche; tentò di pacificare il paese concedendo l’autonomia ad alcune province di Mindanao e della Cordigliera; mise in cantiere riforme economiche e sociali, come quella agraria. Le sue buone intenzioni si scontrarono con le realtà del paese. Le riforme di Cory innervosirono i militari e inquietarono i politici tradizionali; i nostalgici di Marcos tentarono due colpi di stato. La «guerra totale» ai gruppi guerriglieri e indipendentisti, con relative violazioni dei diritti umani, appannò il prestigio della presidente, pur continuando a tenere viva la speranza in un futuro migliore.
Tale speranza si rivelò nelle elezioni del 1992, le più ordinate e trasparenti nella storia del paese, in cui fu eletto presidente Fidel Ramos. Sotto il suo governo migliorarono l’economia, i rapporti inteazionali, la pace sociale. La crescita economica faceva sperare che nel giro di 10 anni le Filippine avrebbero raggiunto il rango di «Nuovo paese industrializzato» (Nic), come le vicine nazioni del sudest asiatico.
PRESIDENTE SCERIFFO
Dalla rivoluzione del 1986 è nata la cosiddetta «nuova politica», anche se di nuovo c’è ben poco: gli aspiranti presidenti devono fare i conti col «potere popolare», deciso a votare più i programmi che le persone. Chi può forma un suo partito, come è capitato nel 1998: i candidati erano una quindicina, tra i quali quattro figli di ex presidenti.
Vinse Joseph Estrada, mediocre attore di telefilm polizieschi, riuscendo ad attirarsi le simpatie dei poveri, contadini e classi medie. Sembrava proprio la fine della vecchia politica, legata agli interessi delle élites.
Un passato da playboy, biscazziere e bevitore, Estrada non era uno stinco di santo. Per 16 anni sindaco di un sobborgo di Manila, per quattro senatore, non era neppure uno sprovveduto in politica. Presidente della commissione per la lotta alla criminalità, aveva radiato migliaia di poliziotti corrotti. La gente lo pensava una specie di «sceriffo», capace di perseguire la giustizia in modo deciso e implacabile, come nei films.
Invece le promesse elettorali restarono nel cassetto. L’economia cominciò a precipitare paurosamente. Frequentazioni di affaristi vicini alla famiglia Marcos, atteggiamenti da donnaiolo maschilista, favoritismi verso amici e parenti, sospetti di corruzione minarono il prestigio dello «sceriffo». Corruzione e impunità nell’amministrazione continuavano più di prima; anzi, si scoprì che anche lui era corrotto e corruttore.
All’inizio di ottobre del 2000, uno dei principali gestori del jueteng (lotteria illegale, diffusissima nelle Filippine) rivelò di aver consegnato al presidente una tangente di 10 miliardi di lire. Seguirono 100 giorni di fuoco. I vescovi dichiararono Estrada «inadatto a governare il paese» e lo invitarono a dimettersi. Molti suoi deputati passarono nelle file dell’opposizione: il 13 novembre il Parlamento approvò la mozione che metteva il presidente in stato d’accusa. Il 7 dicembre il Senato iniziò il processo. Al tempo stesso la chiesa continuava a chiedere le dimissioni con mobilitazioni di massa, in cui sfilavano Cory Aquino e il card. Sin.
Estrada respingeva ogni accusa. Il 16 gennaio 2001, quando il Senato rifiutò d’indagare su alcuni conti bancari segreti del presidente, il popolo insorse in massa, ripetendo, come da copione, la «seconda rivoluzione dei rosari»: il cardinal Sin lanciò l’appello e quasi due milioni di persone, 70% giovani, si riversarono nel santuario dell’Edsa, per poi sfilare pacificamente per le strade della capitale, chiedendo la destituzione di Estrada. Dopo quattro giorni di proteste, canti e preghiere, la Corte Suprema destituì Estrada e la vicepresidente, Gloria Macapagal Arroyo, prestò giuramento come nuovo capo dello stato.
SFIDE E SPERANZE

I regimi passano; i problemi restano. I salari sono bassi. Disoccupazione e inflazione galoppano. Per la maggioranza della gente la vita è una lotta quotidiana contro la povertà, ingiustizia sociale, corruzione e oppressione. Il divario tra ricchi e poveri continua ad allargarsi e approfondirsi. La crescita demografica è tale che le strutture sociali esistenti non riescono a far fronte ai bisogni della gente: 7,5 milioni di filippini lavorano in 194 paesi esteri (Italia compresa) per sostenere le proprie famiglie. Per il governo sono «eroi»: le loro rimesse superano i 15.000 miliardi di lire l’anno.
Tante sono le sfide; altrettante le aspettative. La rivoluzione del 1986 ha portato al paese la speranza e qualche sprazzo di prosperità; la «seconda rivoluzione dei rosari» l’ha riaccesa: questa volta bisogna fare in fretta per non deluderla.
Laureata in scienze economiche (fu compagna di classe di Clinton a Georgetown), figlia d’arte (suo padre Diosdado fu presidente nel 1962-65), Gloria Arroyo Macapagal, 53 anni, ha già lavorato sodo per attrarre nuovi investimenti; nel 1998 ha ottenuto molti più voti del popolarissimo Estrada (presidenza e vicepresidenza hanno elezioni distinte). La neo-presidente gode di grande prestigio e può contare su una popolazione giovane e scolarizzata al 95%, su numerose organizzazioni popolari, comunità coscienti e coraggiose, in lotta per il cambiamento del paese, e su una chiesa incarnata nelle realtà della gente.
CHIESA DEI POVERI
Negli anni ’60 la chiesa ha intensificato l’impegno nella difesa dei poveri; sotto il regime di Marcos, ha denunciato chiaramente le violazioni dei diritti umani e sostenuto le organizzazioni popolari: per questo è stata accusata d’infiltrazioni «comuniste» e decine di preti sono stati denunciati e arrestati.
Il prestigio dell’episcopato filippino, a partire dal card. Sin, è cresciuto negli ultimi 15 anni, riuscendo a esprimere leaders politici di grande statura, a partire dalle due donne che hanno conquistato il potere a furor di popolo. Ciò è stato possibile perché tale potere non è usato per fini politici, ma per difendere gli strati più deboli della popolazione.
Quella filippina è una chiesa fatta di poveri e per i poveri. Il suo ruolo profetico è stato riaffermato dal card. Sin in occasione del giuramento di Gloria Arroyo. Assicurando l’appoggio della chiesa, il cardinale ha detto alla neo-presidente: «Non mancheremo di criticarti per il bene della nazione». «Se il cardinale mi criticherà per il bene della nazione, ascolterò e cercherò di fare meglio» ha risposto la signora.

MINDANAO: LA GUERRA INFINITA

Troppo semplice scambiarla per guerra di religione. Il conflitto ha radici antiche. Quando occuparono l’arcipelago filippino, gli spagnoli incontrarono una quindicina di gruppi islamizzati, detti moro, che da oltre un secolo, avevano invaso il versante occidentale di Mindanao e l’arcipelago Sulu (Basilan, Jolo, Tawi-Tawi). L’immigrazione musulmana fu bloccata, ma i moro lottarono ferocemente contro la colonizzazione spagnola e la penetrazione del cristianesimo, rimanendo ai margini della formazione dello stato filippino.
Nella cessione dei suoi territori agli Stati Uniti, nel 1898, la Spagna incluse anche queste isole, benché non vi avesse alcuna sovranità. Le tensioni aumentarono. Ma agli americani bastò una manciata di anni per riuscire dove gli spagnoli avevano fallito per tre secoli. Mindanao e Sulu furono prima conquistati con autentici massacri, che suscitarono l’indignazione perfino negli Usa, poi «filippinizzati»: a partire dal 1912 ondate di famiglie cristiane dall’affollata Luzon furono risistemate nelle pianure di Mindanao. Dal 1926 industriali americani (Del Monte, Goodyear, Goodrich, Firestone) occuparono enormi distese di terra per coltivare ananas, banane, legname, caucciù e altri prodotti da esportazione.
Oggi i musulmani di Mindanao e Sulu sono un quarto dell’intera popolazione, anche se in qualche isola raggiungono il 97%. Inoltre i moro sono rimasti ai margini dello sviluppo economico e sociale delle Filippine: tra le 16 province più povere del paese, 13 si trovano a Mindanao, tutte con predominanza islamica.

Nel 1969 nacque il Fronte nazionale di liberazione moro (Fnlm), guidato da Nur Misuari, per rivendicare il Bangsamoro: stato islamico indipendente dalle Filippine. Rivendicazioni e relativi disordini offrirono a Marcos la scusa per proclamare la legge marziale. Scoppiò la ribellione vera e propria. Il dittatore inviò l’esercito contro i rivoltosi. La repressione provocò enormi distruzioni, la morte di 120 mila civili e la fuga di centinaia di migliaia di persone.
Alla fine del 1976, fu stipulato un accordo di cessate il fuoco, con la promessa di creare una regione autonoma per i musulmani di Mindanao. A tale soluzione si oppongono i cristiani presenti nella regione in causa, provocando la ripresa della guerra. Le trattative di pace ripresero nel 1986 con Cory Aquino, che concesse l’autonomia amministrativa a 4 province a maggioranza musulmana. Nel settembre 1996, un accordo tra Mnlf e governo centrale di Fidel Ramos istituì la Regione autonoma musulmana di Mindanao, composta dalle 4 province già autonome e aperta ad altre da stabilire attraverso referendum popolari. Gran parte dei guerriglieri del Mnlf furono integrati nell’esercito nazionale e polizia, il leader Nur Misuari diventò governatore.
Ma l’ala più radicale del Fronte nazionale non accettò il compromesso, fondò il Fronte islamico di liberazione moro (Film) e continuò la lotta di secessione. In seno al Milf, poi, è nato il gruppo Abu Sayyaf che rifiuta ogni autonomia e chiede uno stato indipendente, formato da tutta l’isola di Mindanao, gli arcipelaghi di Sulu e Palawan: il 40% dell’attuale territorio delle Filippine. Attestato nelle isole di Jolo e Basilan, Abu Sayyaf continua l’offensiva con fanatico terrorismo: «Allah guida i proiettili delle nostre armi». Minacce, omicidi, massacri, sequestri, rapimenti, saccheggi, distruzioni, estorsioni, contro civili e molti missionari, non si contano più. Nel luglio 2000 Estrada ha rilanciato il pugno di ferro contro il Milf, provocando altri 300 mila profughi.

Pur essendo la principale vittima di tale terrorismo e fanatismo, la chiesa continua nella testimonianza di carità: opere di promozione umana alla periferia delle città; cura dei profughi musulmani; rilancio del dialogo islamo-cristiano. Nel 1996 è nato il Bishop-Ulama Forum, che raccoglie leaders cristiani e musulmani attivi nella mediazione dei conflitti; nel maggio 1999 il movimento Silsilah ha inaugurato un Istituto di formazione, con corsi di educazione al dialogo interreligioso e alla pace per laici e religiosi, cristiani e musulmani.
La maggioranza degli stessi musulmani, infatti, sono convinti che una soluzione militare è impossibile e che uno stato islamico, staccato dalle Filippine, prolungherebbe la loro situazione di miseria. Ben venga l’autonomia, purché sia vera e accompagnata da impegni concreti nello sviluppo economico e sociale per tutti. Fino a quando non sarà sconfitta la miseria, questa continuerà ad essere il brodo di cottura dell’attuale guerra infinita e violenze di ogni genere.

Benedetto bellesi




ETIOPIA – Missionari del “permesso”

Ma dove sta la differenza?

I missionari che lavorano in Etiopia devono confrontarsi con numerose sfide e l’evangelizzazione incontra molte difficoltà. Queste vengono, prima di tutto, da parte dello stato, molto esigente nel concedere il permesso di soggiorno a tempo indeterminato. I missionari non sono accettati come tali, ma debbono fornire un diploma di specializzazione nel campo della salute pubblica, educazione o sviluppo e giustificare la loro competenza e servizio, presentando un rapporto ogni anno.
A questa non lieve difficoltà, si può aggiungere anche la sfida di vivere insieme ai musulmani e, naturalmente, alla chiesa locale «ortodossa». Questa è molto potente nel paese. Legata ad Alessandria d’Egitto, ha conservato per parecchio tempo la denominazione di «chiesa copta». Ben radicata nella cultura locale, perfettamente strutturata fin nelle minime istituzioni, ha avuto la fortuna di veicolare senza problemi la fede cristiana nel corso dei secoli. La bellezza delle sue chiese, l’indimenticabile splendore delle sue icone (sempre circondate da candele accese), il colore vivo degli abiti liturgici, i canti in lingua ghez (un po’ come il latino di un tempo nella chiesa cattolica), l’atmosfera mistica che regna nei monasteri… colpiscono immediatamente lo spirito del visitatore.
Sul sagrato della basilica della Ss. Trinità, ad Addis Abeba, dove veniva a pregare l’imperatore Hailè Selassié, un monaco sorridente mi accoglie e benedice con la croce che tiene nella mano sinistra. La croce ricorda la sofferenza e la morte del nostro Salvatore e bisogna abbracciarla tutte le volte che ci si avvicina ad un santuario, dove Dio è presente.
Si rimane sorpresi nel vedere la folla, seduta davanti alle chiese e che prega all’aperto. L’impressione di essere impuri e peccatori (molto sviluppata in Etiopia) proibisce ai fedeli di penetrare dove si trova il Santo e comunicare con lui.
Mi interrogo sull’impatto reale di questa chiesa nella società di oggi. La preghiera: sì, questa è indispensabile alla vita; ma la giustizia, la salute, la lotta contro la miseria, la formazione continua che permette di ampliare gli orizzonti… non sono cose altrettanto necessarie? È bene restare ancorati alle tradizioni del passato, ma il dialogo con il mondo di oggi non ha la stessa importanza? La chiesa è sale della terra, luce del mondo. Essa dovrebbe avere la potenza del lievito, la capacità di trasformare una società arroccata nell’arcaismo.

Ho vissuto il mio viaggio in Etiopia come una ricerca, un’inchiesta sul senso del lavoro missionario svolto e sono giunto alla conclusione che questo paese rimane un terreno privilegiato per i missionari della Consolata. La «consolazione» di questo popolo si impone e l’evangelizzatore crede che debba passare attraverso Gesù Cristo.
Fare conoscere Gesù, proporre i suoi valori e le sue parole nello spirito delle beatitudini, predicare la frateità universale sotto l’egida di un solo Dio Padre: questo è mettere in evidenza da dove viene la forza principale per trasformare una società. Là dove ristagnano immobilismo e tradizionalismo, ingiustizia e povertà, sottosviluppo e segregazione razziale, il missionario inietta un seme di rinnovamento, di vita e risurrezione. Là dove il dialogo tra persone di differenti culture e religioni non riesce a instaurarsi, il missionario (talvolta profeta solitario) rimane colui che ne predica l’urgenza, per costruire una comunità fratea, dove i diritti di tutti sono rispettati.
C’è di più. In Etiopia il lavoro quotidiano del missionario è direttamente orientato verso il benessere della popolazione più povera. Allora si comprende, senza troppe spiegazioni, il senso di opere come l’ospedale di Gambo, il dispensario di Modjo, la scuola superiore di Meki, il centro per handicappati di Gighessa, la scuola per non vedenti di Shashemane, il centro per la cura della lebbra.
Ciò che si dimentica troppo facilmente è che questo lavoro, compiuto con sforzo e competenza, viene fatto per amore di Gesù. E questa è la grande differenza, che ci qualifica rispetto agli altri «operatori sociali».
Un dialogo
difficile

Le giornate iniziano molto presto ad Addis Abeba. Dalla mia camera, ancora mezzo addormentato, sento il grido del muezzin che, dall’alto del minareto della moschea centrale, invita tutti alla preghiera, prima di iniziare il lavoro.
«Bismillahi rahman arrahim» (nel nome di Dio clemente e misericordioso): la preghiera comincia prima della levata del sole. Si direbbe che in Etiopia tutti pregano: nei monasteri ortodossi le vigilie delle feste si prolungano fino a tarda notte; il mattino presto è l’ora dei musulmani, mentre i cattolici preferiscono celebrare Dio nel corso della giornata.
L’islam è molto presente nel paese: il 45% della popolazione professa la sua fede in Allah, dichiarandosi sottomesso alla sua volontà (muslim, musulmano, cioè «sottomesso»). Cinque regole fondamentali sono alla base di una giusta condotta:
– la professione di fede in un Dio unico e la proclamazione di Maometto come suo profeta;
– la preghiera personale, cinque volte al giorno (e pubblica il venerdì), con la faccia rivolta in direzione della Mecca;
– l’elemosina ai poveri e (secondo alcuni) «la guerra santa»;
– il digiuno totale nel mese del Ramadan;
– il pellegrinaggio alla Mecca, una volta almeno in vita.
Il missionario che lavora in tale contesto ha a che fare con grandi sfide: da una parte, ammira la vita di fede radicata nelle persone e la loro incrollabile credenza in un Dio unico; ma, dall’altra, non può non osservare un’assenza totale di dialogo tra musulmani e credenti di altre religioni.
In questo tempo di globalizzazione e modeità, il dialogo diventa una priorità indispensabile. Di fronte alla crescita musulmana, non soltanto in Etiopia ma nel mondo intero, l’esigenza di condividere la fede e di verificare i supporti culturali che la manifestano… si presenta come il cammino più sicuro per un dialogo fruttuoso.

Per comprendere l’islam, bisogna partire da Maometto e dal suo progetto. Egli mirava ad unificare tutte le tribù arabe sotto la guida di una sola persona, fino a stabilire un unico impero nella penisola d’Arabia. Egli stesso realizzò l’idea a Medina, dopo la sua fuga dalla Mecca, nel 622: il popolo lo accolse come un profeta di Dio.
La religione e la fede nel Dio unico avevano un posto importante nel progetto di Maometto. In effetti le antiche tradizioni arabe si rifacevano alla discendenza di Abramo e Ismaele e le persone si sentivano sottomesse alla volontà di un Dio, che le aveva create e protette. La circoncisione diventerà il segno visibile per ricordare l’alleanza.
Occorre apprendere dalla storia che l’islam costituisce una entità socio-politica, culturale e religiosa. Il sistema di vita integrato che ne deriva può scivolare verso un fondamentalismo totalitario, incapace di distinguere tra «fede» e «cultura». La moschea ne è un esempio evidente: infatti non viene concepita solo come luogo di preghiera o incontro, ma anche come un’istituzione dove, oltre alla preghiera e ai sermoni dell’imam, si fanno studi, dibattiti politici e processi civili.
Nel mondo musulmano è, dunque, del tutto normale che la radio interrompa la sua programmazione per permettere la lettura del corano e che la televisione faccia lo stesso; che la legge proibisca l’unione tra musulmani e cristiani; che l’allevamento di porci e animali impuri sia interdetto. Si nota pure che le differenze tra il sistema dell’islam e quello occidentale non sono soltanto religiosi, ma culturali. L’uomo è il capo dell’unità familiare, la donna è al secondo rango: il suo ruolo è soprattutto legato alla procreazione e alla sessualità e deve accettare la poligamia come un fatto normale. Non può ereditare che la metà di quello che appartiene all’uomo e, se ripudiata, non ha il diritto agli alimenti. A livello giudiziario, occorre la testimonianza di due donne per controbattere quella di un uomo.
Il rifiuto di questi princìpi e altri comporta l’esclusione dell’individuo dalla società in cui vive. La persona in se stessa non è importante, ma è rilevante la comunità, dove ogni credente si sente legato alle persone che professano la stessa fede.
Per il musulmano tutto è religioso. Ogni aspetto della vita sociale, politica, economica, ogni dettaglio della vita quotidiana è diretto dal corano, che è l’unica vera legge.
Tuttavia le differenze socio-culturali non dovrebbero impedire il dialogo. Il missionario conosce le sfide, ma crede che anche i musulmani abbiano diritto alla libertà religiosa. Così essi hanno certamente il diritto di confessare la loro fede in Allah, ma hanno ugualmente il diritto di incontrare Gesù, il rivelatore del Dio cristiano.
In Etiopia il missionario non ha soltanto una «ricchezza» economica, da condividere con le migliaia di poveri che incontra; ma possiede pure il tesoro di Gesù, che può diventare fonte di felicità anche per l’islam. A quando l’avvenimento di un dialogo libero e fruttuoso?

PURTROPPO ANCORA DIPENDENTI

Padre Aristide Piol intervista
Berhane Jesus Souraphiel, arcivescovo
di Addis Abeba e primate di Etiopia.

Quali sono le attuali relazioni tra il governo e la chiesa in Etiopia?

La chiesa cattolica, come altre istituzioni religiose, è considerata un’organizzazione non governativa e non è accettata come chiesa. Ma, pur senza riconoscimento ufficiale, essa può continuare a lavorare nell’ambito apostolico, anche se la sua situazione rimane precaria.

Quali difficoltà incontrate?

Prima di tutto, la mancanza di personale missionario (preti, religiosi e laici), perché quello etiope non è sufficiente. La penuria deriva dal fatto che è molto difficile fare entrare missionari in Etiopia, se non hanno prima un permesso di lavoro. I permessi vengono accordati soltanto per progetti di lavoro sociale, riguardanti l’educazione o la salute e non per l’apostolato. Sono molto difficili da ottenere.

Nelle attività sociali, potete lavorare liberamente?

Non proprio. Riceviamo sovente la visita di ispettori, che redigono rapporti tendenziosi a nostro riguardo; in più, noi stessi dobbiamo fornire regolarmente dei rapporti, stendere inventari minuziosi del materiale di scuole, ospedali, dispensari, asili matei. Dobbiamo anche indicare da dove provengono i soldi e come vengono spesi.

Ma perché tutto questo?

L’Etiopia è divisa in nove regioni e distretti, ognuno dei quali governati da autorità locali e ciascuno ha la sua parola da dire. Questa divisione non favorisce l’unità del paese (bisogna sapere che ci sono diverse etnie e che in Etiopia si parlano 82 lingue differenti!). Credo che non ci conoscono abbastanza e non sanno il bene che apportiamo al paese. Bisognerà fare di più per farci conoscere.

Avete la possibilità di organizzare il lavoro apostolico?

Sì, ma nascono altre difficoltà. Dal momento che il personale deve donarsi completamente all’attività sociale, non può concentrarsi unicamente sul lavoro apostolico. Noi dipendiamo, dunque, dalle chiese cattoliche di Europa e America del nord, sia per il personale che per i mezzi materiali. Da soli, non possiamo fare grandi cose.
La chiesa cattolica ha fatto qualcosa per la guerra con l’Eritrea?
La Conferenza episcopale si è associata al nunzio apostolico, mons. Tommasi, e alle altre professioni religiose per esercitare una certa pressione. Ma il governo si aggrappa a filosofie e mentalità differenti e i nostri interventi non sono sempre ascoltati. Abbiamo detto che questa guerra non ha senso, perché Etiopia ed Eritrea sono nazioni sorelle. Infatti hanno la stessa fede cristiana, sono cresciute insieme e hanno quasi le medesime tradizioni, lingue e culture.

Cosa si aspetta la chiesa dalla commissione «Giustizia e pace»?
Abbiamo accolto la commissione con viva speranza. Essa dovrebbe informare l’opinione pubblica mondiale sulle ingiustizie commesse dai governi locali e inteazionali. È necessario fare intervenire i paesi occidentali e l’Onu, perché la libertà di stampa e religione venga garantita, e che i cattolici abbiano le stesse opportunità degli altri cittadini nella pubblica amministrazione. L’annullamento del debito internazionale è un altro obiettivo. Così, come la denuncia delle nazioni che vendono armi ai governi di paesi poveri. «Giustizia e pace» dovrebbe vigilare perché i soldi dati per opere sociali vengano spesi soltanto per queste e non per arricchire le tasche di alcuni dirigenti.

C’è speranza che la chiesa cattolica etiopica divenga autosufficiente?
Per la gerarchia, anche se ci sono vescovi etiopici, abbiamo ancora bisogno di vescovi stranieri. Così per il clero, i missionari e religiosi.

Come sono le relazioni con la chiesa ortodossa copta?
A livello di gerarchia, c’è rispetto e ci invitiamo reciprocamente. Tuttavia, sul piano del lavoro apostolico, constatiamo ostilità e concorrenza. Questo dipende dal fatto che la chiesa ortodossa copta era (oggi non più) «chiesa di stato» e beneficiava di alcuni privilegi.

Come giudicate la crescita dei musulmani in Africa?

Questa avanzata ci preoccupa. Constatiamo che agiscono secondo un piano ben strutturato per raggiungere i loro scopi. Con i soldi del petrolio cercano innanzitutto di ottenere il potere economico, poi quello politico e religioso. Vediamo che portano degli etiopi a lavorare in Arabia Saudita o in altri paesi musulmani; poi fanno loro regalo del corano e li obbligano a vestirsi come i musulmani. Crediamo che si tratti di una minaccia seria.
Aristide Piol

Giuseppe Ronco




CONGO, RD – Con le mani nel fango

Uno è italiano e l’altro congolese.
Entrambi missionari della Consolata,
alle prese con una nuova missione.
In un lembo di terra fuori del mondo.
E in guerra dal 1996.
Dove tutti sono poveri.
E i pigmei anche discriminati.

In mano a Piero e Clément

«Siamo pazzi o stupidi? O entrambe le cose insieme?». Ce lo domandiamo (senza risposta), mentre varchiamo la soglia della casetta di Bayenga, scuotendo l’abbondante fango dai piedi. Il vescovo di Wamba e i nostri superiori ci hanno chiesto di «far ripartire la missione»! Ma come?
Bayenga è un grosso villaggio, a 23 chilometri da Wamba, sulla strada Niania-Kisangani, nell’Alto Uele (repubblica democratica del Congo). La collettività è nata artificialmente nel tempo in cui si estraeva oro nelle miniere dei dintorni. La popolazione appartiene a diverse etnie bantu: wabudu, walika, waberu…
Bayenga, nel passato recente, è stato un centro importante, perché sede amministrativa della Forminière, una compagnia belga che estraeva l’oro nei villaggi di Mambati, Bolebole e Bonzunzu. La società ha chiuso i battenti già prima dell’indipendenza del Congo nel 1960.
Oggi le miniere sono sfruttate in modo artigianale da migliaia di persone, specialmente giovani, che vengono da ogni parte con la speranza di far fortuna. Purtroppo i cercatori d’oro e diamanti, nella maggioranza dei casi, si riducono ad una vita di miseria materiale e morale.
Dato il degrado sofferto dal Congo durante il regime-ladro del dittatore Mobutu, anche a Bayenga il collasso è totale: ad esempio, non esistono più strade. Ci si sposta a piedi, in bicicletta o al massimo in moto.
Finora la «parrocchia» di Bayenga si è potuta occupare solo saltuariamente della realtà umana. Tuttavia, poiché tanta gente frequenta la zona e gran parte della produzione agricola è destinata a chi lavora in miniera, come missionari ci sentiamo coinvolti direttamente.
Il territorio della missione, oltre Bayenga, comprende altre 16 cappelle succursali, già costituite. Altre due dovrebbero sorgere presto… fra i cercatori d’oro. Di regola queste cappelle sono seguite da animatori di comunità e volontari. La popolazione vive in abitazioni di fango e paglia, costruite lungo la strada. Si contano, complessivamente, 25 mila abitanti, di cui 3.500 cattolici.
La fondazione della missione risale al 1962. I missionari belgi del Sacro Cuore e le suore comboniane italiane, che vi lavoravano, nel 1964 dovettero abbandonarla a causa della ribellione dei Simba. Furono assassinati un sacerdote e un medico, che gestiva un piccolo ospedale.
Nel 1968 a Bayenga ritoò un altro missionario del Sacro Cuore, che lavorò fino alla morte (1980). Successivamente la comunità cristiana si è mantenuta viva grazie all’opera di un catechista, assistito di tanto in tanto da un missionario che veniva da Wamba.
Oggi Bayenga è in mano ai missionari della Consolata, cioè noi due: padre Piero, italiano di 65 anni, e padre Clément, congolese di 42.
Cercando casa
La parrocchia di Bayenga non ha strutture proprie. Finora si è servita dei locali che la società mineraria belga aveva, a suo tempo, concesso alla diocesi di Wamba perché li custodisse, permettendo così la continuazione dell’ospedale e delle scuole. Attualmente la Forminière è proprietà di un congolese.
La missione è costretta a cercarsi un’altra sistemazione, pur provvisoria. Però la nostra casa (tre stanzette) è ancora della Forminière. Ma prestissimo sloggeremo.
Dunque bisogna edificare la missione dalle fondamenta. È prevista la costruzione di un complesso con chiesa, scuole elementari e secondarie, ospedale, nonché locali per le attività parrocchiali e sociali. Le prime strutture saranno in fango. Il tutto poco a poco e in un mare di guai.
Tra le difficoltà, quella cruciale è senz’altro costituita dalla guerra in corso e dallo stato di incertezza che regna nella nazione. È difficile trovare il materiale da costruzione, come cemento, ferro, ecc. Dovendolo acquistare a Kampala, in Uganda, e trasportarlo con aerei privati, i prezzi diventano esorbitanti.
A Dio piacendo e, soprattutto, allorché il paese raggiungerà un minimo di stabilità, si potrà realizzare il grande sogno. Un sogno, però, che noi iniziamo già ora partendo… dal fango.
In barba alle ricchezze
La povertà è una realtà generalizzata, a dispetto delle ricchezze ingenti del paese. Da anni non arrivano più camion con mercanzie. Queste vengono trasportate in bicicletta da giovani, che vanno a Bunia, Butembo e Kisangani percorrendo oltre 1.000 chilometri in due o tre settimane. E spesso ci rimettono la salute.
Quanto alla scuola, su 6 mila ragazzi, solo un terzo ha la possibilità di ricevere un po’ d’istruzione. Noi missionari non possiamo sostituirci allo stato, ma non dobbiamo nemmeno rimanere a guardare. Pertanto la maggior parte delle scuole è gestita dalla chiesa.
A Bayenga abbiamo appena iniziato una scuola secondaria con 29 studenti del primo anno, con aule in fango naturalmente. Nel territorio della missione ci sono anche tre scuole primarie, complete, con un curriculum di sei anni; altre scuole succursali, specialmente per i primi due anni, sono disseminate in vari villaggi. Ma è pochissimo.
La poche scuole funzionano avvalendosi del contributo dei genitori degli allievi: circa 2.700 lire l’anno. Da tale entrata si ricava lo stipendio degli insegnanti. Questi a loro volta, per sopravvivere, si arrangiano coltivando i campi e, talora, «si fanno aiutare» dagli alunni.
La cronica penuria di mezzi impedisce alla maggioranza di studiare. Le più penalizzate risultano le bambine: devono anche dare la precedenza ai maschi, mentre loro restano in casa ad aiutare la mamma e accudire i fratellli più piccoli.
La missione gestisce pure un piccolo dispensario medico. Per la popolazione è un punto di riferimento importante, perché l’ospedale di Wamba è lontano e l’unico mezzo per arrivarci (per chi può permetterselo) è la bici. Nel dispensario lavorano due infermieri e tre ostetriche. Funziona con l’apporto economico (del tutto insufficiente) dei malati… C’è bisogno di materiale da laboratorio, medicine, letti e di riparare le strutture cadenti.
L’evangelizzazione, in senso stretto, viene portata avanti con la collaborazione essenziale degli animatori di comunità. Sono un centinaio di buoni cristiani, che lavorano come volontari a tempo parziale. La missione li aiuta per le cure mediche e in caso di estrema necessità. Per loro abbiamo programmato incontri di formazione della durata di quattro giorni, per altrettante sessioni annuali.
Ovviamente la missione si fa carico di vitto, alloggio ed altre necessità. Un sacrificio non indifferente, ma necessario per fare crescere la comunità che il Signore ci ha affidato.
ultimi i pigmei
Un’altra realtà importante, che ci ha spinto ad accettare la missione di Bayenga, è la presenza di alcuni accampamenti di pigmei (bambuti). Si calcola che, nel territorio, la popolazione pigmea sia di circa 2 mila persone. Spesso nomadi, i pigmei vivono di caccia e raccolta, in relativa simbiosi con i bantu. Di regola risiedono nella foresta e, dopo il tempo della caccia, ritornano agli accampamenti per scambiare i propri prodotti (carne affumicata, miele e frutti della foresta) con quelli agricoli dei bantu.
La convivenza con le etnie bantu non è né semplice né pacifica, perché queste ritengono i bambuti degli esseri inferiori e senza diritti: da alcuni sono considerati una specie intermedia tra la scimmia e l’uomo. Con la possibilità di fare confusione!
Anche nei loro accampamenti i pigmei non sono del tutto liberi, ma spesso vengono considerati «proprietà» di un capo o di un membro della famiglia regnante. Ad esempio: quando un’autorità ha bisogno di qualcosa, non ha che da dire al suo luogotenente: «Manda subito i tuoi pigmei a cercare carne e miele per me!».
Il baratto con i bantu si fa anche con alcornol e droga. Così i bambuti si abbrutiscono sempre di più.
I pigmei, rinomati per le danze, in molte occasioni vengono invitati nei villaggi per rallegrare le feste dei bantu. Questo li tiene occupati per mesi. Nel frattempo continuano a cacciare selvaggina nella foresta, pena la sopravvivenza.
C’è il problema dell’alfabetizzazione. Sono stati fatti dei tentativi per convincere i pigmei a mandare i loro figli a scuola; ma i risultati sono deludenti. Oggi si sta prospettando un «insegnamento speciale» con programmi e tempi adatti. Però le difficoltà sono tante (cfr. Missioni Consolata, dicembre 2000).
Nel nostro lavoro missionario riteniamo prioritario stabilire rapporti di amicizia con i gruppi minoritari e discriminati e riconoscere la loro cultura. Fra i pigmei, oltre ad insistere affinché mandino a scuola i loro bambini, li assistiamo con cure mediche e li incoraggiamo a coltivare campi «propri», per rompere la dipendenza economica dai bantu.
Si sta pure valutando come introdurre i bambuti nel catecumenato cristiano. Forse ci vorrà un lungo periodo di pre-catecumenato per portarli ad accettare e vivere alcune esigenze fondamentali del vangelo.
Nella missione di Bayenga tutti sono poveri, ma i pigmei sono miseri. Veramente gli ultimi.

PIGMEI PROTAGONISTI

La diocesi di Wamba ha, da sempre, desiderato una vera integrazione dei suoi 35.200 pigmei (dei quali 7.500 bambini), che popolano una buona parte delle sue 18 parrocchie.
Popolo nomade che vive di pesca e caccia, i pigmei sono considerati i primi e più antichi abitanti della foresta dell’Uele e dell’Ituri; eppure, a causa del loro modo di vivere, sono sempre stati lasciati al margine e discriminati.
Di fronte a questa ingiustizia, ci sono stati diversi tentativi di avvicinamento e accoglienza. In modo timido, all’inizio, la diocesi di Wamba aveva sognato di integrarli nell’ambito della società modea; per questo era stata decisa la creazione della prima scuola per pigmei già nell’anno 1959, nella parrocchia di Nduye e, nel 1984, di un centro di formazione per pigmei a Imbau, diretto da padre Pedro (missionario spagnolo) e suor Docita (olandese).
Ma si è dovuto aspettare il 1989 perché l’idea si concretizzasse meglio e diventasse realtà. È nato il «Progetto diocesano pigmei», la cui espressione «visibile» sono state le scuole per pigmei nelle parrocchie di Mungbere, Bangane e Maboma.
Il progetto ha come obiettivo l’integrazione e lo sviluppo totale dei pigmei, rispettando le loro esigenze e abitudini. Per esempio, la scolarizzazione dei ragazzi (e, quindi, il… calendario) deve tener conto della realtà «della foresta»; le lezioni vengono interrotte durante la stagione secca (gennaio-marzo), essendo il periodo favorevole alla ricerca e raccolta di miele selvatico.
La scuola segue una metodologia speciale, rispettosa della cultura pigmea. Le lingue da insegnare, come swahili, lingala e francese, non devono annientare la lingua matea. Il metodo ORA (osservare-riflettere-agire), concepito e strutturato da fratel Antonio Huysman del Camerun, sembra essere il migliore finora adottato.

La scuola non è l’unica preoccupazione del progetto.
C’è anche la pastorale, che ha di mira una vera promozione dei pigmei, considerati alla stessa stregua degli altri gruppi etnici: è chiamata a collaborare in diversi ambiti, come l’agricoltura, il commercio, la salute, ecc. Nessuno ignora quanto i pigmei restino insuperabili in materia di caccia, pesca e uso di alcune medicine naturali. Forte di questi elementi, i pigmei si impongono come partners con cui si deve lavorare in uguaglianza, invece di considerarli esseri inferiori.
Secondo Laurent Badukanayaa, cornordinatore aggiunto del progetto diocesano, il vescovo Janvier Kataka ha rafforzato l’impegno verso i pigmei, inserendolo però nel piano più vasto di un cammino d’insieme, per assicurae la continuità. La pastorale mira all’integrazione dei pigmei e di altre etnie nell’unica chiesa, famiglia di Dio, e nell’unica società congolese di oggi.
L’iniziativa della diocesi di Wamba è lodevole per il fatto che questi nostri fratelli, «primi abitanti del paese», sono sempre rimasti ai margini della società modea, nonostante i mille tentativi fatti per la loro integrazione.
Ora è il loro momento di… entrare in scena e diventare protagonisti!

Piero Manca e Balu Futi




TURKMENISTAN – Dalla via della seta a quella del petrolio

Il paese è ricchissimo di gas naturale e petrolio, ma i suoi cinque milioni di abitanti vivono
in condizioni
di arretratezza.
L’ex repubblica sovietica è oggi nelle mani
di Saparmuryad Niyazov, presidente che, al pari
di Gheddafi e Saddam,
riempie strade e piazze
con le sue immagini.

Le formalità alla frontiera uzbeko-turkmena sono state lunghe. Abbiamo aiutato e raccolto anche due giovani francesi, che non avevano un mezzo di trasporto. Uno dei due sta male, piegato in due dal mal di pancia. Daniel invece parla abbastanza bene l’italiano, perché ha lavorato a Torino per qualche mese. Ci racconta le avventure passate sul traghetto, attraversando il mar Caspio.
Il pullmino prosegue in territorio turkmeno, tra campi di cotone e villaggi che denunciano l’arretratezza del paese, ma anche la sua tranquillità. La gente è occupata nei campi e si vedono muli bendati girare intorno alla macina del grano. Non vi è traffico d’auto e, quando dobbiamo fermarci per una foratura, possiamo apprezzare l’ospitalità della gente. Da un piccolo incidente si possono fare incontri che rimangono tra i ricordi più belli del viaggio. Un fossato e una fila di pioppi ci dividono da una bassa costruzione di mattoni di fango. Il portone di legno scolpito si apre sulla corte ombreggiata dalla vite: la padrona di casa ci fa cenno di entrare con un largo sorriso. Beviamo l’acqua offerta, mentre arrivano i ragazzini e ci circondano curiosi. Non è necessario parlare la stessa lingua, per capirsi. Proseguiamo poi per il villaggio di Igor, il nostro autista, dove troviamo ospitalità per il ragazzo francese infermo.
La moglie di Igor è una maestra di origine russa. La casa è di mattoni crudi di fango a un solo piano. L’interno è fresco e arioso, con la stanza dei giochi, il televisore e tanti tappeti sul pavimento, che danno un tono di benessere alla famiglia.
«Ci siamo trasferiti da pochi anni da Kazan, la capitale del Tatarstan, – ci spiega Olga -, una città in mano alla mafia e alla delinquenza. Abbiamo accettato il lavoro in questo tranquillo villaggio e siamo molto contenti». Intanto arrivano i vicini, attirati dalla visita inaspettata di noi turisti. Il paese si sta aprendo da poco ai visitatori, anche se gli interessi stranieri sono già ben radicati, come vedremo ad Ashkabad, la capitale.

F inalmente arriviamo al sito archeologico di Khonye Urgench. Chi potrebbe immaginare che il tessuto di seta più bello e sottile, l’organza, trae il suo nome da questo paese? Ormai da giorni percorriamo l’antica via della seta, tuttora segnata da file di gelsi: qui passavano le carovane che collegavano l’Estremo oriente all’Europa.
Rasa al suolo dalle truppe di Gengis Khan, Khonye Urgench fu la capitale dei turchi selgiuchidi, il cui impero andava dall’Oxus (l’Amu Darya, che abbiamo attraversato in Uzbekistan) al Mediterraneo.
Architetti geniali, lasciarono nei loro territori una ricca eredità culturale. Il governo turkmeno ha avviato da qualche anno i lavori di restauro degli edifici antichi: moschee, mausolei e madrase, che sono sparsi in un’area molto vasta.
Arriviamo che il sole è già alto, implacabile, caldissimo. Le cupole azzurre sono state quasi interamente ricostruite; ma qui manca la frescura dei cortili e dei pergolati di Bukhara e Samarkanda.
Cammino su quello che, nel 12° secolo, fu il campo di battaglia dei mongoli di Gengis Khan, che punirono l’insolenza di chi aveva tradito e aveva rifiutato la resa. Muhammad II si credeva troppo forte e rispose con disprezzo alle offerte di amicizia del capo mongolo. Il vuoto che ora circonda i preziosi resti e le tombe dei sovrani selgiuchidi denuncia l’abbandono successivo alla seconda e ultima distruzione, attuata da Tamerlano, che vedeva nella risorta Khonye Urgench una rivale della sua Samarkanda.
I russi arrivarono qui già in epoca zarista. Dopo molti tentativi falliti di conquista armata, la Russia riuscì a penetrare nel territorio delle bellicose tribù turkmene, inviando famiglie cosacche di coloni che si insediarono lungo il tracciato della ferrovia in costruzione. Fu quindi la ferrovia il mezzo usato per poter conquistare l’impero del Centro Asia. Si arrivò così facilmente all’annientamento della forte resistenza dei tekkè, e delle altre tribù nomadi che si opponevano all’invasione. In epoca sovietica arrivarono coloni e maestranze a migliaia da Russia e Ukraina.

A rriviamo stanchi, dopo giorni e giorni di viaggio in pullman. Troviamo pure un pezzo d’Italia nella capitale più sconosciuta che abbia visitato. Infatti chi conosce Ashkabad? Chi sa dove si trova?… Certo, così non me l’aspettavo. Avevo già sorriso davanti a monumenti e manifesti con le immagini di Assad (Siria), Gheddafi (Libia), Saddam (Iraq). Sapevo che anche quello turkmeno è un regime autoritario e che il capo è sempre lui, il turkmenbashi, il «capo di tutti i turkmeni»: Saparmuryad Niyazov, il presidente-dittatore di stampo sovietico che riesce a farsi rieleggere, sempre con una maggioranza altissima.
I monumenti che si è fatto erigere sulle piazze e agli incroci sono luccicanti d’oro e sovente sono sormontati da una corona imperiale. Vorrei fotografae uno, ma è proibito e qui la polizia fa presto a materializzarsi. Ti sequestrano la macchina fotografica e ti portano subito in questura. Abbiamo avuto già l’esperienza di un amico, trascinato via dai poliziotti perché sorpreso mentre si accendeva una sigaretta. È anche proibito fumare, ovunque.
Ovviamente i partiti d’opposizione sono fuorilegge, mentre il paese rimane il più arretrato tra le repubbliche centro-asiatiche. Dove vanno i proventi delle sue immense risorse?
La capitale è una strana città, con un bel mercato dove si trovano in vendita, oltre a frutta, verdura e mercanzie varie, i tappeti annodati delle tribù nomadi. Espressione di un’antica cultura, i loro disegni non sono solo decorativi, ma simboli di comunicazione tribale. Hanno teso le corde e li hanno appesi al sole, nella polvere per farceli vedere. La lana è quella delle pecore della tribù, tinta con i colori naturali delle erbe raccolte dalle donne, secondo procedure tramandate da generazioni. I colori sono scuri, il nero e il rosso, che richiama il culto del fuoco. Il motivo ricorrente è il gul, fiore, soggetto araldico di una tribù o famiglia. Cerco di individuare le tracce dei simboli solari, zoroastriani: la ruota della fortuna, le 5 lune, le stelle a 8 punte.
Siamo sulla via della seta e noto che alcuni tappeti, tessuti con prezioso filo, portano i disegni del bozzolo e del baco. I turkmeni hanno da poco abbandonato l’organizzazione tribale nomade, che aveva loro consentito l’indipendenza sino alla fine del 19° secolo. Ciascuna famiglia o tribù aveva un totem, costituito da uccelli, animali e piante, riprodotto sul tappeto, la cosa più importante per un turkmeno.
«Dove è il mio tappeto è la mia casa» si diceva. Ora il significato dei segni è difficile da decodificare, forse oggi neppure le artigiane dei tappeti li conoscono. È un’antica lingua pittografica, un testo storico stilizzato e misterioso. Lascio questo settore affascinante del bazar e seguo i gruppi di donne che fanno la spesa: indossano eleganti costumi in velluto devouré e un copricapo da cui a volte scende sulle spalle un velo colorato, largo come una mantiglia. Alcune sono disposte a vendermi le spille e i giornielli rustici che indossano e le loro borsettine ricamate da piccoli punti brillanti.
Un contrasto forte con questo settore della capitale si trova nei quartieri di tipo sovietico e in quelli nuovissimi voluti dal presidente. Una strana architettura neoclassica, che pare lo sfondo in cartapesta di qualche improbabile film. Poi c’è la strada degli alberghi, nuova, tagliata nella periferia: solo alberghi uno in fila all’altro, di cui due sono italiani.
Gigi non ha perso l’accento emiliano e neppure il gusto della cucina di casa. Quando è approdato ad Ashkabad, dopo aver girato il mondo come imprenditore alberghiero, ha deciso di creare una cosa un po’ speciale. Una struttura modea in una città dove mancavano gli alberghi di stile occidentale, con una bella piscina di 25 metri con trampolino e il tappeto verde tutto intorno. Il tocco esotico lo si trova solo nei negozi interni di artigianato artistico. Certo fa piacere gustare le lasagne e il prosciutto di Parma quando si è lontani da casa.
«Il clima è splendido: caldo secco in estate, che non da fastidio; l’inverno è relativamente mite. I problemi sono altri». Gigi è diplomatico e non vuole sbilanciarsi troppo: qui deve vivere e lavorare. Pare sia ben voluto anche dal presidente.

I l museo è monumentale, nuovissimo e ricco di reperti preziosi, in maggioranza di arte ellenistica, sintesi armoniosa della cultura delle tribù nomadi e di quella greca, portata da Alessandro Magno. Molti oggetti, tra cui i raffinati Ritha, provengono da Nisa, la capitale dei parti, i cui resti si trovano a pochi chilometri. Tutto il paese è cosparso di testimonianze del ricco passato della regione, abitata fin dal neolitico, da sempre attraversata da eserciti e commercianti. Nei primi secoli della nostra era, questa regione consumava la maggior quantità di seta, il prezioso filato che veniva dalla Cina.
A Nisa lavora un gruppo di archeologi italiani, che non riusciamo purtroppo ad incontrare. Alessandra Peruzzetto, dell’Università di Torino, è una giovane, appassionata studiosa torinese che ora sta scavando in un sito in riva al Caspio.
Un volo breve su un vecchio Antonov sovietico ci porta presso Merv, l’oasi di Zoroastro, conosciuta al tempo di Alessandro come Alessandria Margiana. La sua millenaria storia sembra inghiottita dalla sabbia del Karakum, dove muore anche il Murghab, il fiume che scende dai monti afghani.
Sembra impossibile che in questa distesa desolata sorgesse, intorno all’anno 1000, una metropoli di importanza culturale e commerciale dello stesso livello di Baghdad, il Cairo o Damasco. Solo il vasto perimetro di mura di fango, sfatto dal tempo, ci dà l’idea della grandezza che il sito aveva prima che Gengis Khan lo radesse al suolo. Unico edificio superstite, il gigantesco mausoleo selgiuchide del sultano Sanjar che, con la sua maestosa architettura a doppia cupola, anticipò di 300 anni il Brunelleschi.
Nella vicina casetta di mattoni crudi vive l’unico abitante della zona, il custode con la sua famiglia. Beviamo il tè dell’ospitalità seduti sulle stuoie che ricoprono il pavimento, in compagnia della nonna e della moglie che sta allattando l’ultimo nato. Sulle pareti sono appesi i simboli portafortuna, che scacciano gli spiriti del male, tipici della gente del deserto.
L asciamo il paese con un volo per Francoforte. Accanto a me una famiglia di turkmeni di origine russa. Ivan è un ingegnere che parla un perfetto inglese, nato ad Ashkabad: ha studiato in Germania e si occupa di informatica. Gli affari lo riportano talora in patria, dove ancora vivono genitori e nonni.
«Le scuole in questo paese sono molto scadenti, a parte quelle private della capitale, frequentate dai figli dei ricchi e degli stranieri», mi dice. I suoi ragazzi li farà studiare in Germania, dove conta di continuare a vivere.

POCO GAS MOLTA VODKA

Tashkent era un’antica città carovaniera, prima del terremoto. Circondata da mura, le case di mattoni crudi, era attraversata da canali ricchi d’acqua. Dopo la distruzione, fu ricostruita dai sovietici seguendo lo schema tipico dell’urbanistica delle capitali dell’Unione. Grandi viali e parchi ricchi di prati e alberi ombrosi, dove oggi si vedono pascolare pecore e montoni: un’ottima soluzione per affrontare questi tempi duri. Sono passati due anni dalla mia prima visita, ma la situazione economica del paese non è certamente migliorata e vedo che la gente si arrangia come può.

Cinque ore di bus attraverso la campagna coltivata a cotone, con una sosta al mercato dei nomadi. Vanno e vengono sui loro muli, e indossano ancora i costumi tradizionali: gli uomini col lungo cappotto di velluto blu e il turbante multicolore, le donne hanno le vesti rosse sopra i larghi calzoni di seta a righe. Alcuni arrivano su vecchissimi sidecar.
Dobbiamo anche attraversare un pezzo di territorio kazako, dove i cavalli pascolano nei prati fioriti di una primavera già calda.
All’arrivo a Samarkanda, trovo ad aspettarmi l’amica Ludmilla. L’abbraccio e mi mancano le parole. Fatico a riconoscere la bella donna, energica e polemica, che solo due anni fa mi aveva accompagnato nella mia prima visita. Ludmilla è stata molto male. È stata operata e il suo fisico porta i segni della sofferenza. Mi si stringe il cuore. Me lo dirà più tardi, spiegandomi che ormai in Uzbekistan i vecchi ospedali, pur numerosi, non funzionano. Mancano attrezzature e farmaci, il paese è allo sfascio. Avevo creduto nella sua speranza di un miglioramento, dopo i primi caotici anni del dopo URSS. Invece la situazione è precipitata. Non c’è lavoro, i prezzi sono alti e la gente non ha neppure i soldi per pagare il gas del riscaldamento. Così il governo lo ha tagliato, con gli invei rigidissimi che ci sono. E questo è un paese produttore di gas e petrolio.
Ludmilla è nata qui, ma i suoi genitori, insegnanti ucraini, furono mandati dal governo dell’URSS in Asia centrale negli anni ’30. Bisognava aiutare le popolazioni locali ad istruirsi e svilupparsi: migliaia di tecnici e insegnanti furono «invitati» a trasferirsi quaggiù. Ludmilla ha un unico figlio, che lavora a Mosca come meccanico. Il viaggio in aereo è troppo caro per fargli visita e ormai sono due anni che non lo vede. Questa lontananza la fa molto soffrire e si sente sola, con un marito che le crea molti problemi.
L’uomo, frustrato per la mancanza di lavoro, si è dato al bere, come molti in questo paese. La vodka qui la vendono in latteria, in bottiglie uguali a quelle dell’acqua minerale, e costa pochissimo. Ludmilla è una donna intelligente e volitiva. Ha studiato l’italiano da sola e lo parla perfettamente. Ha visitato l’Italia per la prima volta quest’anno, per pochi giorni. Ora il sogno di Ludmilla è di poter partire, trasferirsi nel sud della Siberia, presso la città di Omsk. In quella terra sconfinata e poco abitata non c’è la violenza e il crimine di Mosca e di altre città russe. La vita è tranquilla, meno cara e pare non faccia poi così freddo.
C. C.

Claudia Caramanti




COLOMBIA – Grilletto Facile

Guerriglia, narcotraffico, paramilitari, delinquenza comune… All’origine di tutto c’è il sistema perverso dell’economia mondiale. Accompagnate dai missionari, le popolazioni indigene e contadine del Cauca (Colombia) si oppongono a tali forme di violenza con l’organizzazione popolare, difendendo il diritto alla terra e al rispetto delle proprie tradizioni culturali.

A El Nilo, località situata sulle pendici delle Ande, il 16 dicembre 1991, uno squadrone della morte, con la collaborazione e protezione della polizia locale, ha trucidato 20 giovani indios, 3 donne e 17 uomini, riuniti insieme ad altri per progettare la gestione delle terre da poco recuperate.
Il tempo ha cancellato l’eco internazionale dell’eccidio e il ricordo delle condanne dei responsabili , come capita spesso quando sono i poveri a morire; ma ne rimane vivo il messaggio, scritto insieme ai nomi dei martiri sul muro bianco di un edificio diroccato: «Le vostre vite stroncate sono le pietre vive della nostra comunità».
Non tutti sono sepolti in quel luogo, dove l’erba è soffice e il filo di recinzione impedisce alle mucche di pascolarvi liberamente. Lo sguardo spazia sulle montagne, pendii e pianura: meditazione e preghiera sgorgano spontanee dal profondo dell’anima; il silenzio avvolgente pare messaggero di pace, ma non è così.
Questo sguardo d’insieme valica le montagne ed entra nei palazzi del potere, dove è stato deciso il Plan Colombia: investimenti clamorosi per 1.300 milioni di dollari, con cui gli Stati Uniti, col pretesto di combattere il narcotraffico, stanno introducendo nel paese militari specializzati per controllare il territorio e difendere ricchi e privilegiati.
Per ora l’Europa pare incerta. Speriamo che tale incertezza non nasconda oscure complicità o pilatesche neutralità, ma si trasformi presto in una ricerca di dialogo e collaborazione attiva con quella parte della società colombiana impegnata nella giustizia, legalità e diritti umani.

SOFFOCATI DALLA VIOLENZA
Avverto profonde sintonie con i padri Antonio Bonanomi ed Ezio Roattino, due amici, missionari della Consolata di cultura e spiritualità, coscienza lucida e coerenza trasparente. Insieme a un’équipe di altri preti, laici, religiose, essi condividono progetti, difficoltà, durezze e speranze degli indios nasa, una popolazione di 120 mila persone sulla cordigliera centrale delle Ande, nella regione sud-occidentale del paese.
«Questo popolo – spiega padre Antonio – vive una profonda memoria mitica, nella quale interpreta avvenimenti e persone, fra cui le grandi figure che ne hanno segnato la loro storia. Una di esse è padre Alvaro Ulcué, prete indio ucciso nel 1984. Anche per noi egli è un costante riferimento dell’uomo nuovo che, alla luce di Cristo liberatore, riprende il processo storico per costruire una nuova comunità. Per gli indios è lo stesso Spirito che si incarna in queste figure di profeti, liberatori, salvatori, nelle fasi di resistenza, ribellione e speranza».
Padre Antonio si fa triste e perplesso quando gli chiedo una valutazione sulla situazione della Colombia. «Dieci anni fa, avrei risposto in modo più positivo. Nella società civile di allora, insieme al conflitto, c’erano spazi di movimento, elaborazioni e scelte. Tali spazi, oggi, sono venuti meno. Ci sentiamo soffocati dalla violenza, che colpisce soprattutto i civili. I paramilitari, cresciuti nell’esercito, uccidono in modo diffuso e terribile le persone sospettate di sopportare o fare parte della guerriglia. I guerriglieri uccidono i simpatizzanti dei paramilitari; sono diventati prepotenti; pare che abbiano perso gli ideali originari di lotta per la giustizia e mirino solo al potere. Lo affermo con cognizione di causa, avendo avuto colloqui con loro che, pur non condividendo il nostro lavoro, lo apprezzano.
Poi ci sono la violenza legata al narcotraffico e la delinquenza comune, alimentata da una crisi economica spaventosa e da una grande disoccupazione. La situazione, quindi, è molto difficile. Ciò non sminuisce il nostro impegno quotidiano con le comunità, sostenendo il movimento indigeno, che pretendono e difendono l’autonomia nelle decisioni che riguardano la loro vita. Parlo di autonomia, non di neutralità, che è impossibile e rifiutata dalla gente. Tale sforzo può sembrare un’utopia, eppure il cammino continua. Da parte nostra occorrono costante formazione delle coscienze e partecipazione attiva ai progetti, impegni e verifiche».
Quando chiedo che senso abbia continuare a essere missionario in una situazione del genere, padre Antonio insiste sull’importanza di entrare in profondità negli spazi, luoghi e tempi delle persone e delle comunità, del contributo per costruire una chiesa dal cuore e volto indio.
Indicando una nuova costruzione appena terminata, il missionario aggiunge: «Sono strutture semplici ed essenziali, destinate agli incontri comunitari, anche di lunga durata, per riflettere sulla fede, cultura, spiritualità india alla luce liberatrice del vangelo di Cristo».
PADRE ALVARO… VIVE
A poca distanza da Toribio, sorge un centro scolastico e culturale, destinato all’istruzione di 600 giovani, incontri di formazione per adulti e assemblee di vario genere.
Costruita con i contributi della Comunità Europea e altri organismi di solidarietà, la struttura si autogestisce finanziariamente: i percorsi formativi, infatti, includono allevamento di bestiame, galline e pesci; coltivazioni di caffè, banane e ortaggi, destinati al sostentamento di alunni e insegnanti.
Nel settembre 2000, la popolazione indigena ha celebrato i 20 anni del «Progetto Nasa», iniziato nel 1980 da padre Alvaro Ulcué, che ne ha indicato anche obiettivi, criteri e metodi di operazione. Si tratta di un progetto culturale fatto di lavoro, resistenza, lotta, organizzazione e progettazione comunitari.
L’anniversario ha offerto l’occasione per valutare, verificare e rilanciare i progetti, con la costante ricerca di conciliare i valori tradizionali con le novità imposte dalle sfide e insidie della modeizzazione.
Padre Ezio Roattino mi guida a Pueblo Nuevo, paese natale di padre Alvaro. Sostiamo in preghiera davanti alla sua tomba. Il missionario rievoca il senso della vita e della morte di questo profeta, la presenza sempre viva nelle comunità e le parole ridette in ogni assemblea: «Pensate con profondità, studiate con impegno e passione, lottate con coraggio, siate persone di valore».
Nei lunghi colloqui durante i viaggi di trasferimento, padre Ezio ribadisce le preoccupazioni di padre Antonio sulla situazione colombiana. Come contrastare tante e continue uccisioni e violenze contro la popolazione civile? Combattere la violenza con la violenza aumenterebbe solo il caos, continua il padre pensando ad alta voce; l’ipotesi della violenza come situazione estrema per abbattere il tiranno è impraticabile in una situazione storica così complessa: se è facile individuare il tiranno nel neoliberismo, nelle multinazionali, nel latifondismo, è difficile muoversi fra tutti i soggetti armati. L’autonomia dei popoli indigeni può sembrare un’ingenuità, ma è un cammino di realismo, l’unico tentativo valido di liberazione dalla violenza.

CHI SONO I DEBITORI?
Padre Ezio passa all’analisi del debito estero, cominciando dall’espropriazione dei nomi originali, sostituiti con quelli europei: America da Amerigo Vespucci, Colombia da Cristoforo Colombo.
Lo sviluppo del mercantilismo, poi del capitalismo, in Europa e Usa ha provocato il saccheggio di manodopera e materie prime in quantità impressionante: è l’Occidente in debito nei confronti degli indigeni latinoamericani. Ed è enorme, se si aggiungono le decine di milioni di persone oppresse o eliminate, i milioni di schiavi neri, importati come manodopera a buon mercato.
È questo il debito che, iniziato da oltre 500 anni, dovrebbe essere smascherato con più evidenza alla luce profetica della bibbia e del grande Giubileo, proclamato ma non attuato come severo vincolo storico di restituzione.
Il diritto internazionale non detta all’economia le regole dell’equità e della giustizia che la vita di questi popoli esige. Siamo in un circuito perverso: i governi di paesi nel Sud del mondo sono debitori a Europa, Usa, banche: devono pagare gli interessi per uno sviluppo che non è stato tale; anzi, si è risolto in un continuo impoverimento; non riuscendo a pagarli, il debito aumenta sempre più, determinando una condizione di soffocamento.
Bisognerebbe ribaltare completamente la prospettiva: l’Europa e gli Usa dovrebbero restituire ai paesi amerindi le immense ricchezze rubate con la forza; e sarebbe solo un parziale risarcimento materiale, perché la negazione delle diversità culturali e religiose richiedono un lungo cammino di liberazione dalla logica del dominio; i milioni di vite umane eliminate resteranno sempre una drammatica domanda aperta all’imperdonabile ed omicida presunzione.
Sono frammenti dei lunghi dialoghi con padre Ezio, uomo ricco di umanità e spiritualità, minacciato, qualche tempo fa, perché pienamente inserito nei processi delle comunità indigene.
Per celebrare l’anno santo ha proposto che le mete giubilari per gli indios nasa fossero la tomba di padre Alvaro, luogo sacro per la spiritualità indigena, dove è stata collocata una grande pietra simbolica; El Nilo, dove sono stati massacrati i 20 giovani, e la cattedrale di Popayan, come centro della celebrazione eucaristica. Tre luoghi strettamente legati alla profezia, al martirio e ai valori della fedeltà. E non si è parlato di indulgenze, ma d’impegno per rinnovare le comunità, con missioni sulle montagne, affidate a donne e uomini provenienti da luoghi diversi.

LA RADICE DELLA VIOLENZA
A Popayan incontro gli amici della Fundacion Aurora e del sindacato degli insegnanti Asoinca. La prima è un’iniziativa comunitaria a cui partecipano rappresentanti di organizzazioni di quartiere, ecclesiali, contadine e indigene. Impegnata nella prevenzione e lotta alla violenza, la fondazione si muove in varie direzioni. Sotto l’ispirazione e guida delle tradizioni e culture autoctone, essa promuove lo studio e la conoscenza dei diritti umani nella famiglia, scuola, organizzazioni comunitarie. Raccoglie documenti e notizie su conflitti armati, sparizione di persone, uccisioni, sfollati, condizione di indigeni e contadini e altre violazioni dei diritti fondamentali, per poi diffonderle attraverso organismi nazionali e inteazionali.
La fondazione, inoltre, cerca di rafforzare le organizzazioni comunitarie, sostenendo progetti di produzione, distribuzione e consumo per combattere le coltivazioni illecite, promuovendo l’autogestione delle stesse comunità, nell’ambito di uno sviluppo sostenibile che integri produzione e difesa delle risorse naturali e dell’ambiente.
Nella sede dell’Asoinca è appesa una lista impressionante di nomi: 187 persone hanno ricevuto minacce di vario genere; 28 sono state assassinate tra il 1985 e 1999; numerosi sono i maestri uccisi nel 2000.
L’impegno del sindacato degli insegnanti consiste nell’essere presenti nelle comunità, organizzazioni popolari e contadine. Ma la situazione è preoccupante: nei primi sei mesi del 2000 tredici insegnanti sono stati uccisi dall’esercito e dai paramilitari. Ricatti e violenze continuano contro coloro che sono direttamente e apertamente impegnati nel sindacato.
Incontro un prete italiano incaricato del cornordinamento delle associazioni italiane impegnate in iniziative e progetti di sviluppo nella regione del Cauca. Chiedo anche a lui un giudizio sulla situazione del paese. «La Colombia è la pietra di paragone per capire la strategia dei poteri economici e finanziari per controllare tutte le risorse naturali del pianeta. Il capitale non guarda in faccia nessuno: né alle popolazioni né all’ambiente; i governi nazionali non contano nulla: sono burattini manovrati; l’Onu e altri organismi inteazionali sono impotenti, talora legati ai capitali. È questa violenza macroscopica, che si vuole ignorare, la causa della violenza sociale sistematica sulle persone così diffusa in Colombia e in altri paesi latinoamericani. Ad opporsi a tale processo mostruoso restano comunità e organizzazioni che non hanno nulla da perdere e che sono le più esposte e colpite».

TERRORE DILAGANTE
Gli amici di Popayan ribadiscono quanto ho sentito da padre Antonio e padre Ezio: la minaccia dei paramilitari, o «Gruppi uniti di autodifesa» come si proclamano, diventa sempre più preoccupante. Nel maggio 2000 hanno solennemente annunciato la loro presenza organizzata in tutta la regione del Cauca.
Questi gruppi armati sono sostenuti logisticamente e operativamente dall’esercito. Con la motivazione ufficiale di combattere la sovversione, entrano nelle zone ricche di risorse naturali o in posizioni strategiche per appropriarsene o per aprire la strada ai megaprogetti delle multinazionali. Terrorizzano le popolazioni, indios e campesinos, uccidendoli e scacciandoli dalle loro terre. Minacciano sindaci, leaders popolari, insegnanti, sindacalisti e quanti sono impegnati nella difesa e promozione dei diritti umani.
Lo stato afferma che combattere il fenomeno dei paramilitari non fa parte del suo programma politico; in pratica, però, tale inerzia si traduce in connivenza con le multinazionali e in copertura del diffusissimo sistema di impunità.
I paramilitari entrano anche nell’attuazione del Plan Colombia, che impone la fumigazione delle piantagioni di coca con un fungo micidiale: questo non distrugge solo le foglie di coca o di papavero, ma attacca tutto ciò che trova, producendo effetti collaterali devastanti e ancora imprevedibili. I contadini sono costretti ad abbandonare i loro campi o, nel migliore dei casi, diventano braccianti sottomessi ai padroni dei terreni di cui erano proprietari.

UN PRETE SULLA MONTAGNA
Gli amici di Fundacion Aurora mi portano nel sud del Cauca. Lasciata l’auto a Sucre, continuiamo il viaggio a cavallo e a piedi, fino a raggiungere la comunità di Tequendama: 12 famiglie con 105 persone, che da tre anni si sono organizzate in cornoperativa per lavorare la terra data loro in comodato, utilizzando metodi di produrre tradizionali.
Parte del tempo è impiegato nel lavoro comunitario, parte per coltivare l’orto familiare. Hanno tutti il fermo proposito di non abbandonare la terra, di non lasciarsi condizionare e fagocitare dal mercato, di conservare i semi naturali per la produzione. Una casa per incontri comunitari è in costruzione con canne incastrate in modo perfetto.
Gli uomini mostrano con orgoglio la «loro» canna da zucchero, piante di caffè che possono resistere 80 anni, il terriccio del sottobosco custodito gelosamente, perché ricco di alimenti. Il volto di una giovane contadina s’illumina di orgoglio mentre descrive i vari prodotti che crescono nell’orto sperimentale.
A sera, scrivo sul diario: «Passa un prete (sono io) su questa montagna, dove i preti non salgono mai. Uno arriva fino a Sucre, celebra i riti e se ne va. Un uomo mi dice che darà il mio nome al suo bambino; una donna mi chiede una preghiera; un’altra la benedizione di un po’ d’acqua e l’aspersione di persone e ambiente. Un medico tradizionale cerca di guarire un’ammalata. Prima della preghiera e delle benedizioni dico “qualcosa”: che sono fra loro per ascoltare; che Dio è unico, chiamato con nomi diversi; che noi europei abbiamo preteso di imporre loro il nostro Dio, confondendolo con i nostri concetti e riti; che sto imparando da loro come Dio parli attraverso la creazione, gli spiriti, le persone; che l’acqua è vita, segno di purificazione, cambiamento e ripresa; che preghiera e benedizione ci aiutano a camminare accompagnati da Dio e accompagnandoci tra noi, come figli dello stesso Padre».

Paolo Moiola




TANZANIA – Alunno con gli alunni

Mettersi a scuola dei propri discepoli
può diventare un’esperienza simpatica e arricchente.
Ce la racconta un missionario.

«Mkwawa» è il nome di una delle molte scuole superiori nella città di Iringa, che la rendono quasi una piccola capitale dell’educazione. Ai tempi coloniali si chiamava «Scuola di Sant’Alberto e San Giorgio»: due nomi di tipica connotazione inglese. Ma, con l’indipendenza, era giusto che fosse battezzata col nome di «Mkwawa», un soldato che a Lugaro, vicino ad Iringa, il 17 agosto 1891 sconfisse i tedeschi e per parecchi anni li tenne in scacco.
Mkwawa, straordinario eroe dell’etnia dei wahehe, tutto scaltrezza e audacia, tradito, non aspettò la morte da parte dei suoi nemici, ma se la inflisse lui stesso. Oggi è lui il padrino dell’omonima grande scuola, dai molti fabbricati, che conta 1.705 studenti, tra ragazzi e ragazze. Poiché (per costruire unità nel paese) è prassi del governo mescolare studenti di tutte le tribù e di ogni provenienza e chiesa, qui ogni zona del Tanzania è sicuramente rappresentata. Sono fieri i ragazzi, per i buoni risultati scolastici, di essere stati scelti per questa scuola di reputazione nazionale che li prepara all’università o ad altre istituzioni di alto livello.
Sorprendentemente, metà degli alunni sono cattolici. Da alcuni mesi, nel desiderio di avere un contatto pastorale diretto, sono il loro cappellano. Sono giovani svegli ed è una gioia celebrare la messa con loro.
Organizzati in vari gruppi e associazioni, discutono volentieri (e a lungo) nei loro dibattiti. Per conoscere meglio la realtà giovanile, esservi sensibile e «aderente» nelle omelie, mi venne l’idea di impegnarli in un’intervista. Il suggerimento fu accolto con entusiasmo. Subito si trovarono 5 ragazze e altrettanti ragazzi disposti al martellamento delle mie domande. E così, in due sedute, potei raccogliere opinioni, riflessioni e sentimenti.
Non fui deluso nelle mie aspettative. Nessuna reticenza, ma loquacità, forza, convinzioni. E così, la scuola che frequento… divenne maestra anche per me, proprio come desideravo.
Dieci gli interlocutori: Edgar, Renalda, Anna, Yohane, Anastazia, Edward, Beatrice, Catherine, Joseph e Shukran (quest’ultimo nome significa «ringraziamento»), dai 19 ai 22 anni. La loro provenienza: dalla zona del Kilimanjaro a quella del Ruvuma, cioè dal nord al sud, specchio della scuola stessa.
Ecco alcune delle domande poste.

Cosa ne pensi della scuola?
Le risposte si ripetono.
L’ambiente è bello e piacevole, con piante e fiori. Buone le relazioni degli studenti tra di loro e con i maestri. Questi si impegnano, tuttavia sono solo 51, mentre al minimo dovrebbero essere 78. Gli alunni hanno un vero desiderio di studiare. Sono molti però i problemi strutturali: costruzioni vecchie, mancanza di libri, biblioteca inadeguata, laboratori per le materie scientifiche non equipaggiati, ecc. L’acqua (purtroppo non pulita) scarseggia e, spesse volte, si prende il tifo!

Com’è la relazione dei cattolici con gli studenti delle altre chiese e religioni?
I giudizi sono convergenti e rispecchiano la realtà, in generale, del paese.
La relazione è facile e bella. Si instaurano buoni rapporti di cooperazione e condivisione, anche nella preghiera, con gli studenti della comunità luterana e anglicana, raccolti in un’unica associazione. Faticoso è, invece, il rapporto con i gruppi di estrazione pentecostale e fondamentalista, che continuano ad accusare i cattolici delle stesse cose: culto della croce, adorazione della vergine Maria, ecc.
Più difficile ancora con i musulmani, che sono circa 150-200. Il problema non è a livello personale, ma di gruppo: si sente che è una fede diversa; per cui sono piuttosto appartati, non partecipano alle attività extracurriculari, si considerano i soli e veri credenti, manifestano disprezzo per i cristiani. Non desiderano che ci si avvicini alla loro moschea e che si partecipi alle loro attività; si aiutano tra di loro, ma tutti gli altri ne sono esclusi.

A «Mkwawa», l’aspetto «tribale» fa problema?
Una risposta è corale: «Non c’è tribalismo né tra gli studenti né da parte degli insegnanti. Ci aiutiamo a vicenda in tutte le nostre difficoltà, senza considerare la tribù o il posto di provenienza. Ci sentiamo una sola famiglia e nazione».
Ma anche nel coro ci può essere una voce stonata. Ed ecco uno affermare che gli studenti di una certa regione hanno costituito il loro gruppo: lo vede come un’espressione tribale.

Quali sono i maggiori problemi del nostro Tanzania?
Non è facile confessare le proprie povertà, sia a livello personale che comunitario. Ma gli studenti lo hanno fatto con molta schiettezza e «compassione». Sono i problemi che vivono le loro famiglie, le difficoltà vere del loro quotidiano e riscontrabili, purtroppo, ovunque.
«Il nostro paese è povero, non produce, non ha risorse. Ha un grande debito internazionale, che mortifica i suoi sforzi di sviluppo. È molto indietro nel campo della tecnologia e telematica e questo ci fa chiedere come sarà il futuro per noi. Mancano strade e quelle che ci sono non ricevono la dovuta manutenzione; per cui comunicazioni e trasporti sono difficili. La disoccupazione è preoccupante, le prospettive di impiego quasi nulle… Molti genitori non possono far studiare i loro figli. L’area della salute è a rischio; non si trovano medicine e il servizio ospedaliero è carente. Molte le malattie che imperano: malaria e tifo; a volte esplode il colera. L’Aids causa un alto numero di orfani e depaupera il paese di forze giovani.
Quanto alla politica, non è ancora chiaro ed efficace il sistema pluripartitico come strumento di vera democrazia».

Quali le caratteristiche «positive» del nostro paese?
Alla litania dei problemi e delle sfide, segue quella degli aspetti positivi.
E sono tanti: «Pace, accoglienza, uguaglianza, assenza di guerre tribali e fratricide. Frateità e condivisione, particolarmente nei momenti di festa e lutto. Si sono pure svolte due elezioni politiche con il sistema di più partiti e non ci sono state difficoltà rilevanti; tanto meno c’è stato spargimento di sangue. È assicurata la libertà di azione e appartenenza ai vari partiti e chiese. Le relazioni con i paesi confinanti sono ottime. Il Tanzania, per decenni, è stato generoso nell’accogliere rifugiati. La chiesa cattolica è numerosa e forte nella fede. Gode di stima, è impegnata nel sociale e nello sviluppo. Possiede una buona leadership e mantiene rapporti di cooperazione con le altre chiese, religioni e governo».
È stato certamente un grande dono del Tanzania, fin dall’indipendenza, il non avere avuto significative divisioni. Anche il futuro sembra incamminato in tale direzione. Le parole più ricorrenti durante le ultime elezioni politiche erano: pace, frateità e sviluppo. A volte, però, ci si chiede se non sia una pace… troppo pacifica. Non sarebbe meglio dare più voce alle proprie sofferenze, ingiustizie sociali e diritti? La pazienza e la sopportazione in Tanzania sono smisurate.

Gli studenti di «Mkwawa» sono passivi o dinamici?
Dovuto anche al loro numero, a dire di tutti gli intervistati, gli studenti cattolici sono una vera forza. Organizzati in varie associazioni (Tanzania Young Catholic Students, Legio Mariae, Terziari francescani, Gruppo vocazionale, Coro…), sono in prima linea nella carità: visitare gli ammalati e i prigionieri ogni domenica. Appaiono sempre là dove l’aiuto e la solidarietà sono richiesti: pulizia nei vari posti, donazioni di sangue, interventi di emergenza.
«Ci vogliamo bene. Ci aiutiamo. Siamo additati agli altri come esempio. Ci sono giovani veramente maturi nella fede come persone»: sono le loro espressioni. È la loro percezione di se stessi.
Vi aspettereste risposte diverse? Un pizzico di orgoglio per la propria identità ci vuole pure! Ma (e sarà orgoglio anche il mio?) so che queste affermazioni sono la verità. L’avevo notato fin dall’inizio: molti incontri e attività caritative, sempre ben preparate e organizzate, con molti che vi partecipano.

Che cosa farai nella vita?
«Difficile prevedere il futuro: è nelle mani di Dio. Inoltre il nostro paese nella sua povertà offre poco e la vita è veramente difficile. Ma non mancherà l’aiuto di Dio per disceere, scegliere e agire».
Nonostante titubanze e incertezze, alcuni si esprimono chiaramente circa il proprio futuro. Yohane ed Edgar desiderano essere medici. Joseph non lo sa; chiede luce al Signore, ma di una cosa è certo: vuole proclamare il vangelo con tutta la sua vita. Anche Renalda ancora non ha scelto una professione, ma si propone di essere una buona laica. Anna e Beatrice pensano alla consacrazione religiosa. Catherine: la sua passione è essere ingegnere e buona madre di famiglia. Anastazia mira ad essere maestra o avvocato. Edward e Shukran contemplano il sacerdozio.

C’è una connotazione lodevole nelle risposte di tutti: una dimensione apostolica in qualsiasi professione. Tutti qualificano la loro risposta, dicendo che vogliono essere testimoni della parola di Dio, annunciarla nella vita e nell’aiuto agli altri.
Sono soltanto parole, buoni propositi al vento, o frutto di una vera maturità, acquisita nella frateità, nell’aiuto vicendevole e con la formazione in varie associazioni? C’è di tutto, e ci sarà di tutto. Ma non sono sicuro che in questi giovani (rappresentanti di tutti gli altri) c’è un seme vero e fecondo. Lo dicono il loro impegno e serietà.
C i sono state altre domande e risposte, ma queste bastano per dare un’idea del clima della scuola.
A titolo di informazione: mi hanno chiesto di continuare a «stimolarli» con dibattiti simili, per non «accontentarsi» ed essere sempre critici con la realtà e se stessi. Lo farò. Non è comune una richiesta del genere. I giovani hanno bisogno di coltivare i semi di bene che portano dentro. L’alba promettente di Mkwawa può diventare una piccola luce per il paese e la chiesa.

Giuseppe Inverardi




ALBANIA – Altan ha gli occhi di miele

Almeno un milione allo scafista albanese, altre 300 mila lire al taxista italiano e poi via verso le grandi
città della speranza. Molti sono i minori arrivati senza famiglia. I più fragili sono facile preda della criminalità, sempre alla ricerca di nuova «manodopera».
I più fortunati trovano una comunità di accoglienza, dove il volontariato (cattolico o laico) svolge un lavoro
mai abbastanza valorizzato.

Altan ha 15 anni, è biondo e ha gli occhi color del miele. Il suo viso di bambino sfugge allo sguardo dei «grandi». È arrivato un paio d’anni fa dal nord dell’Albania. A bordo di un gommone, insieme a tanti suoi connazionali, ha attraversato l’Adriatico ed è sbarcato sulle coste pugliesi.
I suoi occhi esprimono ancora paura mentre descrive il viaggio: un vero inferno, tra decine e decine di corpi che si aggrappano ai bordi dello scafo, si legano, si stringono l’uno all’altro, per non cadere tra i flutti. Donne, bimbi, neonati, vecchi e giovani, terrorizzati dalla folle velocità con cui lo scafista conduce il veicolo tra le onde gelide del mare. Spaventati da ciò che li aspetta: attraversare a nuoto un lungo tratto d’acqua profonda e fredda, qualcuno da solo, altri con figli piccoli tra le braccia; alcune donne agli ultimi mesi di gravidanza, altre vecchie e senza forza. Gruppi umani accatastati come bestie e come bestie gettati nell’acqua aperta non appena la guardia costiera o i carabinieri appaiono all’orizzonte. Bimbi usati come scudi o come ostaggi da uomini senza più emozioni.
Per questo viaggio allucinante, ogni persona ha pagato almeno un milione di lire allo scafista.
Nel suo italiano appreso nei centri di formazione per stranieri, Altan continua: «Raggiunta la costa a nuoto, si cammina per due o tre ore, a piedi, per arrivare al punto stabilito per l’incontro con i tassisti (generalmente italiani), che ci condurranno nelle varie città pugliesi».
A questi tassisti nostrani pagano circa 300 mila lire a testa. Una volta giunti in prossimità di una stazione ferroviaria, salgono su treni diretti verso le maggiori città italiane. Milano e Torino sono tra le mete preferite.
D’estate invece si fermano nella provincia di Foggia, dove vengono impiegati nei lavori agricoli. Con la somma guadagnata possono presto saldare i debiti contratti con familiari e amici, che sono serviti loro a pagare il viaggio.

Perché scelgono l’Italia? «Molti di noi, nel passato, si sono diretti in Grecia. Adesso, però, non è più possibile entrarvi e quindi non rimane che l’Italia, le cui frontiere costiere sono molto più aperte e accessibili. La destinazione desiderata, comunque, rimane la Gran Bretagna o il nord Europa».
Molti degli albanesi approdati nel nostro paese provengono da zone rurali o montane dell’Albania. Aree molto depresse, dove il livello di vita è bassissimo, la povertà economica e sociale molto forte.
La prima tappa della loro emigrazione (o emigrazione intea) consiste, in genere, nel discendere dai villaggi di montagna verso le periferie delle città più importanti – Tirana, Durazzo, Valona – e nel trovare una misera collocazione in baracche senz’acqua, senza luce e senza impianto fognario. Vivono per qualche tempo in tanti, membri di una stessa famiglia allargata con numerosa prole. Vendono le poche bestie in loro possesso e cercano di emigrare all’estero.
A questo punto inizia la seconda fase del percorso migratorio. Forse il più doloroso e il più rischioso. Certamente quello su cui sono investite enormi speranze.
Ma cosa succede ad uno dei tanti ragazzini albanesi emigrati, una volta arrivato nelle grandi metropoli italiane? Ad esempio, a Torino?
«In genere, appena scesi dal treno, c’è qualche amico o parente che ci aspetta e ci porta a casa sua. Chi però non conosce nessuno, se ne sta in mezzo alla strada, al freddo, senza cibo, facile preda di bande criminali».
Grazie ad un vero e proprio «passa-parola», molti minori arrivano all’Ufficio stranieri, dove ricevono buoni mensa, buoni doccia, e in certi casi una sistemazione in qualche comunità d’accoglienza.
Nel 2000 a Torino sono arrivati più di un centinaio di ragazzini albanesi e, di questi, circa 40 dormono ancora all’aperto, in vagoni ferroviari vuoti, nelle fabbriche, nei magazzini abbandonati, ecc.
Al mattino si alzano e vanno a fare colazione in via Nizza, dalle suore della San Vincenzo; a pranzo sono invece al Cottolengo, dove li attende la lunga fila per il pasto; per la cena si recheranno in via Le Chiuse. Alcuni tra i più fortunati trovano ospitalità presso comunità, parrocchie o associazioni: al Sermig; da don Matteo, nella parrocchia di San Luca; all’Asai; dai camilliani; alla Caritas; alla Nuova Aurora.
Il freddo dell’inverno avrebbe probabilmente ucciso i 15 ragazzini albanesi che avevano trovato un precario riparo alle fermate degli autobus e negli ex ospedali psichiatrici, se qualcuno non li avesse soccorsi. Il gelo li aveva sorpresi a Torino, città che, per loro, significava lavoro e benessere.

Comunità «Nuova Aurora», via Vigone. La struttura, una vecchia casa completamente restaurata, è accogliente e spaziosa, e i volontari del gruppo vincenziano, ben organizzati e molto motivati.
Tra loro, Edison Doci, educatore e interprete albanese, in Italia da un decennio, vive in un appartamento all’interno della struttura e si occupa dei ragazzi a tempo pieno.
Dal ’98 i responsabili della comunità non solo ospitano minori albanesi (che attualmente arrivano a 25), ma si spingono ben oltre l’accoglienza: ne sono i tutori a tutti gli effetti, sia dal punto di vista legale e sociale, che da quello affettivo e psicologico. Sono una ventina di adulti, spesso padri e madri di famiglia, che hanno deciso di prendersi carico di uno o più ragazzini e di seguirli, come si fa con i propri figli, in tutti gli ambiti della vita, dallo studio, al lavoro, al tempo libero, ai legami con la famiglia d’origine. Se ne curano sino e oltre la maggiore età, finché questi trovano un lavoro stabile e un’abitazione fuori della comunità dove vivono, e possono così ricevere un permesso di soggiorno permanente.
Una strada diversa, innovativa, rispetto alle tradizionali comunità per minori gestite da cornoperative e seguite da personale educatore. Si tratta di rivestire più che altro il ruolo del tutore-genitore, una figura di cui i ragazzi immigrati senza famiglia hanno molto bisogno. E che, a quanto pare, funziona sia per loro, sia per le istituzioni e le forze dell’ordine: la tutela è infatti concessa in base alle credenziali presentate da ogni volontario e alle garanzie educative e di continuità – e di controllo – da loro foite.
La vita di comunità, per questi adolescenti, è ritmata dalle ore di lavoro presso fabbriche, cornoperative, magazzini, dai corsi di alfabetizzazione e di formazione professionale in idraulica, edilizia, falegnameria, industria, ecc., dai toei di calcetto e di calcio, dalle discussioni di gruppo, dalla musica. Una quotidianità austera, se confrontata con quella di migliaia di giovani torinesi loro coetanei, ma certamente più dignitosa e serena di quella che si sono lasciati alle spalle nei villaggi montani o nelle baraccopoli di Durazzo o Tirana.

Molti nostri nonni, ancora ragazzini, emigrarono in massa verso le Americhe, con pochi stracci e una grande speranza nelle valige di cartone.
Come quegli emigrati italiani rincorrevano il sogno di un lavoro decoroso con cui mantenere se stessi e le famiglie lasciate in patria, così oggi questi giovanetti in cerca di lavoro si dirigono su gommoni infeali verso le terre della nuova America: un’Europa ricca, conservatrice, smemorata e un po’ razzista.

OLTRE IL PASSATO

Nel grande magazzino della cornoperativa torinese «Tenda Servizi», che ha sede in via Pinerolo 50/B, ferve il lavoro: scatoloni, carrelli e tavoli traboccano di giocattoli che vengono assemblati e confezionati da giovani provenienti da tutto il mondo. Italiani, marocchini, albanesi, cinesi, aivoriani, rumeni, ecc. lavorano, fianco a fianco, in quello che pare un interessante progetto di recupero del disagio e di educazione alla convivenza e alla solidarietà.
«Tenda Servizi», fondata nel ’94 da un gruppo di volontari, è una cornoperativa sociale che dà lavoro a una cinquantina di persone – di cui 12 extracomunitari -, e che ha saputo fondere qualità e competitività dei servizi, imprenditorialità e dignità umana. «La centralità della persona è per noi un’esigenza morale prima ancora di una strategia aziendale. Infatti, non abbiamo cercato di creare semplicemente una struttura che offrisse lavoro e che fosse concorrenziale sul mercato – racconta il presidente, Bruno Ferragatta -. Abbiamo voluto soprattutto stimolare le capacità professionali di ciascun dipendente, aiutandolo a far emergere le proprie potenzialità. Ognuno di loro proviene da situazioni o esperienze problematiche; si tratta, cioè, di persone uscite dal mondo della droga, e spesso del carcere, della prostituzione, dell’alcolismo, della violenza, del disagio psichico. Proprio per questo, il nostro obiettivo è aiutarli a valorizzare la vita personale e lavorativa, incoraggiandoli ad andare oltre il proprio passato e a ritrovare fiducia in se stessi».
Reintegrazione sociale e psicologica, dunque, attraverso il lavoro, le relazioni sociali, e la solidarietà: ogni dipendente partecipa, mensilmente, attraverso una minima parte dello stipendio, alla costituzione di un fondo di assistenza per i membri della cornoperativa che sono in difficoltà.

Un’altra attività della cornoperativa, che impegna 12 ragazzi, è quella della raccolta differenziata di indumenti usati, attraverso i 750 contenitori distribuiti su tutto il Piemonte. «Il potenziale di raccolta su cui si basano le nostre stime – continua Bruno Ferragatta – è di 7 chilogrammi di abiti all’anno, per ogni abitante, buttati nei cassonetti. Il nostro obiettivo è di raccogliee il 40 per cento circa. In questo modo, preserviamo l’ambiente evitando che ingenti quantità di materiali di rifiuto confluiscano nelle discariche; offriamo un servizio ai cittadini, che possono così depositare i vecchi indumenti in prossimità delle abitazioni; contribuiamo alla realizzazione di progetti Unicef; creiamo nuovi posti di lavoro e diamo la possibilità ad aziende specializzate di recuperare gli abiti usati rigenerandone il materiale». Dopo lo smistamento nei centri di raccolta, i vestiti ancora in buono stato sono destinati all’esportazione, gli altri vengono trasformati in stracci, in matasse di filo e in materie isolanti destinate alle automobili e alle costruzioni.
A.La.

OSPITI DI SUOR PALMINA

Suor Palmina ci accoglie con un simpatico sorriso di benvenuto, lo stesso, forse, con cui gioalmente apre le porte dei 13 alloggi (tutti nello stesso condominio) che compongono la comunità e in cui vengono ospitate famiglie con bambini gravemente malati.
Ha una grande forza interiore, questa piccola donna che ha dedicato la vita ad alleviare angoscianti tragedie familiari offrendo il tepore d’un focolare casalingo. Sulle pareti di una delle allegre camerette, un’ampia coice raccoglie foto di bimbi e adolescenti malati di cancro, passati di lì. L’anno scorso ne sono arrivati, uno dopo l’altro, oltre un centinaio, e più di 600 in 11 anni di attività.
Fondata nel 1989, l’associazione «Casa Amica» è nata da una filiazione dell’«Associazione zonale accoglienza stranieri», creata, nel 1985, da don Beppe Cerino e da altri sacerdoti e laici. Ora conta più di cento soci e molti sostenitori. Sono la «mano» della Provvidenza, quella su cui suor Palmina, suor Francesca e don Beppe fanno grande affidamento per la loro missione di accoglienza e solidarietà.
Inizialmente, l’Associazione zonale si occupava di giovani studenti stranieri: «L’immigrazione è molto cambiata negli ultimi 10 anni – racconta suor Palmina -. A Torino arrivavano ragazzi soli, per studiare, e, nel giro di qualche anno, ritornavano in patria. Ora chi emigra è per cercare un lavoro e per fermarsi. Siamo passati, infatti, all’ospitalità di intere famiglie, che vanno aiutate nella ricerca di un’occupazione, di una casa. Attualmente, abbiamo sistemato una quindicina di immigrati in case trovate dagli amici che gravitano intorno all’associazione. Foiamo loro anche una borsa con alimenti».

«Casa Amica» accoglie, invece, nuclei familiari i cui figli sono ricoverati nei vicini ospedali, soprattutto il «Regina Margherita». «Dieci anni fa venimmo a sapere che proprio all’ospedale infantile – continua la suora – una mamma, da tempo vicina al suo bimbo gravemente ammalato, aveva dovuto passare ben 12 notti su una sedia a sdraio, perché mancavano le strutture di accoglienza per i parenti dei malati. Riflettemmo su ciò: come potevamo dirci fratelli se non avessimo fatto qualcosa per quelle situazioni che ci toccavano da vicino? Così iniziammo a darci da fare».
Ecco allora che negli alloggi, acquistati nel corso degli anni grazie alla solidarietà di sostenitori e amici, trovano ospitalità persone provenienti da tutta Italia e anche dall’estero, costrette a fermarsi a Torino anche per molto tempo, e per le quali i costi e la permanenza in un albergo sarebbero improponibili, oltreché un’ulteriore fonte di desolazione e di solitudine.
Ed è proprio per alleviare quel senso di impotenza, di lontananza dai propri parenti e amici, che «Casa Amica» è nata e continua la sua battaglia giornaliera contro gli ostacoli – primo fra tutti la mancanza di soldi –, trovando la forza nella genuina fede in una Provvidenza che giunge sempre, anche quando nessuno ci spera più.
«In questi anni di attività, abbiamo visto tante volte la disperazione dipinta sui volti di padri e madri. Ma questo smarrimento spesso si trasforma in fiducia e speranza, e in gratitudine, per aver trovato un porto ospitale. Tuttavia, il lavoro è tanto e noi iniziamo ad invecchiare: abbiamo bisogno di forze nuove. Speriamo che qualcuno accolga il nostro appello».
A.La.

Angela Lano




BURUNDI – Via dalla mia terra

Nel calderone dei Grandi Laghi africani, il Burundi continua a mietere le sue vittime. Anche tra i missionari italiani. In quattro mesi, due sono stati uccisi (Antonio Bargiggia e suor Gina Simionato) e un terzo gravemente ferito (don Carlo Masseroni). Chi resta si domanda perché e chiede giustizia. Nel frattempo, l’assassinio di Kabila (16 gennaio), presidente del vicino Congo (rd), ha reso più instabile tutta la regione. Qualcuno parla anche di una «Repubblica dei Grandi Laghi», sotto controllo ruandese…

Quel mattino stavo andando a Murayi a 25 chilometri da Gitega, la seconda città del Burundi. Un amico mi chiama sul telefono portatile: «Pare ci sia stato un attacco vicino a Kibimba, ne sai niente?». Ero a tre chilometri dal posto.
Cerco di informarmi e mi accosto alla posizione militare di un campo di déplacés (sfollati, a maggioranza tutsi, che vivono in villaggi artificiali lungo le strade principali). Il soldato conferma: «Sì, è successo qualcosa, ma non c’è problema, non ci sono scontri in corso nella zona. Continuate pure. Nessun rischio». Sta per proseguire a piedi quando, tornato in dietro, in modo un po’ beffardo mi guarda e rivela: «È stato ucciso un muzungu (bianco), ma la situazione è sotto controllo».
In Burundi muoiono ogni giorno decine di persone a causa della guerra. Civili uccisi dalla guerriglia; contadini che cadono nelle rappresaglie dell’esercito regolare, altri presi tra i due fuochi. Ma, quando la vittima è uno straniero, il significato è molto più forte. È un messaggio che qualcuno vuole mandare.

È il tre ottobre scorso, quando Antonio Bargiggia, volontario laico consacrato, si ferma ad una barriera sulla strada che ogni settimana percorre per raggiungere la capitale.
Qualche discussione con i quattro uomini che lo hanno fermato. Poi uno finge di andare verso la parte posteriore dell’auto, si gira e gli spara un colpo alla nuca. I suoi compagni di viaggio (tre burundesi) fuggono incolumi.
Fratel Antonio (così era conosciuto in Burundi) era nel paese da 20 anni. Apparteneva a «Fratelli dei poveri», gruppo di religiosi e laici di Milano riconosciuto dal cardinal Martini. Da alcuni anni viveva a Buterere, uno dei quartieri più poveri della capitale. Zona di case di fango e lamiera, che ogni sera alle sei viene «chiusa»: nessuno può entrare o uscire fino al mattino dopo. Abitava in una casa burundese, come i burundesi più umili. Caso unico per un muzungu in questo paese.
«Antonio era una persona che mi incantava per la sua umiltà e per il saper stare con i locali. Era l’unico a preoccuparsi anche dei soldati. Diceva: “Poveri ragazzi, anche loro soffrono ma nessuno li considera”. Come apostolato, seguiva all’ospedale militare i feriti senza parenti, portando loro conforto». È la testimonianza di un volontario italiano, subito dopo l’accaduto. Eppure sono stati quattro giovani militari sui vent’anni gli esecutori.
Fuggiti con la sua macchina (strano errore, forse erano certi dell’impunità garantita dal loro mandante), sono stati arrestati un’ora dopo. Il governo si è subito preoccupato di affermare che erano disertori. Dopo un processo sommario, uno di loro (quello che aveva premuto il grilletto), è stato fucilato davanti ai suoi compagni e alla gente di Gitega.

Quindici ottobre. Verso le sette del mattino, la macchina delle suore Dorotee di Venezia lascia il seminario maggiore di Songa, nei pressi di Gitega, per dirigersi alla parrocchia di Gihiza dove le suore abitano. Il giorno prima erano venute a dormire al seminario, perché c’erano «strani movimenti» intorno alla missione. Poco prima di arrivare vedono un gruppo di persone sulla strada. Partono alcune raffiche di mitra che investono suor Gina Simionato, unica italiana, al volante. La suora trevigiana è colpita al volto e muore sul colpo. Delle tre consorelle burundesi che la accompagnano, una si fa un graffio. Si dirà che la macchina è caduta in un attentato dei ribelli che hanno sparato all’impazzata. Osservando la vettura, risulta invece chiaro che i colpi erano tutti indirizzati al guidatore muzungu. Un proiettile ha lasciato un buco molto grosso nella carrozzeria posteriore: non si trattava forse di un semplice kalashnikov.
Al contrario dell’attacco di Kibimba, qui non si scopre chi sia l’autore. L’accusa cade subito sui ribelli che da alcuni giorni girano nella zona. Ma l’attentato è avvenuto a circa cinque chilometri da una posizione militare e le testimonianze lasciano molti dubbi sulla cronologia esatta dei fatti. «Non sembra lo schema utilizzato dalla ribellione», confida un giornalista della capitale. Possono essere stati i militari, ma anche le bande di estremisti tutsi, già famose a Gitega, pilotate da un potere nascosto ma presente ed efficace, che forse sta riacquistando consensi a causa della situazione politica.
Il Burundi è devastato da una guerra civile dal 21 ottobre del 1993, quando il primo presidente democratico, l’hutu Melchior Ndadaye, fu arrestato e ucciso da un gruppo di militari estremisti. Da allora l’esercito, a maggioranza tutsi (oggi però, per mancanza di forze, esso impiega anche molti giovani hutu), e diversi gruppi armati ribelli a dominante hutu, si scontrano. O meglio, saccheggiano e massacrano la popolazione civile dei due campi.
Dopo diversi tentativi di pacificazione, Nelson Mandela, mediatore della crisi burundese dal dicembre 1999 (succeduto allo scomparso Julius Nyerere), è riuscito a portare 19 partiti burundesi a siglare un accordo-quadro il 28 agosto scorso ad Arusha, in Tanzania. La debolezza di questa firma sta nel fatto che molti partiti (soprattutto quelli legati all’estremismo tutsi) hanno firmato con riserve. Questo vuol dire che tutti i passi più importanti sono da ridiscutere e negoziare (presidenza di transizione, rappresentanza etnica nell’esercito, nella giustizia e nell’amministrazione). Ancor peggio: nonostante gli sforzi di Mandela, i due maggiori gruppi ribelli hutu, le «Forze per la difesa della democrazia» (Fdd) e le «Forze nazionali di liberazione» (Fnl), quelli che hanno gli eserciti sul campo, non erano presenti ai negoziati che hanno portato alla firma.
Incontri diretti tra il presidente della repubblica, il maggiore Pierre Buyoya, e il leader dell’Fdd, Jean-Bosco Ndayikengurukiye sono in corso in Sudafrica e potrebbero portare a qualche passo positivo. Nel paese, però, domina la paura. Paura dei tutsi che, come minoranza, temono un esercito misto, perché le forze armate burundesi, guidate da ufficiali tutsi, soprattutto del sud, sono la loro unica vera garanzia di non essere prevaricati dall’80-85% hutu e di mantenere i loro privilegi. Paura del popolo contadino a maggioranza hutu, che subisce sempre più i saccheggi della guerriglia e le rappresaglie dei militari. Paura dei pochi intellettuali hutu delle città, che rischiano di essere presi di mira, come è già successo in passato.
Per questo, dal 28 agosto le azioni di guerra, invece che diminuire, si sono intensificate. Da un lato i guerriglieri sono tornati a far sentire le armi, per mostrare il loro potere negoziale, dall’altro cresce il malcontento tra gli ufficiali dell’esercito che si oppongono alla firma e le frange estremiste tutsi hanno ripreso a organizzarsi. «Il tempo è poco – racconta un membro della delegazione governativa ad Arusha – il presidente potrebbe avere problemi a tenere calmi i vertici militari ancora per molto. D’altro lato i ribelli sono ben equipaggiati anche grazie al loro intervento in Congo e non hanno tutta questa voglia di scendere a patti». Kinshasa fornisce all’Fdd di Jean-Bosco armi e protezione, in cambio l’armata ribelle difende il fronte a Lubumbashi (capitale dello Shaba, nel sud) contro l’avanzata dell’esercito regolare burundese. Una guerra con caratteristiche sempre più regionali.
L’assassinio di Kabila, in Congo, il 16 gennaio scorso, ha l’effetto di sbilanciare ancora di più l’instabile equilibrio dei Grandi Laghi. Gli alleati burundesi del defunto presidente congolese si trovano ora in una posizione di svantaggio, perché viene loro a mancare un partner importante. Sentendosi meno forti potrebbero essere più disponibili a trattare. D’altro lato, il governo del Burundi (ma soprattutto gli estremisti tutsi) si irrigidiranno, forti della scomparsa del nemico di Kinshasa. Andando oltre, gli eserciti ruandese, ugandese e burundese, che occupano e saccheggiano quasi la metà della Repubblica democratica del Congo, potrebbero, ancora una volta, avanzare verso la capitale, oppure tentare l’annessione formale dei vasti territori occupati.
Già da tempo si parla di una fantomatica «Repubblica dei Grandi Laghi», sotto il controllo ruandese.

Intanto, in Burundi, si cercano ancora delle risposte. «Ma perché questi attacchi a religiosi italiani?». Si chiede un missionario da anni nel paese. «Se contiamo anche la pallottola sparata a freddo in faccia a don Carlo Masseroni (missionario fidei donum di Novara), vivo solo per miracolo, a luglio, siamo già a tre: tutti con modalità simili». Già, perché? Non è la prima volta (nel settembre 1995 due padri saveriani e una volontaria furono giustiziati a casa loro dai militari). Perché sono testimoni scomodi, perché lavorano a fianco della popolazione più abbandonata e sono tra i pochi a sapere e, a volte, a denunciare, in questo paese dove la stampa è ancora imbavagliata. Ma anche perché spesso sono gli obiettivi più facili e indifesi.
Fratel Antonio era a conoscenza di molti problemi di Buterere, tra cui questioni di terra. Don Carlo aveva riconosciuto i militari che, per la seconda volta in pochi mesi, erano tornati a rubare alla missione. Chi ha ucciso fratel Antonio era stato visto il giorno prima, nello stesso luogo, a informarsi sui movimenti dell’italiano. Allo stesso modo, alcuni sconosciuti chiedevano quando sarebbero tornate le suore, i giorni precedenti all’imboscata di Gihiza.
Ma secondo altri (per prima la comunità internazionale) «sono casi isolati di banditismo, senza nessuna relazione tra loro»; a scopo di furto, è la tesi più accreditata, quando invece i religiosi non avevano soldi addosso. Addirittura si sente dire: «Le vittime viaggiavano a orari non conformi alle norme di sicurezza, nei quali il governo burundese non può garantire la protezione degli stranieri».
Questi sono i ragionamenti di chi vuole archiviare il caso e non creare problemi ai propri partner governativi. I media locali non danno spazio a questi gravi fatti (soprattutto il secondo passa sotto silenzio) e gli operatori umanitari di Nazioni Unite e organismi inteazionali non ricevono (tranne quelli italiani) particolari consegne di sicurezza.

Tra i religiosi e volontari italiani si accusa il colpo. Molta tristezza, condivisione, ma anche un po’ di remissione: «È la vita dei missionari», confida un’anziana suora. «Vanno bene i martiri, ma vogliamo pure giustizia», replica un missionario laico.

Marco Bello




ECUADOR – Un “alito” di salute

È arrivato a buon termine il sogno
di un ospedale,
nato per gli indigeni
e costruito grazie
a un medico generoso.
Piccoli miracoli di ordinaria «provvidenza».

È stato finalmente inaugurato, nel mese di giugno 2000, nella missione di Punín (Ecuador), alla presenza di varie autorità, missionari e indios delle diverse comunità, l’ospedale «La Consolata». E ha avuto pure l’onore della cronaca di vari giornali locali.
Prima della cerimonia, il vescovo, monsignor Victor Corral, ha celebrato l’eucaristia come ringraziamento per la creazione di questa opera veramente necessaria.
Padre Davide Manca, missionario della Consolata, ha spiegato come il progetto, ideato nel 1996, sia diventato realtà grazie alla collaborazione del dottor Riccardo Grifoni. Questi, «scosso» da un articolo pubblicato su una rivista missionaria, si è dato da fare… e sono arrivati i finanziamenti dell’Associazione di volontariato «Alito» di Ancona. I lavori, iniziati nell’aprile 1999, si sono conclusi alcuni giorni prima della festa della Consolata e dell’inaugurazione (20 giugno 2000).
La costruzione, che ha avuto un costo di 65.000 dollari, verrà in aiuto non solo agli indigeni di Punín, ma anche a quelli di San Luis, Cebada, Flores e di altre comunità dei dintorni. Costoro avranno, d’ora in poi, l’opportunità di tenere sotto controllo la propria salute e a costi piuttosto contenuti; inoltre, come ha detto il dottor Carlos Torres, uno degli ideatori dell’opera, «saranno firmati accordi con altre istituzioni per puntare l’attenzione non solo sui malati, ma anche sulla prevenzione delle malattie».
Questi i dati scai di cronaca. Ma, per arrivare al giorno dell’inaugurazione, occorre partire un po’ più da lontano…

I n quel tempo (cioè all’inizio degli anni ’90) a Punín alcune situazioni, tra pazienti e medico, erano un po’ strane. Per ogni sorta di malattia, la meta obbligatoria era Riobamba, capitale del distretto. E lì succedeva che qualche medico, per farsi pagare, qualunque fosse la malattia del malato, riuscisse a far vendere ai poveri indigeni la stessa quantità di animali (unica fonte di sostentamento).
C’è stato chi, venuto in contatto con un anziano di una comunità, malato di cancro allo stadio terminale (e, peraltro, già visitato da un medico locale che gli aveva diagnosticato pochi giorni di vita), lo aveva operato lo stesso; con il risultato che il paziente, poche ore dopo era già spirato, ma intanto aveva sborsato un milione e mezzo di sucres (circa 500 dollari).
Lo stato di cose mi ha fatto pensare alla necessità non di un vero e proprio ospedale, quanto ad un piccolo centro sanitario che avesse funzione di «filtro».
Nel frattempo il medico di Punín, Carlos Torres, e io abbiamo discusso seriamente la questione e ci siamo trovati d’accordo su un punto: bisognava fare qualcosa per quella povera gente, che aveva tutto il diritto (sulla carta) alla salute, come qualunque cittadino di Quito o di Guayaquil. Siamo rimasti d’accordo che, al ritorno dal mio viaggio in Italia, nell’ottobre del 1996, avremmo ripreso le fila del discorso.
In realtà non ho aspettato il rientro in Ecuador. Soggioando in Svizzera, dove vive un mio fratello, ho condiviso con lui la seria preoccupazione per questo problema: e anch’egli ne ha fatto una causa propria, richiedendo il progetto della costruzione (poi modificato) e assumendo accordi con il comune di Losanna per ottenere un finanziamento di circa 5.000 franchi, da inviare a metà dell’opera.
Toai in Ecuador con il piccolo progetto in mano, ma che necessitava qualcosa di più che i 5.000 franchi, pur preziosi. Era necessario continuare a cercare…
La meta fu Quito, la capitale. Il primo tentativo lo feci alla Swissaid, associazione dipendente dall’ambasciata Svizzera; ma, per quell’anno, non erano previste spese per progetti sulla salute e la risposta mi venne data al terzo viaggio che facevo. Altre vie: Fepp, Coopi, Comité Economico de Proyectos, Mlal: tante sigle importanti, ma il tutto si concretizzò solo in una lunga serie di indirizzi e niente di più.
La salvezza arrivò invece (lo credereste?) dall’Africa. O, meglio, da un medico italiano, assolutamente sconosciuto, che ci chiedeva «il favore» di poter collaborare per la costruzione dell’ospedale.
Tutto ci sembrò un miracolo.

L a cosa era andata così. Nel febbraio del 1997, erano venuti a trovarci i genitori di padre Giannantonio Sozzi, missionario mio confratello, oggi in Colombia. La visita in Ecuador li aveva particolarmente colpiti. Pertanto, al loro rientro in Italia, avevano pubblicato le proprie impressioni sul bollettino parrocchiale. A quanto pare, quel resoconto piacque a molti. Fu anche riprodotto sulla rivista Missioni Consolata e, guarda caso (il mondo è davvero piccolo), una copia del giornale arrivò perfino in Kenya.
Fu così che il medico Riccardo Grifoni, che si trovava in quel paese, in un momento di pausa si era messo a leggere la rivista con interesse (il dottore è un volontario che, in certi periodi, ama «spendere» le sue vacanze, lavorando in diverse parti del mondo, a beneficio dei più disagiati)… Toando dall’Africa, si mise in contatto con i genitori del missionario, i quali a loro volta gli dissero che bisognava farsi sentire dai missionari di Punín.
Qui (gennaio 1998) incominciò la serie di contatti, che portò ad un accordo di collaborazione tra due associazioni: la prima, «Alito» (cui appartiene il dottor Grifoni), e la seconda, «Fundacíon la Consolata».
Si decise, dunque, che rappresentanti dell’associazione italiana (di Ancona) venissero a Punín per constatare personalmente la situazione: cosa che si realizzò nel novembre del 1998, mentre a dicembre giungeva l’approvazione del progetto da parte loro.

I lavori di costruzione dell’ospedale La Consolata cominciarono il 12 aprile del 1999 e tutto filò per il meglio.
Ma la finale della storia… la conoscete già.

Davide Manca