Una domanda, un dubbio, una riflessione…

La chiesa deve essere «sentinella di pace». I suoi nemici sono coloro che ne uccidono l’anima. Con il denaro, l’onore, il potere.

Don Aldo, secondo lei che Italia è uscita dai funerali del 18 novembre? A leggere i giornali e soprattutto a vedere le televisioni ha vinto la propaganda della ragion di stato e non certo la pietas per i morti…
«Dalle cronache televisive è venuta fuori l’immagine di un’Italia inesistente: un’Italia non così come è, ma come, da parte dei nuovi padroni, si vorrebbe che fosse. A tale scopo tutto è stato sapientemente e cinicamente centellinato, filtrato: le sequenze, i volti, le reiterazioni, ma soprattutto le domande agli intervistati ed i commenti alle immagini.
Per una settimana siamo stati sottoposti ad un bombardamento monotematico, una sorta di overdose mediatica, in cui mai e da nessuno è stata posta una domanda, un dubbio, una riflessione. È sembrato quasi che la solidarietà con le vittime comportasse l’imbecillità, l’impotenza mentale a porsi dei perché. In questa ubriacatura anche i termini sono stati stravolti, al punto che le vittime sono state promosse “eroi”. L’eroe è colui che motivatamente ed in maniera attiva intraprende un’azione di alto valore. Qui, invece, ci troviamo di fronte a dei ragazzi che hanno subito un attacco; vittime, appunto, non eroi».

Quella italiana a Nassiriya era tutto fuorché una missione di pace. Ma pare che non si possa proprio dirlo…
«È chiaro; e non potrebbe essere diversamente. Dal momento in cui si impone un teorema per cui la guerra in Iraq è finita con la vittoria delle truppe americane, tanto frettolosamente proclamata da Bush; da quel momento tutte le azioni susseguenti diventano azioni di “pace”, di ristabilimento della “legalità” e delle condizioni necessarie per la riconquista della “libertà”. Attraverso questo ipocrita escamotage, l’America è riuscita ad ottenere la sponsorizzazione dell’Onu; e l’Italia, inviando i suoi uomini, è riuscita ad aggirare la costituzione, tradendola. Ogni altra versione dei fatti diventa menzogna e, in quanto tale, va combattuta; di qui i bavagli e le censure».
Sembra che ci siano due chiese cattoliche, ben contrapposte. Quella personificata dal cardinale Ruini e quella del papa e di monsignor Nogaro. Che ne pensa, don Aldo?
«Nella chiesa c’è sempre stata una certa dialettica tra l’anima profetico-progressista e quella, uso termini un po’ leggeri, ma solo per intenderci, tradizional-conservatrice; una dialettica, anche legittima, già presente ai tempi della prima predicazione degli Apostoli. Mi viene da pensare al primo “concilio” di Gerusalemme, convocato per ricomporre i contrasti tra Pietro e Paolo. Oggi, però, non siamo a questo tipo di contrapposizione. Oggi la lotta, soprattutto nella chiesa italiana, è tra una chiesa servile ed una chiesa libera; tra una chiesa che per un piatto di lenticchie vende la propria anima, ed una chiesa che non può sottrarsi, pena il rinnegare se stessa, alla voce dello Spirito che la chiama ad essere sentinella di pace in un mondo di violenze risorgenti. A questo proposito, a me sembrano quanto mai attuali gli avvertimenti del vescovo sant’Ilario di Poitiers (+367). Quando con Costantino il cristianesimo diventò cristianità e si ritrovò a essere cultura cristiana, civiltà cristiana, il martirio scomparve come quotidiana, contemporanea, reale memoria crucis nella storia cristiana. Ilario di Poitiers, che vede ormai la chiesa non più contraddetta né osteggiata, ma omaggiata e apparentemente ascoltata, ritiene di dover così mettere in guardia i cristiani: “Ora combattiamo contro un nemico insidioso, un nemico che lusinga… non ci flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni, dandoci così la vita, ma ci arricchisce, dandoci così la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo, non ci percuote ai fianchi, ma prende possesso del cuore, non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il denaro, l’onore, il potere”. A qualcuno piace restare nel palazzo».

Il popolo delle bandiere della pace è assediato, non dalla gente ma da editorialisti e da commentatori televisivi. Come fare ad uscire allo scoperto per reclamare, ancora più fortemente, le ragioni della pace e l’assurdità della guerra?
«Il popolo della pace ha bisogno di essere alimentato di speranza e di ragioni per cui sperare. Quando invece viene imbavagliato, bastonato e messo pubblicamente alla berlina, allora è duro resistere e persistere. Che fare? Vedo nascere mille piccole iniziative, ma manca un cornordinamento. E poi, presso chi reclamare le ragioni della pace, se la classe politica attualmente al potere la vedo cieca e sorda ad ogni ragione? Lei ha visto i loro volti, ai funerali presso la basilica di San Paolo? Erano delle sfingi.
Non vedo strategie vincenti a breve raggio, ma so che la storia e il futuro sono dalla nostra parte. A noi non resta che continuare a tessere questo nuovo risorgimento, con parole dette e scritte, con gesti semplici e con manifestazioni. Se taceremo noi, urleranno le pietre».

Porta a porta, Excalibur, Otto e mezzo, i telegiornali…: dalla strage di Nassiriya come ne esce il giornalismo italiano?
«Muto e mutilato. Checché ne dica Berlusconi, se si eccettua qualche testata, la maggior parte dei giornali italiani sono allineati. C’è in giro, un proliferare di testate servili che fa pensare. Chi le finanzia? Per quale scopo? È vero che l’informazione è sempre stata, più o meno, manipolata. In questi ultimi tempi, però, si assiste ad un fenomeno nuovo, in quanto l’informazione non si limita più ad influenzare la pubblica opinione, ma diventa essa stessa una fabbrica di consenso. Le notizie non vengono solo distorte ma create ad arte. Siamo al ribaltamento nel rapporto “fatto-parola”, in quanto le parole non sono più “comunicative”, ma “creative”. La parola crea la realtà. Uno scimmiottamento del mistero cristiano dell’incarnazione. Noi cristiani crediamo che la Parola si “è fatta carne”! Qui invece ci troviamo di fronte alla parola che “crea”!».

Eugenio Scalfari ha scritto che Bush ed amici hanno scatenato la «bestia dell’Apocalisse». La serie degli attentati terroristici dimostra che l’immagine è purtroppo vera. Che fare ora contro l’ondata terroristica che, di norma, non colpisce il potere, ma persone innocenti?
«La guerra ha sortito, sotto questo aspetto, l’effetto di un cerino acceso e gettato in un pagliaio. È stato come soffiare sul fuoco, gettare benzina sulla brace. Il fuoco del terrorismo lo si sarebbe potuto controllare, o al minimo tenere a bada, con una politica di dialogo e di confronto; e invece lo si è voluto ad ogni costo attizzare. In questo senso Bush ed i suoi accoliti sono più terroristi dei terroristi. Come li chiama lei coloro che appiccano fuoco per ogni dove (Kosovo, Afghanistan, Iraq, Medio Oriente ecc.)? Piromani incendiari, non pompieri!
Da questa politica traggono guadagno solo gli apparati militari, i fabbricatori di armi ed i petrolieri. La povera gente ci rimette la vita.
Personalmente sono dell’avviso che un approccio diverso al problema terrorismo avrebbe dato risultati diversi. Come cristiano, poi, sono dell’avviso che, sull’esempio del poverello di Assisi, con i “lupi” è sempre possibile parlare, invece che scotennarli». •

Paolo Moiola




Vittime di inutile strage

Il 2 agosto 1922 a Pederobba, un paesino della pedemontana di Treviso, veniva inaugurato all’interno della chiesa un altare in ricordo dei 43 morti della prima guerra mondiale.
Il parroco aveva dettato il testo della lapide che diceva così: «Sacro ricordo, tributo di preghiera, di compianto, di amore ai 43 figli di Pederobba caduti vittime di un’inutile strage nella barbara guerra 1915-1918».
Il prefetto di Treviso, allarmato da queste affermazioni, chiese al vescovo di far cancellare sia l’espressione «vittime di inutile strage», sia l’aggettivo «barbara» riferito alla guerra da poco terminata.
Fu mandato un giovane sacerdote che munito di martello e scalpello cancellò dal marmo quelle parole. Il parroco non oppose resistenza, anche se si permise il gesto di non offrire una stanza da letto all’esecutore di tale ordine, che dovette accontentarsi di passare la notte su una sedia.
Poi aprì il registro dei battesimi e vi scrisse quanto segue: «Il 2 agosto 1922 fu benedetto ed inaugurato il ricordo-altare pei nostri caduti nella guerra 1915/18. (…) Fu celebrata una solenne ufficiatura con grande concorso di popolo; non si volle invitare alcuna rappresentanza civile né militare, per non profanare la serietà della cerimonia con manifestazioni di falso patriottismo che non è sentito dal nostro popolo. Sul monumento venne scolpita la iscrizione seguente … (fa seguito il testo sopra riportato)… La raschiatura delle parole operata sul monumento venne fatta per ordine del prefetto di Treviso, costretto dai fascisti. Ma la verità è una sola: vittime di inutile strage nella barbara guerra 1915 – 1918».

Sapevo dell’esistenza di questo testo, ma non l’avevo mai letto. Nel giorno dei funerali di stato delle 19 vittime della guerra in Iraq ho voluto cercarlo. Dopo averlo trovato mi sono recato a pregare, insieme con l’attuale parroco di Pederobba, davanti al ricordo-altare per le nuove vittime di una inutile strage di una barbara guerra.
Questo testo sapiente offre diverse chiavi di lettura per il nostro oggi. È da cinque giorni che durano questi funerali infiniti, che ormai sembrano non portare più rispetto né per le vittime, né per i loro famigliari. La retorica politico-militare sembra essersi appropriata della loro morte per trasmettere messaggi di altro contenuto che non siano quelli che solamente genitori, figli, spose o fidanzate conoscono.
A me pare di assistere a un’orrenda operazione in cui la morte degli altri viene sfruttata per convincere il popolo italiano che noi non siamo andati in Iraq per fare da pedine di complemento in un contesto di guerra, ma per una scelta umanitaria.
Noi che abbiamo appeso centinaia di migliaia di bandiere di pace sui nostri davanzali, ben prima che scoppiasse la guerra, avevamo, invece, ragione di credere che essa si sarebbe risolta in un’inutile strage. E tale è questa guerra di cui non s’intravede l’uscita. È di ieri la notizia delle dimissioni del rappresentante italiano presso il governo di transizione iracheno, che ha motivato il suo gesto con il fatto che nella presente situazione non si intravedono né i presupposti né la volontà politica che intenda usare i mezzi giusti per ristabilire pace e democrazia in Iraq.
Ci siamo cacciati dentro ad un ginepraio e, ora, per orgoglio, non sappiamo come uscie. Ma intanto c’è chi paga prezzi altissimi: uomini e donne americani che contano già 9.200 morti e feriti, inglesi, italiani, ma anche e soprattutto iracheni.
La sapienza dell’antico parroco di Pederobba l’aveva condotto a compiere un gesto grave e difficile per quegli anni: egli aveva messo alla porta tutte le autorità civili e militari perché il popolo potesse vivere e confrontarsi da solo con il suo dolore e «per non profanare la serietà della cerimonia con manifestazioni di falso patriottismo che non è sentito dal nostro popolo».
Un anno prima, in un gesto sconsolato, sempre usando il registro dei battesimi, egli aveva scritto a conclusione di un anno particolarmente prolifico: “Aumentano in maniera vertiginosa i nati, ma non aumenta la gioia di vivere”. (frase scritta in latino: moltiplicatur gens, at non moltiplicatur laetitia).
Solamente uno che aveva patito con il suo popolo le stragi, le distruzioni, il pianto infinito del dopoguerra e della esasperante, lenta ricostruzione delle case e dello sminamento dei campi, poteva prendersi il lusso di usare tale libertà.
Ma la chiesa di oggi, nella liturgia nazional-popolare a cui abbiamo assistito, ha dato prova di libertà e di profezia evangelica?
Ho sentito pronunciare la fiera parola: li fronteggeremo!
Ma non ho sentito dire né un «mea culpa» né che siamo andati a morire in una terra che non è nostra e per motivi quanto meno ambigui; né una parola di pietà per tutti gli iracheni innocenti che sono morti dall’inizio di questa guerra e che sono i più numerosi; né l’invito a costruire la pace attraverso le vie della pace. C’è stato un deficit di libertà e di vangelo che mi ha inquietato e umiliato. Eppure bastava ricordare le semplici parole del card. Renato Martino: «Se avessero ascoltato il papa non ci troveremmo ora a piangere tutti questi morti».
Forse soltanto tra i suoi, nel proprio paese, tra la propria gente ognuna delle 19 vittime troverà pietà. Solo allora si pronuncerà una parola vera sulla guerra.

don Giuliano Vallotto

(Scritto il 18 novembre 2003 in solidarietà con monsignor Raffaele Nogaro, vescovo di Caserta).

Paolo Moiola




Con calma e perseveranza…


Per sedare il vespaio che la guerra ha prodotto, ora occorre un intervento internazionale. Anche se prima questo è stato disprezzato.



Monsignor Bettazzi, non le sembra che televisioni e giornali abbiano usato la strage di Nassiriya?


«L’emozione nazionale per la strage di Nassiriya è stata molto grande, sia per la gravità del fatto, sia perché è giunta improvvisa dopo tutte le assicurazioni dei nostri governanti sulla assoluta mancanza di pericolo per i nostri soldati, che anzi erano molto ben voluti dalla popolazione.
Certo che c’è stata una strumentalizzazione nel ripetere che si trattava di spedizione di pace, senza mai nemmeno accennare che si andava a sviluppare le conseguenze di una guerra, per di più illegale, voluta con determinazione ma affrontata con superficialità. Senza appunto valutare il… vespaio che si sarebbe sollevato, per il quale ora si chiede quell’aiuto internazionale che si era prima spregiato».

«Onore ai soldati morti per la pace» così recitava un manifesto di un partito di governo… Dunque, pace è guerra?

«Mi rendo conto che bisognava soprattutto cercare di attutire il dolore delle famiglie delle vittime, esaltando la finalità della spedizione. Essa, tra l’altro, per non pochi, era un rimedio alle manchevolezze d’aiuto che la patria non sa dare a tante categorie, coprendo così le responsabilità dei governanti per decisioni prese con spirito di parte. Ora credo che, a emozioni sopite, bisognerà valutare con obiettività la situazione e chiedere che i responsabili sappiano riconoscere i loro errori e le loro leggerezze, chiedendo che la responsabilità della gestione passi davvero alla comunità internazionale, al di sopra degli interessi di parte».

Ancora una volta, sulla guerra e sulle sue conseguenze sembra che ci siano due chiese cattoliche, ben contrapposte. Quella personificata dal cardinale Ruini e quella del papa e di mons. Nogaro. Che ne pensa lei?

«È ovvio che vi sono diverse sensibilità al di dentro della chiesa; così come era un po’ prevedibile che il card. Ruini, in quell’atmosfera, potesse dire, sia pure con diversa sfumatura, quel che ha detto. Fra l’altro non era scontato che insistesse tanto sul “non odiare”! Forse era preoccupato che, in quel momento, un atteggiamento più… profetico potesse venir visto, più che come allineamento al papa, come allineamento ai settori più avanzati dell’opposizione politica. È risultato per altro evidente che mons. Nogaro (a parte le malevole deformazioni che certa stampa ha voluto dare delle sue parole) non era isolato, anche nella Cei. E credo che anche questo, all’interno della chiesa e della stessa gerarchia, non può non essere avvertito».

Che si può dire al variegato popolo delle bandiere della pace?

«Credo si debba continuare ad insistere, con calma e con perseveranza. La maturazione della coscienza della pace, così evidente nel confronto tra la prima guerra del Golfo e l’attuale, continuerà ad avere un suo sviluppo se tutti continueremo a compiere quanto sta in noi».

Lei ha pubblicato parecchi libri ed è da sempre una persona che scrive. Che ci dice del giornalismo italiano dopo Nassiriya?

«Questa vicenda conferma le preoccupazioni su quanto si è voluto e si sta continuando a compiere per subordinare i mezzi di comunicazione al potere di chi governa. Quand’ero ragazzo mi commossi per la conquista dell’Etiopia e per quella pace di Monaco, ottenuta anche da Mussolini nel 1938, che fu in realtà la premessa della seconda guerra mondiale. Ma allora si sapeva solo quanto e come il governo voleva si sapesse! La libertà e l’oggettività dei mezzi di comunicazione è la condizione indispensabile per un’autentica democrazia».

Paolo Moiola




ETIOPIA – Fame di Dio

Crocevia tra nord, sud ed est del paese, Modjo è pure un luogo strategico delle attività dei missionari della Consolata: opere sociali e pastorali, seminario minore e animazione missionaria vocazionale, fino a diventare un punto di riferimento per la formazione giovanile e centro di spiritualità per preti e religiosi.

Non c’era un filo d’erba verde, 10 anni fa, quando padre Domenico Zordan mi fece visitare il luogo dove stava costruendo la missione di Modjo, lembo meridionale della diocesi di Addis Abeba. Non un albero per ripararsi dal sole, che, sull’altipiano etiopico, sembra più implacabile che altrove. Nel grande prato arido, reso più vasto dalla mancanza di recinzione, unico segno di vita erano i muratori, intenti a ultimare la costruzione dell’asilo e innalzare i muri del salone e del seminario.

Oggi, ritornato nello stesso luogo, mi sembra di sognare: un bel viale di jacarande immette in un’oasi di pace, con prati verdi, vialetti alberati e siepi in fiore che circondano una nutrita serie di edifici; da una parte la casa dei padri, il seminario, il salone l’ampia chiesa e gli edifici del centro di animazione missionaria; dall’altra parte, divisa da una rete metallica e un enorme cancello in ferro, sorgono l’asilo, il dispensario, il centro di promozione della donna e l’abitazione delle suore della Consolata che gestiscono queste attività; in fondo c’è la scuola elementare, costruita dai missionari e consegnata alla gestione governativa. Nonostante l’ampiezza dello spazio, tanti edifici sembrano allo stretto.

UNA SCELTA RESPONSABILE

Si sa come vanno le cose in Etiopia: la chiesa cattolica è considerata quasi come una Ong e la presenza di missionari è condizionata dalla gestione di opere sociali; ma, una volta ottemperata a tale condizione, è libera di svolgere le attività religiose a piacimento.
È così che a Modjo, nel grande terreno concesso dal comune per le opere sociali, i missionari della Consolata hanno costruito anche un seminario minore, per preparare gli aspiranti missionari.

«Attualmente abbiamo sette seminaristi – spiega padre Antonio Benitez -: quattro hanno terminato i dieci anni della scuola d’obbligo e frequentano l’undicesima e dodicesima classe nella scuola statale della città; gli altri tre fanno un anno di propedeutica, cioè di preparazione per entrare nel seminario maggiore di Addis Abeba e frequentare i corsi di filosofia».

Padre Antonio, giovane missionario della Consolata colombiano, è arrivato in Etiopia due anni fa e da pochi mesi è approdato a Modjo, immergendosi totalmente nella vita della missione: insegna nella scuola matea, aiuta nella pastorale e nella formazione dei seminaristi. Anzi, al momento della visita ha la piena responsabilità del seminario, poiché il direttore, il kenyano padre Gabriel Odwori, è in vacanza.

«È un’esperienza gratificante – continua il padre -, anche se non mancano le difficoltà, soprattutto a livello di comunicazione: io sono ancora alle prese con l’apprendimento della lingua amarica e i seminaristi, provenienti da diverse etnie, kambatta, adiya, oromo, hanno difficoltà ad esprimersi in inglese».

Quello dell’inglese è un problema cruciale per tutti i giovani che vogliono accedere agli studi superiori, dove l’insegnamento è impartito in questa lingua: un esame di stato, tutto in inglese, dichiara l’idoneità a tale passaggio. Ma poiché nella scuola statale questa lingua viene appresa ad orecchio, senza badare troppo alla scrittura, per affrontare tale esame è necessario un supplemento di preparazione.

Per questo, buona parte del tempo dell’anno propedeutico è impiegato dai seminaristi nello studio dell’inglese e in corsi di vario genere, per colmare eventuali lacune nella formazione intellettuale e spirituale.

«Anzitutto – continua padre Antonio – i giovani hanno bisogno di approfondire la dottrina cristiana, poiché le nozioni apprese sono alquanto superficiali e tradizionali; inoltre, diamo loro lezioni di bibbia, psicologia e formazione umana. Essi sono ancora alla ricerca della loro vocazione e hanno bisogno di chiarire le motivazioni delle loro scelte».

Negli anni passati il seminario di Modjo aveva più di una ventina di aspiranti missionari; quest’anno sono solo sette. Eppure in Etiopia c’è abbondanza di ordinazioni sacerdotali e vocazioni alla vita religiosa.
«È vero. Ma dovremmo domandarci come mai ci siano tante vocazioni – interviene padre Paolo Angheben -. Si rimane stupiti se le confrontiamo col piccolo numero dei nostri cristiani. Una superiora provinciale etiopica, passando a Modjo, mi fece questa confessione: “Se in Etiopia ci fosse più lavoro, ci sarebbero meno vocazioni”. Venendo da una suora locale, questa frase dice molto. Data la disoccupazione, i problemi di sopravvivenza, l’incertezza del futuro, non mi meraviglio più di tanto che tanti giovani vogliano entrare in seminario, dove hanno da mangiare e possono proseguire gli studi. Capitava così anche in Italia, subito dopo la guerra. La tentazione è forte. Per questo è necessario aiutare questi giovani a un serio discernimento e alla responsabilità delle loro scelte».

GIORNI DI FUOCO

Padre Paolo è ormai un veterano in Etiopia. Vi arrivò nel 1985 e, dopo un intermezzo nel Centro missionario di spiritualità nella Certosa di Pesio (Cuneo), è ritornato al primo amore, prendendo le redini della complessa missione di Modjo.

Essa è nata e cresce come «Centro di animazione missionaria vocazionale»; ma l’arrivo di padre Paolo ha aggiunto una nuova dimensione: è diventata pure centro di spiritualità, un servizio di cui la chiesa locale ha estrema necessità.

In Etiopia, infatti, non ci sono solo problemi di carattere economico e sociale, ma anche a livello di chiesa, soprattutto nella formazione del clero: i giovani affrontano gli studi di filosofia e teologia con profonde carenze di base e la scarsità di personale non permette al seminario maggiore di offrire una formazione adeguata alle sfide della situazione.
«In Etiopia c’è tanta fame, non solo di pane, ma anche di Dio – afferma padre Paolo -. Preti, suore, religiose sentono il bisogno di maggiore profondità spirituale. I sette anni di esperienza nella Certosa di Pesio mi hanno preparato a rispondere a questa sfida della chiesa in Etiopia».

Per ora il centro di Modjo organizza incontri e ritiri spirituali di una giornata; ogni mese si svolge la scuola di preghiera: il sabato per le religiose, la domenica per i giovani, il lunedì per i sacerdoti. Sono chiamati «la tre giorni di fuoco». Nel corso dell’anno sono accolti gruppi giovanili delle singole parrocchie della diocesi di Addis Abeba e di quelle circostanti, per una giornata di formazione e approfondimento della vita cristiana.
L’iniziativa sta riscuotendo un crescente successo: oltre all’apprezzamento del vescovo, sono molte le singole persone, preti, suore e laici impegnati, che vengono al Centro per trascorrere un fine settimana o più giorni in preghiera e meditazione, o fare un ritiro spirituale sotto la direzione di padre Paolo.

A tale scopo, Modjo offre molte possibilità: la città è un nodo stradale di comunicazione tra nord, sud ed est del paese; la missione è lontana dal traffico, per cui offre ampi spazi di silenzio; l’ambiente è ombreggiato e il Centro è dotato di alcune camerette semplici ma confortevoli.

Sono molte le richieste di corsi prolungati da parte di giovani e catechisti. «Finora mi sono recato nelle singole parrocchie – spiega padre Paolo – e ho guidato settimane di formazione e spiritualità nel centro catechetico di Gighessa; ma ci stiamo attrezzando per accogliere e alloggiare i gruppi giovanili anche a Modjo. Avere dei giovani che risiedono per più giorni in questo centro dà la possibilità di fare un lavoro più in profondità. Non bisogna dimenticare che la vocazione nasce dalla preghiera e noi vogliamo formare i giovani alla preghiera».

STORIA DELLA SALVEZZA

Per comprendere meglio lo scopo del suo lavoro, padre Angheben mi porta in cappella e mi spiega il significato degli oggetti che ne adoano le pareti. «È la cappella della storia della salvezza» spiega il padre.
Nella parete di fondo, in basso a sinistra, un ceppo secco richiama la profezia di Isaia: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto spunterà dalle sue radici». Il germoglio, promessa di nuova speranza per il popolo d’Israele e per tutta la storia umana, è Gesù, spiega padre Paolo, indicando l’icona della Madonna della tenerezza, che raffigura Maria mentre stringe al petto il figlio divino.

La storia della salvezza culmina nella morte e risurrezione di Cristo, raffigurata in una grande croce etiopica che domina il centro della parete. «È la croce gloriosa, la croce della risurrezione, secondo la tradizione etiopica».

Sotto la croce c’è un bastone rosso. Esso ricorda il serpente di bronzo di Mosè, che Gesù prese come simbolo del suo innalzamento sulla croce (cfr Giovanni cap. 3); al tempo stesso, richiama il bastone del pellegrino, che nell’iconografia è sempre di colore rosso. Il bastone è sostenuto da una specie di contenitore rotondo, tipico della tradizione etiopica: i viandanti vi mettono il cibo per il viaggio; qui funge da tabeacolo, dove è conservata l’eucaristia, il cibo che sostiene il pellegrinaggio della vita cristiana. «Meta del nostro cammino è la comunione con la Trinità» continua padre Paolo, indicando, a destra della croce, la grande icona della Trinità di Rublev.

«Questa storia la celebriamo ogni giorno nella messa. Al centro della cappella ci sono due massob, altro oggetto tipico della cultura etiopica: viene regalato agli sposi il giorno delle nozze: è il loro tavolo da pranzo. Quello più grande lo usiamo come altare per celebrare l’eucaristia, il banchetto delle nozze etee dell’Agnello. Su quello più piccolo c’è una bibbia aperta: entrambi i massob ci ricordano il pane della parola e il pane del corpo di Cristo».

Sulla parete destra è appeso un grande quadro del beato Giuseppe Allamano. «L’eucaristia porta subito alla missione – conclude padre Paolo -. È necessario raccontare agli altri la storia della salvezza, come ha fatto e continua a fare il nostro fondatore, chiamando e inviando i suoi missionari».

I FIGLI DEL MASSAIA

La missione di Modjo ha tutte le attività di una parrocchia. La comunità è ancora piccola: conta appena una decina di famiglie cattoliche e altrettante miste, con un genitore cattolico e l’altro ortodosso. È una situazione familiare non priva di tensioni, ma potrebbe diventare un punto di partenza per il dialogo ecumenico, con un approccio ancora tutto da inventare.
La maggior parte di coloro che frequentano la chiesa sono giovani, a volte con afflusso massiccio, ma incostante, attirati dalle iniziative religiose e sportive promosse dalla missione e, forse, dalla speranza di avere qualche aiuto materiale.

Modjo dà l’impressione di essere una zona ricca; ma in realtà c’è molta povertà, soprattutto morale. Essendo un importante nodo stradale nel cuore del paese, la cittadina è nata e vive di attività legate a piccoli commerci e alberghetti per gente di passaggio, specie camionisti, con conseguente diffusione di prostituzione e Aids. Un bambino su cinque è orfano a causa di tale flagello.

«Non è facile parlare di Dio in una situazione del genere – confessa padre Paolo – Modjo è una missione complessa e difficile. Tuttavia facciamo il possibile per rispondere ai problemi della popolazione col nostro lavoro pastorale, di formazione giovanile e opere sociali».

In queste attività, i missionari sono affiancati dalle suore missionarie della Consolata, che gestiscono l’asilo, dispensario medico e un centro di promozione della donna, frequentato da ragazze e madri di famiglia. In esso imparano cucito, economia domestica e a gestire piccoli progetti con cui guadagnare qualche soldo e sostenere dignitosamente la famiglia.
Provvidenziale è pure il lavoro che le suore svolgono nel dispensario, sia nella cura della popolazione della città, sia con campagne di vaccinazioni nei vari villaggi della zona.

La missione, infatti, si sta estendendo anche nelle zone rurali. A Dibandiba, periferia della città, è stata costruita una scuola cappella che raccoglie 250 bambini e giovani della zona; un’altra è in progetto a Ejersa, a 15 km da Modjo: per ora giovani e bambini si radunano all’ombra di un grosso sicomoro.

Di recente, padre Paolo ha visitato anche i villaggi più lontani da Modjo, dove si trovano alcuni discendenti dei cattolici battezzati dal cardinal Massaia, rifugiatisi in questa zona per fuggire alle persecuzioni che, negli anni 1880, l’imperatore Giovanni iv, istigato dal patriarca copto, scatenò contro il grande missionario e la chiesa da lui fondata. Anche questi cristiani hanno fame di Dio.

Benedetto Bellesi




TANZANIA – Otto ragazzi dal baba…

Il missionario è Camillo Calliari e il vescovo
Alfred Maluma. Otto giovani italiani in Tanzania
li osservano e pongono domande anche spinose:
sull’aids, per esempio.

Intanto, nell’anno internazionale dell’acqua,
i ragazzi danno una mano a completare un acquedotto
di 7 chilometri.

Sud del Tanzania. Dalla città di Njombe alla missione di Kipengere un pulmino arranca su ripide salite sterrate e geme nella morsa dei freni nei tratti di vorticosa discesa. Al passaggio del mezzo, i viandanti lungo la strada voltano le spalle e si coprono la bocca con una mano per proteggersi dal polverone, reso più denso dall’incombere della sera.

«Come te
non c’è nessuno…»
Il pulmino trasportava otto giovani italiani.

«Stop, per piacere! – si rivolsero ad un tratto gli italiani all’autista tanzaniano -. Ci piacerebbe fotografare quei bambini alla fontana». «Avrete altre e migliori occasioni – rispose il conducente -. Fra non molto è notte, e padre Camillo ci attende un po’ ansioso a Kipengere…».
A Kipengere opera padre Camillo Calliari, più noto come «baba Camillo». Il baba ha votato se stesso alla causa del vangelo: il vangelo della «vita in abbondanza». Vita che è pure acqua.

Fra tante e significative iniziative di promozione umana, il missionario ha inventato pure un acquedotto, sostenuto dal coinvolgimento della popolazione locale e dalla solidarietà di numerosi amici in Italia, non ultimi gli otto giovani del pulmino.

L’acquedotto è un’opera necessaria, costosa ed imponente, realizzata con tenacia nell’arco di anni su un vasto territorio, ricco di sorgenti d’acqua potabile, a circa 2.200 metri di quota. Dunque un’impresa in montagna, che ha esaltato baba Camillo, trentino di Romeno, in Val di Non. Un’opera surriscaldata dai raggi ultravioletti del sole, con gli uomini che disboscano il percorso dei tubi con un coltellaccio su terreni scoscesi, mentre le donne aggrediscono il suolo roccioso a colpi di zappa. E questo per chilometri e chilometri: 210 per la precisione, se si sommano gli 80 chilometri della condotta principale dell’acquedotto ai 130 delle diramazioni…

Spalla a spalla con i tanzaniani, gli otto giovani nostrani aggiunsero altri sette chilometri all’acquedotto, innalzando tre fontane nel villaggio di Ihagala e due in quello di Ilindiwe, a 20 chilometri da Kipengere. «Per noi è stato il modo migliore per celebrare l’anno internazionale dell’acqua» commentò uno dei protagonisti ad opera finita.

Quando l’acqua potabile sgorgò giorniosa e cristallina dai candidi rubinetti, fu un trionfo. I bambini dei villaggi cantavano: «Baba Camillo, hakuna mtu kama wewe» (come te non c’è nessuno).

Ma il missionario della Consolata abbassava la testa, pensando forse al prossimo «appuntamento» già fissato: un nuovo ramo dell’acquedotto di 15 chilometri. «Ah, dimenticavo! – disse anche ai ragazzi rincasando a Kipengere dopo la festa – l’acquedotto è… ecumenico, poiché vi ha contribuito anche la chiesa luterana pagando il trasporto di materiali e persone».

Chi offre una sedia?

«Il vescovo è arrivato» annunciò Laura. «Come lo sai?» chiese Mario. «Ho visto un uomo con un vistoso anello al dito…».

Sì, monsignor Alfred Maluma era giunto. Desiderava incontrare Laura e Mario, come pure Alessio ed Elena, Barbara, Lucia, Valeria e Francesca: gli otto giovani italiani che, nell’agosto scorso, trascorsero alcune settimane a Kipengere, missione della diocesi di Njombe.

«Buon pomeriggio» accolsero il vescovo i ragazzi. «Buon pomeriggio a voi e benvenuti nella nostra diocesi di Njombe!».

Il presule si rivelò subito affabile, con un sorriso accattivante, padrone di un buon italiano e in grado di rispondere a tutte le domande degli ospiti.
– Quale vescovo, come giudica la nostra presenza nella sua diocesi?

«Desidero che la diocesi sia accogliente: chi viene qui deve sentirsi a casa. Voi siete cristiani, penso. Allora ricordo che la chiesa è una famiglia che riunisce tutti. Come afferma san Paolo, dopo Gesù Cristo non ci sono più arabi, ebrei, italiani. Siamo tutti figli di Dio.
Qui, fra i missionari della Consolata, c’è baba Camillo, che lavora da tanti anni e ha fatto ottime cose. Voi pure, insieme a lui, avete contribuito a portare l’acqua potabile in due villaggi… I missionari lavorano, presentandosi come fratelli di tutti nella grande famiglia di Cristo. Questa è la nostra fede. È come un albero con tanti rami, e voi siete alcuni rami che continuano a spuntare. Mi auguro che la vostra presenza porti anche frutto. Per la gente locale siete una testimonianza di carità».

– Lei, forse, non è nato cattolico. Ebbene, com’è avvenuto il suo incontro con la chiesa?
«Io sono nato cattolico. In questa regione c’era una scuola elementare cattolica. I miei genitori vi lavoravano… e, con il tempo, sono stati battezzati. Quindi io sono nato cattolico. Però non tutti i miei coetanei sono cattolici. Ma i missionari hanno sempre annunciato il vangelo, accompagnato da servizi sociali: scuole, ospedali, coltivazioni. E la gente si interroga: chi è il missionario? In che cosa crede? Se crede in Gesù Cristo, anche la popolazione è pronta a farlo».
– In Tanzania molti vivono in condizioni difficili. Che fa la chiesa per promuovere lo sviluppo?

«Sono già state fatte molte opere, perché la chiesa ha sempre presentato il vangelo con i fatti: per esempio, l’istruzione scolastica in Tanzania è opera dei missionari. Fino agli anni ’70 era quasi impensabile un’istruzione senza le scuole missionarie, che sono state centri di sviluppo. Ma resta ancora molto da fare».
– Monsignore, ci parli di lei…

«Sono vescovo da appena un anno e sto avendo una drammatica esperienza visitando le parrocchie. Io sono figlio di contadini, ma forse non conosco la loro vita. La prima volta che, da vescovo, sono stato in un villaggio per conferire la cresima, ho dovuto cambiare la predica preparata, per non battere l’aria. Ero di fronte a tantissimi bambini: coglievo nei loro occhi una grande aspettativa, ma non sapevo cosa dire.

Uscendo di chiesa, ho chiesto ai genitori: cosa possiamo fare per i giovani? La risposta è stata: noi non siamo più in grado di educare, specialmente le ragazze… Ho invitato tutti a pregare, a riflettere maggiormente, ad incontrarsi. L’hanno fatto giungendo a questa conclusione: la chiesa dovrebbe impegnarsi di più nella scuola, dall’asilo all’università… Ecco perché la mia prima lettera pastorale, brevissima, affronta il tema dell’educazione-istruzione.
Se ci impegneremo di più nell’educazione, assicureremo il benessere integrale ai ragazzi di oggi».

– Pertanto il vescovo costruirà scuole?

«Il vescovo, da solo, non può costruire scuole, perché non ha soldi e la diocesi è povera. Siamo tutti poveri. Però se ognuno fa qualcosa (una finestra, una porta, una sedia)… Se anche voi, giovani, costruirete un muro di un’aula scolastica, contribuirete all’educazione. Non lasciatevi scoraggiare… La diocesi conta 240 mila abitanti; quelli che possono dare qualcosa sono 100 mila; ma, se tutti costoro lo faranno, costruiremo due nuove scuole, o almeno una».

AIDS E PRESERVATIVO

Il vescovo di Njombe e i giovani italiani conversavano all’aperto, seduti su una panca. Improvvisamente si levò un vento freddo, che costrinse tutti ad entrare in casa, cioè la baita, dove i ragazzi alloggiavano. Sul prefabbricato spicca una targa: «Dono degli alpini di Giussano».

L’intervista ad Alfred Maluma riprese attorno a un tavolo, ingentilito da un mazzo di splendide calle.
– Eccellenza, qual è il rapporto con i non cristiani?
«Nella regione di Njombe ci sono cattolici, luterani, anglicani e altre piccole denominazioni religiose. In passato c’era fra loro antagonismo; oggi questa malattia sta scomparendo. Fin da piccoli siamo abituati a vivere in armonia con ogni fede».

– Anche con i musulmani?

«Con i musulmani il problema si fa acuto di fronte ai fondamentalisti, che vengono dai paesi arabi. Ma con i musulmani tanzaniani (salvo qualche eccezione), non ci sono grosse difficoltà. Partecipiamo anche ai loro matrimoni e funerali. È un dovere di famiglia».
– Aids. In Italia si dice che in Africa servono soprattutto i preservativi. Lei, che dice?
«È essenziale cambiare abitudini e mentalità. Anche l’aspetto economico influisce molto: si cerca di lucrare sfruttando l’aids, cioè produrre e vendere preservativi. Invece si pensa troppo poco alla prevenzione, basata sull’educazione.

L’aids è esploso come una bomba per povertà e ignoranza: per esempio, se andate in un villaggio, vedete che si usano siringhe scadute, non sterilizzate, già impiegate per più individui. Vi sono medici tradizionali (un po’ stregoni) che incidono i corpi di vari pazienti con la stessa lametta, senza neppure disinfettarla. Lo stesso avviene nelle pratiche chirurgiche dell’iniziazione femminile e maschile. Sono fatti macroscopici.

Prevenzione contro l’aids significa investire sulla formazione dei giovani: questo comporta anche la revisione di alcuni costumi sessuali legati alla tradizione. È una trappola dire: “Tanto prenderò il preservativo!” (che in Africa è magari difettoso).
Io ho lavorato con i giovani subito dopo l’ordinazione sacerdotale. I giovani, prima che con il male, cercano di identificarsi con il bene. Ma se non lo vedono, perdono la speranza. Di qui l’urgenza di prospettare ideali positivi».

– Noi siamo qui a Kipengere anche per imparare. Secondo lei, che cosa possiamo apprendere?
«Questo dipende da voi. Io sono a casa mia, e non posso propormi a voi. Voi dovete scegliere. Tuttavia vi dò un consiglio: osservate con attenzione le persone, informatevi sui loro problemi, rifuggite dai luoghi comuni proposti dai mass media. In ogni caso siate solidali, generosi…».

Alfred Maluma saluta Laura e amici prima di cena, mentre la campana della missione di Kipengere suona l’Ave Maria. Congedato il vescovo, baba Camillo entra in chiesa per la preghiera della sera. In cielo splende la luna.
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Francesco Beardi




KENYA – Quando Gesù nacque bambina

Una piccola orfana
è accolta in una famiglia africana: la notte
di natale, prende il posto di Gesù bambino
nel presepe e continua
ad essere accolta e amata come una benedizione divina.

È l’antivigilia di natale; l’estate calda e piena di luce: restare a casa a far poco o nulla è scoraggiante quanto mai. Mancano due settimane alla riapertura delle scuole (in Kenya l’anno scolastico inizia in gennaio), ma la gioia della vacanza e della festa del natale elettrizza non solo i bimbi d’Europa, ma anche quelli del continente nero.

– Vieni, Scolastica; andiamo a trovare alcuni amici.
L’invito di mamma Mary alla figlioletta, ultima di quattro figli, non poteva giungere più accetto.

– Dove andiamo, mami?

– Partiamo e vedrai.

Mamma Mary mise in una borsa di plastica una manciata di samosa (specie di frittelle ripiene di carne e spezie) e prese la strada che porta alla grande bolgia di Kibera: una delle più grandi e tristi bidonville di Nairobi, ove si accalca mezzo milione di individui di tutte le etnie del Kenya.

– Hai degli amici qui dentro? – riprese Scolastica, quasi paurosa di quel luogo da tutti ritenuto un covo di briganti.

– Non aver paura. Mami è con te.
Mamma Mary puntò dritta verso una costruzione di vecchi pezzi di assi tenuti insieme faticosamente da listelli e fil di ferro. Il tetto, fatto di vecchie latte di benzina spianate col martello, ormai arrugginite e sforacchiate, riparava dal sole, non certo dalla pioggia. Chiamarla casetta avrebbe offeso anche un apprendista carpentiere; definirla pollaio… si sarebbero offese le galline.

– Odi? (permesso?) – chiese mamma Mary, mentre spingeva una specie di paravento di pezzi di plastica e sacco catramato.

Nell’interno, diventato tutto ad un tratto silenzioso, decine di puntini luminosi fendevano la semioscurità: sembravano altrettanti occhi di gattini spalancati.
– Hamjambo watoto! (salve bambini) – salutò la donna.
– Hatujambo, mama! (salve, mamma) – fece eco un coro di vocine.

Anche Scolastica, che si era quasi nascosta dietro la mamma, si fece avanti per stringere una selva di manine, che avrebbero avuto bisogno di tanta acqua e sapone.

Quella «topaia» (questa volta senza offesa per i topi) voleva essere un «orfanotrofio». Venti o trenta bambini erano stipati in quella stanza, sotto la sorveglianza benevola di una matrona africana, che aveva tentato di intrecciare il suo grande cuore e la monumentale statura con la estrema povertà e la triste realtà di un gruppo di bambini rimasti orfani e da tutti abbandonati. Almeno potevano avere un luogo per dormire, scaldandosi a vicenda, una scodella dove pescare qualche foglia di cavolo, una manciata di polenta da divorare.

Mamma Mary conosceva già quella situazione. Ma Scolastica ebbe un momento di brivido, specie quando sentì due mani umide aggrapparsi alle sue gambe, come per sostenersi a qualcosa e non lasciarsela scappare.

Scolastica guardò in basso; i suoi occhi si incontrarono con quelli lucenti di una bimba dai vestiti scoloriti e laceri. Non una parola. Una guardava in giù, l’altra guardava in su, con occhi di speranza. Neanche la distribuzione dei samosa interruppe quella specie di abbraccio.

– Hai idea di chi possa essere questa bimba? – chiese alla matrona mamma Mary, che aveva notato lo strano comportamento della bimba.

– Me l’hanno portata dopo che anche la mamma fu trovata morta. La piccola aveva tanta fame. Dovrebbe essere di etnia luo, poiché i genitori venivano dalla regione del lago Vittoria. Niente di più. Neppure il nome. Ho cominciato a chiamarla Owino ed essa mi risponde quando uso questo nome.

Owino restava imperterrita attaccata alle gonne di Scolastica.

– Vedi, Scolastica? Ti vuole bene! E se le regalassimo un po’ di amore in questi giorni di natale?

– Ci sto!

Non furono necessari lunghi discorsi: la matrona non ebbe difficoltà a concedere ad Owino la «libera uscita».
Documenti? E quali documenti? Papà e mamma sconosciuti, morti di aids, sepolti o abbandonati chissà dove. Ben venga uno spiraglio di bontà e per una creatura che ha tutti i diritti di vivere!

E uscirono in tre da quella stanza, tenendosi per mano. Scolastica stringeva forte la manina di quella «bambola in carne ed ossa», per paura che nella ressa della bidonville qualcuno gliela portasse via.

A casa la bimba fu accolta con gioia. Gli altri tre figli, uno dei quali universitario, si dissero onorati di far posto alla bimba piovuta dal cielo.

Il bagnetto nella vaschetta di plastica, con tanto di spugna e sapone, fu una commedia per tutta la nuova tribù. Owino spuntò fuori come se fosse stata rifatta nuova; fu rivestita dei vecchi abiti di Scolastica: alcuni spilli e qualche ritocco, ed ecco la nuova star della famiglia.

«Che nome le mettiamo? – domandò Scolastica, dando subito la risposta -. Propongo Little Mary, (piccola Maria) in onore di mamma che l’ha scovata». Apprato senza fiatare.

La notte Little Mary dormì un sonno tranquillo, anche perché non sentiva, una volta tanto, gli stimoli della fame arretrata. Dormì in una culla, la prima volta in vita sua: la vecchia culla di famiglia, usata da tutti e quattro i figli.

Il giorno seguente c’era un gran da fare in casa Mary per preparare il natale: pulire, lavare, cucinare qualcosa di speciale senza la solita polenta.

Giunge la sera. La «messa di mezzanotte», in certi posti del Kenya, non è pensabile per le difficoltà di trasporto e motivi di sicurezza.

– Mamma, abbiamo dimenticato il presepio! – disse Scolastica, guardando attorno come se avesse smarrito qualcosa d’importante.
– Ma non abbiamo la capanna né le statuine dei pastori.

– Abbiamo Gesù bambino in carne ed ossa, la nostra Little Mary, che Gesù ci ha regalato per natale. Noi faremo Maria, Giuseppe e i pastori; a mezzanotte porteremo Little Mary nel nostro presepio.
– Dove metteremo il nostro Bambin Gesù? La culla non va bene!

– Nel cestino del nostro cucciolo. Bob avrà pazienza di aspettare la fine della festa.
Verso mezzanotte, in un’aura di gioia e fantasia tutta africana, il presepio vivente prese a muoversi dalla cucina alla camera da letto; Maria e Giuseppe portavano un cesto di vimini tutto addobbato; Scolastica, seria e compunta, reggeva in braccio Little Mary e la depose delicatamente nella cesta di Bob. Poi mamma Mary intonò in kikuyu «Tu scendi dalle stelle…».

Il coro era piccolo e neppure troppo intonato, ma tanto gradito al cielo e agli angeli, presenti e osannanti anche quella notte.

La storia avrebbe voluto che nella mangiatornia ci fosse un «bambino» Gesù; ma credo che anche il buon Dio avrà sorriso alla fantasia del cuore africano, che in questa bella notte aveva fatto nascere un Gesù «bambina», nella cesta del cucciolo di famiglia.

T re giorni dopo natale, mamma Mary, che da tanti anni è segretaria tuttofare in casa nostra, mi raccontò quanto era successo in famiglia, come se fosse la cosa più naturale al mondo.
– Hai pensato, Mary, al rischio in cui ti sei cacciata? – le domando.

– Ci ho pensato a lungo e ne ho parlato con i figli: abbiamo deciso di tenerla come un dono di Dio. Da quando nacque Scolastica, dieci anni fa, e mio marito se ne è andato, lasciandomi sola, senza lavoro e mezzi, intorno a me ho sempre trovato tanta bontà. Sono riuscita ad allevare i miei figli dignitosamente e mandarli tutti e quattro a scuola. Dio ci ha benedetti. È ora che anch’io restituisca al Signore tanta bontà che ha usato verso di noi.

Cercai di guardare altrove, fingendo di essere occupato, perché due lacrimoni mi scendevano dagli occhi.

– Mary, hai pensato che anche la bimba possa avere il male dei suoi genitori?
– Sì. La farò visitare e saprò curarla. La bimba ha bisogno di medicine e, soprattutto, dell’amore di una madre e il calore di una famiglia.

Una visita accurata rivelò che Little Mary aveva ereditato il male dei genitori. Ma la notizia non scombussolò né cambiò il progetto di accettarla in famiglia.

O ggi Little Mary è cresciuta. Si è rinforzata in salute, grazie anche all’aiuto di amici italiani a cui ho raccontato questo «fioretto africano». Ha ancora bisogno di cure; ma l’amore che ha trovato intorno a sé è la migliore medicina e l’aiuta a superare le difficoltà.
Alla scuola di Scolastica e mamma, Little Mary ha imparato a parlare tre lingue, si destreggia bene tra le compagne dell’asilo ed è pronta per passare alla scuola elementare.

Nessuno è ancora riuscito a sapere esattamente come si chiamasse. Ma che importa? Forse un giorno qualche pignolo ufficiale governativo vorrà sapee di più. E allora – ci scommetto – mamma Mary, con la sua furbizia e senso dello humour, tirerà fuori questa spiegazione: «È un Gesù “bambina”, venuta dal cielo, accolta provvisoriamente nella cesta del nostro cucciolo, ma amata da tutti noi, come l’ultima figliola che il Signore mi ha donato».

Giuseppe Quattrocchio




ITALIA – Lamponi a Natale

Da tre anni i missionari della Consolata operano nella parrocchia di Platì (Reggio Calabria), paese alla ribalta di cronache giudiziarie e imprese mafiose. La gente è stufa di essere segnata a dito
a causa di una minoranza criminale: la voglia
di riscatto matura insieme a piccole imprese che producono fragole e lamponi.

Era il 4 ottobre 2001, quando Enrico Redaelli e Luigi Manco, missionari della Consolata, presero ufficialmente possesso della parrocchia di Platì, provincia di Reggio Calabria, diocesi di Locri-Gerace, nel cuore dell’Aspromonte.

Con tanto bisogno di missionari nel sud del mondo, perché finire in uno sperduto paese della punta estrema dello stivale? La domanda è naturale e la risposta doverosa. L’ultimo Capitolo generale dell’Istituto (1999) aveva lanciato un’urgenza profetica: «È giunta l’ora della missione ad gentes anche in Europa».

L’anno seguente, nella Conferenza regionale, i missionari della Consolata in Italia hanno accolto l’appello: fatte le dovute ricerche, la scelta del nuovo campo missionario è caduta sulla Locride, diocesi con forti sfide pastorali a livello ecclesiale e socio-ambientale.
Così i due missionari sono approdati a Platì e, data la scarsità di clero, servono altre due piccole parrocchie confinanti.

PAESE A «DUE PIANI»

Adagiato sul versante orientale dell’Aspromonte, Platì era un centro agricolo, commerciale e artigianale rinomato per creatività, laboriosità e ospitalità degli abitanti. Della grandezza passata rimangono solo le vestigia nei falegnami, veri maestri del legno, e nei foai, che foiscono il fragrante «pane di Platì» a una ventina di paesi della Locride.

Quarant’anni fa il paese contava oltre 7 mila persone; ora la popolazione è quasi dimezzata, nonostante vanti il più alto tasso di natalità in Italia. Molte case sono da anni in costruzione; altre sono chiuse e malandate: aprono i battenti una o due volte all’anno, quando i proprietari, emigrati in Nord Italia e in America, ritornano in paese per qualche giorno di vacanza.

Platì non ha una biblioteca, né campo di calcio, né cinema, né altro luogo di ritrovo. Chi può, manda i figli a studiare altrove. Gli insegnanti della scuola locale scappano appena suona la campanella; e perfino il sindaco, nativo di Platì: alle 13 chiude il municipio con imposte di ferro e si rifugia a Locri.

Gli stessi platiesi ammettono che, da qualche decennio a questa parte, il paese sta andando alla deriva. Platì è diventato tristemente famoso per alcuni episodi giudiziari, sequestri di persona, traffici illeciti, delitti di mafia e latitanti. Ma è inutile domandare chi sono i mafiosi. La gente sorride e risponde con un’altra domanda: «E chi lo sa? Noi vediamo solo padri di famiglia che si alzano all’alba e tornano al tramonto».
Ma non è tutta omertà. In realtà molte persone non sanno niente e non si accorgono di nulla. Tra queste ci sono spesso anche i familiari e le stesse mogli dei malavitosi. Il malaffare è gestito da una minoranza, composta da «manovali» e pochi «specialisti» che vivono nel paese, ma collegati con i vertici della malavita nazionale e internazionale.

Una pittoresca immagine lo definisce «paese a due piani», in senso metaforico e reale. L’11 dicembre 2001, l’arresto di un pregiudicato della ‘ndrangheta, da 11 anni latitante, soprannominato «l’imprendibile», ha portato alla scoperta di bunker sotterranei, collegati con alcune palazzine e le fogne del paese, dotati di marchingegni elettronici altamente sofisticati: porte scorrevoli, chiusure antiproiettile, scalette di granito, che scivolano senza il minimo fruscio, e camere dotate di tutte le comodità.

VOGLIA DI RISCATTO

Una settantina di famiglie di Platì hanno un familiare in prigione o in latitanza. Madri e figli sono le prime vittime di tale situazione, sia perché devono portare da mangiare ai fuiùti (fuggitivi), sia, soprattutto, per le frequenti perquisizioni poliziesche: nel cuore della notte i militari sfondano la porta a calci, mettono a soq-quadro l’abitazione e la riempiono di terrore.
Quando un fuggiasco si consegna alla polizia, in famiglia c’è grande festa, perché finisce finalmente l’incubo di altre irruzioni delle forze dell’ordine.
Ma anche la gente del «piano superiore» è stufa di sentirsi segnata a dito per colpa di una minoranza sotterranea. «La maggioranza dei platiesi è gente normale e buona – afferma padre Emanuele Maggioni, parroco insieme a padre Enrico -. Alcuni mettono piede in chiesa in speciali circostanze, per onorare i morti, insieme ai rispettivi compari e comari; altri frequentano regolarmente, collaborano nelle attività comunitarie e si prodigano silenziosamente per aiutare malati, anziani, bisognosi».

A Platì c’è voglia di riscatto; ne è un segno la massiccia presenza della gente alla messa e fiaccolata del 15 dicembre del 2001, per manifestare solidarietà verso tante famiglie colpite dalla scomparsa dei loro congiunti: dal 1994 al novembre del 2001, ben 7 persone, dai 22 ai 40 anni, sono sparite nel nulla e non danno più notizie di sé.

All’omelia, mons. Giancarlo Bregantini, il vescovo di Locri-Gerace, ha letto i nomi degli scomparsi ed espresso il suo dolore verso i loro parenti, alcuni dei quali coraggiosamente presenti; poi ha raccomandato ai giovani il rispetto di sé e delle cose altrui, di studiare e formarsi una coscienza responsabile. Infine, alzando la voce perché arrivasse a chi di dovere, ha chiesto che, prima del ponte sullo Stretto, si provveda i centri dell’Aspromonte di strutture che li facciano uscire dall’isolamento e dal degrado.

Alla fine della messa, una giovane donna coraggiosa ha letto questo messaggio: «Popolo di Platì, svegliati; unisciti a noi per costruire un futuro di pace per i nostri figli. Noi siamo contro ogni forma di violenza e vandalismo; uniamoci per abolire questi misfatti. Abbandonati da tutti, abbiamo sempre chinato la testa con triste rassegnazione. Adesso è ora di far sentire la nostra voce. Un grido di pace, di perdono, contro ogni male. Impegniamoci a riscattare il nostro paese per tutto quello che è successo nel passato e nel presente».

La manifestazione è proseguita con una fiaccolata per le vie di Platì, in cui hanno partecipato uno straordinario numero di giovani, sventolando uno striscione lungo 30 metri, con i colori dell’arcobaleno. La processione, frammista a preghiere, si è conclusa nel cortile della scuola, dove per la seconda volta sono stati letti i nomi degli scomparsi. Poi il vescovo ha invitato tutti a gridare: «Viva Platì! Coraggio Platì! Viva la pace!».
Erano presenti molti adulti, donne soprattutto, dal volto segnato dalla fatica. Illuminati dalle torce, i loro occhi esprimevano commozione, mista a rassegnazione, come se dicessero: «A Platì non cambia nulla!».

INSIEME SI PUÒ

A scuotere la Locride dal fatalismo è arrivato, 9 anni fa, il vescovo Giancarlo Bregantini, un trentino dalla tempra tenace e carismatica, visceralmente inculturato nei valori più nobili e forti dell’antichissima colonia della Magna Grecia.

«Appena entrato in diocesi – racconta padre Giancarlo, così si fa chiamare – ho capito che il dramma maggiore è la disoccupazione: un destino a cui i giovani sembravano condannati e che costituisce il pericolo maggiore per la Calabria; più ancora della mafia, perché è l’humus sul quale la mafia si alimenta».
Da qui è partita, nel 1995, l’idea di mettere in piedi un’impresa cornoperativa con alcuni coraggiosi. «Da piccolo facevo come tanti ragazzi trentini: portavo il latte al caseificio; la cooperazione per me è stata esperienza di vita» racconta il vescovo.

All’entusiasmo iniziale sono seguiti momenti di stanca. «Una cornoperativa non è solo un soggetto economico; è soprattutto un passaggio culturale, una crescita sociale che non si svolge naturalmente. Bisogna sedersi, studiare, capire, pensare, uscire, confrontarsi, guardare oltre l’Aspromonte» scrive padre Giancarlo nella lettera: «La terra e la gente, la speranza in cui credo». Il confronto è iniziato nel 1996: per una settimana alcuni giovani di Platì hanno visitato le cornoperative che fioriscono in Trentino; sono rimasti impressionati da quella di Sant’Orsola, in Val dei Mòcheni, da dove, fino a 20 anni fa, la gente migrava per sfuggire a una vita di stenti e povertà, come avviene ancora oggi in Calabria. Nella mente dei ragazzi una convinzione è penetrata come un chiodo: «Se qui era così, vuol dire che anche a Platì si può cambiare».
«Cambiare si può» è diventato lo slogan di Platì. «Ma per volare occorrono le ali» continua padre Giancarlo. Le hanno foite due tecnici della Sant’Orsola, che si sono recati nella Locride, ne hanno studiato clima e terreno, foendo vari suggerimenti: «Avete terra, acqua e sole: perché non producete i lamponi a natale? Sì, durante l’inverno. Noi penseremo a inserire i vostri prodotti nella nostra catena commerciale». Sembrava una presa in giro. Ma, dati alla mano, la cosa parve possibile: a Platì i lamponi non vengono ad agosto, ma a dicembre, quando il Trentino è sotto il gelo. «Adottammo un secondo slogan, rubato a don Gelmini, ma che calza a pennello al nostro cammino di solidarietà: Solo tu puoi farcela; ma non puoi farcela da solo» continua la lettera del vescovo, sottolineando i legami di collaborazione tra trentini e calabresi.

Iniziata con 2 mila metri quadri di terreno, dopo cinque anni la cornoperativa «Valle del Bonamico» ne contava 200 mila; ad essa fanno capo 15 aziende, che danno lavoro a oltre 200 persone, soprattutto donne in difficoltà, come vedove e mogli di detenuti, e producono mille quintali di lamponi. Questi vengono immessi nel circuito della cornoperativa trentina, per finire sulle tavole dei tedeschi. E a prezzi altissimi, senza alcuna concorrenza, perché Platì è l’unico posto in tutta l’Europa in cui tali frutti maturano d’inverno.

Intanto la cornoperativa cresce: altri contadini chiedono di entrarvi; migliaia di lamponi, piantati in agosto, daranno frutti già a dicembre; la produzione si diversifica, estendendosi all’ortocultura biologica. In alcune zone sono stati piantati i ciliegi e sotto le serre di Platì stanno maturando una ventina di varietà di fragole, per studiare il tipo e le caratteristiche giuste per una nuova produzione.

LAMPONI… ANTIMAFIA

Al di là del significato economico, afferma padre Giancarlo, con la cornoperativa «sparisce il perbenismo e inizia a sgretolarsi l’invidia che, come annotava il grande scrittore calabrese Corrado Alvaro, “è il peccato mortale dei poveri”; si sono affrontati e superati tantissimi ostacoli, come la chiusura culturale e la diffidenza nell’uscire. Non è stato facile inviare al nord ragazze e spose, per apprendere il modo giusto di raccogliere i frutti…

La malavita finora ha osservato da lontano, ma potrebbe sempre infiltrarsi sottilmente. Queste e le mille difficoltà che ogni cornoperativa deve affrontare, ma che nella Locride si fanno cento volte più gravi, rendono quei frutti cento volte più saporiti».

«Il vescovo ci ha presi per mano e ci ha condotti fin qui – afferma Pasquale, uno dei primi protagonisti della cornoperativa -. Ci ha aiutati, lui così concreto, anche a minimizzare certi fatti, come quelli del giugno 2001, quando sono arrivate le minacce e poi la distruzione di 2 mila piante di lamponi, subito sostituite con quelle di pomidori. Forse alcuni balordi ben organizzati volevano che assumessimo determinati operai invece di altri». La Bonamico è diventata una scuola di maturazione sociale, dove s’impara il senso di solidarietà, reciprocità, partecipazione e responsabilità: ognuno deve dare il proprio contributo per migliorare le cose e la società. Insieme ai lamponi matura una nuova cultura, arma pacifica per combattere la mafia.
«La forza dello Spirito – conclude la lettera del vescovo – spinge sempre oltre; spinge a cambiare, distruggendo le barriere di una schiavitù culturale che obbedisce al “destino”. Nel vedere quelle serre, distese al sole d’inverno, ai piedi della suggestiva Pietra Cappa, nel misterioso Aspromonte, sento vera l’intuizione del papa: è la speranza a cambiare il mondo!».

Benedetto Bellesi




INCHIESTA – Religioni strumento di pace

In un’epoca di profonda oscurità, di guerre e di ingiustizie globalmente diffuse e perpetrate dai potenti della terra a detrimento delle popolazioni, dei singoli e di chiunque rappresenti, in qualche modo, un «obiettivo sensibile» (perché ha la sfortuna di possedere importanti risorse naturali o di essere strategicamente interessante), la pace sembra una méta sempre più lontana e irraggiungibile.
Dittatori, imperatori vecchi e nuovi, terroristi, capi di stato neoliberisti, semplici fedeli, aggressori e aggrediti, ognuno si arroga il sacro diritto di parlare a nome del proprio Dio. Bush, con i vangeli in mano, massacra iracheni e afghani con i suoi aerei da guerra; Bin Laden addestra il suo esercito di terroristi salmodiando il corano; Sharon, in nome del Jahwé biblico, fa pulizia etnica tra i palestinesi…
Ma Dio che c’entra con tutto ciò? E i sacri testi?
Religioni e violenze, religioni e pace: da sempre le fedi religiose sono state strumentalizzate a fini politici, economici, militari.
Ma esse sono, nella loro essenza più assoluta, uno strumento di pace e di giustizia. Un mezzo di autoriforma e di miglioramento personale, sociale e politico. Un mezzo… e non un fine.
Come trasformare l’odio in compassione e tolleranza, il veleno in elisir? «Senza sottovalutare le reali distinzioni tra ciascuna tradizione, penso si possa comunque affermare che tutte le religioni hanno avuto origine da impulsi caratteristici dell’individuo – il desiderio di comprendere qual è il posto dell’essere umano nell’universo, affrontare i misteri della vita e della morte, il desiderio di sperimentare gioia e dare significato all’inevitabilità della sofferenza e della perdita. (…) Si creerà valore assoluto quando ognuna di queste (religioni) si cimenterà in una “corsa alla pace”, impegnandosi ad alleviare la sofferenza e a essere portatrice di gioia. Oltre a rafforzare la pace, loro imperativo spirituale, le religioni possono contribuire al benessere umano in altri modi – attraverso la cultura, la ricerca della verità e le tradizioni di studio ed educazione di cui sono portatrici. Sono profondamente convinto che la religione esista per servire l’umanità; l’umanità non esiste per servire la religione» (1).
Con questo numero inizieremo un viaggio alla scoperta della pace e della nonviolenza nelle più grandi religioni del mondo: buddismo, ebraismo, cristianesimo, islam.

I SEGUACI DI SIDDHARTAI

I concetti di nonviolenza e pace sono profondamente radicati nella storia
del buddismo. Fin dal suo nascere esso
si è posto l’obiettivo dell’autoriforma interiore, un cambiamento che però coinvolge
pienamente anche l’ambito sociale e politico.

In lingua pali, il termine pace si dice santi, in sanscrito, shanti. Con queste parole s’intende la «pace interiore» e la totale assenza di aggressività, di desiderio e della sofferenza che da esso viene generata: il nirvana. «Nel buddismo e in altre religioni dell’India l’accento principale è sugli aspetti individuali della pace, mentre si considera che le sue conseguenze in ambito sociale derivino solo dalla psicologia dell’individuo» (2). Odio, illusione e avidità sono alla base delle azioni malvagie, della violenza, delle guerre: gli unici rimedi che possano contrastare questi sentimenti distruttivi sono la benevolenza, la generosità e la saggezza.

Uno degli elementi fondanti la dottrina propagata da Shakyamuni è il principio delle «quattro nobili verità»: l’esistenza nel nostro mondo è segnata dalla sofferenza; la sofferenza è generata dai desideri; sradicando i desideri, l’essere umano può liberarsi dalla sofferenza e raggiungere una condizione di pace e illuminazione (nirvana); per arrivare a questo traguardo è necessario seguire una disciplina. Essa viene definita anche «ottuplice sentirnero», un insieme di regole morali che incoraggiano a seguire una «retta visione», un «retto pensiero», «rette parole», «rette azioni», un «retto modo di vivere», «retti sforzi», «retta concentrazione» e «retta meditazione». L’obiettivo di questa pratica è quello di «risvegliare l’individuo alla vera essenza della realtà e aiutarlo a liberarsi dall’ignoranza e dalla sofferenza».

Dunque, sviluppare pensieri, sentimenti positivi e benevolenti nei confronti di se stessi e dell’umanità – quella che si incontra tutti i giorni e quella lontana – rappresenta una delle pratiche della nonviolenza buddista.

«Nel primo di una serie di esercizi chiamati “stati mentali” (brahma vihara), la benevolenza è accompagnata dalla pratica della compassione (karuna, “simpatia” verso coloro che soffrono), dalla gioia (mudita, apprezzamento per la buona fortuna degli altri) e dall’equanimità (upekkha, mantenere l’imparzialità nei momenti di guadagno e di perdita).
L’approccio buddista verso la nonviolenza, quindi, si fonda su una sistematica “regolazione dell’atteggiamento”, dove gli stati d’animo negativi e reattivi come l’odio, la brama e l’illusione vengono trasformati in orientamenti sociali positivi attraverso l’autoesercizio della meditazione» (3). Importantissima è la virtù, o la pratica, della compassione: «Il Buddha indicò nella “Via di mezzo” il cammino da seguire: non una vita dedita al piacere, ma neanche alla privazione (Via di mezzo significa anche eliminare ogni forma di dualità, ndr). (…) L’egoismo impedisce una visione chiara della vita: esso va sconfitto con la saggezza, la pratica e facendo scaturire la “compassione”.
Nell’Upasakasila-sutra si legge: “Se tu vedi esseri umani in disarmonia cerca di creare armonia. Parla dei pregi altrui e mai dei difetti. Coltiva buoni propositi anche verso il tuo nemico. Attieniti alla compassione e considera tutte le creature come se fossero i tuoi genitori”» (4).

Fondamentale, nella dottrina buddista, è il concetto di karma («azione compiuta» (5), legge morale di causa-effetto), che è stata mutuata dal pensiero induista da cui il buddismo si sviluppò, e del samsara, il ciclo di reincarnazione che interessa esseri umani, animali, divinità e demoni. «Secondo questo principio (del karma, ndr) tutte le azioni morali compiute da una persona, sia buone sia cattive, producono nella sua vita determinati effetti che non si manifestano necessariamente nell’immediato ma possono richiedere un certo lasso di tempo. Secondo la visione indiana, gli esseri viventi passano attraverso un ciclo infinito di nascite e morti e gli effetti negativi di un’azione malvagia compiuta in una vita possono essere differiti a un’esistenza successiva, ma inevitabilmente si manifesteranno, prima o poi. Ne segue che solo sforzandosi di compiere azioni positive nell’esistenza presente si possono evitare sofferenze ancora maggiori nelle vite future» (6). Ricompensa e punizione sono dunque individuali, ogni persona riceve come mercede ciò che ha seminato. E questo dovrebbe rappresentare un deterrente nei confronti di comportamenti malvagi o scorretti e un incoraggiamento verso quelli eticamente e moralmente corretti.

Ma non ci sono solo il karma e il samsara a guidare verso la nonviolenza. Importante è anche il concetto di «origine dipendente», l’interdipendenza, cioè, di tutte le azioni e di tutti gli esseri viventi nel ciclo di nascita e morte, e la relazione causale tra ignoranza e sofferenza. La natura dei fenomeni, delle cose che permeano l’universo, si basa sui legami causali che li uniscono tra loro. Come a dire, nulla è per caso e a se stante. Questo significa che l’universo intero è permeato da una ricchezza, da un potenziale immenso, in continuo sviluppo e mutamento e pronto a manifestarsi. In questo sta l’intuizione illuminante del Buddha Shakyamuni (7). E la metafora della rete di Indra – una trama di giornielli dove le facce di ciascuno rispecchiano quelle di tutti gli altri – ben esprime il concetto dell’interdipendenza tra tutti gli esseri viventi.
Tutto ciò non rappresenta solo il tessuto di una concezione teorica «psico-cosmica» ma ha profonde conseguenze etico-morali sulle relazioni tra gli esseri umani e tra questi e l’ambiente. Implica rispetto, assoluto, di ogni espressione di vita, pena una pesante retribuzione karmica.

Ulteriori insegnamenti di pace e nonviolenza si svilupparono insieme alla corrente mahayana (si veda il box), dove un ruolo fondamentale viene rappresentato dalle figure dei bodhisattva (sattva, essere, bodhi, buddità). «Nel buddismo delle prime generazioni scopo fondamentale della pratica religiosa era raggiungere lo stato di arhat (“essere perfetto”), ovvero colui che “non ha più nulla da apprendere” ed è libero dal ciclo delle rinascite negli stati inferiori dell’esistenza. Ma anche per raggiungere questa condizione si riteneva che occorresse un impegno instancabile per molte esistenze. Il buddismo mahayana, invece, indirizzò immediatamente i suoi seguaci, uomini e donne, verso il supremo stadio di illuminazione, lo stato di buddità. In questo processo di crescita spirituale sarebbero stati di grande aiuto i cosiddetti bodhisattva, esseri dotati di immensa compassione che, oltre a coltivare la propria illuminazione, si sforzavano di aiutare gli altri a fare lo stesso. (…) Nei testi mahayana, come il Sutra del Loto, i bodhisattva sono rappresentati in numero illimitato, capaci di vedere e di aver cura di ognuno, sempre pronti a soccorrere senza esitazione coloro che si appellano a loro con fede sincera» (8).

Santi buddisti o saggi, i bodhisattva hanno in comune una determinazione che è anche una solenne promessa: aspettare di entrare nel nirvana (9) e rimanere nel samsara il tempo di salvare gli esseri umani dal male e portarli verso l’illuminazione.
«Questo è il mio pensiero costante. Come posso fare in modo che tutti gli esseri viventi possano conquistare l’accesso alla più alta Via e raggiungere rapidamente la buddità», questa è la preoccupazione fondamentale, di cui si fa cenno nel capitolo juryo del Sutra del Loto, del Buddha e di tutti coloro che a questo stato di illuminazione vogliono accedere. Questo Sutra (saddharma-pundarika-sutra, in sanscrito) è considerato da molti studiosi il testo sacro più importante della corrente mahayana. Esso contiene una raccolta di metafore e di racconti o eventi che fanno riferimento ad un mondo di dimensioni amplissime, che rispecchia, in un certo senso, la cosmologia indiana tradizionale. Si pensava infatti che tale mondo fosse formato da quattro continenti collocati attorno ad una montagna mastodontica, il monte Sumero. Oltre al nostro ce ne sarebbero molti altri, abitati da Buddha. Peculiarità di quello abitato dalle creature viventi «comuni» è l’esistenza di sei regni: inferno, avidità e desiderio incessante, animalità, violenza o dominio sugli altri (i cosiddetti cattivi sentirneri); umanità, divinità o estasi. A questi ultimi il buddismo mahayana aggiunge i «nobili mondi», rappresentanti l’esistenza illuminata: quello popolato dagli «ascoltatori della voce» o studiosi delle dottrine del buddismo; i «pratyekabuddha», coloro, cioè, «che raggiungono l’illuminazione da soli» e che hanno compreso la verità fondamentale della vita ma che non si preoccupano di insegnarla agli altri. Il nono mondo, o stato, è quello dei bodhisattva, caratterizzato dalla compassione verso tutti gli esseri viventi: l’individuo si dedica alla felicità altrui scegliendo di seguire la via della perfezione, e dunque l’ingresso nella buddità, attraverso lo sforzo di liberare le persone dalla sofferenza.

L’ultimo stadio è quello della buddità: saggezza, compassione, perfetto io eterno e totale purezza di vita ne sono le caratteristiche. Esso rappresenta una condizione ideale a cui tutti gli esseri, attraverso la pratica buddista, possono mirare di accedere, poiché fa parte del loro infinito potenziale. Ecco dunque la grande rivoluzione del buddismo mahayana contenuta nel Sutra del Loto (10): tutti possiedono intrinsecamente la natura di buddità e dunque possono raggiungere l’illuminazione; il Buddha non vive in un luogo particolare e non ha una natura soprannaturale; la vita, nella sua essenza più profonda, esiste incessantemente attraverso passato, presente e futuro; non esistono categorie di esseri viventi che non possono raggiungere la buddità, neanche le persone più malvagie. Bellissimo è, al riguardo, il capitolo «Devadatta»: qui si comprende che, come il cattivo Devadatta, reo di crimini terribili, o la giovane figlia del re dei naga, ovvero i draghi, anche le persone più cattive possono ambire alla salvezza, e che bene e male non sono due eterni opposti la cui sopravvivenza dell’uno escluda quella dell’altro, ma due facce della stessa medaglia – luce e tenebre -, continuamente in lotta fra di loro.

Attraverso le sue dottrine rivoluzionarie, il Sutra del Loto ci rivela che l’illuminazione travalica le distinzioni di sesso, specie, spazio, tempo e i limiti posti dalla mente umana, e con la sua promessa di liberare tutte le persone, soprattutto quelle collocate al fondo della scala sociale, anticipa, in un certo senso, l’odiea concezione dei diritti umani.

(prima parte, continua)

Angela Lano




AMERICA LATINA – Sarà il continente di Bush o Lula?

Crisi economica diffusa, povertà, violenza eppure le popolazioni latinoamericane
sono più vive che mai, pronte a raccogliere la speranza là dove sembra spuntare.
Ne abbiamo parlato con il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez,
con monsignor Jaime Henrique Chemello (già presidente della Conferenza episcopale
del Brasile) e con un giovane sacerdote.

IL TEOLOGO
GUSTAVO GUTIÉRREZ:
«Ma i giovani
statunitensi
mi dicono che…»

Lo scorso ottobre,
a Oviedo, il fondatore della «teologia
della liberazione»
ha ricevuto
il prestigioso
«Premio Principe
delle Asturie».
Padre Gutiérrez insegna anche
negli Stati Uniti, all’Università
di Notre Dame,
nello stato dell’Indiana.
Ci ha raccontato questa sua esperienza.

«Il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez è l’iniziatore della corrente spirituale innovatrice conosciuta come “teologia della liberazione”. La corrente propugna un’attenzione particolare al mondo degli esclusi, suggerendo che la “liberazione” sostenuta dal messaggio cristiano non è applicabile unicamente all’aspetto spirituale dell’essere umano, ma anche alle sue condizioni sociali e materiali. In quest’ottica, la proposta della teologia della liberazione non si limita a costruire una base teorica, ma al tempo stesso è una pratica che, specialmente nei paesi meno sviluppati, ha stimolato l’elevazione in dignità delle condizioni di vita di milioni di esseri umani».
Con questa motivazione la giuria del prestigioso «Premio Principe delle Asturie» ha assegnato a padre Gustavo Gutiérrez (1) il riconoscimento 2003 nella categoria della comunicazione e lettere umane. I premi, destinati ogni anno dal 1981 ad esponenti di 8 aree del sapere, sono considerati i Nobel dell’area ibero-latinoamericana.
Ad inizio anno, l’«Accademia delle Arti e delle Scienze» di Cambridge (Massachussets, Usa) aveva incluso il teologo peruviano tra i suoi membri onorari. Noi lo intervistammo per la prima volta alla fine del 1997, a Lima (2). Pochi mesi dopo, padre Gutiérrez sorprese tutti entrando, alla bella età di 70 anni, nell’Ordine dei domenicani.
Negli ultimi anni lei è vissuto più all’estero che in Perù, suo paese natale. Dove lavora ora, padre Gutiérrez?
«Dal 2001 sono negli Stati Uniti, dove insegno teologia. A Lima, però, continuo il mio lavoro pastorale in una parrocchia e le altre attività nel Centro Bartolomé de las Casas».

Padre, che cosa significa insegnare teologia negli Stati Uniti, cioè nel paese che ha riesumato il concetto di «guerra preventiva»?
«Gli Stati Uniti non sono un paese, ma un continente. È vero che gli americani sono favorevoli alla guerra, ma è altrettanto vero che molti altri sono contro, per esempio all’Università di Notre Dame, nell’Indiana, dove insegno».

Cos’è la guerra?
«È una minaccia. È un crimine. È la volontà di potere della più grande potenza del mondo. Non possiamo accettarlo né come uomini, né come cristiani. Dobbiamo lottare per la pace, ma una pace, come si dice nella bibbia, fondata sulla giustizia».

Che pensa del Perù di Alessandro Toledo?
«Se facciamo il paragone con il periodo della dittatura e della corruzione, adesso in Perù abbiamo un clima democratico, seppur con molte difficoltà economiche e politiche.
Non è facile la transizione da un regime corrotto come quello di Fujimori (che è ancora presente in molte istituzioni del Perù) e andare verso una democrazia; ma questo processo è in atto, seppure non in modo stabile e solido. Insomma, è già qualcosa».

Con tutto il rispetto per il Perù, tutti guardano al nuovo Brasile di Lula, sul quale pesano aspettative enormi. Ma la sfida dell’ex operaio e sindacalista è tremendamente difficile…
«In questo momento, Lula è una grande speranza non solo per il Brasile, ma per tutta l’America Latina. Certamente la sua non sarà un’impresa facile.
Noi abbiamo avuto in America Latina altri momenti di svolta: il Cile, il Nicaragua, la Bolivia. Ma oggi la sfida è più importante, perché il Brasile è un grande paese ed ha una dirigenza politica preparata. Agli amici brasiliani dobbiamo suggerire di essere non tanto prudenti (che non è la parola esatta), quanto maturi politicamente per andare bene. Credo che il programma di Lula sia molto buono, molto chiaro. Sono convinto che tutto questo sia veramente importante».
Sembra che nel mondo si stia creando una netta divisione tra paesi cristiani e paesi islamici. Secondo lei, questa è una scusa, oppure c’è una vera contrapposizione religiosa?
«In larga misura è un pretesto. A dire il vero, si potrebbe dire che la contrapposizione è tra paesi ricchi e potenti e paesi islamici poveri. La divisione religiosa non è la più importante, ma è facile per certe persone dei paesi ricchi parlare di una contrapposizione religiosa. Così rimangono oscure le vere ragioni del contrasto.
Questa tesi della contrapposizione tra civiltà occidentali e orientali non è poi così rilevante e forse interessa soltanto gli intellettuali. Credo che ci siano altri aspetti più importanti della civilizzazione. Dobbiamo fare altre analisi. Personalmente, sono contro i paesi ricchi per molti aspetti, ma non perché la mia civiltà sia differente dalla loro».

Toiamo al suo lavoro di professore negli Stati Uniti. Che cosa racconta ai suoi studenti dell’Università di Notre Dame?
«Parlo di spiritualità. Spiego la teologia della liberazione e l’opzione preferenziale per i poveri, trovando dei giovani molto aperti».

Quanti anni hanno i giovani a cui lei insegna?
«Attoo ai 25 anni, qualcuno un po’ meno, altri un po’ di più, ma tutti sono molto aperti».

Ma che cosa pensano del loro presidente George W. Bush, che considera la guerra uno strumento per risolvere i problemi inteazionali e per far prevalere gli interessi statunitensi?
«I miei studenti (ovviamente non posso parlare di tutti gli studenti) sono contro la guerra, assolutamente contro. Allo stesso tempo, il loro contesto è totalmente differente da quello dei latinoamericani, dei peruviani per esempio. È un altro mondo, ma trovo questa gente seria e molto aperta per lavorare».

Come sta la «teologia della liberazione» nel 2003, cioè 32 anni dopo la sua nascita?
«Sta bene. Lavoriamo molto. In questi ultimi anni ci stiamo dedicando anche ad altri aspetti e all’approfondimento di un’intuizione originale che, nei primi scritti, abbiamo chiamato “la complessità della libertà”. Significa prestare attenzione non soltanto agli aspetti economici delle realtà, ma anche a quelli culturali, razziali, di genere.
Un altro aspetto è la critica al pensiero unico neoliberista e il nostro punto di partenza è “l’opzione preferenziale per i poveri”, che ancora oggi costituisce il punto centrale della teologia della liberazione».

JAIME HENRIQUE CHEMELLO:
«La fame
e l’Amazzonia sono la priorità»

Fino allo scorso maggio, era presidente
della «Conferenza episcopale
del Brasile» (Cnbb), oggi è presidente della commissione che si occupa dell’Amazzonia. Vescovo molto noto, monsignor Chemello è comprensivo
con tutti,
ma non con la guerra
né con la politica degli Stati Uniti.

Nato nel municipio di São Marcos (Rio Grande do Sul) nel 1932, Jaime Henrique Chemello è vescovo dal 1969. Fino allo scorso maggio presidente della «Conferenza episcopale del Brasile» (Cnbb) (1), oggi monsignor Chemello è a capo della «Commissione episcopale per l’Amazzonia».
Come uomo e come vescovo, che pensa della guerra?
«Penso che la guerra sia proprio una cosa cattiva, deplorevole, tristissima. Il Santo padre ha già detto queste cose e ha pregato molto per la pace non solo in Iraq, ma anche in Palestina».

Il presidente Bush ha reintrodotto i concetti di guerra «preventiva» e di guerra «giusta» contro quelli che lui giudica essere nemici dell’umanità. È concepibile?/
«Non credo che possa esistere il concetto di guerra “giusta”.
La guerra non porta mai niente di buono. Perché essa è distruzione, soprattutto di vite umane».
Lei è un vescovo molto noto. Come vede il nuovo Brasile di Lula?
«Io lo vedo come tutto il popolo: con speranza, ma non sono sicuro che andrà sempre bene. Bisogna lavorare molto, collaborare, perché Lula da solo non può fare niente. Il popolo deve dare il suo appoggio, lottare perché l’idea è buona».
Lula potrebbe lavorare anche se avesse una parte della comunità internazionale, quella che detiene il capitale finanziario, contraria alle sue decisioni?
«Sarebbe molto difficile, ma Lula sta facendo di tutto per adattarsi alla situazione internazionale. Va in giro per il mondo per spiegare la sua posizione rispetto alla realtà. Molta gente lo ascolta perché ha una personalità molto forte».
È indubbio che il Brasile abbia moltissimi problemi. Volendone fare un elenco, lei che cosa metterebbe ai primi posti?
«La fame e poi anche il non poter lavorare, guadagnarsi la vita con dignità. Anche la violenza è una cosa tristissima. Il Brasile necessita quasi di tutto.
Anche per la Conferenza episcopale (2) la lotta per superare il problema della fame è prioritario. E poi c’è l’Amazzonia, che è una questione molto grande per noi e i suoi abitanti».
Che ci dice del «Movimento dei sem terra»?
«È un’organizzazione che ho già aiutato molto. È un movimento difficile perché affronta una lotta difficile. I contadini senza terra hanno lottato e sofferto molto e per questo bisogna capirli».
I rapporti della chiesa cattolica con le altre religioni del Brasile.
«Grazie a Dio abbiamo fatto molta strada, perché l’ecumenismo e il dialogo interreligioso per noi è molto importante».
Ma con chi esattamente avete dialogato?
«Dialoghiamo soprattutto con chi aderisce al “Consiglio nazionale delle chiese cristiane del Brasile” (Conic) (3), che raccoglie le chiese tradizionali. Con questo organismo facciamo anche iniziative sociali in comune».
In Brasile c’è un numero esagerato di sétte evangeliche. Rappresentano un problema? E, se sì, come lo si affronta?
«Già il termine sétte non ci piace. Non è che sia sbagliato, ma sottintende qualcosa di cattivo. Noi li chiamiamo “movimenti religiosi autonomi”. Comunque, il problema esiste e qualche volta è difficile. Ma, nonostante le difficoltà, bisogna lottare sempre».
Monsignore, cosa pensa dell’influenza che gli Stati Uniti hanno sull’America Latina in generale?
«Credo che adesso gli Stati Uniti stiano facendo una politica molto complessa, ma dalle reazioni dei popoli di tutto il mondo (non solo dell’America Latina) pare che questa loro politica non sia affatto giusta. Sono sempre di più i paesi contro gli Usa. Lo vedo di persona: in tutti i posti dove mi reco, c’è sempre una riserva contro la politica praticata da Washington».

Paolo Moiola




ETIOPIA – Ragnatela d’amore e vita

Asili, scuole, acquedotto, dispensario medico, campagne di vaccinazioni, soccorsi di emergenza… sono alcuni fili della «rete» di progetti di promozione umana della parrocchia di Wonji, insieme a un’intensa attività di evangelizzazione.

I contadini delle montagne circostanti la chiamano col termine di «verde». E tale appare Wonji, vista da lontano: una grande conca verde cupo, che si estende a perdita d’occhio. Il colore le deriva dalle estese piantagioni di canna da zucchero, irrigate con le acque del fiume Awash.
Ma il centro abitato non è un paradiso: le abitazioni sono quasi tutte di fango; le strade sporche e sconquassate, con uomini e bestie in libertà; auto scassate e biciclette sono l’unico segno di progresso.
Gli oltre 18 mila abitanti della città vivono (si fa per dire) grazie all’industria dello zucchero: la maggioranza di essi si spaccano mani e schiena nelle piantagioni per 30 dollari al mese; gli operai dei due zuccherifici non sono più fortunati.
Fuori dal «verde», poi, l’impressione è più penosa, specialmente in questi mesi: l’anno scorso sono mancate le piogge stagionali e in molte zone è fame nera.
ACQUA «CATTOLICA»
Mentre guardo il panorama, in piedi sulla grande cisterna costruita in cima a una collina a ovest del paese, padre Giuseppe Giovanetti mi spiega il paradosso: il fiume Awash è generoso, ma inquinato; la falda acquifera è a soli 10 metri sotto terra, ma l’acqua dei pozzi contiene un’alta percentuale di fluoro che rovina denti e ossa. Ancora oggi si incontrano ragazzi con i denti neri e anziani ringobbiti.
Lo spettacolo doveva essere più impressionante nel 1980, quando padre Tarcisio Rossi fu nominato parroco del luogo: il progetto dell’acqua potabile fu una priorità. Scavò un pozzo non lontano dal fiume Awash, costruì un serbatornio da 50 mila litri e cominciò la distribuzione dell’acqua in varie zone dell’abitato.
«Quando arrivai per la prima volta a Wonji, nel 1992-93 – continua padre Giovanetti -, la popolazione era aumentata enormemente: scavai un altro pozzo e raddoppiai questo serbatornio. Ora che sono tornato, continuo a occuparmi del progetto».
Notte e giorno, due pompe spingono l’acqua nei due serbatorni da 100 mila litri; una rete di oltre 12 km di tubi la porta in 18 punti di distribuzione pubblica e ad altre strutture private (scuole, bar, banca, moschea, chiese ortodosse e protestanti).
Mentre visitiamo alcune fontane, dove si allineano serpentoni di bidoni gialli, padre Giovanetti spiega: «Ogni famiglia preleva una tanica al giorno, per un totale di 1.000 litri al mese, pagando due birr (20 centesimi di euro); le strutture private hanno il contatore e pagano secondo il consumo. Ma tale compenso non basta a pagare il personale addetto alla manutenzione e gestione del progetto».
Intanto aumenta la richiesta d’acqua. Per accontentare tutti, la distribuzione è razionata: le famiglie attingono solo al mattino; durante la notte le condutture vengono chiuse, per evitare che eventuali sprechi o abusi dei privati provochino l’entrata di aria nelle tubature, creando disguidi per tutta la popolazione.
I problemi arrivano, soprattutto, quando una pompa si brucia, a causa degli sbalzi di corrente: prima che arrivi il tecnico da Addis Abeba e ripari i guasti, parte della città rimane a secco per oltre dieci giorni.
Per diminuire tali rischi, padre Giovanetti sta pensando di costruire un altro serbatornio di 50 mila litri e ha fatto appello per una pompa più potente. La Caritas italiana ha accolto la richiesta.
Sembra che anche il governo si stia muovendo. Alcuni tecnici hanno visitato il progetto, sono rimasti contenti e vorrebbero portare acqua potabile da Nazaret e immetterla nel progetto della missione. «Ho accettato subito. Almeno la gente, che da oltre 20 anni beve acqua “cattolica”, non darà la colpa alla chiesa, quando i rubinetti rimarranno asciutti» conclude il padre sorridendo.

FAFA «MORMONE»
Fin dagli inizi, la chiesa di Wonji è impegnata pure nel campo sanitario. Il dispensario, oltre a curare la gente che accorre alla missione, svolge varie attività nelle zone rurali e di montagna: sensibilizzazione igienica e sanitaria, campagne di vaccinazioni, formazione di levatrici tradizionali e agenti di sviluppo comunitario.
«La chiesa cattolica promuove la coscientizzazione sui problemi basilari della gente» spiega padre Giovanetti, mentre mi porta nel suo quartiere generale, dove una dozzina di giovani sono impiegati nei vari progetti sociali e umanitari della missione. Sono tutti indaffarati nei preparativi per il giorno seguente: trasferta ad Amude, 62 km da Wonji, per distribuire 180 quintali di cibo a oltre 4 mila persone.
«È ancora la chiesa cattolica a portare alla ribalta i problemi della gente e a prestare i primi soccorsi» continua il padre. Alla fine dell’anno, durante le varie visite per le attività sanitarie, abbiamo scoperto che i contadini avevano finito le loro scorte di cibo: era la fame, causata dal fallimento delle grandi piogge autunnali. Abbiamo subito avvisato il Dppc (Disaster prevention and preparedness commission), l’organismo governativo incaricato di prevenire i disastri naturali. Ho dovuto smuovere capi politici della sanità, educazione, agricoltura, portandoli sul posto; ho pure suggerito una possibilità di soluzione».
La soluzione si chiama Crs (Catholic relief service), l’organizzazione dell’episcopato americano, con programmi di aiuti in vari paesi africani. «Dapprima il governo disse che avrebbe preso in mano la situazione – continua padre Giovanetti -. Ma in un incontro tra autorità federali e Ong, parlando a nome del Crs, dissi chiaro e tondo che i donatori volevano che fosse la chiesa a gestire il progetto: e ce lo ha permesso; cosa che prima non accadeva».
Il principale donatore si chiama Gary Flake, incaricato delle attività caritative della Chiesa di Gesù Cristo dei santi dell’ultimo giorno (mormoni). Si era rivolto al Crs offrendo aiuto contro la fame. «La signora Anne Bousquet, rappresentante del Crs lo mandò da me – racconta il padre -. Ci incontrammo in un hotel di Nazaret e mi fece grande impressione. A un certo punto, rivolgendosi a due signore che lo accompagnavano disse: “Io sono un mormone, ma mi metto nelle mani di un prete cattolico; sono felice di essere qui, per fare del bene insieme al mio fratello padre Giuseppe Giovanetti”. Poi, rivolto a me, disse che era disposto a pagare fino a 35 mila tonnellate di cibo».
Era un’impresa grande e complessa. Fu fatto un accordo con mister Flake, il Crs e la chiesa di Wonji: il primo paga le fatture all’Unimix, una fabbrica locale di fafa (miscela di farine, vitamine, proteine, zuccheri…); il Crs provvede ai contratti con la fabbrica, al trasporto e alle spese per il personale; alla chiesa la responsabilità di organizzare la distribuzione.

LA RAGNATELA…
Come supervisore, padre Giovanetti ha impiegato un mese per organizzare tale impresa: ha preparato gli impiegati (3 supervisori, 7 animatori, 12 distributori); ha visitato le autorità locali (sindaci di città e capi di Associazioni dei contadini) per stendere il piano e risolvere i problemi logistici.
«L’avventura è cominciata a febbraio – spiega il padre, mentre andiamo al centro di distribuzione di Amude -. L’abbiamo chiamata Web of love, help and life: ragnatela di amore, aiuto e vita, perché coinvolge donatori e beneficiari. La rete è composta da 8 centri (5 nel distretto di Adama e 3 in quello di Dodota Sire, in cui è Amude), coinvolge 42 Associazioni di contadini con oltre 40 mila persone e distribuisce ogni mese 1.400 quintali di fafa. Il nostro è un progetto integrativo: mentre il governo dovrebbe aiutare le famiglie affamate con la distribuzione di granaglie, noi aiutiamo donne gestanti, allattanti e bambini sotto i 5 anni».
Ad Amude arriviamo quando il sole è allo zenit; troviamo una marea di donne in attesa di essere servite. Alcune siedono pazientemente al sole o sotto un albero; altre sono attorno agli impiegati, che controllano schede, confrontano liste di nominativi, fanno apporre la firma (impronte digitali) sulle tessere; intanto si formano file variopinte ai punti di distribuzione.
È la scena che si svolge ogni mese negli 8 centri di distribuzione. Per padre Giovanetti e i suoi aiutanti tale è un lavoro snervante, ma gratificante. Più noiose, invece, sono le giornate passate in ufficio a stilare resoconti dettagliati del lavoro fatto da inviare al Crs e alle autorità governative; preparare il piano, altrettanto dettagliato, con date, luoghi e quantità di cibo necessario per il mese seguente.
Tale avventura continuerà fino a ottobre, quando si spera che la gente possa avere i primi raccolti. «Ma la ragnatela non scomparirà – continua il padre -. Ho preso accordi con varie capi locali per pesare tutti i bambini e controllare se abbiano superato la crisi o siano ancora denutriti e bisognosi di ulteriore aiuto».

FAME DI SAPERE
Dei sette progetti sociali gestiti dalla missione, quattro riguardano l’educazione: un asilo vicino alla chiesa parrocchiale e un altro ad Awash Melkasa, nella parte opposta delle piantagioni di canna; una scuola elementare e media con oltre 700 alunni a Wonji e un’altra a Bati Bora, a 12 km dalla sede parrocchiale.
Di tali opere si occupa padre Matthieu Kasinzi, missionario della Consolata congolese, eccetto Bati Bora, gestita da padre Giovanetti.
Mentre ci rechiamo a visitarla, traballando su una sassosa mulattiera, il padre racconta: «Piccola e malandata, la scuola stava per chiudere, poiché le famiglie non potevano pagare le tasse scolastiche, a causa della fame. Ho fatto un patto con i genitori: li avrei esonerati dalle tasse per un anno, purché mandassero i figli a scuola. Non l’avessi mai detto! Da 113, gli alunni sono saltati a 715. Ma con l’aiuto di alcuni amici italiani sono riuscito a mandare avanti la baracca e ingrandire gli edifici».
Siamo in vista della scuola; ma un’enorme erosione ci costringe a fare l’ultimo chilometro a piedi, attraversando un profondo burrone. Le aule sono piene come un uovo: le classi oscillano tra i 95 e i 110 alunni; alcune seguono il ciclo regolare di quattro anni; in altre i programmi vengono condensati in due anni: lo chiamano «sistema informale» ed è riconosciuto dal governo.
Ciò che colpisce nelle aule «informali» è la scala delle teste: nelle prime file esse sporgono dai banchi a malapena; nelle ultime si ergono ragazzotti e signorine in età da matrimonio.
Un particolare fa gongolare di gioia padre Giovanetti: in alcune classi le ragazze sono più numerose dei maschi. «È un fatto nuovo in Etiopia – osserva il padre -. La gente ha capito l’importanza della scuola per il futuro dei loro figli, in modo particolare per le donne, anch’esse affamate di sapere».

FAME DI DIO
Wonji non è solo progetti sociali, ma svolge una capillare opera di evangelizzazione e formazione di comunità cristiane. Il parroco, Ghebre Egziabher Gebru, missionario della Consolata etiopico, cornordina il lavoro religioso e pastorale, visita le famiglie, malati e anziani. È coadiuvato da padre Matthieu, responsabile dei giovani. La domenica, padre Giovanetti dà una mano a tutti e due, celebrando la messa nelle comunità rurali.
Wonji è la parrocchia più grande del vicariato di Meki: conta 18 comunità; alcune sono disseminate nella piantagione; altre sparse in campagne e colline; quella di Alentena è la più sviluppata e richiede tanta attenzione come la sede centrale.
Tutte le comunità sono caratterizzate da un comune denominatore: la fame di Dio. Per questo ha avuto un grande sviluppo: dalle poche centinaia di 20 anni fa, i cattolici sono passati a 5.700, un quarto della popolazione cattolica di tutto il vicariato.
L’attività di evangelizzazione, corroborata dalla testimonianza della carità dei progetti sociali e umanitari, continua a rispondere alla più profonda fame e sete della popolazione di Wonji: anche qui «i poveri hanno fame di Dio; non solo di pane e libertà» (RM 83).

Benedetto Bellesi