Ritorno al futuro

È ancora scuro quando imbocchiamo la «strada imperiale» che congiunge Addis Abeba alla regione orientale dell’Etiopia. Siamo diretti a Shambu, a 240 km dalla capitale, nel cuore del Wollega, la regione dove i missionari e missionarie della Consolata lavorarono per 25 anni, finché, allo scoppio della seconda guerra mondiale, furono cacciati dagli inglesi (1941).
Nonostante il nome pomposo della strada, la gibbosità dell’asfalto, curve e i saliscendi rallentano la corsa. In compenso possiamo gustare gli scenari, sempre vari e pittoreschi e, soprattutto, rivivere pagine di vita missionaria, apprese in gioventù dai missionari che sono passati per questa stessa via, quando era meno «imperiale».
A CACCIA DI MEMORIE
Il percorso che ora compiamo in sette ore di automobile, allora richiedeva giornate di cammino; anzi, settimane di estenuanti carovane, quando dalla capitale venivano trasportati i materiali necessari alla costruzione delle missioni.
Dopo 120 km e quasi tre ore di viaggio, entriamo nel Wollega; ci fermiamo ad Ambo, cittadina già rinomata per le piscine termali, oggi famosa in tutta l’Etiopia per l’omonima acqua minerale. Ma a noi rievoca altre memorie.
Per tre anni, dal 1938 al 1941, alloggiando in abitazioni provvisorie, padri e suore della Consolata svolsero attività scolastiche e sanitarie (vedi riquadro). Appena deciso di dare una sede definitiva alla missione e gettate le fondamenta della chiesa, dovettero abbandonare tutto.
A una dozzina di chilometri da Ambo, visitiamo la missione di Guder, fondata nel 1926 e abbandonata nel 1941, al colmo dello sviluppo (vedi riquadro). Del mulino e segheria rimane il piccolo canale d’acqua che ne azionava i motori; delle scuole elementari non è sfuggito al saccheggio neppure un mattone; stessa sorte è toccata alla casa dei padri.
Più fortunata è stata quella delle missionarie: una parte è ancora in piedi, anche se, caduto l’intonaco, le pareti di terra e paglia sembrano un animale spelacchiato. Più in basso si scorge il tetto del noviziato delle Ancelle della Consolata: l’edificio è in buone condizioni, grazie a profondi ammodeamenti.
Della chiesa resta la piattaforma del presbiterio e gradini sconnessi. La sorpresa è a pochi metri: in una minuscola cappella ortodossa possiamo ammirare una bella immagine della Consolata, scolpita sulla grande lunetta di pietra che oava la facciata della chiesa.
IL RITORNO
La Consolata è rimasta nel Wollega e ha richiamato i suoi figli. Nel 1970 i missionari della Consolata sono tornati in Etiopia e organizzato il vicariato di Meki, con la segreta speranza di rientrare in quello di Gimma, oggi vicariato di Nekemte.
Le suore vi sono arrivate prime, per svolgere attività apostoliche, sanitarie e di promozione umana in tre missioni: Sakko (1974), Komto e Konchi (1977). Nel 2001 il sogno si è completato: padri, fratelli e suore hanno iniziato a lavorare in équipe nella zona di Shambu, ai piedi dei monti Acca, una regione con grandi possibilità di prima evangelizzazione tra vari gruppi oromo.
Uno di tali gruppi, gli higgu, aveva chiesto di entrare nella chiesa cattolica, grazie alle visite saltuarie di preti etiopici di Nekemte e del catechista Addisù Yadessa, che vi aveva soggiornato più a lungo e svolto un’attività di primo annuncio del vangelo.
La decisione di iniziare l’evangelizzazione degli higgu ha avuto una lunga gestazione. Nel luglio 2001 abba Johannes, fratel Brusa e suor Lena Emilia hanno fatto lunghe trasferte per visitare la gente, famiglia per famiglia, conoscere la loro cultura, saggiae le intenzioni e studiare le possibilità di iniziare la missione con uno stile nuovo.
Nel febbraio seguente, padri e suore si sono stabiliti definitivamente nel paese, affittando due casette di fango in periferia; in una terza accolgono dei giovani che vengono da lontano per frequentare la scuola e vi tengono incontri di formazione umana e religiosa, insieme a corsi di lingua inglese.
«Non siamo venuti con progetti di strutture per opere sociali, necessarie in altre zone, come Meki, per poi annunciare il vangelo – spiega suor Lena Emilia -. Vogliamo stare con la gente e dare priorità all’evangelizzazione; eventualmente, le attività sociali verranno in seguito».
Tale esperienza è possibile per il fatto che i due missionari destinati a Shambu, abba Johannes e abba Teklu, sono etiopici, entrambi di etnia oromo, e non hanno bisogno di permessi governativi per svolgere attività esclusivamente religiose.
DAL VECCHIO
AL NUOVO TESTAMENTO
«Visitando le famiglie – racconta abba Johannes -, abbiamo trovato una società rimasta all’Antico Testamento, in una tremenda ignoranza religiosa, terrorizzata da superstizioni, anche se la maggioranza della gente è battezzata. Unico punto di riferimento della loro religiosità è il tabot. La prima domanda che ci hanno fatto è se lo abbiamo anche noi».
Nella mentalità etiopica non c’è vera chiesa senza tabot, ma la gente non sa dire cosa sia e quale funzione abbia. Portato in processione, sul capo del pope, avvolto in drappi e veli multicolori, il tabot è oggetto di venerazione e di mistero: non si vede, non si tocca, non lo si può avvicinare.
«Per inaugurare la cappella – continua abba Johannes – abbiamo portato il nostro tabot: una pietra benedetta dal vescovo e ben addobbata. E da qui siamo partiti per iniziare la nostra catechesi, spiegando che esso è simbolo della presenza di Dio e ricorda l’arca dell’antica alleanza, dove venivano conservate le tavole della legge, la manna e il bastone di Aronne. Tutto questo per concludere che, ora, il nostro tabot è Cristo Gesù, morto e risorto, presente nell’eucaristia».
«Quest’anno, per la festa del tabot – continua suor Lena Emilia -, alla celebrazione della messa è seguita la processione col Santissimo, invitando i fedeli a riconoscere la vera presenza di Dio. “Finalmente sappiamo che cosa è il tabot” ha detto la gente entusiasta, contemplando l’ostensorio senza veli».
«È solo il primo passo – continua abba Johannes -. Ci vorranno anni prima di passare dal Vecchio al Nuovo Testamento, specialmente tra gli adulti». I giovani sono più aperti e desiderosi di conoscere la fede. Fanno domande profonde e impegnative. Già 27 di essi, ragazzi e ragazze, dopo un’adeguata catechesi, hanno ricevuto la prima comunione.
GUERRA AL MALIGNO
La sfida più grande è la superstizione. Gli higgu credono che in ogni famiglia ci sia uno spirito da tenere a bada e ricorrono all’indovino, che ordina loro cosa fare per placarlo: offrire sacrifici di animali presso determinati alberi, fonti, fiumi e montagne.
Tale credenza alimenta la schiavitù del terrore e dissangua le famiglie, costrette a spendere gli scarsi introiti per comperare gli animali da sacrificare e pagare l’indovino. In tutti gli angoli delle case, poi, sono sparsi amuleti d’ogni genere, recipienti con latte, sangue animale e altre offerte per lo spirito.
E sembra che tali spiriti inseguino la gente fino in chiesa. «Abbiamo tanti casi di isteria» osserva timidamente suor Lena Emilia. E seguono racconti impressionanti di donne e ragazze che, appena entrano nel recinto della cappella, cominciano a dimenarsi e urlare come forsennate; e solo dopo lunghe preghiere di tutta la comunità e abbondanti aspersioni di acqua benedetta ritornano normali.
A volte tali fenomeni capitano all’inizio della messa, allora il male può diventare contagioso: scacciato da una persona, lo spirito si impossessa di un’altra. Abba Johannes non ha dubbi: si tratta di possessione diabolica. E quando egli accenna alla storia di Drrebe, anche suor Lena Emilia sembra vacillare nella sua spiegazione razionale.
«È una bella ragazza – continua la suora -. Un giorno venne in chiesa con occhi stralunati; all’inizio della celebrazione eucaristica cominciò a gridare con una voce caveosa, da uomo: “Io possedevo già sua madre. Questa ragazza non la lascerò mai. Se mi cacciate, toerò di nuovo da sua madre”».
«Era un demonio amara – incalza abba Johannes -. La giovane raccontò tutta la sua storia parlando in amarico, lingua che non conosceva e non aveva mai parlato in vita sua».
Dopo un’ora di preghiere, esorcismi e aspersioni la giovane ritoò normale. Fu accompagnata a casa, dove la madre, vedendola tornare insieme a tanta gente, cominciò a gridare come una disperata. Quando anch’essa si calmò, furono raccolti tutti gli amuleti della casa e bruciati nel cortile. «Ora la ragazza è felice e sorridente come non era stata mai» conclude suor Lena Emilia.
Abba Teklu ricorda il caso del mago Negheri. Malato e debole, non prendeva cibo da vari giorni, quando alcuni cristiani lo invitarono a cambiare vita e venire in chiesa. «Appena il coro intonò il canto di inizio della messa – racconta abba Teklu -, il vecchio cominciò a danzare e si portò di fronte all’assemblea, gridando e gesticolando come un ossesso. Tre giovani riuscirono a stento a portarlo fuori dalla cappella: dieci minuti di preghiera furono sufficienti a farlo ritornare in sé. Toò in chiesa calmo come un angioletto».
Dopo la messa raccontò la sua storia e disse che si sentiva libero finalmente. Ma per completare l’opera, lo accompagnarono a casa, dove radunò tutti i suoi amuleti, ne fece un bel mucchio e vi appiccò il fuoco.
«Ora è sano e vegeto; sempre primo ad arrivare in chiesa, insieme a tutta la famiglia, che nel frattempo è stata battezzata» conclude abba Johannes.
SFIDE E SPERANZE
La liberazione dalla paura è una sfida difficile e impegnativa, ma già si raccoglie qualche frutto. «Nei primi tempi, quando visitavamo le famiglie – racconta suor Lena Emilia – donne e ragazze scappavano o rimanevano chiuse in casa; incontrandole per strada, non si riusciva a guardarle in faccia; ora salutano, sorridono, parlano come persone normali. All’inizio venivano in chiesa solo gli uomini; oggi essi portano tutta la famiglia». Il lavoro non è facile, specialmente tra gli adulti che, per mentalità e abitudini ancestrali, hanno un concetto utilitaristico della fede e ricorrono numerosi alle benedizioni e preghiere del prete per essere liberati dal malocchio e altre diavolerie. Più facile, invece è lavorare con i giovani. Tenendo presente che Shambu conta 9 mila studenti di scuola elementare e secondaria, è chiaro che il campo di lavoro è sterminato.
Ma nel centro di Shambu, il lavoro è praticamente impossibile, anche se missionari e missionarie sono ben voluti dalla gente: la loro presenza è sgradita ai preti ortodossi che, con prediche e proiezioni di video-cassette, dipingono la chiesa cattolica come incarnazione del male e arrivano a proibire i loro fedeli di salutare padri e suore.
Fuori del paese, nelle campagne e nelle zone montagnose, non ci sono problemi; molti gruppi rurali chiedono la presenza dei missionari. Tra questi, a una sessantina di chilometri, vicino al Nilo Bianco, c’è Asendabo, una cittadina dove soggioò il cardinal Massaia. È in progetto di iniziare il lavoro missionario anche in quella zona e riprendere il lavoro del grande missionario: fa parte del carisma dei missionari della Consolata, fondati dal beato Giuseppe Allamano proprio per continuare l’opera del cardinal Massaia. •

Benedetto Bellesi




I sogni di Lodovico

Una colonia di lebbrosi
è diventata una comunità viva e autosufficiente
per opera di padre Lodovico Crimella, deceduto 10 anni fa.
I suoi ideali e progetti sono stati ereditati
da un prete diocesano locale, che continua
a tradurli in realtà.

«L a civiltà non è né il numero, né la forza, né il denaro. La civiltà è il desiderio paziente, appassionato che vi siano sulla terra meno ingiustizie, meno dolori, meno sventure», tuonava Raoul Follereau, l’apostolo dei malati di lebbra, nato 100 anni fa in Francia (Névers, 17 agosto 1903).
Tra i tanti seguaci di Follereau, padre Lodovico Crimella, missionario della Consolata, nato nel 1937 a Valmadrera e tornato alla casa del Padre il 4 dicembre 1994, ha lasciato un’importante e originale eredità sulle sponde del Lago do Aleixo (Brasile).
Padre Joaquim Hudson, il ventinovenne sacerdote dell’Amazzonia, attualmente cornordinatore della comunità del Lago do Aleixo, racconta: «Conobbi padre Lodovico nel 1987, quando avevo 13 anni: quasi per caso, accompagnai mia sorella alla comunità del Lago do Aleixo, perché vi portava due conoscenti, marito e moglie, malati di lebbra con deformità visibili.
La comunità Onze de Maio era l’unica in tutta l’Amazzonia che poteva offrire ospitalità a persone con quella sofferenza. Mi parve di arrivare in paradiso. Padre Lodovico ci accolse bene e fui molto impressionato per quanto erano riusciti a realizzare in un ambiente che, pochi anni prima, era considerato un ghetto. Di tanto in tanto con mia sorella andavo a trovare quelle persone, che morirono due anni dopo serene e con dignità – sottolinea con convinzione padre Hudson -. Solo a 17 anni entrai nel seminario di Manaus, interessandomi sempre ai più poveri ed emarginati delle favelas.
Nel 1994, quando avevo ormai 20 anni, appresi della morte di padre Crimella, che fu ricordato nella preghiera in tutte le parrocchie di Manaus, e di come un suo confratello, padre Josè Maria Fumagalli, diventato monaco benedettino, si fosse impegnato di seguire la comunità per un anno.
Padre Fumagalli si fermò per ben quattro anni, ma poi, nel 1998, dovette far ritorno al suo convento. In quel periodo stavo terminando il seminario e tutti i giorni pregavo con il vescovo di Manaus, mons. Louis Suarez Vieira. Ogni mattina durante la preghiera il vescovo chiedeva: “C’è qualcuno che desidera prendersi la responsabilità della comunità del Lago do Aleixo?”. Nessuno voleva andarci: è una parrocchia di 40 mila persone, divisa in 12 comunità, con ancora 1.550 hanseniani disabili o in cura.
Una mattina, pensando a quanto aveva fatto padre Crimella, mi ritrovai a dire: “Ci vado io”. E così, nel 1999, appena ordinato sacerdote, iniziai il mio servizio al Lago do Aleixo, nella stessa casa dove tanti anni prima avevo incontrato padre Lodovico, che ricordo tutti i giorni nella santa messa».
Ma che cosa ha fatto padre Lodovico, che nel 1993 fu insignito del premio Raoul Follereau dall’Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau (Aifo)? Avevo conosciuto quest’intrepido missionario della Consolata nel 1992 e, ascoltando la sua storia, mi ero ben presto convinto che i progetti sviluppati con la comunità hanseniana del Lago do Aleixo erano in perfetta sintonia con l’etica dello sviluppo e rispondevano all’ideale di civiltà, sollecitato da Raoul Follereau.

B ravo amministratore, dieci anni di esperienza nella diocesi di Roraima, padre Lodovico si ritrovò, nel 1980, ad ascoltare le sofferenze di 300 famiglie, con uno o due ammalati di lebbra, abbandonate in stato di povertà sulle sponde del Lago do Aleixo dopo la chiusura della Colonia per lebbrosi avvenuta nel 1978. Grande ammiratore di don Milani, padre Lodovico ascoltò e pregò per queste persone; poi con loro iniziò la grande avventura.
Nel novembre del 1981 si tennero moltissime assemblee. Tutti erano liberi di partecipare e offrire il loro contributo, dibattendo temi vitali per la comunità come: acqua potabile, lavoro, scuola, pesca, casa, assistenza medica. L’arcivescovo diede a quell’insieme di famiglie l’entità giuridica di «parrocchia» (anche se i cattolici si contavano sulla punta delle dita), con la condizione che padre Lodovico fungesse da orientatore. Fu democraticamente eletto un consiglio di sette persone che decise di sviluppare piccole attività cornoperative utili per la comunità: allevamento di polli e maiali, acqua potabile, pesca, coltivazione razionale del terreno, rivendita dei prodotti.
Nel 1992 la comunità del Lago do Aleixo contava 20 mila persone con circa 1.600 malati di lebbra in cura, seguiti dall’ospedale governativo. Il consiglio era ormai formato da ragazzi che avevano frequentato le scuole e ogni famiglia era impegnata in un progetto cornoperativo, che permetteva di guadagnarsi dignitosamente da vivere.
Padre Crimella puntò sempre all’autosufficienza di ogni attività; perciò non accettò mai grandi interventi che avrebbero ucciso lo spirito d’iniziativa della comunità, ma solo piccole somme, come capitale iniziale legato a progetti specifici, per aiutare il decollo della piccola società cornoperativa.
L’opuscolo CSELA em ação (Comunità sociale educativa del Lago do Aleixo in azione), pubblicato nel 2000, mostra chiaramente come tutte le attività iniziate dalla comunità insieme a padre Lodovico, continuate con padre Fumagalli ed ora cornordinate da padre Hudson si siano sviluppate o modificate, mantenendo lo spirito originale: sviluppo armonioso della comunità con partecipazione democratica e responsabilità di tutti.
La comunità conta ormai 40 mila persone (20% bambini fino a 12 anni, 35% adolescenti da 13 a 20 anni, 30% adulti e 15% oltre i 60). Circa 250 famiglie sono impegnate direttamente nelle cornoperative del Csela, altri lavorano a Manaus. I cattolici della parrocchia San Giovanni Battista, suddivisi in 12 comunità sono ormai 35 mila. Per malati ed ex-malati di lebbra si ha cura della prevenzione e riabilitazione sociale.

I nfatti, padre Hudson, prossimo alla laurea in psicologia, racconta: «Abbiamo iniziato corsi di nuoto per i bambini, perché purtroppo molti sono morti nel lago. L’esame medico per ammettere i bambini ai corsi è molto rigoroso: lo scorso anno abbiamo scoperto 6 casi di lebbra. Curati subito, i bambini guariscono in 6 mesi. Abbiamo ancora tanti casi di ex-malati di lebbra con deformità visibile, ma si cerca di inserirli in attività produttive. Ne è un esempio l’attività di calzoleria, ormai gestita da un ex-hanseniano, che userà il silicone per fabbricare calzari adatti ai piedi con ulcere degli ex-malati di lebbra».
Con gratitudine il sacerdote dell’Amazzonia ricorda l’importante presenza di quattro suore della Consolata, da anni impegnate nella comunità del Lago do Aleixo: «Sono ormai più di 10 anni che suor Giuditta si trova nella comunità e si occupa di bambini, mentre suor Severa è impegnata nella scuola, suor Teresa nella farmacia e suor Renata nel lavoro pastorale. Le suore sono, comunque, inserite in tutti i settori dove c’è bisogno e sono molto amate dalla gente. Due anni fa, quando sembrava dovessero ritirarsi, la gente fece una mezza rivoluzione».
Tanti amici continuano ad appoggiare il Csela, seguito con particolare affetto dagli «Amici del Lago do Aleixo», formato da fratelli e conoscenti di padre Lodovico, impegnati a sostenere piccoli progetti significativi cari a padre Crimella e vitali per la comunità. Memorabile è stato il 2000, anno del Giubileo, quando al Lago do Aleixo, accanto al cippo commemorativo in memoria di padre Lodovico, fu issata la campana proveniente da Valmadrera.
Nel settembre 2002 don Carlo Ellena, sacerdote Fidei donum della diocesi di Torino, con 25 anni di missione in Brasile, ha visitato per il gruppo Bakhita-Follereau di Torino la Comunità del Lago do Aleixo ed ha scritto: «Padre Joaquim Hudson, parroco della Comunità e praticante di psicologia presso l’ospedale dei lebbrosi, è un’ottima persona, con idee molto chiare e avanzate su come affrontare i problemi delle gente, degli ex malati di lebbra e le varie iniziative sociali, ereditate dai sacerdoti che lo hanno preceduto. Le attività stanno procedendo molto bene e con un chiaro indirizzo non patealistico, ma di promozione, mirando alla gestione autonoma delle attività. Alcune sono già indipendenti, altre lo stanno diventando, altre sono ancora in fase di sperimentazione…
In una parola mi pare che l’idea grande di padre Lodovico Crimella sia seguita ed anche perfezionata. Per giungere all’indipendenza si punta chiaramente alla produzione di rendita (si produce per vendere e autosostenersi)… Abbiamo visitato le varie attività, progetti e iniziative, che sono moltissime e sparse nelle varie comunità, ma gestite con lo stesso stile e filosofia. Ho incontrato gente simpatica, generosa e disponibile alla collaborazione… Sono realtà che lasciano il segno».

P adre Joaquim Hudson è fiducioso per il futuro, anche se ben cosciente della difficoltà, e ci confessa il suo sogno: «La cosa bella della comunità è che tante attività vanno avanti bene, abbiamo sviluppato tante cornoperative e moltissimo lo sport, che tiene i giovani impegnati e lontani dalla delinquenza dilagante nei quartieri periferici di Manaus. Abbiamo ben 35 squadre di calcio, di cui 5 formate da ragazze; ci sono corsi di ginnastica, anche per la terza età, di capoeira, di nuoto e di canottaggio.
Ma la mia preoccupazione maggiore è la scuola. Tutti, finalmente, terminano le elementari, ma è difficile farli proseguire: abbiamo una sola laureata in pedagogia proveniente dalla comunità. Con la nuova biblioteca e alcuni computer, speriamo di invogliare i giovani allo studio. Il mio sogno è di avere laureati provenienti da questa comunità, per formare qualificati gruppi dirigenti, capaci di orientare al meglio lo sviluppo di tutta la comunità e cancellare definitivamente lo stigma legato alla lebbra».
Il grande sogno di padre Lodovico è diventato il sogno di padre Hudson.

Silvana Bottignole




La sfida infinita

Per 5 secoli la chiesa latinoamericana ha ricevuto missionari da altrove; da 40 anni sta recuperando la sua coscienza missionaria: oggi invia i suoi evangelizzatori in altri continenti.
Tale maturazione è ancora in corso, con un cammino esemplare, come testimonia l’ultimo Congresso missionario.

«È arrivato il tempo per l’America Latina di intensificare i servizi mutui tra le chiese particolari, era scritto nel documento di Puebla 25 anni fa. Che cosa è stato fatto in tutto questo tempo?» ha domandato appassionatamente il cardinale Oscar Rodríguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa (Honduras), ai partecipanti del secondo Congresso americano missionario (Cam2/Comla7). «Il nostro continente contiene il 50 per cento dei cattolici mondiali, ma non ha il 50 per cento dei missionari del mondo» ha continuato il porporato.
Per quasi 500 anni l’America Latina si è considerata «terra di missione» passiva, cioè dipendente, in fatto di personale, mezzi e idee, dalle chiese europee e, più recentemente, da quelle nordamericane.
Pur avendo ancora bisogno di essere alimentata dall’estero, essa sta diventando sempre più una «chiesa missionaria attiva», evangelizzando i gruppi umani che ancora non credono a Cristo e inviando missionari al di là delle proprie frontiere, «dando della sua povertà».
DALLA CRISTIANIZZAZIONE
ALL’EVANGELIZZAZIONE
Per secoli la sfida missionaria della chiesa in America Latina è stata quella d’insegnare alla gente a praticare le espressioni religiose secondo i modelli della cultura dominante: formare buoni cristiani con l’appartenenza alla chiesa, imparando la dottrina, osservando i comandamenti, ricevendo i sacramenti e partecipando alle devozioni cattoliche.
Più che di evangelizzazione, si è trattato di un processo di cristianizzazione, in cui le culture indigene non avevano alcuna importanza (non solo in America Latina) nell’espressione della vita cristiana. I missionari ritenevano quella occidentale come l’unica via, o la più adeguata, per esprimere il vangelo.
Ma il 35% degli abitanti del continente (amerindi, afroamericani e minoranze asiatiche) non sono affatto «latini» nelle loro radici culturali; metà della popolazione è costituita da mestizos, con un grande miscuglio anche sotto l’aspetto etnico e culturale.
Tuttavia, la cristianizzazione ha fatto sì che il cristianesimo non fosse sentito in America come una religione straniera; anzi, la predicazione del vangelo è sempre stata accettata e desiderata. Ma ne è nata una chiesa introversa, occupata a conservare la fede delle sue comunità e la propria influenza sulla società, senza alcuna preoccupazione di comunicare il vangelo ai non cristiani in Asia e Africa. Tale era la mentalità alla vigilia del Concilio Vaticano ii.
Quanto il Concilio definì missioni «le iniziative dei divulgatori del vangelo in mezzo ai popoli e gruppi umani che ancora non credono in Cristo» (Ad Gentes 6), una sessantina di vescovi brasiliani suggerì una differente formulazione: sono missioni «le attività dirette a tutte le creature, particolarmente ai popoli e gruppi umani che ancora non credono in Cristo».
L’aggiunta dell’avverbio non passò, per non annacquare il concetto di missione; in compenso fu aggiunta questa nota: «È evidente che in questa nozione dell’attività missionaria sono incluse obiettivamente anche le parti dell’America Latina, in cui non c’è né gerarchia propria, né maturità di vita cristiana né sufficiente predicazione del vangelo» (AG 6, nota 15).
Con questa nota l’America Latina continuava a ritenersi «terra di missione» in senso passivo e geografico, in quanto vari gruppi umani si presumevano già cristianizzati, ma ancora ignoranti o indifferenti circa la fede cristiana.
Ma a partire dalla seconda metà del secolo xx nella chiesa latinoamericana si è fatta strada la coscienza dell’evangelizzazione in senso specifico, come annuncio del vangelo ai gruppi umani più emarginati, per renderli capaci di un incontro personale col Cristo vivente, attraverso una vera conversione e la sequela.
RINNOVAMENTO DAL BASSO
Cominciò negli anni ’50. Vari missionari impegnati nei paesi delle Ande (Bolivia, Perù, Ecuador) e Centroamerica (Messico e Guatemala), dove si concentra il 90% dei popoli indigeni, sentirono l’urgenza di una nuova evangelizzazione. A tale scopo formarono catechisti e animatori responsabili di annunciare il vangelo nella propria lingua, guidare il culto e la vita ecclesiale delle proprie comunità; soprattutto, studiarono le esperienze religiose ed espressioni culturali dei vari gruppi etnici, le confrontarono con le sacre scritture e le valorizzarono per esprimere la fede cristiana in termini comprensibili ai membri delle singole culture e farla rivivere secondo la loro identità.
Nasceva così la missiologia latinoamericana, le cui radici non sono nelle facoltà teologiche, ma nelle sfide di base dell’apostolato locale.
A risvegliare la coscienza missionaria della chiesa latinoamericana ha contribuito, soprattutto, il rinnovamento della teologia cattolica, operato dal Vaticano ii. Nel 1966, il Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) prese sul serio l’affermazione conciliare che l’intera chiesa è missionaria «per sua natura», che ogni battezzato è responsabile dell’annuncio del vangelo ai non cristiani (Ad Gentes 2). Per animare le singole conferenze episcopali, il Celam diede vita al Departamento de missiones (Demis).
Questo si mise subito al lavoro: in due incontri (nel 1967 in Ecuador e nel 1968 in Colombia) cominciò a identificare le situazioni specifiche missionarie, a stabilire le priorità e tracciare le linee guida della nuova evangelizzione. Fu coniato il termine «situazioni missionarie», riferite ai gruppi umani da evangelizzare, non perché vivono in giurisdizioni ufficialmente designate come «territori di missione», ma perché le loro culture non hanno ancora incontrato la forza vivificante del vangelo.
Erano gli anni in cui si stava affermando la teologia della liberazione: essa si interessava anche degli indigeni, ma quasi esclusivamente sotto l’aspetto socio-economico, dando poca importanza a quello culturale. Perfino la seconda Conferenza del Celam, tenuta a Medellín nel 1968, pur riconoscendo l’esistenza dei popoli indigeni, li considerò come gruppi socialmente emarginati, non come popoli la cui identità culturale sfidava la chiesa nell’attività missionaria specifica.
Ma poiché il 90% degli indigeni era concentrato in soli 5 paesi; le altre 17 conferenze episcopali prestarono poco interesse al lavoro del Demis, considerato come un dipartimento del Celam per gli affari indios o di antropologia.
Anzi, la proposta di mons. Samuel Ruiz, vescovo del Chiapas (Messico), presidente del Demis dal 1969 al 1974, di formare chiese diversificate tra i popoli indigeni fu considerata irrealistica, un’esagerazione, se non una minaccia.
Ironia della sorte, gli orientamenti teologici e pastorali del vescovo messicano, sono diventati dottrina ufficiale della chiesa, da quando Paolo vi, in Evangelii nuntiandi (1975), parla di «evangelizzazione delle culture».
LA GRANDE SVOLTA
Dal 1975, grazie all’Evangelii nuntiandi, vescovi e teologi latinoamericani cominciarono a prendere sul serio la relazione tra vangelo e cultura. La terza Assemblea generale del Celam (Puebla 1979) segnò una svolta di 360 gradi nella coscienza e azione missionaria: i vescovi riconobbero l’esistenza di «situazioni missionarie» non solo tra gli indigeni, ma anche tra gli afroamericani (30% della popolazione del continente), a lungo ignorati dall’apostolato della chiesa ed ora considerati «i più poveri dei poveri», una «situazione missionaria permanente».
Se fino a Puebla erano stati i missionari a promuovere la valorizzazione teologica delle culture tradizionali, da quel momento saranno i pensatori indigeni e afroamericani ad approfondire tale argomento, nella ricerca di una teologia propria: si cominciò a parlare di «teologia india» e «teologia afroamericana».
CONGRESSI MISSIONARI
Il cambiamento più profondo aperto da Puebla è il senso di urgenza impresso alla chiesa latinoamericana ad accogliere la sfida dell’evangelizzazione dei popoli fuori delle proprie frontiere, in Africa e Asia, «dando dalla propria povertà» (DP 368) di personale e mezzi.
A svegliare e forgiare questo nuovo spirito missionario furono, negli ultimi 25 anni, i congressi missionari. Già prima di Puebla, le Pontificie opere missionarie (Pom) ne avevano organizzati alcuni a livello nazionale; a quello messicano, tenuto a Torreón nel 1977, parteciparono vari delegati dei paesi latinoamericani e furono presi impegni sull’animazione missionaria e vocazioni missionarie a livello continentale. Così nacque il Comla (Congresso missionario latinoamericano), sigla ufficiale ratificata nel secondo convegno, tenuto a Tlaxcala (Messico) nel 1983. Come segno di comunione e partecipazione all’evangelizzazione del mondo, fu richiesto alle diocesi più ricche di personale di inviare i loro sacerdoti alle chiese più bisognose.
Il terzo Comla, tenuto a Bogotá nel 1987, ribadì la responsabilità missionaria delle chiese diocesane. Il quarto, celebrato a Lima nel 1991, mobilitò la chiesa latinoamericana nell’invio di missionari ad gentes, come atto fondamentale della propria fede. Il quinto Comla, nel 1995 a Belo Horizonte (Brasile), mise in risalto i problemi dell’inculturazione e la vocazione missionaria degli afroamericani.
Sulle orme del Sinodo dei vescovi d’America (1997), che «considerò il continente come una realtà unica», missionari provenienti dal Canada alla Terra del Fuoco parteciparono al sesto Comla, tenuto nel 1999 a Paraná (Argentina), che diventò il primo Congresso americano missionario (Cam1).
PONTE TRA NORD E SUD

Il Cam2-Comla7 si è tenuto nella capitale del Guatemala dal 25 al 30 novembre 2003. La scelta di questo paese è estremamente significativa: il Centroamerica è cuore del continente, un ponte che unisce nord e sud e ha il compito di favorire la comunione e la solidarietà effettiva tra tutti i popoli americani.
In un’atmosfera quasi pentecostale, dinamica, entusiasta e ricchezza di simboli, hanno partecipato oltre 3.000 congressisti: 8 cardinali, 113 vescovi, 800 tra sacerdoti, religiosi e religiose, diaconi e pellegrini provenienti dalle regioni delle Americhe.
Partendo dal motto «Chiesa in America, la tua vita è missione», nelle conferenze e riflessioni di gruppo sono stati dibattuti temi legati alla missione: spiritualità e nuovi cammini di animazione e formazione delle chiese locali e comunità parrocchiali, inculturazione e dialogo interreligioso, le attuali sfide della migrazione e globalizzazione.
«La missione a partire dalla piccolezza, povertà e martirio» è stato certamente il tema chiave di tutto il congresso, sviluppato e approfondito nelle sue radici evangeliche. Il Guatemala ne era una icona vivente: paese piccolo, povero e, soprattutto, insanguinato dalla persecuzione e uccisione di migliaia di martiri, catechisti e semplici fedeli, oltre a preti, religiosi e religiose, per culminare con l’assassinio di mons. Juan José Girardi (1998).
Un applauso commosso ha accolto la proposta di avviare il processo di beatificazione di 103 martiri guatemaltechi, la cui documentazione storica è foita nella ricerca che è costata la vita a mons. Girardi.
Suggestiva è stata pure la liturgia della giornata dedicata alla «missione e martirio». In una preghiera in rito tradizionale maya, un gruppo di donne sono entrate in chiesa danzando e portando con sé pane, acqua delle sorgenti delle loro montagne, il fuoco, l’incenso, la bibbia tradotta nella loro lingua, le foto dei martiri e le loro reliquie. Hanno pregato per le tante vedove provate dalla violenza, ma anche per la vita che continua a nascere. Per intercessione di tutti i loro martiri, hanno rivolto la preghiera a Dio Padre/Madre, creatore e formatore.
La preghiera ha richiamato, ancora una volta, l’attenzione sulla possibilità di «evangelizzare» i riti tradizionali e «inculturare» il messaggio evangelico nel contesto culturale maya e di altre etnie.
VERSO IL FUTURO
I temi trattati sono stati ripresi e sintetizzati nel messaggio finale, inviato alle chiese del continente, intitolato: «Non possiamo tacere ciò che abbiamo visto e sentito». Senza cedere all’enfasi retorica, il documento vuole «parlare» alla chiesa universale e al mondo intero, con la consapevolezza del contributo originale che le chiese d’America possono dare proprio a partire dalla loro povertà e martirio.
Nel messaggio viene riaffermata «l’unità fondamentale» di tutti i popoli del continente, che deriva «dalla comunione nella stessa fede, stessa speranza e stessa carità»; un’unità che neppure le frontiere esistenti tra i diversi paesi e le barriere rappresentate dalle differenti lingue e culture possono ostacolare.
Il documento offre pure indicazioni per il cammino futuro. La più concreta è certamente la decisione di aprire nell’America Centrale, entro il 2005, un «Centro per la formazione e animazione dei missionari ad gentes», in cui sono coinvolti tutti gli episcopati della regione.
Il tema della «piccolezza, povertà e martirio» è una ennesima occasione per sottolineare la dignità di quelle popolazioni americane che, nonostante l’emarginazione economica e sociale, sono immensamente ricche, perché possiedono la fede.
Non poteva mancare nel testo un riferimento esplicito alla presenza al Congresso degli indigeni del Guatemala, che hanno suscitato profonda impressione in tutta l’assemblea. «Con la loro preghiera – dice il messaggio – gli indigeni ci portano a contemplare Dio nella creazione, a confidargli dolore e sofferenza, a conservare la speranza, anche quando l’orizzonte sembra completamente buio, a scoprire la sua presenza provvidenziale nelle cose e nei gesti più semplici, a ringraziarlo». Di fronte alla fede degli indigeni, prosegue il testo, si rafforza in tutti la convinzione che «il regno di Dio nasce nei cuori dalla piccolezza, povertà e martirio».
Naturalmente, viene ribadito l’invito alla missione ad gentes: «Dobbiamo condividere ciò che di più bello abbiamo ricevuto nel giorno del battesimo: il dono della fede». In tale prospettiva entrano anche il problema degli immigrati e il fermo impegno delle chiese d’origine ad accompagnarli e delle chiese di destinazione ad accoglierli con maggior calore.
Uomini e donne del Centroamerica, come i primi cristiani fuggiti da Gerusalemme a causa della persecuzione, arrivando nel nord del continente «armati della loro fede profonda e del loro immenso amore alla chiesa», possono ricordare a quanti vivono nell’abbondanza i valori autentici del vangelo.
L’ultimo punto riprende il titolo del messaggio. «Non possiamo tacere ciò che abbiamo visto e sentito», ossia l’incontro con Cristo risorto. Da qui un lungo elenco di richiami a fare della missione la propria vita: dai bambini, che sono «la primavera missionaria della chiesa»; ai giovani, perché dedichino la loro vita a Cristo; ai cristiani, chiamati ad essere missionari in virtù del battesimo; ai consacrati, chiamati alla sequela radicale di Cristo; ai presbiteri, perché siano disponibili ad essere inviati in ogni parte della terra, in virtù dell’ordinazione; ai vescovi, perché vivano a fondo la natura missionaria del loro ministero.

Benedetto Bellesi




Un’immensa vergogna

Guerre, differenze etniche, cupidigia dei paesi vicini hanno fatto dell’est della Repubblica democratica del Congo una zona di «non-diritto» assoluto.
Ai massacri e saccheggi, bisogna aggiungere l’orrore delle violenze sessuali.

«Èarrivata ieri sera; cinque uomini armati l’hanno violentata la notte precedente, a qualche chilometro da qui – confida Mathilde Muhindo, direttrice di una struttura di aiuti sociali della diocesi di Bukavu, nell’estremità est della Repubblica democratica del Congo -. Questa mattina piangeva continuamente. Ho pianto con lei».
Uscendo dal suo ufficio, si scorge, attraverso una finestra, la silhouette di una donna, dalle spalle ripiegate, il viso nascosto tra le mani, seduta raggomitolata su se stessa al bordo del letto. Di fronte, lo sguardo abbraccia un paesaggio di infinita tranquillità. Lontano, le colline del Rwanda emergono dalla foschia. Sullo sfondo di un grigio intenso, le acque del lago Kivu riflettono come uno specchio.
«Nel 2000, sono arrivate le prime donne con lesioni mai viste in precedenza. Raccontavano storie raccapriccianti per spiegare le loro ferite» ricorda il dottor Denis Mukwege, direttore dell’ospedale di Panzi, a qualche chilometro dal centro della città.
le origini del conflitto
Tutto era iniziato nel 1994. Il Fronte patriottico rwandese, dominato dai tutsi, aveva messo fine al genocidio pianificato da Hutu Power (probabilmente 800 mila morti) prendendo il potere in Rwanda. I cosiddetti autori del «genocidio» fuggirono in Congo: circa un milione e mezzo di rifugiati hutu, reclutati contro il regime rwandese. Per arrivare ad una soluzione, quest’ultimo iniziava una prima guerra nel 1996, sul suolo congolese, durante la quale fu «necessario» decimare almeno 200 mila di questi rifugiati (uomini, donne, anziani, bambini…), indistintamente etichettati come «autori di genocidio», perché fuggivano davanti alle loro truppe.
Ma è stata la cultura di una violenza parossistica, alimentata dall’odio etnico, che ha trovato sfogo sul suolo del Congo, includendo lo stupro, come atto di genocidio.
Poi i fattori di sicurezza sono spariti davanti al «guadagno», obiettivo supremo della «seconda guerra», iniziata nel 1998. «Reti d’élites», secondo la definizione di esperti dell’Onu, composti di capi militari, dirigenti politici, imprenditori senza scrupoli, a Kigali, a Kampala e oltre, appoggiati dalla mafia internazionale, hanno saccheggiato le risorse dell’est del Congo (diamanti, oro, legname…), costruendo i loro circuiti economici per profitti personali. Hanno dovuto perciò ricorrere alla forza, ma senza fare apparire i loro obiettivi reali.
Rwanda e Uganda hanno mascherato le loro imprese di saccheggio, mantenendo quasi clandestinamente truppe più o meno regolari e, soprattutto, pilotando bande armate, sempre a forte connotazione etnica, organizzate secondo i bisogni dei loro mandanti. Gli scontri sono stati raramente seguiti da vittorie o disfatte definitive, poiché l’insicurezza doveva perpetuarsi per giustificare una militarizzazione della regione, indispensabile a coprire i saccheggi. Le popolazioni hanno pagato un prezzo terrificante.
Secondo le stime di un gruppo di esperti dell’Onu, il numero dei morti «supplementari», direttamente imputabili all’occupazione rwandese e ugandese, può essere valutata tra i 3 e i 3,5 milioni. Questo conflitto è stato il più micidiale dalla seconda guerra mondiale. In certe zone del Congo, le inchieste di «Medici senza frontiere» hanno stabilito che un bambino su quattro muore prima dei cinque anni: «Questi posti sono i più toccati dalla mortalità nel mondo».
Infine, le violenze sessuali sono state senza precedenti per numero, il loro carattere sistematico, la brutalità e la perversità con cui sono state fatte. Secondo un dipartimento dell’Onu, «in media, una quarantina di donne erano quotidianamente violentate, tra ottobre 2002 e febbraio 2003, nella città di Uvira e dintorni», dove vivono quotidianamente 200-300 mila persone. Una rete di 8 Ong locali, appoggiate da Inteational Rescue Comittee, ha raccolto ogni mese circa un migliaio di donne, ragazze e ragazzi, vittime delle violenze nel nord e sud di Kivu.
Il centro di Mathilde Muhindo, da solo, ne ha ricevuti, unicamente in giugno, ben 145. Sovraccarichi, alcuni di questi centri ricevevano le donne a gruppi di dieci. Le comunità parrocchiali, che avevano un ruolo determinante nella prima assistenza, dovevano mandarle unicamente a tuo.
E questa è solo una piccolissima parte visibile dell’iceberg. Arrivavano solamente le donne informate dell’esistenza di queste strutture di sostegno, abbastanza forti da recarsi in questi centri, camminando, a volte, per parecchi giorni. Poiché c’erano anche saccheggi sistematici, venivano spesso ridotte a chiedere a una vicina un vestito. Dovevano poi pagare il «diritto di passaggio» ad ogni sbarramento che incontravano e pure le spese mediche; poche tra loro sapevano che questo tipo di cure era quasi gratuito: un’eccezione, in un paese in cui le strutture sanitarie sono obbligate ad essere interamente autofinanziate. Queste vittime hanno soprattutto osato rompere il tabù della condanna, che tocca tutte le donne violentate.
una popolazione
«scorticata viva»
L’assalto generale iniziava, di solito, qualche ora prima del calare della notte. Dopo aver accerchiato un villaggio, gli uomini armati si dividevano in gruppi, che saccheggiavano e violentavano a tuo. Verso le due, tre del mattino, requisivano degli uomini per portare il bottino fino alla base. Le bande armate più irregolari, quelle i cui rifugi si trovavano nelle foreste, mai-mai e hutu armati, rapivano donne e ragazze. Queste diventavano loro schiave sessuali e domestiche per settimane o mesi e, a volte, venivano scambiate da una banda all’altra.
Le violenze sessuali erano così frequenti, da diventare quasi una norma: più uomini violentavano una donna e a più riprese. Il marito veniva legato in una specie di gabbia, i bambini portati vicino e tutti erano costretti ad essere presenti. «Otto o dieci mi hanno violentata – confida una vittima -. Mio marito me l’ha detto». Lei era, infatti, svenuta molto prima della fine.
Sempre più gli assalitori obbligavano a degli incesti tra padri e figlie o fratelli e sorelle. Arrivavano a sodomizzare gli uomini, una pratica assolutamente inconcepibile nelle campagne africane. L’età delle vittime andava dai 4 agli 80 anni. «Ne ha quattordici» mormora l’infermiere che è accanto ad una ragazza, alla quale il dolore chiude gli occhi a metà.
La sala, che ospita una ventina di pazienti, è stranamente vuota e silenziosa: in un ospedale africano, famiglie rumorose e indaffarate circondano abitualmente il malato. Tutte o quasi sono attaccate a sonde. «Sappiate che l’odore è molto forte» aveva avvisato un medico. Seduta sul letto, una donna lavora ai ferri una matassa di un bianco luminoso e un’altra di un verde brillante, i due colori tradizionali del corredino per neonati. Di fronte, un uomo prega, dondolando la testa, la mano posta sulla fronte di una malata senza vita. Un quinto dei 250 letti dell’ospedale di Panzi è occupato da donne, che devono subire sino a sei interventi chirurgici per riparare le violenze sessuali subite, o devono essere trattate per le mutilazioni. Nell’ospedale, queste donne sono due o tre volte più numerose dei civili, ricoverati per ferite d’armi, e quattro o cinque volte di più dei militari, curati per le stesse ragioni.
Il tasso di sieropositività dei pazienti è del 19% secondo alcune statistiche mediche, del 30% secondo altre. La metà è colpita dalla sifilide e ciò moltiplica i rischi di un ulteriore contagio. Si calcola che almeno due terzi dei combattenti regolari o irregolari siano contaminati dall’Aids. Di fronte a una popolazione «scorticata viva» da una lunga e crudele guerra, queste percentuali sono sufficienti per denunciare il piano machiavellico di sterminio, un vero tentativo di «genocidio».
Argomento supplementare: questa ondata di stupri sarebbe partita dalle file dell’esercito regolare rwandese, agli inizi del 2000, quando Kigali aveva deciso di fare dell’est congolese il suo punto d’appoggio, per rendere il Congo intero suo satellite. Si è concordi, oggi, nell’affermare che tutti i gruppi armati, senza nessuna eccezione, si sono dedicati a queste pratiche e le peggiori sono probabilmente state le bande armate hutu.
Ma perché? Mathilde Muhindo evoca inizialmente «la violenza per la violenza», dato che «i combattenti non sapevano più perché si battevano e neppure contro chi». Ma l’aumento della barbarie sarebbe stato soprattutto «un’arma di guerra», un tentativo di destabilizzazione pianificata, non solamente con le armi, ma anche con l’Aids e la fame.
«Pianificata»? Nessuno ne ha la prova formale. Ma, nell’est del Congo, violentare (anche con estrema ferocia) «è il lavoro dei militari», gridava uno di loro a una sua vittima. L’impunità totale dei colpevoli era quasi sempre assicurata, anche quando la popolazione riusciva a catturarli e consegnarli alle autorità. Il comando lasciava fare, compreso quello dell’esercito rwandese, famoso per la sua disciplina.
La migliore prova, come ha rivelato Human Rights Watch, è che, se le truppe e la guerriglia rwandese rispettavano «più o meno» i diritti di guerra sul suolo del loro paese, questo ritegno spariva quando erano fuori; in Kivu, per esempio.
Queste violenze sono state «una guerra nella guerra» sostiene l’organizzazione; «una dimostrazione di forza» afferma un medico. Bisognava dimostrare al marito, alla famiglia, al villaggio che erano tutti impotenti. È come se i violentatori avessero detto loro: «Noi possiamo farvi tutto ciò che vogliamo». Umiliare e terrorizzare, dimostrando l’assenza di ogni ricorso, finché la popolazione si rassegnasse a sottomettersi. «Non siamo andati in Congo per essere popolari; sicuramente non per mostrare ai congolesi quanto siamo buoni» aveva avvertito Paul Kagamé, l’uomo forte di Kigali.
ridotte ad essere
«più nulla»
Destabilizzazione economica anche. La produzione e il commercio agricolo sono entrati in caduta libera: la popolazione cercava rifugio lontano dai villaggi per passare la notte, ma le aggressioni si moltiplicavano anche in pieno giorno, nei campi e per le strade. Sono le donne che coltivano; per questo erano costrette a recarsi a lavorare in gruppo nei campi di una di loro, sperando che il numero desse un po’ di protezione.
Le donne assicurano anche il piccolo commercio tra villaggi e città, ma le violenze sessuali avevano reso ogni spostamento sempre più azzardato. E la malnutrizione saliva vertiginosamente. «C’era una politica deliberata per svuotare le campagne e fare affluire la gente nelle città, dove non c’era da mangiare» afferma un’alta personalità religiosa. Una politica che racchiude assalitori e vittime in una spirale infeale: da suicidio per i primi, omicidio per le seconde.
Mentre aumentava la violenza, diminuiva la produzione; poiché gli assalitori trovavano sempre meno da saccheggiare, le estorsioni diventano sempre più violente. I loro capi facevano bene attenzione a non dare nemmeno il minimo salario e il cibo, ad eccezione delle truppe regolari del Rwanda.
Destabilizzazione morale e sociale. «Ho dovuto aprire il mio pareo davanti a qualcuno che non era mio marito – dicono le vittime -; il violentatore mi ha ridotta a non essere più nulla», soprattutto perché marito, figli e villaggio ne sono a conoscenza. Tutte e tutti risentono di un’immensa vergogna. «Avrò la malattia che non ho cercato» temono tutte. «Da noi – precisa un avvocato – un uomo non riprende una donna che è stata con un altro, anche se violentata: è come un atto di infedeltà». Numerose tra loro sono ripudiate, una donna senza marito è relegata sullo scalino più basso della scala sociale.
Infine, essendo state sistematicamente derubate e spogliate di ogni utensile da cucina, anche del più piccolo attrezzo agricolo, come potrebbero assumere quello che è considerato il loro ruolo principale: curare e nutrire la famiglia?
«Tuttavia, queste donne restano in generale estremamente forti» constata Karin Watcher, che dirige un programma dell’Inteational Rescue Committee. Nelle riunioni alle quali chiedono di partecipare, sono zappe, semi, pentole le priorità di cui fanno richiesta.
Sono queste stesse forze che una suora, specializzata nel diminuire il trauma delle vittime, cerca di tirare fuori, chiedendo loro, senza stancarsi: «Cosa non ti hanno tolto?», finché lo trovano esse stesse: l’amore che hanno per i figli e il marito. Senza sosta, fa loro raccontare le circostanze della violenza subìta, insistendo su ciò che hanno tentato per sfuggirvi.
Allora, racconta la suora, si risollevano, anche fisicamente, come se stessero per ritrovare la loro fierezza e dignità. Si ricordano: «Ho resistito, fino al limite delle mie forze».

Tradotto e adattato da: René Lefort, La guerra nella guerra. Violenze sessuali contro donne e ragazze nell’est del Congo, in «Human Rights Watch», giugno 2002.

Renè Lefort




Romano d’Africa

Per la prima volta Romano Prodi, presidente della Commissione europea, si è recato in visita ufficiale inAfrica dell’Ovest, toccando Senegal, Costa d’Avorio e Burkina Faso.
Al centro dei suoi incontri la cooperazione tra i paesi dell’area e i rapporti
con l’Unione europea. Ma soprattutto una grande preoccupazione: portare la pace in Costa d’Avorio.
Missioni Consolata l’ha intervistato in esclusiva per i propri lettori.

Romano Prodi si presenta nell’edificio della delegazione della Commissione europea a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, poco prima del suo ritorno in Europa.
Dopo un’intensa giornata durante la quale ha lavorato con il presidente della Repubblica Blaise Compaoré e con il primo ministro Paramanga Yonli; ha fatto un discorso all’Assemblea nazionale (il parlamento); ha visitato la sede dell’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale (Uemoa), incontrando il suo omologo, Moussa Touré, e i commissari al completo. È stato anche fuori città, a visitare la diga di Ziga, finanziata in parte dall’Ue, che crea un bacino di 200 milioni di metri cubi d’acqua e salverà la capitale dalla penuria idrica.
Arriva dopo un incontro imprevisto (almeno nell’agenda ufficiale) a tre, con Compaoré e il primo ministro avoriano Seydou Diarra. Nell’aria c’è il tentativo di sbloccare la crisi in Costa d’Avorio, paese testa di ponte per l’economia di questa regione. Crisi che ha collegamenti con il vicino Burkina Faso.
Appare un po’ stanco, Romano Prodi, lo si vede dal volto, ma anche visibilmente soddisfatto. Lo dice lui stesso, e sembra a suo agio nell’edificio moderno, perennemente immerso nell’aria condizionata. Scherza con la padrona di casa, la sorridente signora Sari Suomalainen, ambasciatore e rappresentante della Commissione europea in questo paese. Parla in un buon francese, al quale trasferisce il suo intercalare riflessivo. È accompagnato dal ministro degli Esteri Youssouf Ouedraogo e, soprattutto, dal suo consigliere speciale, con il quale si scambiano occhiate, gesti e fogliettini.
L’ultimo atto ufficiale del suo viaggio è la colorata conferenza stampa affollata da giornalisti burkinabè. Chi in gran boubou (vestito lungo maschile, di alto livello, ndr), chi in sgargianti camicione africane e chi in tenuta più occidentale. È incuriosito della presenza, in questo contesto, di un giornalista italiano, forse il più folkloristico, perché l’unico non africano.
Mi avvicino e, mentre la guardia del corpo mi ringhia di sparire, lui la blocca con uno sguardo, mi prende per un braccio come mi conoscesse e chiede: «Mi dica, lei per chi scrive?». Per tutta risposta, io gli allungo in mano una copia del numero monografico di MC sulle guerre. «Ah! Missioni Consolata – dice compiaciuto -. La conosco, allora! Bene, bene, mi fa piacere che lei sia qui».

Signor presidente, al termine della sua visita che impressioni ha avuto della democrazia in questi tre paesi?
«Sono molto incoraggiato perché la democrazia ha fatto dei progressi, c’è un dibattito politico molto forte, vivo e c’è un desiderio di cooperazione tra paesi. Ma è per questo che la situazione avoriana mi rende triste, perché la Costa d’Avorio ha una grande tradizione democratica, e adesso, come ho detto ieri ai vostri colleghi avoriani, il linguaggio dei giornali e dei media avoriani, così forte, si sente l’odio. È molto preoccupante, da un’idea di una lotta politica troppo dura e con molte tensioni».
(Romano Prodi si riferisce ad alcuni quotidiani, ma anche la televisione nazionale in Costa d’Avorio che, a più riprese, hanno incitato alla caccia all’immigrato, vedi MC ottobre 2003).

Da settembre in Costa d’Avorio i ministri delle Forze nuove, gli ex ribelli, contestano le scelte del presidente Gbagbo sostenendo che non rispetta gli accordi di Marcoussis (località vicino a Parigi dove si firmarono gli accordi a gennaio 2003). Il processo di pace è bloccato e il paese spaccato in due. Lei ha incontrato il presidente e il primo ministro Diarra. Pochi minuti fa ha avuto ancora un incontro con Diarra e il presidente burkinabè Compaoré. Cosa sta cercando di fare l’Ue per risolvere la crisi?
«Penso di aver lavorato per, e penso sia meglio che le Forze nuove entrino nel governo, per poter ritrovare l’unità del paese. Sicuramente, allo stesso tempo, bisogna impegnarsi ad approvare e mettere in opera le nuove leggi, definite a Marcoussis: proprietà fondiaria, cittadinanza, voto.
Non so se ci sono riuscito, non ho alcun potere di imporre la mia volontà, perché questa è una decisione della Costa d’Avorio, ma io ho tentato tutte le pressioni possibili, nel limite del rispetto del paese. Ho incontrato il primo ministro con il presidente Compaoré, abbiamo parlato insieme, perché bisogna dire le stesse cose in tutti i campi. Penso che sia stato molto utile parlare in modo aperto tra amici. E spero che produrrà delle conseguenze positive. Io ho fatto e farò tutti gli sforzi, perché il problema è di terribile urgenza. Il paese è diviso, l’economia di tutti i paesi (dell’Africa dell’Ovest) Burkina Faso incluso, ha sofferto molto, non si può fare alcuna organizzazione di tipo regionale senza la Costa d’Avorio, allora bisogna fare tutto per chiudere la crisi.
Il giorno della conclusione a Kleber (ultimo atto di Marcoussis, ndr.) mi sono impegnato con 400 milioni di euro e li ho preparati, di urgenza. Non abbiamo sospeso, ma è impossibile versare questi soldi, perché sono legati alla pacificazione e alla riunificazione. Abbiamo chiari i problemi della sofferenza del popolo e non sospendiamo l’aiuto umanitario. Ma questa è una quantità di soldi straordinaria per il rilancio della vita politica condizionato all’applicazione concreta delle decisioni di Marcoussis».

La pace è imprescindibile per lo sviluppo. Ma le guerre nel mondo e in Africa sono in aumento. Qual è il ruolo dell’Ue nella prevenzione dei conflitti?
«La via scelta è sempre stata quella di favorire in anticipo le cornoperazioni regionali. Quando c’è una cooperazione regionale che funziona bene il conflitto non viene, proprio perché esiste una rete di protezione di conoscenza dall’esterno. Purtroppo nel caso della Costa d’Avorio il conflitto è partito lo stesso, però secondo me sono stati proprio i legami inteazionali che hanno impedito che diventasse sanguinoso. Nonostante tutto se non abbiamo avuto le stragi e le tragedie che ci sono state in altri paesi, penso sia perché abbiamo lavorato molto sulla cooperazione regionale. Non vedo altre misure di prevenzione dei conflitti con gli strumenti che abbiamo oggi».

A livello concreto cosa vuol dire?
«Appoggiare le istituzioni regionali, come l’Uemoa, a livello di budget come facciamo, fino alla cooperazione, anche di carattere militare. Siamo arrivati al punto di dire che siamo disponibili, quando sarà capace di farlo, di dare all’Unione Africana i mezzi finanziari per costruire una forza di pace, perché io sono convintissimo che è inutile che noi pensiamo che la pace in Africa possa essere garantita da forze estee».
La riduzione della povertà è l’obiettivo centrale dell’accordo di Cotonou. Quali politiche e metodi l’Ue sta mettendo in pratica affinché i poveri non siano esclusi dalla crescita economica, per ottenere un vero sviluppo sostenibile?
«Con Cotonou abbiamo delle strategie ben definite, di aiuto agli investimenti, di aiuto alla riorganizzazione della società civile, ma anche di aiuto alla cooperazione internazionale (intesa tra paesi limitrofi, ndr.), perché per noi lo sviluppo dei paesi isolati è quasi impossibile. Abbiamo incontrato il presidente dell’Uemoa e abbiamo detto che la cooperazione è stata necessaria in Europa, ma è ancora più necessaria nei paesi poveri, altrimenti non ci sarà mai uno sviluppo. Non abbiamo imposto delle dottrine generali per tutti i paesi. Per noi è soprattutto un dialogo di tipo paritario».

L’Ue è molto avanzata in termini di integrazione. Cosa devono fare i paesi dell’Uemoa per raggiungere gli stessi risultati?
«La pace! – esclama Romano Prodi con un guizzo negli occhi -. Le strutture di cooperazione di questi paesi sono molto simili alle nostre, hanno avuto l’unione monetaria prima di noi. Il problema è di seguire la strada che hanno iniziato. Capite perché per me il problema della Costa d’Avorio è un’ossessione, non c’è alcuna possibilità di fare una vera cooperazione senza quel paese. Il presidente dell’Uemoa mi ha appena detto che, dal momento in cui c’è stata la crisi, ha perso 40% del budget. In questo modo non c’è alcuna possibilità di avere un funzionamento effettivo dell’istituzione».

E che appoggio l’Unione europea può portare all’Uemoa?
«Noi abbiamo un programma di lavoro in comune, contatti regolari e un sostegno completo. L’Uemoa è anche il pivot dell’accordo di partenariato economico, che abbiamo firmato in ottobre, tra Ue e Africa dell’Ovest. Noi abbiamo cercato una cooperazione internazionale non solamente su rapporti bilaterali. Penso che sia la sola via per lo sviluppo di questa regione».

L’incontro dell’Organizzazione mondiale del commercio a Cancun doveva essere l’incontro tra paesi poveri e ricchi sul piano commerciale. È stato un fallimento. Che fare adesso?
«Chiaro che siamo delusi dal fallimento di Cancun, ma non abbassiamo le braccia, perché il mondo, e soprattutto i paesi meno sviluppati hanno bisogno di regole che li proteggano dall’arbitrario e dall’unilateralismo».

Un gruppo di paesi africani, tra cui il Burkina Faso, a Cancun ha chiesto la revisione delle politiche di sovvenzione di Ue e Usa sulla produzione del cotone, bene primario di esportazione per questi paesi. L’accordo non c’è stato. Quali sono i vostri impegni concreti?
«Non è solo un impegno. Abbiamo già deciso di ridurre del 60% il sostegno ai prezzi del cotone, questo per diminuire il problema di concorrenza ai produttori africani. Il 40% resta, ma mi sono impegnato a spingere per riformare anche questo, pur non avendo scadenze certe. Nella nostra politica è chiaro che occorre aiutare i paesi africani ad avere un potere sul mercato del cotone; oggi ciò è impedito a causa delle sovvenzioni ai produttori, negli Usa e in Europa. Noi abbiamo modificato la politica agricola, ma vorrei andare a fondo della questione e dire agli Usa che anche loro dovrebbero cambiarla».

Quale politica dell’Ue sull’immigrazione, nel momento in cui gli stati membri stanno edificando dei muri per proteggere la fortezza Europa?
«La politica europea sull’immigrazione è ancora in fase di costruzione. Abbiamo approvato l’Agenzia per l’immigrazione, che è un’istituzione molto importante ma con funzioni soprattutto tecniche di cooperazione. La Commissione aveva proposto di definire con i paesi dell’Africa e soprattutto del Mediterraneo delle quote di immigrazione, ma non è stato possibile. Questo ambito resta quindi degli stati membri. Secondo me tra pochi anni non sarà più possibile avere una politica frammentaria e sarà necessaria una politica europea».

Ma con l’allargamento dell’Unione non sarà ancora più complesso?
«Con l’allargamento dal punto pratico la situazione dell’immigrazione africana cambierà, perché pensiamo che, con l’allargamento, avremo un’immigrazione dai 10 nuovi paesi verso gli attuali. Da questo punto di vista, secondo me non c’è più spazio per l’immigrazione non europea. È chiaro che i flussi diminuiranno nel momento in cui ci sarà una nuova speranza di sviluppo. E nei paesi membri dell’allargamento c’è una nuova speranza di sviluppo interno».

Alcune associazioni burkinabè chiedono l’annullamento del debito estero. Lei cosa risponde?
«Non abbiamo alcun potere diretto sul debito perché è gestito da altre istituzioni, ma la posizione della Commissione è sempre stata in favore della remissione del debito dei paesi più poveri nelle condizioni definite. Noi abbiamo sempre votato e spinto in favore di questo».

Marco Bello




La pietà affogata nella retorica

Sacrificio per la patria o tragedia dell’irresponsabilità umana?
Lacrime pubbliche o lacrime private? Guerra al terrorismo o lotta al terrorismo? Missioni di guerra o missioni di pace? Soldi pubblici ai bilanci militari
o allo stato sociale? Gioalismo al servizio del potere o giornalismo al servizio della verità? A mente fredda, abbiamo chiesto ad alcuni uomini di chiesa com’è cambiata l’Italia dopo la strage di Nassiriya nell’interminabile guerra irachena e in un momento di terrorismo dilagante.
Le loro risposte sono state tutt’altro che scontate…

«Noi siamo i buoni. Cos’altro dobbiamo sapere?». Così ragionano, secondo il settimanale statunitense The Nation (1), i neo-conservatori che, con George W. Bush, guidano attualmente gli Usa.
In epoca di globalizzazione e di imitazione pedissequa delle idee del più forte, il ragionamento si è propagato per ogni dove. Le obiezioni e le critiche, ancorché motivate, sono subito messe a tacere, con le buone o con le cattive.
La guerra preventiva è lo strumento migliore contro il terrorismo? Perché, invece di ridursi, il fenomeno è aumentato a dismisura? I militari italiani in Iraq sono un contingente di guerra o di pace? L’articolo 11 della Costituzione italiana è stato rispettato? La risoluzione 1511 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (ovvero l’autorizzazione alla creazione di una forza multinazionale in Iraq) ha sanato ex post l’illegalità della guerra di George W. Bush? E ancora: si può ottenere il «burro» dai «cannoni»? Fuor di metafora, è lecito utilizzare le armi e le guerre per dare impulso all’economia? La risposta dovrebbe essere ovvia, ma la realtà dice l’opposto.
Lo scorso novembre il Congresso statunitense ha approvato il bilancio della difesa per il 2004: oltre 400 miliardi di dollari, il doppio del prodotto interno lordo (pil) della Danimarca, più di quello della Russia. In questi stessi mesi, il pil degli Usa è in crescita vertiginosa (e forse drogata), dopo un biennio di recessione. I due dati sono in stretta relazione: le spese militari hanno dato una spinta decisiva alla crescita dell’economia. È lecito chiedersi se è morale incentivare la crescita economica di un paese con spese immorali (e che, tra l’altro, andranno a danneggiare altri)?
Guardiamo all’Italia. La campagna Sbilanciamoci, promossa da 30 organizzazioni della società civile (da Altreconomia al Wwf, passando per Mani Tese e Pax Christi), ha prodotto uno straordinario libretto di 66 pagine dal titolo: Cambiamo finanziaria. Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace e l’ambiente (2). Se qualcuno dei grandi giornali italiani decidesse di regalare questo volumetto ai propri lettori (al posto dei consueti gadgets), farebbe un grande servizio all’informazione e soprattutto alla formazione degli italiani.
«La manovra 2004 – si legge a pagina 28 – prevede uno stanziamento (fondo di riserva) di 1 miliardo e 200 milioni di euro per le necessità finanziarie legate alla proroga delle “missioni di pace”. Ma quali “missioni di pace”? Quella in Iraq è ben altro: un contributo all’occupazione del paese, al di fuori delle decisioni dell’Onu. In sostanza un aumento surrettizio di oltre il 5% delle spese militari del nostro paese, che negli ultimi anni erano già aumentate del 10%. Anche perché (…) le missioni vengono poi finanziate con nuovi decreti ad hoc, e mai con i fondi del bilancio della Difesa. La presentazione dell’aumento come finanziamento delle “missioni di pace” è un modo per dare maggiore disponibilità di fondi alla Difesa che, tra l’altro, in questi anni li ha utilizzati male e con molti sprechi».

Nella maggior parte dei paesi occidentali i governi stanno tagliando le spese che vanno al cosiddetto «stato sociale» (welfare state): ancora meno soldi pubblici alla sanità, all’istruzione, all’assistenza, alla previdenza.
Oggi questi governi hanno una motivazione in più per tagliare i finanziamenti statali: la lotta al terrorismo, che ha bisogno di molte risorse. È un crescendo di intensità, con l’aiuto determinante dei telegiornali e dei programmi televisivi, non soltanto quelli di «approfondimento», ma anche quelli di «intrattenimento» (che raggiungono un pubblico più vasto e popolare).
Ormai è impossibile distinguere dove inizia il vero pericolo e dove quello costruito ad hoc. Padre Giulio Albanese parla di una «voglia di scontro di civiltà», secondo la nota tesi (3), che anche don Bruno Forte rifiuta in toto.
«I morti italiani in Iraq come quelli ebrei in Turchia – scrive il teologo napoletano (4) – non sono semplicemente vittime di una follia ideologica che falsamente si appella a ragioni religiose; essi pagano purtroppo anche il prezzo di scelte culturali e politiche sulla cui infondatezza storica, morale e religiosa si era levata fra tante la voce altissima di Giovanni Paolo II. Quando la Santa sede insisteva nel considerare la guerra in Iraq immorale, illegale, inutile e dannosa, la sua voce è stata disattesa».

Il 29 novembre è toccato alla Spagna pagare il fio dell’alleanza con gli Stati Uniti. In un agguato della guerriglia irachena sono stati uccisi 7 uomini appartenenti ai servizi segreti di Madrid. Oltre a queste nuove morti, quello che ha impressionato e, forse, fatto riflettere sono stati quei cadaveri presi a calci tra scene di giubilo.
Com’è possibile?, ci si è chiesti. Ormai tutto è possibile. Il vaso di Pandora dell’Iraq è stato scoperchiato e la violenza che ne esce sembra senza fine e soprattutto sembra travalicato ogni limite alla barbarie dell’uomo bellico.
Davanti alla deriva, non tutti riescono a stare zitti e ad accettare ogni giustificazione calata dall’alto. C’è anche qualcuno che osa dire l’indicibile: «Per quanto possa sembrare strano – ha scritto, ad esempio, il magistrato Domenico Gallo (5) -, non tutto il popolo iracheno ha considerato la conquista e l’occupazione militare americana come una “liberazione”».
Dalla fine della seconda guerra mondiale l’Italia si era ritagliata un importante ruolo di mediazione, di cerniera tra l’Europa e il mondo arabo-islamico. Con l’intervento nella guerra irachena (tra l’altro, per conto terzi) questo ruolo è stato gettato alle ortiche, esponendo il paese e la sua popolazione a possibili vendette dei terroristi.
All’indomani della strage di Nassiriya, su un importante quotidiano un giornalista parlò della «nuova Italia che non scappa» (6). Quasi che «il valore morale» di un paese dipendesse non dal proprio vivere civile all’interno e nel mondo, ma dal comportamento macho in una guerra. In quell’articolo si legge che, dopo Nassiriya, l’Italia non è più «l’Italietta di sempre», non è «un paese molle», ma un paese che ha ritrovato «l’orgoglio nazionale»…
Viene allora in mente padre Eesto Balducci: «L’uomo ha qualcosa di pre-umano in sé, ed è appunto l’aggressività distruttiva».

Paolo Moiola




Una domanda, un dubbio, una riflessione…

La chiesa deve essere «sentinella di pace». I suoi nemici sono coloro che ne uccidono l’anima. Con il denaro, l’onore, il potere.

Don Aldo, secondo lei che Italia è uscita dai funerali del 18 novembre? A leggere i giornali e soprattutto a vedere le televisioni ha vinto la propaganda della ragion di stato e non certo la pietas per i morti…
«Dalle cronache televisive è venuta fuori l’immagine di un’Italia inesistente: un’Italia non così come è, ma come, da parte dei nuovi padroni, si vorrebbe che fosse. A tale scopo tutto è stato sapientemente e cinicamente centellinato, filtrato: le sequenze, i volti, le reiterazioni, ma soprattutto le domande agli intervistati ed i commenti alle immagini.
Per una settimana siamo stati sottoposti ad un bombardamento monotematico, una sorta di overdose mediatica, in cui mai e da nessuno è stata posta una domanda, un dubbio, una riflessione. È sembrato quasi che la solidarietà con le vittime comportasse l’imbecillità, l’impotenza mentale a porsi dei perché. In questa ubriacatura anche i termini sono stati stravolti, al punto che le vittime sono state promosse “eroi”. L’eroe è colui che motivatamente ed in maniera attiva intraprende un’azione di alto valore. Qui, invece, ci troviamo di fronte a dei ragazzi che hanno subito un attacco; vittime, appunto, non eroi».

Quella italiana a Nassiriya era tutto fuorché una missione di pace. Ma pare che non si possa proprio dirlo…
«È chiaro; e non potrebbe essere diversamente. Dal momento in cui si impone un teorema per cui la guerra in Iraq è finita con la vittoria delle truppe americane, tanto frettolosamente proclamata da Bush; da quel momento tutte le azioni susseguenti diventano azioni di “pace”, di ristabilimento della “legalità” e delle condizioni necessarie per la riconquista della “libertà”. Attraverso questo ipocrita escamotage, l’America è riuscita ad ottenere la sponsorizzazione dell’Onu; e l’Italia, inviando i suoi uomini, è riuscita ad aggirare la costituzione, tradendola. Ogni altra versione dei fatti diventa menzogna e, in quanto tale, va combattuta; di qui i bavagli e le censure».
Sembra che ci siano due chiese cattoliche, ben contrapposte. Quella personificata dal cardinale Ruini e quella del papa e di monsignor Nogaro. Che ne pensa, don Aldo?
«Nella chiesa c’è sempre stata una certa dialettica tra l’anima profetico-progressista e quella, uso termini un po’ leggeri, ma solo per intenderci, tradizional-conservatrice; una dialettica, anche legittima, già presente ai tempi della prima predicazione degli Apostoli. Mi viene da pensare al primo “concilio” di Gerusalemme, convocato per ricomporre i contrasti tra Pietro e Paolo. Oggi, però, non siamo a questo tipo di contrapposizione. Oggi la lotta, soprattutto nella chiesa italiana, è tra una chiesa servile ed una chiesa libera; tra una chiesa che per un piatto di lenticchie vende la propria anima, ed una chiesa che non può sottrarsi, pena il rinnegare se stessa, alla voce dello Spirito che la chiama ad essere sentinella di pace in un mondo di violenze risorgenti. A questo proposito, a me sembrano quanto mai attuali gli avvertimenti del vescovo sant’Ilario di Poitiers (+367). Quando con Costantino il cristianesimo diventò cristianità e si ritrovò a essere cultura cristiana, civiltà cristiana, il martirio scomparve come quotidiana, contemporanea, reale memoria crucis nella storia cristiana. Ilario di Poitiers, che vede ormai la chiesa non più contraddetta né osteggiata, ma omaggiata e apparentemente ascoltata, ritiene di dover così mettere in guardia i cristiani: “Ora combattiamo contro un nemico insidioso, un nemico che lusinga… non ci flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni, dandoci così la vita, ma ci arricchisce, dandoci così la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo, non ci percuote ai fianchi, ma prende possesso del cuore, non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il denaro, l’onore, il potere”. A qualcuno piace restare nel palazzo».

Il popolo delle bandiere della pace è assediato, non dalla gente ma da editorialisti e da commentatori televisivi. Come fare ad uscire allo scoperto per reclamare, ancora più fortemente, le ragioni della pace e l’assurdità della guerra?
«Il popolo della pace ha bisogno di essere alimentato di speranza e di ragioni per cui sperare. Quando invece viene imbavagliato, bastonato e messo pubblicamente alla berlina, allora è duro resistere e persistere. Che fare? Vedo nascere mille piccole iniziative, ma manca un cornordinamento. E poi, presso chi reclamare le ragioni della pace, se la classe politica attualmente al potere la vedo cieca e sorda ad ogni ragione? Lei ha visto i loro volti, ai funerali presso la basilica di San Paolo? Erano delle sfingi.
Non vedo strategie vincenti a breve raggio, ma so che la storia e il futuro sono dalla nostra parte. A noi non resta che continuare a tessere questo nuovo risorgimento, con parole dette e scritte, con gesti semplici e con manifestazioni. Se taceremo noi, urleranno le pietre».

Porta a porta, Excalibur, Otto e mezzo, i telegiornali…: dalla strage di Nassiriya come ne esce il giornalismo italiano?
«Muto e mutilato. Checché ne dica Berlusconi, se si eccettua qualche testata, la maggior parte dei giornali italiani sono allineati. C’è in giro, un proliferare di testate servili che fa pensare. Chi le finanzia? Per quale scopo? È vero che l’informazione è sempre stata, più o meno, manipolata. In questi ultimi tempi, però, si assiste ad un fenomeno nuovo, in quanto l’informazione non si limita più ad influenzare la pubblica opinione, ma diventa essa stessa una fabbrica di consenso. Le notizie non vengono solo distorte ma create ad arte. Siamo al ribaltamento nel rapporto “fatto-parola”, in quanto le parole non sono più “comunicative”, ma “creative”. La parola crea la realtà. Uno scimmiottamento del mistero cristiano dell’incarnazione. Noi cristiani crediamo che la Parola si “è fatta carne”! Qui invece ci troviamo di fronte alla parola che “crea”!».

Eugenio Scalfari ha scritto che Bush ed amici hanno scatenato la «bestia dell’Apocalisse». La serie degli attentati terroristici dimostra che l’immagine è purtroppo vera. Che fare ora contro l’ondata terroristica che, di norma, non colpisce il potere, ma persone innocenti?
«La guerra ha sortito, sotto questo aspetto, l’effetto di un cerino acceso e gettato in un pagliaio. È stato come soffiare sul fuoco, gettare benzina sulla brace. Il fuoco del terrorismo lo si sarebbe potuto controllare, o al minimo tenere a bada, con una politica di dialogo e di confronto; e invece lo si è voluto ad ogni costo attizzare. In questo senso Bush ed i suoi accoliti sono più terroristi dei terroristi. Come li chiama lei coloro che appiccano fuoco per ogni dove (Kosovo, Afghanistan, Iraq, Medio Oriente ecc.)? Piromani incendiari, non pompieri!
Da questa politica traggono guadagno solo gli apparati militari, i fabbricatori di armi ed i petrolieri. La povera gente ci rimette la vita.
Personalmente sono dell’avviso che un approccio diverso al problema terrorismo avrebbe dato risultati diversi. Come cristiano, poi, sono dell’avviso che, sull’esempio del poverello di Assisi, con i “lupi” è sempre possibile parlare, invece che scotennarli». •

Paolo Moiola




Vittime di inutile strage

Il 2 agosto 1922 a Pederobba, un paesino della pedemontana di Treviso, veniva inaugurato all’interno della chiesa un altare in ricordo dei 43 morti della prima guerra mondiale.
Il parroco aveva dettato il testo della lapide che diceva così: «Sacro ricordo, tributo di preghiera, di compianto, di amore ai 43 figli di Pederobba caduti vittime di un’inutile strage nella barbara guerra 1915-1918».
Il prefetto di Treviso, allarmato da queste affermazioni, chiese al vescovo di far cancellare sia l’espressione «vittime di inutile strage», sia l’aggettivo «barbara» riferito alla guerra da poco terminata.
Fu mandato un giovane sacerdote che munito di martello e scalpello cancellò dal marmo quelle parole. Il parroco non oppose resistenza, anche se si permise il gesto di non offrire una stanza da letto all’esecutore di tale ordine, che dovette accontentarsi di passare la notte su una sedia.
Poi aprì il registro dei battesimi e vi scrisse quanto segue: «Il 2 agosto 1922 fu benedetto ed inaugurato il ricordo-altare pei nostri caduti nella guerra 1915/18. (…) Fu celebrata una solenne ufficiatura con grande concorso di popolo; non si volle invitare alcuna rappresentanza civile né militare, per non profanare la serietà della cerimonia con manifestazioni di falso patriottismo che non è sentito dal nostro popolo. Sul monumento venne scolpita la iscrizione seguente … (fa seguito il testo sopra riportato)… La raschiatura delle parole operata sul monumento venne fatta per ordine del prefetto di Treviso, costretto dai fascisti. Ma la verità è una sola: vittime di inutile strage nella barbara guerra 1915 – 1918».

Sapevo dell’esistenza di questo testo, ma non l’avevo mai letto. Nel giorno dei funerali di stato delle 19 vittime della guerra in Iraq ho voluto cercarlo. Dopo averlo trovato mi sono recato a pregare, insieme con l’attuale parroco di Pederobba, davanti al ricordo-altare per le nuove vittime di una inutile strage di una barbara guerra.
Questo testo sapiente offre diverse chiavi di lettura per il nostro oggi. È da cinque giorni che durano questi funerali infiniti, che ormai sembrano non portare più rispetto né per le vittime, né per i loro famigliari. La retorica politico-militare sembra essersi appropriata della loro morte per trasmettere messaggi di altro contenuto che non siano quelli che solamente genitori, figli, spose o fidanzate conoscono.
A me pare di assistere a un’orrenda operazione in cui la morte degli altri viene sfruttata per convincere il popolo italiano che noi non siamo andati in Iraq per fare da pedine di complemento in un contesto di guerra, ma per una scelta umanitaria.
Noi che abbiamo appeso centinaia di migliaia di bandiere di pace sui nostri davanzali, ben prima che scoppiasse la guerra, avevamo, invece, ragione di credere che essa si sarebbe risolta in un’inutile strage. E tale è questa guerra di cui non s’intravede l’uscita. È di ieri la notizia delle dimissioni del rappresentante italiano presso il governo di transizione iracheno, che ha motivato il suo gesto con il fatto che nella presente situazione non si intravedono né i presupposti né la volontà politica che intenda usare i mezzi giusti per ristabilire pace e democrazia in Iraq.
Ci siamo cacciati dentro ad un ginepraio e, ora, per orgoglio, non sappiamo come uscie. Ma intanto c’è chi paga prezzi altissimi: uomini e donne americani che contano già 9.200 morti e feriti, inglesi, italiani, ma anche e soprattutto iracheni.
La sapienza dell’antico parroco di Pederobba l’aveva condotto a compiere un gesto grave e difficile per quegli anni: egli aveva messo alla porta tutte le autorità civili e militari perché il popolo potesse vivere e confrontarsi da solo con il suo dolore e «per non profanare la serietà della cerimonia con manifestazioni di falso patriottismo che non è sentito dal nostro popolo».
Un anno prima, in un gesto sconsolato, sempre usando il registro dei battesimi, egli aveva scritto a conclusione di un anno particolarmente prolifico: “Aumentano in maniera vertiginosa i nati, ma non aumenta la gioia di vivere”. (frase scritta in latino: moltiplicatur gens, at non moltiplicatur laetitia).
Solamente uno che aveva patito con il suo popolo le stragi, le distruzioni, il pianto infinito del dopoguerra e della esasperante, lenta ricostruzione delle case e dello sminamento dei campi, poteva prendersi il lusso di usare tale libertà.
Ma la chiesa di oggi, nella liturgia nazional-popolare a cui abbiamo assistito, ha dato prova di libertà e di profezia evangelica?
Ho sentito pronunciare la fiera parola: li fronteggeremo!
Ma non ho sentito dire né un «mea culpa» né che siamo andati a morire in una terra che non è nostra e per motivi quanto meno ambigui; né una parola di pietà per tutti gli iracheni innocenti che sono morti dall’inizio di questa guerra e che sono i più numerosi; né l’invito a costruire la pace attraverso le vie della pace. C’è stato un deficit di libertà e di vangelo che mi ha inquietato e umiliato. Eppure bastava ricordare le semplici parole del card. Renato Martino: «Se avessero ascoltato il papa non ci troveremmo ora a piangere tutti questi morti».
Forse soltanto tra i suoi, nel proprio paese, tra la propria gente ognuna delle 19 vittime troverà pietà. Solo allora si pronuncerà una parola vera sulla guerra.

don Giuliano Vallotto

(Scritto il 18 novembre 2003 in solidarietà con monsignor Raffaele Nogaro, vescovo di Caserta).

Paolo Moiola




Con calma e perseveranza…


Per sedare il vespaio che la guerra ha prodotto, ora occorre un intervento internazionale. Anche se prima questo è stato disprezzato.



Monsignor Bettazzi, non le sembra che televisioni e giornali abbiano usato la strage di Nassiriya?


«L’emozione nazionale per la strage di Nassiriya è stata molto grande, sia per la gravità del fatto, sia perché è giunta improvvisa dopo tutte le assicurazioni dei nostri governanti sulla assoluta mancanza di pericolo per i nostri soldati, che anzi erano molto ben voluti dalla popolazione.
Certo che c’è stata una strumentalizzazione nel ripetere che si trattava di spedizione di pace, senza mai nemmeno accennare che si andava a sviluppare le conseguenze di una guerra, per di più illegale, voluta con determinazione ma affrontata con superficialità. Senza appunto valutare il… vespaio che si sarebbe sollevato, per il quale ora si chiede quell’aiuto internazionale che si era prima spregiato».

«Onore ai soldati morti per la pace» così recitava un manifesto di un partito di governo… Dunque, pace è guerra?

«Mi rendo conto che bisognava soprattutto cercare di attutire il dolore delle famiglie delle vittime, esaltando la finalità della spedizione. Essa, tra l’altro, per non pochi, era un rimedio alle manchevolezze d’aiuto che la patria non sa dare a tante categorie, coprendo così le responsabilità dei governanti per decisioni prese con spirito di parte. Ora credo che, a emozioni sopite, bisognerà valutare con obiettività la situazione e chiedere che i responsabili sappiano riconoscere i loro errori e le loro leggerezze, chiedendo che la responsabilità della gestione passi davvero alla comunità internazionale, al di sopra degli interessi di parte».

Ancora una volta, sulla guerra e sulle sue conseguenze sembra che ci siano due chiese cattoliche, ben contrapposte. Quella personificata dal cardinale Ruini e quella del papa e di mons. Nogaro. Che ne pensa lei?

«È ovvio che vi sono diverse sensibilità al di dentro della chiesa; così come era un po’ prevedibile che il card. Ruini, in quell’atmosfera, potesse dire, sia pure con diversa sfumatura, quel che ha detto. Fra l’altro non era scontato che insistesse tanto sul “non odiare”! Forse era preoccupato che, in quel momento, un atteggiamento più… profetico potesse venir visto, più che come allineamento al papa, come allineamento ai settori più avanzati dell’opposizione politica. È risultato per altro evidente che mons. Nogaro (a parte le malevole deformazioni che certa stampa ha voluto dare delle sue parole) non era isolato, anche nella Cei. E credo che anche questo, all’interno della chiesa e della stessa gerarchia, non può non essere avvertito».

Che si può dire al variegato popolo delle bandiere della pace?

«Credo si debba continuare ad insistere, con calma e con perseveranza. La maturazione della coscienza della pace, così evidente nel confronto tra la prima guerra del Golfo e l’attuale, continuerà ad avere un suo sviluppo se tutti continueremo a compiere quanto sta in noi».

Lei ha pubblicato parecchi libri ed è da sempre una persona che scrive. Che ci dice del giornalismo italiano dopo Nassiriya?

«Questa vicenda conferma le preoccupazioni su quanto si è voluto e si sta continuando a compiere per subordinare i mezzi di comunicazione al potere di chi governa. Quand’ero ragazzo mi commossi per la conquista dell’Etiopia e per quella pace di Monaco, ottenuta anche da Mussolini nel 1938, che fu in realtà la premessa della seconda guerra mondiale. Ma allora si sapeva solo quanto e come il governo voleva si sapesse! La libertà e l’oggettività dei mezzi di comunicazione è la condizione indispensabile per un’autentica democrazia».

Paolo Moiola




ETIOPIA – Fame di Dio

Crocevia tra nord, sud ed est del paese, Modjo è pure un luogo strategico delle attività dei missionari della Consolata: opere sociali e pastorali, seminario minore e animazione missionaria vocazionale, fino a diventare un punto di riferimento per la formazione giovanile e centro di spiritualità per preti e religiosi.

Non c’era un filo d’erba verde, 10 anni fa, quando padre Domenico Zordan mi fece visitare il luogo dove stava costruendo la missione di Modjo, lembo meridionale della diocesi di Addis Abeba. Non un albero per ripararsi dal sole, che, sull’altipiano etiopico, sembra più implacabile che altrove. Nel grande prato arido, reso più vasto dalla mancanza di recinzione, unico segno di vita erano i muratori, intenti a ultimare la costruzione dell’asilo e innalzare i muri del salone e del seminario.

Oggi, ritornato nello stesso luogo, mi sembra di sognare: un bel viale di jacarande immette in un’oasi di pace, con prati verdi, vialetti alberati e siepi in fiore che circondano una nutrita serie di edifici; da una parte la casa dei padri, il seminario, il salone l’ampia chiesa e gli edifici del centro di animazione missionaria; dall’altra parte, divisa da una rete metallica e un enorme cancello in ferro, sorgono l’asilo, il dispensario, il centro di promozione della donna e l’abitazione delle suore della Consolata che gestiscono queste attività; in fondo c’è la scuola elementare, costruita dai missionari e consegnata alla gestione governativa. Nonostante l’ampiezza dello spazio, tanti edifici sembrano allo stretto.

UNA SCELTA RESPONSABILE

Si sa come vanno le cose in Etiopia: la chiesa cattolica è considerata quasi come una Ong e la presenza di missionari è condizionata dalla gestione di opere sociali; ma, una volta ottemperata a tale condizione, è libera di svolgere le attività religiose a piacimento.
È così che a Modjo, nel grande terreno concesso dal comune per le opere sociali, i missionari della Consolata hanno costruito anche un seminario minore, per preparare gli aspiranti missionari.

«Attualmente abbiamo sette seminaristi – spiega padre Antonio Benitez -: quattro hanno terminato i dieci anni della scuola d’obbligo e frequentano l’undicesima e dodicesima classe nella scuola statale della città; gli altri tre fanno un anno di propedeutica, cioè di preparazione per entrare nel seminario maggiore di Addis Abeba e frequentare i corsi di filosofia».

Padre Antonio, giovane missionario della Consolata colombiano, è arrivato in Etiopia due anni fa e da pochi mesi è approdato a Modjo, immergendosi totalmente nella vita della missione: insegna nella scuola matea, aiuta nella pastorale e nella formazione dei seminaristi. Anzi, al momento della visita ha la piena responsabilità del seminario, poiché il direttore, il kenyano padre Gabriel Odwori, è in vacanza.

«È un’esperienza gratificante – continua il padre -, anche se non mancano le difficoltà, soprattutto a livello di comunicazione: io sono ancora alle prese con l’apprendimento della lingua amarica e i seminaristi, provenienti da diverse etnie, kambatta, adiya, oromo, hanno difficoltà ad esprimersi in inglese».

Quello dell’inglese è un problema cruciale per tutti i giovani che vogliono accedere agli studi superiori, dove l’insegnamento è impartito in questa lingua: un esame di stato, tutto in inglese, dichiara l’idoneità a tale passaggio. Ma poiché nella scuola statale questa lingua viene appresa ad orecchio, senza badare troppo alla scrittura, per affrontare tale esame è necessario un supplemento di preparazione.

Per questo, buona parte del tempo dell’anno propedeutico è impiegato dai seminaristi nello studio dell’inglese e in corsi di vario genere, per colmare eventuali lacune nella formazione intellettuale e spirituale.

«Anzitutto – continua padre Antonio – i giovani hanno bisogno di approfondire la dottrina cristiana, poiché le nozioni apprese sono alquanto superficiali e tradizionali; inoltre, diamo loro lezioni di bibbia, psicologia e formazione umana. Essi sono ancora alla ricerca della loro vocazione e hanno bisogno di chiarire le motivazioni delle loro scelte».

Negli anni passati il seminario di Modjo aveva più di una ventina di aspiranti missionari; quest’anno sono solo sette. Eppure in Etiopia c’è abbondanza di ordinazioni sacerdotali e vocazioni alla vita religiosa.
«È vero. Ma dovremmo domandarci come mai ci siano tante vocazioni – interviene padre Paolo Angheben -. Si rimane stupiti se le confrontiamo col piccolo numero dei nostri cristiani. Una superiora provinciale etiopica, passando a Modjo, mi fece questa confessione: “Se in Etiopia ci fosse più lavoro, ci sarebbero meno vocazioni”. Venendo da una suora locale, questa frase dice molto. Data la disoccupazione, i problemi di sopravvivenza, l’incertezza del futuro, non mi meraviglio più di tanto che tanti giovani vogliano entrare in seminario, dove hanno da mangiare e possono proseguire gli studi. Capitava così anche in Italia, subito dopo la guerra. La tentazione è forte. Per questo è necessario aiutare questi giovani a un serio discernimento e alla responsabilità delle loro scelte».

GIORNI DI FUOCO

Padre Paolo è ormai un veterano in Etiopia. Vi arrivò nel 1985 e, dopo un intermezzo nel Centro missionario di spiritualità nella Certosa di Pesio (Cuneo), è ritornato al primo amore, prendendo le redini della complessa missione di Modjo.

Essa è nata e cresce come «Centro di animazione missionaria vocazionale»; ma l’arrivo di padre Paolo ha aggiunto una nuova dimensione: è diventata pure centro di spiritualità, un servizio di cui la chiesa locale ha estrema necessità.

In Etiopia, infatti, non ci sono solo problemi di carattere economico e sociale, ma anche a livello di chiesa, soprattutto nella formazione del clero: i giovani affrontano gli studi di filosofia e teologia con profonde carenze di base e la scarsità di personale non permette al seminario maggiore di offrire una formazione adeguata alle sfide della situazione.
«In Etiopia c’è tanta fame, non solo di pane, ma anche di Dio – afferma padre Paolo -. Preti, suore, religiose sentono il bisogno di maggiore profondità spirituale. I sette anni di esperienza nella Certosa di Pesio mi hanno preparato a rispondere a questa sfida della chiesa in Etiopia».

Per ora il centro di Modjo organizza incontri e ritiri spirituali di una giornata; ogni mese si svolge la scuola di preghiera: il sabato per le religiose, la domenica per i giovani, il lunedì per i sacerdoti. Sono chiamati «la tre giorni di fuoco». Nel corso dell’anno sono accolti gruppi giovanili delle singole parrocchie della diocesi di Addis Abeba e di quelle circostanti, per una giornata di formazione e approfondimento della vita cristiana.
L’iniziativa sta riscuotendo un crescente successo: oltre all’apprezzamento del vescovo, sono molte le singole persone, preti, suore e laici impegnati, che vengono al Centro per trascorrere un fine settimana o più giorni in preghiera e meditazione, o fare un ritiro spirituale sotto la direzione di padre Paolo.

A tale scopo, Modjo offre molte possibilità: la città è un nodo stradale di comunicazione tra nord, sud ed est del paese; la missione è lontana dal traffico, per cui offre ampi spazi di silenzio; l’ambiente è ombreggiato e il Centro è dotato di alcune camerette semplici ma confortevoli.

Sono molte le richieste di corsi prolungati da parte di giovani e catechisti. «Finora mi sono recato nelle singole parrocchie – spiega padre Paolo – e ho guidato settimane di formazione e spiritualità nel centro catechetico di Gighessa; ma ci stiamo attrezzando per accogliere e alloggiare i gruppi giovanili anche a Modjo. Avere dei giovani che risiedono per più giorni in questo centro dà la possibilità di fare un lavoro più in profondità. Non bisogna dimenticare che la vocazione nasce dalla preghiera e noi vogliamo formare i giovani alla preghiera».

STORIA DELLA SALVEZZA

Per comprendere meglio lo scopo del suo lavoro, padre Angheben mi porta in cappella e mi spiega il significato degli oggetti che ne adoano le pareti. «È la cappella della storia della salvezza» spiega il padre.
Nella parete di fondo, in basso a sinistra, un ceppo secco richiama la profezia di Isaia: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto spunterà dalle sue radici». Il germoglio, promessa di nuova speranza per il popolo d’Israele e per tutta la storia umana, è Gesù, spiega padre Paolo, indicando l’icona della Madonna della tenerezza, che raffigura Maria mentre stringe al petto il figlio divino.

La storia della salvezza culmina nella morte e risurrezione di Cristo, raffigurata in una grande croce etiopica che domina il centro della parete. «È la croce gloriosa, la croce della risurrezione, secondo la tradizione etiopica».

Sotto la croce c’è un bastone rosso. Esso ricorda il serpente di bronzo di Mosè, che Gesù prese come simbolo del suo innalzamento sulla croce (cfr Giovanni cap. 3); al tempo stesso, richiama il bastone del pellegrino, che nell’iconografia è sempre di colore rosso. Il bastone è sostenuto da una specie di contenitore rotondo, tipico della tradizione etiopica: i viandanti vi mettono il cibo per il viaggio; qui funge da tabeacolo, dove è conservata l’eucaristia, il cibo che sostiene il pellegrinaggio della vita cristiana. «Meta del nostro cammino è la comunione con la Trinità» continua padre Paolo, indicando, a destra della croce, la grande icona della Trinità di Rublev.

«Questa storia la celebriamo ogni giorno nella messa. Al centro della cappella ci sono due massob, altro oggetto tipico della cultura etiopica: viene regalato agli sposi il giorno delle nozze: è il loro tavolo da pranzo. Quello più grande lo usiamo come altare per celebrare l’eucaristia, il banchetto delle nozze etee dell’Agnello. Su quello più piccolo c’è una bibbia aperta: entrambi i massob ci ricordano il pane della parola e il pane del corpo di Cristo».

Sulla parete destra è appeso un grande quadro del beato Giuseppe Allamano. «L’eucaristia porta subito alla missione – conclude padre Paolo -. È necessario raccontare agli altri la storia della salvezza, come ha fatto e continua a fare il nostro fondatore, chiamando e inviando i suoi missionari».

I FIGLI DEL MASSAIA

La missione di Modjo ha tutte le attività di una parrocchia. La comunità è ancora piccola: conta appena una decina di famiglie cattoliche e altrettante miste, con un genitore cattolico e l’altro ortodosso. È una situazione familiare non priva di tensioni, ma potrebbe diventare un punto di partenza per il dialogo ecumenico, con un approccio ancora tutto da inventare.
La maggior parte di coloro che frequentano la chiesa sono giovani, a volte con afflusso massiccio, ma incostante, attirati dalle iniziative religiose e sportive promosse dalla missione e, forse, dalla speranza di avere qualche aiuto materiale.

Modjo dà l’impressione di essere una zona ricca; ma in realtà c’è molta povertà, soprattutto morale. Essendo un importante nodo stradale nel cuore del paese, la cittadina è nata e vive di attività legate a piccoli commerci e alberghetti per gente di passaggio, specie camionisti, con conseguente diffusione di prostituzione e Aids. Un bambino su cinque è orfano a causa di tale flagello.

«Non è facile parlare di Dio in una situazione del genere – confessa padre Paolo – Modjo è una missione complessa e difficile. Tuttavia facciamo il possibile per rispondere ai problemi della popolazione col nostro lavoro pastorale, di formazione giovanile e opere sociali».

In queste attività, i missionari sono affiancati dalle suore missionarie della Consolata, che gestiscono l’asilo, dispensario medico e un centro di promozione della donna, frequentato da ragazze e madri di famiglia. In esso imparano cucito, economia domestica e a gestire piccoli progetti con cui guadagnare qualche soldo e sostenere dignitosamente la famiglia.
Provvidenziale è pure il lavoro che le suore svolgono nel dispensario, sia nella cura della popolazione della città, sia con campagne di vaccinazioni nei vari villaggi della zona.

La missione, infatti, si sta estendendo anche nelle zone rurali. A Dibandiba, periferia della città, è stata costruita una scuola cappella che raccoglie 250 bambini e giovani della zona; un’altra è in progetto a Ejersa, a 15 km da Modjo: per ora giovani e bambini si radunano all’ombra di un grosso sicomoro.

Di recente, padre Paolo ha visitato anche i villaggi più lontani da Modjo, dove si trovano alcuni discendenti dei cattolici battezzati dal cardinal Massaia, rifugiatisi in questa zona per fuggire alle persecuzioni che, negli anni 1880, l’imperatore Giovanni iv, istigato dal patriarca copto, scatenò contro il grande missionario e la chiesa da lui fondata. Anche questi cristiani hanno fame di Dio.

Benedetto Bellesi