Viaggio in Caquetà

Un paese esagerato
Racconto di un’esperienza nella foresta amazzonica: incontri, sapori, colori e… missionari nel bunker.

La signora colombiana emigrata in Italia, insieme alla quale abbiamo condiviso la traversata dell’oceano, ci aveva guardati stupita e incredula dopo aver saputo la nostra destinazione: «In Caquetá?». Per lei, che conosce bene quelle terre, avrebbe fatto meno effetto un soggiorno a Baghdad.
Florencia, Caquetá, la porta dell’Amazzonia. Fare turismo da queste parti è facile, soprattutto per quanto riguarda la preparazione del bagaglio; nella valigia serve mettere solo una cosa: l’incoscienza. Qui uno straniero passa inosservato come un marziano a Firenze, fare una foto ci mette a disagio tanto quanto passeggiare nudi per le vie del centro di una qualsiasi delle nostre città; tutti ti guardano e si chiedono: «Perché?».
La stazione di Florencia si anima di buon’ora; ogni partenza è una storia e ogni viaggiatore è un attore: mille romanzi tutti diversi. Avendo tempo, ci si può fermare, osservare mondi lontanissimi in ogni persona; ma bisogna partire e recitare anche noi la nostra storia.

SGUARDO DAL FINESTRINO

La scelta del mezzo su cui viaggiare offre tre opzioni: la chiva, tradizionale autobus coloratissimo, privo di finestrini e porte, dove si può caricare qualsiasi bagaglio personale e dove può capitare di avere come vicino di viaggio un maiale o una pecora; la jeep, che però è molto scomoda se ti capitano i posti laterali; il piccolo pulmino, il mezzo che abbiamo scelto noi.
L’eccitazione della partenza pare coinvolgere tutti, sembra una gita. Senza rendersene conto, si diventa parte di un gruppo e la solidarietà fra gli occupanti del veicolo si avverte a pelle, senza bisogno di parole. In queste zone, il viaggio è sempre molto pericoloso: è facile non arrivare a destinazione.
Sono stato fortunato, il passeggero che mi è toccato vicino non è un maiale, né una capra: è un giovane costeño (abitante della costa; termine usato abitualmente per indicare gli afro-colombiani) dalla pelle scura e dal fisico possente. In compenso viaggio con un gallo da combattimento chiuso in una scatola di cartone sotto al sedere!
Il primo posto di blocco ci aspetta subito fuori l’abitato di fronte a una grande caserma. Qui i militari sono più rilassati, rispetto a quelli incontrati nel resto del viaggio: avere una caserma alle spalle, con tanti commilitoni pronti a contrastare eventuali assalti della guerriglia, penso dia sicurezza e, di conseguenza, renda più sereni. Controllo dei documenti e perquisizione, infatti, sono veloci e non infastidiscono più di tanto. Ognuno riprende il proprio posto e, senza alcun commento, si riparte verso sud.
Qui, non è il mezzo di trasporto che ti permette di arrivare: è la strada, la cui terra rossa cambia ogni giorno, vive, si muove: il tuo arrivo dipende dal suo umore. Oggi che la strada è buona, si guida sul fango, in controsterzo, tanto che non posso fare a meno di dire al conducente: «Usted maneja mejor que Montoya!». Una leggera smorfia, a significare «si fa quel che si può», è la risposta. Le condizioni della carreggiata sono davvero pessime, ma mi dicono che oggi siamo fortunati, perché la pioggia, arrivata durante la notte, ci ha risparmiato la polvere.
Fisso il cruscotto del veicolo: balla che pare staccarsi da un momento all’altro; guardo le mani dell’autista girare vorticosamente a sinistra il volante, mentre la logica lo vorrebbe nel senso opposto, ma così si deve fare per restare sul tracciato. Mi viene da fare quattro conti e concludo che i danni al veicolo saranno sicuramente maggiori di quanto incassato dai viaggiatori trasportati.
Scoprirò in seguito che in Colombia si aggiusta tutto con poco o niente e che il milione di chilometri per una autovettura non è cosa impossibile, né rara.
Il percorso è abbastanza omogeneo, si viaggia in un continuo saliscendi, fra verdissime colline disboscate per far posto al pascolo, le mucche però sono molto magre e ce ne vogliono due per fae una delle nostre. Ogni tanto si incontra qualche gaucho, il cavallo e il cavaliere sono una cosa sola, né bestia, né uomo.
Attraversiamo qualche villaggio. Le case sono di legno e qualche mattone; le grondaie dei tetti in lamiera hanno legato all’estremità un recipiente e un tubo di gomma porta acqua da qui a un serbatornio più grande. Non mancano piccoli negozi e bar per la sosta, la pipì e una cerveza.
Incrociamo un grande autocarro: la motrice è molto vecchia, America anni ’50, sono sicuro che non ha servosterzo… Lo guida un ragazzino: qui si cresce in fretta.
Più avanti, dopo molta strada e tanto niente, sul ciglio, un vecchio vestito di bianco, sombrero sulla testa, fa segno all’autista di fermarsi. Insieme a lui sta una minuta figura contorta; è una piccola vecchia vestita con uno straccetto, incapace di salire a bordo: ha le gambe storte e anche le braccia sono colpite da handicap. Sembra un piccolo passero ferito, incapace di volare, e quei due scalini sono invalicabili. Ma la mano del costeño è grande, la sua forza capace di sollevare tutto il bus e il suo cuore sa amare senza pietà. La prende da terra come una foglia e la fa sedere vicino a noi.
Al secondo posto di blocco la procedura di controllo è uguale alla prima. Si scende tutti, perquisizione, verifica documenti e qualche domanda. I militari qui sono più tesi; sono tutti giovanissimi, armati di mitra. Alcuni stanno rinchiusi in piccoli rifugi fatti di sacchi verdi riempiti di sabbia, sono tutti molto seri. La guerriglia può colpire in ogni momento; già troppe volte ha attaccato e ucciso come si uccide in battaglia, perché qui siamo in guerra, guerra civile.
A qualcuno i militari chiedono, dopo avergli preso il documento, di ripetere a memoria il numero dello stesso. Un passeggero non lo ricorda e subito gli intimano di impararlo. Guardano il mio passaporto, se mi fanno domande non saprei cosa dire, spero solo di non essere loro antipatico per non maledire il giorno che sono partito dall’Italia.
Avanti ancora… Ormai siamo alle porte di Cartagena del Chairá, ma prima di arrivare ecco un altro posto di blocco. Giù tutti e di nuovo perquisizione con documenti alla mano. Tutti in fila: uomini, donne, vecchi e giovani; i ragazzi in divisa ci devono dire se possiamo passare, oppure no. Anche questa volta sembra tutto a posto, ma mi accorgo che fanno togliere un bagaglio dalla corriera e si portano dietro il mio amico nero. Lui non dice niente, segue rassegnato quei bambini-soldato, il suo viaggio finisce lì. Noi ripartiamo, con un posto vuoto e tante domande in testa, che non avranno mai risposta. Ciao, costeño dal cuore grande.
Paese… «normale»
Mi pare che siamo nel 2005. Non so quanti anni siano passati da quando, anche nel nostro mondo, si parcheggiavano i cavalli anziché le automobili. Cartagena è un luogo dove il cavallo parcheggiato, legato per la briglia a un albero, è cosa normale anche per il cavallo.
Sono normali anche le tracce di recenti battaglie, i colpi di mitra sui muri, se si è già messo in conto di essere morti, di averla anticipata la morte e di vivere ogni giorno un giorno di più.
Lì ho visto tre foto nelle mani di padre Victor Iacovissi e ho letto un foglio che le accompagnava. Le fotografie mostravano i corpi senza vita di tre vittime della guerriglia passate per le armi, sfigurate e sporche di sangue e il foglio, con la grafia di mani senza pietà, giustificava la sentenza: ladro, prostituta e spia.
Ho capito dov’ero! Ci dovrebbe essere per tutti un momento in cui si capisce veramente che non esiste violenza giustificabile e nulla che valga la morte di un uomo. Io l’ho capito a Cartagena del Chairá.
La casa dei missionari della Consolata è attigua alla grande chiesa. Vi si accede attraverso un grande portone di legno, che conduce all’interno di un grande giardino quadrato. Tutto intorno la costruzione a un solo piano, che forma un intero isolato nel paese in riva al fiume. Si avverte subito un senso di pace e protezione; ci si sente a casa, forse per l’ospitalità vera che si respira e, forse più, per la presenza delle anime buone degli uomini che l’hanno costruita e che ci hanno vissuto, aiutando tutti senza distinzioni.
Non avevo idea, prima di questo viaggio, di cosa significasse essere missionari e quale fosse il loro mondo. Ho imparato, o almeno penso di aver capito, quale sia la cosa più bella, utile e grande del loro agire. Non sono le innumerevoli opere delle quali si sono resi artefici, come scuole, orfanotrofi, ospedali e tutto quello che aiuta la gente a vivere, crescere ed evolversi. Non sono gli aiuti in denaro, cibo, medicine e altro genere; né il conforto che sanno dare ai poveri, disperati, emarginati.
La cosa più grandiosa che sanno fare è semplicemente il vivere donando se stessi agli altri, senza chiedere nulla in cambio. La loro vita è un esempio benefico di un’alternativa possibile ai nostri piccoli mondi fatti di egoismi, paure e superficialità.

PADRE VICTOR SI È FATTO IL BUNKER

Credo che certi uomini nascano buoni, allo stesso modo in cui altri nascano con gli occhi verdi. La differenza è che gli occhi verdi non servono a nulla e a nessuno, la bontà sì.
Oltre ad essere un buon uomo, padre Victor è anche un bravissimo cuoco e così il pollo che ci aveva preparato è passato, oltre che dal mio stomaco, anche nella stanza dei ricordi che non si cancellano. Noi, in cambio, avevamo portato un pandoro, un dolce fatto a Verona, che diventa il dolce più buono del mondo se mangiato a 10 mila chilometri da dove viene prodotto.
È incredibile come le cose perdano o, viceversa, acquistino valore cambiando luogo. Un dolce che in Italia costa meno del pane e si mangia solo per tradizione a Natale, senza apprezzarlo più di tanto, qui diventa una squisitezza. Allo stesso modo, le preziose e tanto desiderate foglie di coca, lì perdono tutto il loro valore e diventano solo foglie, come quelle di tanti alberi che fanno ombra e compagnia a meravigliosi pappagalli colorati.
Padre Victor, oltre a essere un bravo cuoco, è anche un grande attore. Recita senza copione le parti di un’opera che non ha sceneggiatura, ma solo un titolo: «Amore». All’altare veste gli abiti del prete sopra la canottiera del contadino che ingrassa i polli col pane. Le tasche delle braghe sono piene di caramelle per i bambini di Cartagena del Chairá, che bussano sempre al suo portone: «Padre Victoooor!».
Verrebbe da pensare che persone disposte a lasciare la propria terra per vivere al servizio degli altri, fra mille sacrifici e privandosi di tutto quello che i più considerano indispensabile per vivere bene, abbiano un rapporto con la morte più facile e sereno. Credo anche che la fede in Dio aiuti ad avere con la morte un rapporto privilegiato. Nonostante questo, padre Victor si è fatto costruire un bunker in cemento armato all’interno della missione, vicino al pollaio, sotto un grande albero di mango, per difendersi in caso di attacco della guerriglia.
Non è passato molto tempo, infatti, da quando i guerriglieri delle Farc, avevano sferrato un attacco alla caserma, a poche decine di metri dalla chiesa, uccidendo tutti i militari che vi stazionavano dentro. La sua non è paura della morte, è difesa ostinata della vita; non c’è tempo ora per morire, con tutto quello che c’è da fare!
La mia insonnia di quella sera, invece, era proprio paura. La stanzetta che mi era stata riservata stava proprio di fronte alla caserma, che i militari avevano da poco ricostruito, e dalle fessure degli stipiti di legno della finestra potevo guardare fuori. La luce dei lampioni rendevano ancora più tetro quello che potevo scorgere e i racconti ascoltati durante la giornata sulle modalità dell’attacco della guerriglia, rendevano l’atmosfera surreale per uno come me, abituato a vedere la guerra in Tv. Un soldato di guardia, mitra a penzoloni sul fianco, camminava lento, avanti e indietro, davanti a quella costruzione grigia in cemento armato, senza porte e finestre, solo piccole feritornie alle pareti.
Per la strada, nessun altro.
Entro nella mia piccola stanza. Qualcuno, passando, aveva lanciato all’interno, prima che io entrassi per andare a dormire, due lattine di birra vuote e io, subito, avevo tradotto in minaccia quel gesto. La paura mi impediva di dormire; la mente produceva solo il peggio che mi sarebbe successo: in quella occasione ho imparato a cosa può servire una bottiglia di aguardiente… E il sonno fu profondo; la mattina arrivò presto.

IL FIUME

La luce sull’acqua del fiume, al mattino presto, subito dopo l’alba, sprigiona energia dentro chi sa vedere il bello; energia inebriante, che ti coinvolge ed entusiasma. La brezza del mattino appoggiata sul fiume si rivelò presto fredda e fastidiosa anche a pochi chilometri dall’equatore; ma l’ebbrezza di quella navigazione a zig-zag lungo il corso del fiume riscaldava a sufficienza per ignorare il freddo.
Risalimmo la strada d’acqua per circa 5 ore: ancora non ho capito se l’arrivo a San Vicente sia stato una liberazione o la fine di una grande gioia. Ora so bene cosa significhi «essere sulla stessa barca». L’ho imparato in mezzo al fiume sperduto in Amazzonia, insabbiato per la poca profondità dell’acqua.
Non so come facesse il pilota dello scafo a individuare, in quelle acque limacciose, il punto profondo dove poter sfrecciare veloce, senza arenarsi. Il fiume, normalmente pieno d’acqua, era in quel periodo più asciutto per le scarse piogge. Sicuramente, vedeva un percorso a noi sconosciuto, che lui aveva già fatto migliaia di volte e che suo figlio stava imparando. Un attimo di stanchezza o disattenzione e la barca, improvvisamente, per via del basso fondale in quel punto, si arenò e il motore si spense. Il silenzio di tutti fu subito la nuova musica e gli sguardi di ognuno verso gli altri un punto di domanda: «Che fare?».
Alcuni dei nuovi passeggeri, imbarcati lungo le sponde del Caguán, misero le braccia in acqua lungo il fianco della barca e sollevarono le mani piene di sabbia. Il motorista si rimboccò i calzoni e scese in acqua per tentare, spingendo, di uscire dal fango. Al motorista si aggiunse un altro passeggero e il pilota; sempre in silenzio, cominciò a far dondolare lo scafo con il peso del corpo per aiutare la corrente del fiume a togliere la barca da quel pantano. Niente da fare.
Pensai subito che, oltre a spingere, bisognava togliere peso all’imbarcazione per farla galleggiare meglio. Non trovai altra soluzione che togliermi le braghe, scendere nel fiume e spingere anch’io. La cosa si rivelò subito divertente anche per gli altri passeggeri che, vedendo un forestiero in mutande spingere la loro barca per toglierla dall’insabbiatura, manifestarono sorridendo la loro gratitudine.
Ho visto l’acqua e la luce; poi sono arrivato a San Vicente del Caguán.

GRAZIE COLOMBIA
Capita a tutti di incontrare persone che non vedremo mai più. Magari ci parliamo anche, per una volta soltanto, e le perdiamo per sempre senza addii. Quel giorno ho perso i miei compagni di viaggio nel più piccolo porto che si possa immaginare, sulle sponde del Caguán, a San Vicente, in Colombia.
Fare paragoni con le nostre realtà, quando si frequentano nuovi mondi, è la cosa più sbagliata. Bisogna osservare senza riferimenti per scoprire bellezze inaudite dove, altrimenti, non le troveremo mai. Ho fatto così e ho visto colori più forti e tutto mi è piaciuto quanto basta per avere la voglia di tornare.
Verso sera, padre Luis ha celebrato la messa e, dato che quando sono arrivato io era quasi finita, l’ho aspettato fuori, seduto sui gradini della piccola chiesa celeste, godendomi quella distanza che mai avevo raggiunto dalla mia casa, oltre l’oceano, lungo il fiume.
Una giovane donna, finita la messa, avvicinò il prete e gli chiese se la poteva confessare, che il giorno dopo si sarebbe sposata. Io la guardai e mi chiesi che peccati potesse aver commesso. Non riuscii a immaginae alcuno e mi dissi che l’unico peccato era quello di essere nata in un meraviglioso paese dove tutto è esagerato.

Francesco Rezzadore




Viaggio tra gli esclusi dal boom economico

Aiutare È glorioso!

Deng Xiao Ping è il padre della celebre frase: «arricchirsi è glorioso!»,
da molti interpretata come il via libera al capitalismo cinese attuale.
A Derge, nel Sichuan, qualcuno crede che la vera gloria consiste nell’aiutare
i più sfortunati.

Bisogna salire sugli altipiani del Sichuan, quasi al confine con il Tibet, per conoscere la Cina che non cresce del 9,5% all’anno, non utilizza elettrodomestici e non chatta su internet. Salire fin quassù è utile anche per capire il «sistema socialista con caratteristiche cinesi», come amano ripetere i vertici del Partito comunista cinese.

UNA REGIONE «NORMALE»
La città di Derge si trova nella regione del Kham, la parte centrale della provincia tibetana, ed è abitata dalla fiera popolazione dei khampa, che tanti problemi in passato ha dato sia all’etnia han, i cinesi, sia al governo centrale di Pechino, smanioso di avere la zona del Tibet tranquilla e senza rivolte.
I khampa sono uomini fieri dallo sguardo torvo, vestiti con giacche di simil pelle (anche qui la plastica globalizzante imperversa), dalle lunghissime maniche che vengono utilizzate come scialle da avvolgere intorno al busto. Girano armati con un lungo coltello ben in vista; il loro sorriso è caratterizzato dallo scintillio di due denti d’oro, di solito i canini.
Nei primi anni di occupazione del Tibet (i cinesi parlano di liberazione), i khampa diedero vita a dure rivolte armate che però vennero facilmente stroncate dall’esercito cinese, accorso a riportare la calma. Sono quindi diversi anni che le ribellioni hanno cessato di prorompere, con evidenti vantaggi un po’ per tutti.
L’esplosione di benessere, almeno per il 10% della popolazione cinese, ha alimentato un volano economico che ha raggiunto anche questa zona. Al posto dei carri armati dell’esercito popolare ora arrivano i turisti, sia occidentali che cinesi. Quello che viene descritto sulle guide turistiche vecchie al massimo di un paio d’anni come un piccolo villaggio è in realtà una città che nel giro di pochi mesi ha visto la crescita di palazzi, centri sportivi, luoghi d’interesse storico inventati, strade, centrali elettriche… Tutto grazie all’arrivo di visitatori da tutto il mondo.
In quest’ottica, il Tibet e la regione confinante del Sichuan stanno trovando una fortissima valorizzazione economica da parte delle autorità cinesi, che da buoni affaristi, hanno capito che lo sfruttamento commerciale di queste zone rappresenta una miniera d’oro inesplorata.
La cultura tradizionale tibetana risulta in questo contesto spacciata. Ad esempio, l’architettura tipica in legno è ormai completamente travolta dalle imperversanti mattonelle bianche dei palazzoni cinesi di nuova costruzione, e anche la lingua locale versa in condizioni critiche: sono ormai pochi i bambini capaci di utilizzare il tibetano, essendo il cinese ormai imperante. Le caratteristiche culturali tibetane resistono se portatrici di soldi.
In questo caso il governo centrale tende addirittura a enfatizzare tali risorse, rendendole a volte grottesche, perché palesemente pensate in ottica turistica. Non sono pochi i monasteri che hanno perso il loro clima di mistero per essere trasformati in pure attrazioni turistiche.
Mentre la cultura tradizionale sta scomparendo, in compenso sono in arrivo moltissimi soldi, e con essi un numero sempre maggiore di coloni dell’etnia han, i cinesi. Ma è difficile capire fino a che punto i khampa traggano vantaggi materiali da questo grande fermento economico-turistico. Moltissimi non abbandonano la vita nomade; altri si accontentano di aprire un negozietto di souvenir made in China. La passione per gli affari non appartiene ai khampa e questo spiega anche la ragione del massiccio afflusso di cinesi dalle pianure.

SOPRAVVIVA… CHI PUO’
Lo sviluppo economico promosso dal governo in questa regione non si traduce in miglioramento dello stato sociale. Gli altipiani del Sichuan rispecchiano quanto accade nel resto del paese. Mentre le riforme economiche ultraliberiste hanno portato al 9,5% annuo la crescita economica della Cina, lo stato sociale è praticamente assente.
È convinzione comune tra gli stessi cinesi che 1 miliardo e 300 milioni di abitanti siano troppi da accudire con un welfare state efficiente. Da qui la scelta per una drastica selezione naturale: chi può sopravvive, gli altri affondano.
Tale prospettiva è vista con sdegno dalle autorità cinesi che amano ricordare la teoria marxista dell’accumulo: «Un’economia di mercato necessita di un periodo di forti disuguaglianze sociali, nel quale si accumula il capitale da investire negli anni successivi per la crescita economica; cosa che tutti i paesi capitalisti occidentali hanno fatto, anche il tuo» mi dice un combattivo signore di Shanghai.
È veramente difficile sfiorare i dolenti tasti economico-sociali con i cinesi che hanno raggiunto un minimo di benessere e che campano, forse, sulle disparità insite nella società.

NON SOLO TURISTI
La strada verso Derge sale tra mille tornanti. Il bus, stracarico di persone e bagagli, sembra debba rompersi da un momento all’altro. Il motore urla, si ferma, riparte. In discesa l’autista si lancia in folli sorpassi, che lo costringono poi ad attaccarsi ai freni per non finire nei burroni che costeggiano la pista. L’odore di acciaio in fusione che proviene dai tamburi del bus mi fa tornare in mente vecchie lezioni di fisica sulla deformabilità dei corpi soggetti a calore…
Meglio non pensarci e guardare fuori dal finestrino il panorama, segnato anche dai resti di alcuni camion usciti di strada, che hanno seguito le leggi fisiche della dinamica… A 4 mila metri, in mezzo ad altipiani mozzafiato, uomini e donne mietono il grano a mano. La loro piccolezza e magrezza contrastano con l’immensità dei campi: un mare dorato, dove quei piccoli esseri umani sembrano naufraghi alla deriva.
In questa zona opera la Ong italiana «Asia onlus», impegnata in progetti di sviluppo e cooperazione in campo sanitario e scolastico.
Il compito delle Ong occidentali in Cina è particolarmente difficile. Viste con sospetto dal governo comunista, devono innanzitutto dimostrare di lavorare senza alcun fine politico e nell’esclusivo interesse della popolazione locale. È facile ipotizzare che in questa zona «calda» della Cina tali condizioni siano richieste più che altrove.
Asia onlus opera da molti anni in collaborazione sia con le autorità comuniste, sia con la popolazione locale che beneficia dei suoi progetti. «La politica non ci interessa; ciò che importa è aiutare, per quanto possiamo, la gente bisognosa, soprattutto i più piccoli» spiega Wolfgang, un volontario tedesco che, insieme alla fidanzata Gina, utilizza le ferie per controllare i progetti in svolgimento nella zona del Sichuan.
Derge, descritto sulla Lonely planet come «villaggio tradizionale», è una vera città con palazzoni e traffico congestionato.
In posizione dominante sorge un grande monastero buddista, sede anche della più antica stamperia tibetana. È un patrimonio culturale preziosissimo quello che viene custodito nelle silenziose stanze del monastero: migliaia di matrici incise a mano su assi di legno, alcune risalenti al 1500.
I turisti non mancano: occidentali con zaino in spalla e comitive di cinesi; questi ultimi sono la punta di diamante del benessere nazionale, simili in tutto al classico turista europeo o statunitense, che ovunque vada cerca i comforts lasciati a casa sua.

IL VESTITO NON FA IL MONACO
Wolfgang e Gina mi accompagnano in visita al monastero. Il silenzio dei vicoli è rotto dal canto urlato e ritmato di decine di bambini, ammassati sotto una tettornia che li ripara dal sole, seduti su panche di fronte a un monaco che fa loro da maestro. Hanno davanti a loro dei quadei rettangolari scritti in caratteri tibetani. Ripetono a memoria la lezione e il maestro-monaco detta il tempo.
Sono piccoli, con i capelli rasati quasi a zero, vestiti con abiti da monaci anche se non lo sono. Molti di essi sono orfani e le condizioni economiche non permettono loro di avere vestiti differenti.
Wolfgang mi spiega che gli alunni sono 101 e il ciclo di studi previsto per loro è di sei anni. Mi mostra un libro in cui sono riportate le schede personali dei bambini. Lo schema si ripete tragico per tutti. Famiglie poverissime e numerose, madre o padre malati o indebitati: condizioni di vita che non permetterebbero ai bimbi nessun tipo di istruzione.
La mia guida mi spiega il dramma di molte famiglie: i debiti contratti sono dovuti a motivi di salute. «Il sistema sanitario cinese è completamente privato. In caso di malattia, appena giunti in ospedale bisogna pagare una tassa che molti non possono permettersi. Per questo i più poveri ricorrono ai prestiti» conclude Wolfgang, che è medico e da molti anni viaggia in queste zone per conto di Asia onlus.
Anche il sistema scolastico è privato. Consapevoli che le forti ingiustizie sociali alimentano rivolte in tutto il paese, le autorità cinesi stanno tentando di porre rimedio. Da poco è entrata in vigore la nuova legge riguardante il sistema scolastico, universale, ma ci vorrà molto tempo prima che diventi operativa. Sono necessarie molte risorse economiche per migliorare una drammatica situazione precaria.
Il progetto scolastico di Asia onlus nel monastero di Derge è portato avanti grazie alle adozioni a distanza. Con 300 euro annuali per bambino, l’organizzazione italiana provvede, in collaborazione con i monaci del tempio, la formazione scolastica tradizionale di base, due pasti giornalieri e un tetto dove ripararsi.
Ma la situazione non è rosea. In un incontro tra Wolfgang e il lama del monastero, quest’ultimo ha esposto la situazione con dura sincerità: i finanziamenti scarseggiano e la scuola rischia di chiudere, con conseguenze prevedibili per i bambini. Il medico tedesco assicura il monaco che la sua associazione è solida e che, nel 2006, il progetto potrà essere ampliato ulteriormente.

COPIANDO L’OCCIDENTE
Un aspetto interessante del lavoro di Asia onlus in Cina è l’affidamento dei progetti a personale locale capace e responsabile. Ne è un esempio Sonam, una bella ragazza tibetana, 30 anni, inglese fluente, che cornordina i progetti nella zona del Kham.
La sua è una storia di organizzazione dal basso e di altruismo. Consapevole di avere raggiunto la tranquillità economica e di possedere un forte strumento di emancipazione, la conoscenza della lingua inglese, un bel giorno ha deciso di inventarsi una scuola gratuita.
Ha affittato una stanzetta in un palazzone di nuova costruzione, ha comprato libri, quadei, sedie e banchi. I bambini sono accorsi numerosi e la scuola gratuita d’inglese è un successo. Fin troppo forse, perché Sonam insegna tutti i giorni due ore. Chi può paga una retta minima, gli altri, la maggioranza, non spendono nulla. I genitori dei piccoli sono molto riconoscenti a Sonam e quando la incontrano per strada sembra non la vogliano più lasciare andare via.
La conoscenza dell’inglese in Cina può rivelarsi uno strumento fondamentale per uscire dalla miseria. Economia informale, altruismo, cooperazione tra le autorità comuniste cinesi, comunità locali e Ong inteazionali appaiono come un’alternativa auspicabile all’attuale turbo-capitalismo cinese.
Se è vero che il nuovo «sistema socialista con caratteristiche cinesi» ha strappato dalla fame 200 milioni di cinesi in 20 anni, è parimenti credibile che stia scaraventando un numero imprecisato di esseri umani in condizioni di vita disastrose.
Passeggiare per le strade di Shanghai, per esempio, può dare un’idea dell’immensa forbice sociale che si sta aprendo nel paese: disperati che dormono nudi per strada, affamati che strisciano per avere una moneta in elemosina. E tutto in un clima di opulenza sfacciata, di luccicanti Ferrari e botti di champagne. Si dice che la Cina copi e ingigantisca tutto quello che proviene dall’Occidente. È un vero peccato che copi anche le cose peggiori.
(fine prima puntata – continua)

Giacomo Mucini




PRETI D’AMERICA Alla scoperta di idee ed esistenze (1)

Venezuela

IN PRIMA LINEA (E SENZA GRADI)

Il Venezuela è oggi il paese latinoamericano
di cui più si parla. Inviso agli Stati Uniti, è guidato
da Hugo Chávez Frias, presidente controverso ma carismatico e vulcanico. I vertici della chiesa cattolica venezuelana non hanno mai guardato a lui con simpatia, fino ad appoggiare il fallito golpe
di stato dell’aprile 2002.
Di questo e di altro abbiamo parlato con Bruno Renaud, sacerdote belga da 40 anni a Caracas.

Caracas. Pulizia, modeità ed efficienza sono caratteristiche del metro della capitale venezuelana e per questo i suoi abitanti ne vanno orgogliosi. Nei sotterranei della metropolitana di Caracas, le differenze sociali sembrano scomparire. Soltanto guardando con attenzione la gente che sale e scende è possibile intuire quello che ci aspetterà in superficie.
Mentre le stazioni si susseguono, sfogliamo il materiale che abbiamo tra le mani. Come la pagina delle opinioni di Ultimas Noticias (1), il più diffuso quotidiano del paese: «La chiesa cattolica è giustamente sensibile a quello che si chiama “cesaropapismo”. Essa dice all’autorità politica: “Fate attenzione a non intromettervi nei nostri ambiti. Attenzione a non pestarci i piedi. Alla chiesa non mancano motivi, anche storici. Tuttavia, i vertici cattolici non sono altrettanto sensibili davanti al pericolo contrario…».
Altamira, Parque del Este, Los Dos Caminos, Los Contijos, La Califoia, Petare: siamo arrivati.
Uscire dalla stazione del metro alle strade di Petare, è come passare dalle sale di un museo d’arte modea ad uno stadio pieno di tifosi: è una bolgia di gente e di buhoneros, i venditori ambulanti che l’opposizione prende a simbolo del disordine in cui, a suo dire, sarebbe caduto il Venezuela di Hugo Chávez Frias.
Petare dista pochi minuti di metro dalla Caracas bianca ed anti-chavista, eppure sembra di piombare in un altro mondo. Perché Petare è un quartiere (parroquia) popolare, dove il bianco (nel senso di persona dalla pelle bianca) è un’eccezione e i supermercati a prezzi ribassati (i mercal) sono certamente più diffusi dei centri commerciali in stile gringo, propri dei quartieri da cui proveniamo.
Che aspetto avrà il nostro uomo? Al telefono non abbiamo perso tempo in descrizioni precise. Ci mettiamo in attesa nel punto convenuto, mentre un uomo accanto a noi chiama a gran voce compratori per i suoi biglietti della lotteria.
Vediamo un uomo, blu-jeans e camicia azzurrina, che sembra cercare qualcuno. Padre Bruno Renaud? «Sì, sono io». Ci siamo trovati finalmente.
Ha capelli corti e chiari, occhi azzurri su un viso affilato. «Seguitemi», ci dice. È una parola. Filiforme, padre Bruno si muove tra bancarelle e venditori con l’agilità di una gazzella. Facciamo fatica a stargli dietro. Dopo qualche minuto, passato il caos del mercato, si ferma di scatto su una stradina secondaria. «Ecco, qui una volta mi hanno assalito. Erano due giovani con la pistola in pugno. “Dacci la moto”, mi hanno intimato. “No, a me questa moto serve”, ho risposto. Alla fine, ho dovuto dargliela e ho ricominciato a muovermi a piedi».
Giungiamo alla sua abitazione: una piccola casa ad un piano nel cuore della Petare coloniale (la fondazione del barrio è fatta risalire al 17 febbraio 1621). Aperta una porta in ferro, si arriva davanti ad una scala estea. «Facciamo piano», ci dice il padre, indicando una persona che sta dormendo nel sottoscala. Saliamo al piano ed entriamo in una stanza che funge da studio: libri, fax, computer, raccoglitori, una scrivania.
È qui che padre Bruno Renaud scrive editoriali come quelli letti nel metro. La sua biografia racconta di un sacerdote di origine belga da 40 anni in Venezuela e per la precisione a Petare. Nel 1972 fu sospeso a divinis e fu reintegrato nella chiesa soltanto 12 anni dopo, nel 1984.
Già a nostro agio, gli chiediamo se veste ancora i panni del sacerdote disobbediente. «No – risponde con un sorriso -, sono totalmente obbediente, anche se non nego di avere idee poco conformi e scarsamente tollerate».
Padre Bruno deve aver trovato un modus vivendi considerato che, oltre a fare il sacerdote di frontiera (perché il barrio di Petare è una frontiera), scrive molto ed insegna teologia.
Teologia che, in America Latina, ha spesso significato «teologia della liberazione», anche se il tema è quasi scomparso dal dibattito ufficiale…
«Negli anni ’80 e ’90 la teologia della liberazione sembrava il drappo rosso da agitare davanti alle coa del toro. Dove il toro era la chiesa che si inferociva. Attualmente quella teologia appare molto spenta. Anche per questo preferisco non utilizzare la parola liberazione, perché sono convinto che ci ha portato sfortuna e che può alimentare conflitti interni alla chiesa.
Quello che è certo è che le comunità cattoliche, sviluppatesi qui a Caracas o nel paese, hanno lo stesso stile, cioè un cristianesimo innanzitutto sociale e non individuale. Quando ho l’occasione di stare in questi circoli dove si commenta la parola di Dio, lascio che siano gli altri a parlare: la gente è abituata al fatto che non sia il sacerdote quello che prende la parola. Si sentono liberi di commentare, perché non è un commento scientifico, ma parte dall’esperienza di tutti i giorni, dalla vita quotidiana.
Dal punto di vista pratico, si cerca la liberazione con l’azione. Per esempio, nei confronti delle donne sole o incinte o che hanno molti bambini. Ecco, direi che al termine “liberazione” noi diamo il significato di “mutua solidarietà”».

LA MESSA ALLA TELEVISIONE (PUBBLICA)
Ogni domenica la televisione pubblica Venezolana de television (nota come Canale 8) trasmette in diretta la messa. Lo stesso presidente Chávez non perde occasione per citare le scritture e per ricordare le radici cattoliche del popolo venezuelano. Insomma, in Venezuela la fede religiosa gioca un ruolo importante. Eppure, la chiesa cattolica di questo paese è stata, fin dall’inizio, contro Hugo Chávez Frias e la cosiddetta rivoluzione bolivariana. A tal punto che, durante l’effimero golpe dell’aprile 2002, il cardinale José Ignacio Velazco, arcivescovo di Caracas (oggi scomparso), fu in prima fila accanto a Pedro Carmona, primo ministro dell’estemporaneo governo golpista.
Pochissimi vescovi venezuelani appoggiano Chávez, mentre diversa è la situazione tra i sacerdoti. Padre Bruno è uno di essi.
«Mi oppongo – spiega senza tanti giri di parole – al fatto che l’episcopato venezuelano, in forma cosciente, molto cosciente, continui ad offrire la sua solidarietà sociale, politica ed economica a quei potenti che il governo di Chávez ha messo sulla difensiva. Mi oppongo inoltre al fatto che la chiesa, che dovrebbe portare la parola di Dio, metta davanti la sua presunta libertà di attore politico o il suo protagonismo sociale per difendere questa gente e criticare un governo legittimo.
Per tutto questo alcuni sacerdoti come me hanno manifestato posizioni diverse alla televisione e sui giornali. E ciò non per una banale voglia di apparire, ma per la convinzione che, di fronte al silenzio di una parte della chiesa, è necessario far sentire un’altra voce e far conoscere un’altra opzione».
In Aló Presidente, la sua trasmissione della domenica, il presidente Chávez si presenta spesso con il crocefisso sulla scrivania. E bacchetta a suo modo i vertici della chiesa venezuelana che, a suo dire, hanno dimenticato «l’opzione preferenziale per i poveri».
Spiega padre Bruno: «Non ci si deve stupire. Da tempo, la gerarchia episcopale confonde il suo sano e legittimo diritto di critica profetica con una difesa ipocrita e meschina dei privilegi sociali tradizionali. Chávez non fa solo discorsi populisti, perché è convinto di quello che dice. Quando il presidente dichiara di essere il vero rappresentante del vangelo, fa una cosa ben comica e strana, appena comprensibile per un europeo, eppure non assurda in una situazione tanto ambigua come quella della chiesa venezuelana».
Il sacerdote di Petare reclama posizioni chiare, in primis verso quelle classi umili a cui appartiene la grande maggioranza dei venezuelani. «Non si può – spiega – non riconoscere che il 70% della popolazione venezuelana, dopo 6 anni, continua ad appoggiare Chávez. È la fascia bassa della popolazione, è la gente umile che ha fatto questa scelta. La chiesa non può dimenticarlo».
«Personalmente – continua padre Bruno -, non ho mai fatto crociate pro-Chávez. Anzi, ci sono alcune cose che non condivido proprio. In primo luogo, non sono a favore dei militari al potere. I militari devono stare nelle caserme. In verità, non so quale sia l’utilità dei militari (ammesso che ne abbiano una), ma sicuramente non è quella di governare. In secondo luogo, uno dei motivi per i quali Chávez è stato votato è la lotta alla corruzione. Ebbene, si deve riconoscere che in questa battaglia il paese non è avanzato per nulla. In questo momento c’è abbondanza di petrodollari, cioè di dollari derivanti dalla rendita petrolifera, ma ci sono anche enormi fughe di denaro che vanno anche nelle tasche di uomini vicini a Chávez.
Nessuno fino ad ora ha potuto accusare il presidente ed anzi io credo che lui ne sia estraneo. Tuttavia, ha collaboratori che sono profondamente implicati nella corruzione e che io spero vengano presto allontanati ed incriminati».

CARACAS NON È BOGOTÀ
Tra Venezuela e Stati Uniti da tempo non corre buon sangue. I rapporti sono peggiorati soprattutto da quando Washington ha sostenuto il golpe di stato dell’aprile 2002 (fallito in 48 ore).
Nulla di nuovo sotto il sole. «Nel 1973 – ricorda padre Bruno -, il presidente cileno Salvador Allende fu scacciato dagli statunitensi e da Kissinger (2). Il mondo lo sa, loro lo ammettono e dicono che non potevano fare altrimenti. Se questo è il ragionamento, senza appoggiare Fidel Castro e il suo regime (per il quale non ho alcuna simpatia), bisogna riconoscere che, se non si metteva sulla difensiva, da varie decadi gli americani lo avrebbero cacciato.
Per gli Stati Uniti il nostro Chávez è più pericoloso di Fidel Castro non solamente perché è ben più giovane, ma perché rappresenta un umanesimo che il leader cubano non ha.
Personalmente ammiro lo sforzo pedagogico di Chávez per tentare di costruire un mondo protagonista, attivo e reattivo al di fuori degli schemi finora conosciuti e di invitare il popolo in un meccanismo partecipativo».
Di fronte ai fallimenti della globalizzazione capitalista, Chávez sta proponendo una nuova ricetta che ha però un vecchio nome che suscita sospetti e paure.
Sorride, il sacerdote, e spiega: «Il presidente parla di “socialismo del secolo XXI”. Nessuno sa cosa significhi e finora non ha alcun rappresentante, però è molto facile squalificarlo in nome del socialismo catastrofico del XX° secolo, che è imploso per la sua violenza e la sua mancanza di libertà».
In patria, tutti i mezzi di comunicazione privati (con le televisioni in prima fila) sono contro Chávez (3). Ed anche all’estero egli non gode del favore dei media…
«Oggi – chiosa padre Bruno -, tutti sanno che le guerre importanti iniziano con la mobilitazione mediatica. Attualmente è impossibile giustificare un conflitto senza l’appoggio dell’opinione pubblica mondiale. Dunque, è comprensibile che le grandi agenzie di stampa non possano che diffondere notizie poco favorevoli a Chávez. Così gli Stati Uniti e i loro alleati hanno iniziato le guerre attuali».
Il Venezuela si oppone all’ulteriore espansione delle politiche neoliberiste propugnate da Washington e punta a creare un fronte comune d’opposizione in America Latina e nel mondo intero. Oltre a ciò, è un grande produttore ed esportatore di petrolio, risorsa sempre più scarsa e costosa. Per tutto ciò il Venezuela e Chávez danno molto fastidio. Da tempo, nel paese si parla apertamente di «magnicidio», l’assassinio del presidente (leggere riquadro).
Padre Bruno ha idee chiare al riguardo: «In queste situazioni gli Stati Uniti non si fermano di fronte a nulla. L’assassinio politico è un’opzione reale come accadde con Gaitán (4) nel 1948. Il politico colombiano sembrava una specie di Chávez, anche se io non l’ho conosciuto e il contesto era diverso. Il suo assassino scatenò la rivolta a Bogotà e segnò l’inizio di un conflitto che dura da 50 anni.
Sono personalmente convinto che gli Usa non permetteranno a questo governo di continuare. Hanno già fatto di tutto per farlo cadere, anche se finora gli è andata male. Ma, nonostante tanti elementi contrari, non credo che rinunceranno».
È una persona che non ha mai smesso di pensare con la propria testa, padre Bruno, anche pagando di persona – come abbiamo ricordato – per la sua chiarezza. Ma chi si crederà d’essere?, pensano i suoi detrattori. Lui si qualifica così: «Continuo ad essere un piccolo pastore da prima linea e senza nessun grado in questo esercito che è la chiesa».

LA BIBBIA DI BUSH
A piedi, facciamo ritorno al metro di Petare. Abbiamo in mano Soy ateo!, l’articolo (5) che padre Bruno ha dedicato al presidente Bush: «Dicono che il signor Bush legga la bibbia tutti i giorni. Dicono che fu eletto e rieletto alla presidenza del suo paese grazie, in gran parte, al voto di numerosi cristiani, che lo considerano come un buon fedele. Io credo che la mia bibbia non è quella del signor Bush. Definitivamente, non stiamo leggendo la stessa bibbia, né pregando lo stesso Dio. Di fronte alle violenze di parte di coloro che si dicono credenti, io faccio come i martiri cristiani del II secolo: mi dichiaro “ateo”!».
Sì, padre Bruno Renaud, sacerdote belga da 40 anni a Caracas, è obbediente. Ma non troppo.

(fine 1.a puntata – continua)


Note:

(1) Su Ultimas Noticias del 21 maggio 2005. Titolo dell’articolo: «Nuncio apostólico».
(2) Henry Kissinger era segretario di stato Usa ai tempi del golpe del generale Pinochet. Era l’11 settembre 1973.
(3) Al riguardo, si legga Fronte dei media (MC, giugno 2003) e Essere giornalisti in Venezuela (MC, settembre 2003).
(4) Jorge Eliécer Gaitán, politico e dirigente liberale, fu assassinato il 9 aprile del 1948.
(5) Su Ultimas Noticias del 12 marzo 2005. Titolo dell’articolo: «Soy ateo!».

Le prossime puntate di «Preti d’America»:

Questa serie, che abbiamo titolato «Preti d’America», vuole raccontare le esistenze e le idee (libere, diverse, condivisibili o non) di sacerdoti che, negli ultimi anni, abbiamo incontrato in vari paesi dell’America Latina.
Pertanto, a questo primo articolo seguiranno, nel corso del 2006, altri incontri-interviste, tra cui quelli con: padre Jesus Silva del Venezuela, padre Antonio Bonanomi, missionario della Consolata nel Cauca (Colombia), padre Giacinto Franzoi, missionario della Consolata in Caquetà (Colombia), padre Clemente Peneleu Navichoc (Guatemala), padre Gonzalo Guitian Galano (Cuba) ed altri ancora.

Pa.Mo.

Paolo Moiola




ITALIA – Viaggio tra le comunità famiglia

COMUNITARIO È BELLO

Un numero crescente di famiglie vivono insieme, felici, con sobrietà e in spirito di solidarietà e condivisione: una risposta al bisogno di «umanità» e una sfida controcorrente all’individualismo, egoismo e mode consumistiche.

Alessandro e Simona, Alberto e Sandra, Antonio e Gabriella, Manfredo e Alessandra sono seduti nella grande cucina di uno degli appartamenti della «comunità-famiglia» Ruah, a La Loggia, nella seconda cintura torinese. Tutt’intorno corrono e giocano i loro figli.
Hanno acquistato una grande cascina e l’hanno ristrutturata con gusto ricavandone alloggi, separati da porte comunicanti, per ogni nucleo familiare.
Sono tutti sui 34-35 anni, cordiali, simpatici, colti: uno è laureato in Fisica, l’altra in Lingue straniere, un’altra in Legge, una fa la grafica pubblicitaria, l’altro l’imprenditore, ecc. E si sforzano di essere coerenti con i principi evangelici e le scelte comunitarie.
Stando insieme a loro si respira creatività e frateità, uno stile di vita semplice e rivoluzionario allo stesso tempo. «Abbiamo acquistato la nostra cascina qualche anno fa – racconta Alessandro – in “proprietà indivisa”, cioè con la condivisione totale della casa, dunque anche dei debiti. Volevamo sentirci uniti nella povertà. Siamo quattro famiglie e una suora laica. Ognuno di noi lavora all’esterno, ma passiamo molta parte del tempo libero insieme: ci aiutiamo nella gestione dei figli, dell’orto e delle abitazioni, e ci ritroviamo alla sera per la preghiera. Tutti insieme partecipiamo alle spese.
Per i bambini, poi, è una ricchezza enorme. Alla base della nostra scelta c’è la fede: ci eravamo conosciuti agli incontri di Taizé e in parrocchia. È stata una “chiamata”: ci accomunava la voglia di aiutarci e di aprire la nostra vita a persone con problemi. Uno dei nostri obiettivi era quello di provare ad avvicinare gente che non sarebbe mai entrata in chiesa».
«Anche sul lavoro cerchiamo di portare concretamente la nostra testimonianza – continua Alberto – e il nostro impegno verso la famiglia e la comunità: la fedeltà al Cristo, alla propria moglie o marito e alle scelte di condivisione e solidarietà, sono aspetti fondamentali della nostra quotidianità. Importante è anche la sensibilizzazione su tematiche religiose, economiche e sociali. Cerchiamo di dimostrare concretamente che un altro modo di vivere è possibile. E rende felici».
Tra di loro hanno deciso di non farsi regali: i soldi vengono destinati a progetti di sviluppo.

«MICRO» CONTRO «MACRO»
Le comunità-famiglia sono in «contro-tendenza» rispetto all’individualismo e rappresentano un segnale di cambiamento radicale negli orientamenti esistenziali di un numero crescente di coppie e di single. È la scelta di un presente e di un futuro più umani e sostenibili, meno consumistici ed egoistici, lontani dai modelli trendy, quanto falsi e deprimenti, veicolati dalla pubblicità, dai salotti tv e dai reality show.
Elementi base dell’economia comunitaria sono la condivisione degli spazi abitativi, della terra da coltivare (dalla quale si ricavano alcuni prodotti naturali da portare in tavola), delle spese; la collaborazione nella cura e nell’educazione dei figli; la frugalità; la solidarietà; il rispetto della natura e, per molti, la preghiera. Una versione modea e non autoritaria della vecchia famiglia patriarcale.
Scrive, infatti, Sara Omacini in Le comunità di famiglie1: «Nel passaggio dalla famiglia tradizionale a quella modea e a quella postindustriale, la privatizzazione è stata caratterizzata dalla ricerca di un ambito di vita relativamente “chiuso” al mondo esterno, in cui promuovere o preservare un particolare stile di vita, prima di un ceto sociale, poi della singola famiglia… La famiglia patriarcale estesa era in grado di diffondere nel tessuto sociale capacità organizzativa, senso del dovere collettivo, abitudine alla collaborazione e alla solidarietà. Il familismo, invece, impedisce la costruzione di rapporti di fiducia trasparenti e inibisce altre forme di vita associativa… È ovvio che se la famiglia ha mantenuto pochi rapporti con il mondo esterno, nel bisogno non sa a chi rivolgersi e situazioni relativamente difficili s’ingigantiscono, perché la famiglia vive una forte solitudine».
Le «macrofamiglie», dunque, rispondono a esigenze di «unità», di ritorno al «comunitario», di accoglienza. Ma anche di sostegno concreto: i prezzi dei prodotti alimentari che sono saliti alle stelle, il potere d’acquisto degli stipendi ormai sempre più debole, la mobilità e l’instabilità del mercato del lavoro, l’ascesa senza limiti dei costi degli affitti, le bollette di gas, luce e telefono, un tempo considerati «servizi» ora diventati «beni di lusso», e così via, spesso rendono angosciante e precaria la vita dei nuclei familiari, che non hanno più ammortizzatori sociali né sponde a cui aggrapparsi.
«Insieme riusciamo ad abbattere le spese – raccontano, infatti, Michele, Vittoria e Luca della frateità del Cisv, a Reaglie, nel torinese – e possiamo garantire la disponibilità a tempo pieno di uno di noi nelle attività della comunità».
La scelta di vivere insieme offre, dunque, quella tutela che lo stato italiano non garantisce più. Si tratta di una tendenza che va di pari passo con una realtà economica, sociale e culturale sempre più problematica. Un ritorno all’economia di villaggio, di sussistenza, di scambio. Il «micro» contro il «macro» della globalizzazione neoliberista che affama e amplia il divario tra il ricchissimo e il poverissimo e annulla, depauperandoli, i ceti medi.
«Ciò che stanno tentando di fare le comunità di famiglie è analogo a quanto fecero le comunità monastiche nel periodo della fine dell’impero romano. Potevano sembrare realtà marginali; eppure hanno elaborato e diffuso una nuova cultura, che ha inciso profondamente nella formazione dell’Europa. Oggi, quasi in silenzio e senza far notizia, sorgono ovunque movimenti di comunità di famiglie. Crescono a macchia d’olio e, pur con caratteristiche diverse, rispondono al bisogno di “umanità” che tutti avvertono»2.

DOVE E COME
Se ne possono incontrare in Piemonte, Liguria, Lombardia, Toscana e altre regioni: alcune sono organizzate in reti, come quelle affiliate all’Associazione comunità famiglia (Acf), che hanno alle spalle una lunga storia di volontariato e di condivisione. Altre sono esperienze di piccoli gruppi. Parallelamente, alcune hanno una forte caratterizzazione ecologica, come la comunità creata da Giannozzo Pucci a Fiesole, che pubblica la rivista italiana L’Ecologist, dedicata ai temi ambientali, oppure come gli «ecovillaggi» (il «Villaggio verde», «Comunità degli Elfi» di Sambuca Pistorniese, «Upachi», «Anande», ecc.), spirituale e/o religiosa e radicale, cioè, di rifiuto di ogni strumento tecnologico e consumistico. E altre che si contraddistinguono per la pratica della nonviolenza, come le comunità de «L’Arca di Lanza del Vasto».
Complessivamente sono diverse centinaia: il livello culturale delle persone che vi fanno parte è alto, così come la consapevolezza e la sensibilità ai piccoli e grandi problemi che affliggono l’umanità vicina e lontana. L’età degli adulti oscilla tra i 30 e gli over 50.
Le residenze sono, in genere, vecchie cascine ristrutturate, abbazie sconsacrate, ville d’epoca e castelli concessi in comodato gratuito, condomini ribattezzati «solidali». Quasi sempre in mezzo al verde e all’aria pulita.
La loro scelta di convivenza non significa assenza di privacy: nella maggior parte dei casi, infatti, ogni nucleo familiare ha un proprio spazio privato e i momenti comunitari vengono rappresentati dai pasti, momenti di preghiera, incontri, spesa, lavoro agricolo e volontariato.
Non si tratta di un revival delle «comuni» degli anni ’60 e ’70, anche se, ad esempio, le «frateità» del Cisv, un’organizzazione di volontariato di Torino, la comunità «Mambre» di Cuneo, quella di Villapizzone di Milano, il «Forteto» di Dicomano nel Mugello, sono nate proprio in quel periodo.

COLLANTE SPIRITUALE
La componente spirituale è sentita come un collante in molte esperienze comunitarie, perché ritenuta essenziale per il superamento di difficoltà e momenti di crisi: «Numerosi esperimenti di vita comune degli anni ’70 sono falliti – sottolineano le famiglie della comunità di Mambre, a Cuneo -, lasciando un senso di frustrazione e incompiutezza. Se alla base di determinate scelte c’è invece una forte fede e ideali ben radicati, anche gli ostacoli sono più facilmente superabili».
«La nostra realtà – spiegano Anna e Piero, della comunità “Nibai” di Ceusco sul Naviglio, in provincia di Milano – è nata sulla scia di un’altra esperienza: una cornoperativa di frateità con comunità residenziale, che agiva sul territorio. I primi anni sono stati di sperimentazione su principi-base, come il desiderio di creare un ambiente concreto dove maturare un cammino di fede profonda, la solidarietà e l’apertura verso gli altri, l’accoglienza sul territorio. Seguiamo le linee guida della comunità storica di Villapizzone, quella di Bruno Volpi3. Ora siamo un’associazione di comunità-famiglie. I nostri pilastri sono l’accoglienza, la condivisione dei beni e la spiritualità. Ci basiamo su un’economia frugale: stiamo attenti a ciò che compriamo».
Stili di vita e di consumo, dunque, fondati su quell’essenzialità che, nella filosofia delle comunità-famiglia, contribuisce a una trasformazione «dal basso» dei sistemi economici e sociali. Questo è pure il messaggio che, dagli anni ’90, lancia il «Centro nuovo modello di sviluppo» di Vecchiano di Pisa, creato da Francesco Gesualdi, allievo di don Lorenzo Milani. Esso è nato proprio dalle scelte «radicali» di un gruppetto di famiglie che, dal 1985, vivono insieme in un grande cascinale toscano.
«Per quelle strane combinazioni della vita – racconta Gesualdi -, trovammo persone che avevano la nostra stessa visione del mondo. E decidemmo di creare una comunità di accoglienza. Erano gli anni ’70, un momento particolare della storia contemporanea (c’erano i movimenti hippy, le comuni), anche se noi non ci innamorammo del comunitario fine a se stesso, ma della possibilità di mettere a frutto i nostri progetti e i nostri sogni. Volevamo coinvolgere la famiglia come istituzione, spezzando il cliché per cui essa era un intralcio al lavoro di cambiamento sociale. Decidemmo dunque di vivere insieme in una casa sufficientemente grande, perché ogni nucleo familiare potesse avere i propri spazi privati e alcuni luoghi di condivisione comuni a tutti. Insomma, doveva essere un luogo dove potenziare il nostro impegno: la nostra, infatti, era una scelta politica nel senso più ampio del termine…
Il Centro è nato per ricercare e analizzare le cause profonde che generano emarginazione e impoverimento, per definire delle strategie di difesa dei diritti degli ultimi e ricercare nuove formule economiche in grado di garantire a tutti gli esseri umani la soddisfazione dei bisogni ma nel rispetto dell’ambiente.
Studiamo le cause del sottosviluppo e le traduciamo in un linguaggio accessibile a tutti, anche a chi non ha strumenti culturali adeguati»4.

MENSA «ALLARGATA»
La comunità del Forteto5, a Dicomano nel Mugello, è un’altra di quelle che resistono tenacemente dalla fine degli anni ’70. I suoi 33 soci fondatori ne sono ancora pienamente parte da quasi 30 anni, da quando, cioè, giovanotti pieni di sogni e ideali si buttarono in quest’esperienza di condivisione e lavoro. Insieme avevano anche dato vita a una cornoperativa agricola, che ora è tra le più importanti del Mugello e distribuisce prodotti alimentari in tutta la Toscana.
Il nucleo originario, mano a mano, si è allargato, a seguito dei matrimoni, nascite, figli in adozione e affidamento: ora sono 100 persone e la loro mensa è davvero «allargata».
«Siamo rimasti in piedi fino a oggi – spiegano due dei fondatori, Luigi Goffredi e Luciano Barbagli – perché ci siamo trovati bene. Eravamo quasi tutti vecchi amici, cresciuti respirando l’aria di don Milani e di padre Balducci. Forte è stata anche l’impronta di Giorgio La Pira. Il filo conduttore che ci legava era la volontà di costruire relazioni che potessero continuare nel tempo e producessero accoglienza.
I primi 15 anni sono stati duri: i soldi erano pochi, ma il desiderio di lavorare era grande. Avevamo creato un’azienda agricola che ci permetteva di essere autosufficienti e di mantenere le nostre famiglie e i ragazzi che ci venivano affidati dai servizi sociali, e per i quali non volevamo assegni di mantenimento.
Il legame affettivo e ideale ci ha permesso di superare le difficoltà. La componente “fede” era relativa: i nostri pilastri erano l’amicizia, l’uguaglianza, gli ideali milaniani (che appassionano credenti e non credenti), e la nostra determinazione a metterli in pratica.
L’identità familiare di ogni singolo nucleo è sempre stata forte, seguita dal confronto comunitario. I nostri figli sono cresciuti insieme: la socializzazione è un’attività vitale per i ragazzi.
Ora siamo tantissimi: i nostri momenti di convivialità sono a pranzo e a cena. Alla sera ci ritroviamo per discutere, prendere insieme decisioni, proprio come facevamo agli inizi quando ci si riuniva per organizzare il lavoro dei campi o la raccolta dei prodotti. Da allora ci è rimasta questa buona abitudine».

Fondamentale, per tutte le comunità-famiglia, forse, è la convinzione che quello della condivisione sia un percorso necessario per il futuro di un’umanità solidale, interdipendente e corresponsabile.

BOX 1

Comunità Villapizzone, Milano
Fondata a Milano da Enrica e Bruno Volpi negli anni Settanta, è una grande cascina in cui vivono in «condominio solidale» una sessantina di persone e alcuni gesuiti. Tel 02-3925426 – comvillapizzone@tiscalinet.it

Frateità Cisv, Torino.
Sono attive tre comunità: a Reaglie, Sassi, Albiano. I primi nuclei comunitari risalgono agli anni ’60. Tel 011-8981477
– www.cisv.org

Il Forteto, Dicomano nel Mugello, Firenze
È nato nel 1977 da un gruppo di 30 giovani influenzati dagli ideali di don Milani. Ora sono un centinaio di persone, tra adulti e ragazzi. Si occupano dell’accoglienza di minori e hanno un’avviata azienda agricola.
Tel 055-8448376 – www.ilforteto.it

Comunità Mambre, Busca, Cuneo
Nata nel 1977, si occupa di accoglienza, fede, animazione socio-culturale e della Scuola di pace. Tel 0171-943407 – mambre@lillinet.org

Comunità Ruah, La Loggia, Torino
Sono quattro famiglie che vivono in una grande cascina in campagna e condividono momenti di preghiera, semplicità nello stile di vita, accoglienza, solidarietà e serate di discussione. Tel. 011-9627372

Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Vecchiano di Pisa
La comunità di famiglie fondata nel 1985 da Francesco Gesualdi, allievo di don Milani. Tel 050-826354
– www.cnms.it

Esiste inoltre una rete di circa 200 nuclei familiari sparsi tra Lombardia, Piemonte e Toscana in collegamento fra loro, che si riuniscono periodicamente: è l’Acf, l’associazione comunità famiglie. www.acf.org.
Rive è la rete che collega una cinquantina di villaggi ecologici presenti in Italia, tra cui la Comunità degli Elfi, Alcatraz e Damanhur.
www.sostenibile.org/rive

Angela Lano




COLOMBIA – Caracoli: tra i

IL MONDO DI PADRE JUAN

Una scuola «virtuale» per contrastare il disagio giovanile nella periferia violenta della capitale colombiana. Un’azienda agricola gestita dai
«bimbi della guerra». L’esperienza di un missionario della Consolata con il gusto della pace e tanta voglia di creare speranza.

Caracolí è un quartiere nel sud di Bogotá dove molti colombiani, specialmente del ricco nord, non si sono mai avventurati. Per raggiungerlo bisogna salire, con una camionetta o con un bus da pochi pesos, lungo strade non asfaltate che tagliano in due gli agglomerati di mattoni, laminato e legno. Attraverso le porte delle baracche, spesso aperte, si intravedono panni stesi ad asciugare, corpi scalzi e cani stanchi.
Da quasi dieci anni Caracolí è un quartiere «di invasione», cioè un quartiere che raccoglie gente di tutta la Colombia costretta ad abbandonare la terra per necessità un tempo economiche e ora soprattutto politiche. Sono specialmente i desplazados (gli sfollati a causa della guerra) a riempire il sud di Bogotá di poche cose e tante facce, che hanno i colori di tutta la nazione, dal nero della costa – retaggio dell’antica schiavitù – alla pelle dorata dei meticci, fino ai tratti olivastri e fieri degli antichi indios.
La gente è povera a Caracolí. Se tutto va bene si può permettere un pasto giornaliero: un piatto di riso e fagioli o ceci, tanto per cambiare. La sera è sufficiente una tazza di agua panela, acqua zuccherata, e poi a dormire, perché il giorno finisce presto in quelle strade polverose, dove alle 8 della sera è meglio chiudere la porta, dato che alle 10 nessuno, ma proprio nessuno, si avventura per i vicoli.
Ci sono i paramilitari a Caracolí: un esercito indipendente, un tempo finanziato dai ricchi per tutelare le terre dalla guerriglia, là dove lo stato non garantiva tutela sufficiente, e ora diventato un essere dalla vita propria e dalle cento teste. Nessuno sa chi siano, gente che vive nel quartiere, forse il vicino di casa; però tutti sanno che ci sono e non parlano. Hanno paura.
Da gennaio a metà aprile i paramilitari hanno già ucciso 88 persone nel sud di Bogotà, la maggior parte dei quali giovani al di sotto dei 25 anni. La chiamano limpieza social, pulizia sociale, volta a eliminare chi è coinvolto in giri di droga, furto o malavita in genere. La polizia entra di rado in questa parte della città e sempre in pattuglie numerose.
La gente è abituata alla morte. «Che succede là?» chiediamo a un bambino che ci corre incontro con un lecca lecca in bocca. «Un morto. Hanno trovato una mano, poi la testa. Il corpo se lo stanno mangiando i cani».
Sostiamo ai piedi della salita guardando la piccola folla radunata attorno a due uomini con le tute azzurre che raccolgono con pazienza i resti del cadavere. Da una rivendita di pane e conserve poco lontana arriva prepotente la musica un po’ malinconica di un vallenato e una donna dai fianchi marcati accenna un passo di danza.
Meraviglia e indifferenza, vita e maledizione, si può trovare di tutto e tutto nello stesso momento nella calle, che a Caracolí non è una strada come le altre, no: qui è più casa della casa. Raccoglie i bambini che, dopo la scuola primaria, non hanno la possibilità di continuare a studiare; raccoglie le donne che alle 4 del mattino si accodano pazienti in attesa di un autobus che le porti al nord, dove lavorano nelle case dei ricchi per 300.000 pesos al mese, poco meno di cento euro. Raccoglie gli uomini che vanno ai mercati generali, dove sperano di poter guadagnare la giornata e di recuperare qualche verdura di scarto per la zuppa del giorno dopo. Raccoglie gruppetti di idraulici, elettricisti e improvvisati muratori, che si aiutano l’un l’altro per costruire case veloci che sembrano fazzoletti sensibili al vento.
Gli sguardi ti seguono, quando arrivi a Caracolí, per vedere chi sei e dove vai, per provare a immaginare perché gente occidentale, che non possiede i tratti caldi dell’America Latina, si sia decisa ad andare proprio lì.

Sono ormai tre anni che un missionario della Consolata sale, spesso solo, lungo la calle di Caracolí e la gente lo riconosce, perché lui si ferma in tutte le case, una per una, e non ha fretta. Porta un messaggio, un invito per la fagiolata della domenica pomeriggio; porta un conforto o un semplice saluto e la gente sorride a quell’uomo grande, con la faccia italiana, che dopo tanti anni di America Latina non ha perso l’accento piemontese.
Padre Testa ha appena comprato una casa che due muratori stanno sistemando. Sulla porta c’è un cartello che invita ai corsi di alfabetizzazione: per informazioni rivolgersi alla Escuela amigos de la naturaleza o casa de padre Juan, perché lui si chiama Gianfranco, ma la gente qui lo chiama così: Juan.
Per il momento è agibile solo il piano terreno, dove le novizie delle suore della Consolata organizzano corsi di taglio e cucito; presto sarà possibile celebrarvi la messa. Il primo piano diventerà un laboratorio di elettronica e informatica per i ragazzi del quartiere, in collaborazione con il Sena, Centro di formazione nazionale, che metterà a disposizione alcuni insegnanti volontari.
Padre Testa ha comprato dei gerani per la sua casa di Caracolí, perché chi entra possa trovare un po’ di colore e abbia voglia di fermarsi. Sono soprattutto i bambini a invadere la casa: bussano timidamente, mettono la testa oltre la porta e appena incontrano gli occhi di padre Juan, corrono ad abbracciarlo e sanno che lui non si risparmierà: è un uomo che dà. Un sorriso, una carezza, un pezzo di pane.
– Padre Juan, oggi è il mio compleanno, gli dice un bambino.
– E allora andiamo a scegliere un regalo.
In una bottega del quartiere dove si vendono caramelle, biscotti, yogurt e telefonate, il bimbo si alza in punta di piedi: «Voglio quello», un bocadillo (dolce di frutta e zucchero) da 200 pesos che per lui è il secondo grande dono di quel giorno speciale: «Guarda cosa mi ha regalato il mio padrino» dice il bimbo, tirando fuori da una tasca un pacchetto di crackers. Perché la miseria è grande quaggiù, ma la gioia può esserlo altrettanto e con molto poco.

Aiutare un ragazzo di Caracolí a studiare costa 15 euro l’anno. Con gli aiuti che la città di Bra (CN) non fa mancare al suo concittadino, padre Testa sta progettando un centro per i bambini e i giovani del quartiere, che potrebbe essere pronto per la fine del 2006.
Capace di accogliere ben 900 ragazzi, il centro diventerà la sede di una scuola superiore «virtuale», la prima e unica del quartiere, in collaborazione con l’Università pedagogica nazionale di Bogotá, che potrà offrire formazione giornaliera tramite computer. Sono previsti anche corsi di avviamento al lavoro, con laboratori di cucito, elettronica, informatica, cucina, assemblaggio di computer, infermieristica e coltivazioni idroponiche, per educare all’autosostentamento, mantenendo la memoria della terra abbandonata a causa della guerra.
La sanità, l’istruzione e la fame sono i tre grandi nodi sociali lasciati scoperti dalla politica dell’attuale governo, che ha deciso di investire quasi esclusivamente nell’esercito, per raccogliere i consensi di gran parte dei ceti medio-alti, che invocano la sicurezza in una nazione dove la guerriglia e il paramilitarismo da decenni minano la possibilità di muoversi liberamente.
Attualmente, il sistema nazionale copre una parte delle spese sanitarie di chi non ha un lavoro, però i ceti poveri faticano a pagare persino il 10% richiesto dallo stato. Per questo, il centro contempla l’apertura di un ambulatorio di primo soccorso, un dispensario medico e una mensa gestita dai ragazzi.
Sono previsti anche corsi di musica, teatro, arti marziali, ginnastica, pittura, per dare spazio e possibilità di sfogo, divertimento e aggregazione a tutti i giovani del quartiere che decideranno di frequentare il centro, che potrà nascere e mantenersi grazie agli aiuti economici di chi vorrà impegnarsi in un piccolo gesto sociale.
Oltre alla città di Bra, l’ambasciata del Giappone potrebbe finanziare parte del progetto; e già ci si muove attivamente sul territorio colombiano per reperire un gruppo di insegnanti volontari.
L’idea della costruzione di un centro giovanile a Caracolí nasce come continuazione della bella esperienza della Fundación niños de la guerra, hombres de paz, promossa nel 2000 dai missionari della Consolata come «gesto di consolazione» per l’anno santo, con l’idea di assistere i figli degli sfollati dalla guerra.
Nel 2001, padre Testa inizió a lavorare a Carmen de Apicalá (piccolo centro nel dipartimento del Tolima, a un’ottantina di chilometri dalla capitale) con un primo gruppo di bambini, la maggior parte provenienti da Caracolí, in una finca (azienda agricola) immersa nella zona tropicale, dove il clima caliente e la vegetazione dai colori forti e dalle forme enormi, fanno dimenticare in fretta il cielo grigio della capitale.
Le urla dei ragazzi accolgono ogni martedì la camionetta che arriva carica della spesa per la settimana. Il clacson suona e chiede un poco di respiro, ma i bambini non ascoltano: continuano a urlare e invadono i vetri di mani, facce e parole: «Padre Juan, padre Juan!».
Padre Testa passa tutta la giornata con i ragazzi, ascolta i racconti della settimana, li aiuta con i compiti, controlla come vanno le coltivazioni del piccolo campo adiacente alla struttura, dà consigli e distribuisce i piccoli pacchi che i genitori mandano ai figli.
«C’è qualcosa per me?» chiede ogni settimana il piccolo Nanchito, 7 anni, pelle nera e occhi grandi. No, nessuno si ricorda di lui; però padre Juan ha comprato un pacco di biscotti e con la penna blu ha scritto in un angolo della carta rossa: «Nanchito, te lo manda papà». E non è una bugia; non è un inganno: è solo un regalo che dà la sensazione di esistere.
Originariamente la finca apparteneva a un generale dell’aeronautica; oggi i tre diciottenni ospiti della fondazione occupano la casa del generale, mentre quella dei contadini è stata abbattuta per dare spazio a un primo blocco a due piani, adibito ad aule per lo studio. Oltre a una nuova cucina, sono stati costruiti 4 dormitori con letti a castello. Per le educatrici e gli ospiti, ci sono 6 stanze con servizi.
La gestione della finca richiede un grosso impegno economico, perché, oltre alla costruzione, ampliamento e manutenzione della struttura, bisogna pensare ai vestiti, al trasporto giornaliero fino alla scuola, alla divisa, cibo, materiale scolastico e personale professionale: una psicologa, una pedagoga e una cuoca che vivono 24 ore su 24 con i ragazzi.
I 43 ospiti della finca vanno tutti i giorni a scuola e nel pomeriggio, dopo i compiti, coltivano il piccolo campo, raccolgono cacao, banane, pomodori, allevano polli e maialini.
I ragazzi fanno votazioni periodiche per eleggere il presidente, vicepresidente, segretario e i responsabili di quattro aree: studio, lavoro nel campo, spiritualità e convivenza. Ogni settimana c’è un’assemblea per discutere i problemi quotidiani e per scrivere su un foglio a quadretti, sottoscritto in calce dai partecipanti, le richieste di materiale da inoltrare a padre Juan.
Gli adulti hanno diritto a parlare ma non al voto, ed è così, attraverso l’educazione all’autoresponsabilizzazione, che bambini di strada, abituati alla violenza e portatori di ferite profonde e rabbia, si avvicinano a se stessi e agli altri con l’idea di una convivenza possibile.

Quando i ragazzi tornano alla finca, dopo un breve periodo di vacanza nei quartieri di Bogotá, ci vuole almeno un mese per riportare l’equilibrio nel gruppo, perché nei quartieri periferici, dove la prepotenza è l’arma del vincitore, è costante la tentazione della droga e il ricorso alla violenza.
Nel sud della capitale i paramilitari stanno reclutando giovani per i loro «servizi» di ordine sociale: li attirano col miraggio di qualche migliaio di pesos per impiegarli come spie o direttamente nella lotta armata.
Ecco perché è forte il bisogno di dare al più presto ai bambini e ai giovani uno spazio alternativo, dove sia possibile imparare a fidarsi di se stessi e degli altri, nella prospettiva di un impegno comune e una solidarietà che conservi la memoria del passato e apra al presente.
Sono i bambini a dare ragione a padre Testa: sono i loro sorrisi, la vitalità che hanno dentro, l’immediatezza nel togliersi i vestiti per buttarsi nel fiume e la voglia di credere che quello spazio, un po’ sospeso tra il tropico e l’inferno, sia davvero un piccolo paese dove tutto può accadere. Ci si può arrabbiare e ci si può picchiare, si può chiedere scusa e si può ricominciare. Si deve ricominciare.
Lo si capisce vedendo la felicità sulla faccia di Nanchito, che ha il colore rosso di un pacco di biscotti e un nome scritto a penna. Lo si capisce vedendo la felicità sulla faccia di Nanchito e provandone stupore.
Stupore e meraviglia per un piccolo, fondamentale passo nella costruzione di un uomo che un giorno potrà raccontare che la vita, a lui, in fondo ha dato la possibilità di scegliere come diventare. Pur venendo da Caracolí, o soprattutto per quello.

Paola Cereda




UCRAINA – Il travaglio dell’«ex granaio d’Europa»

I CETRIOLI DI NATASCIA

Genova e Venezia, repubbliche marinare, hanno qui alcune vestigia,
come l’esercito del Piemonte che, nel 1855, vince la battaglia sul fiume Ceaia.
Piccoli dettagli di un affresco vasto, complesso, affascinante…
«Ucraina» deriva da kraj, frontiera, forse a indicare le steppe sconfinate.
Dal 9° al 12° secolo il paese si identifica con la «Rus di Kiev».
Il popolo ucraino si consolida nel 15° secolo.
La sua sorte è legata a quella dei polacchi e, soprattutto, dei russi.
Il 1° dicembre 1991 l’Ucraina riconquista l’indipendenza, perduta nel 1654 quando diventa parte dell’impero zarista e, nel 1922, allorché abbraccia quello sovietico. Oggi gli ucraini camminano con le loro gambe. Che fatica, però!

«Comprate, comprate, signori miei! Il prezzo è piccolo, ma l’affare è grande!». È il ritornello, strillato a iosa, che ci accompagna mentre esploriamo le bancarelle di un rumoroso mercatino delle pulci. Udiamo altre parole davvero curiose, quali: Juve, Inter, Milan. Improvvisamente, da un pittore di quadri naif, scatta la domanda: «Perché voi, italiani, coprite d’oro il calciatore Andrei Shevchenko, ma lasciate che le nostre ragazze finiscano come prostitute sulle strade delle vostre città?».
Il quesito, furioso come una schioppettata, ci investe a Kiev, capitale dell’Ucraina.

DOPO CHERNOBYL
Ucraina: quasi 50 milioni di abitanti, su una superficie due volte l’Italia. Dopo la separazione-indipendenza dall’Unione Sovietica nel 1991, la nazione sta camminando con le proprie gambe. Ma che fatica!
Le risorse economiche non mancano. Nel campo minerario il paese possiede carbone, ferro, petrolio, gas naturale. Molti impianti, però, sono obsoleti, a scapito della sicurezza. Il 19 luglio 2004, in una miniera di carbone di Donetsk, 25 operai morirono per un’esplosione di gas.
Non manca l’uranio. Ma all’erta con l’uranio! Il settore energetico si avvale (si dice) di 6 centrali nucleari «rinnovate», perché quelle vecchie sono pericolose. Gli ucraini (e non solo loro) lo sanno. Anzi, non scorderanno facilmente il 26 aprile 1986, allorché esplose un reattore della centrale nucleare di Cheobyl, a 120 chilometri da Kiev.
Complice la disinformazione voluta, all’inizio sembrò un incidente persino banale. Ma subito «bagliori mai visti» seminarono morte a ritmi incalzanti. Alla fine le vittime delle micidiali radiazioni saranno 160 mila e 3 milioni i contaminati, che sopravvivono in qualche modo. Senza contare i bambini nati deformi.
Oggi quella «zona maledetta» conta 300 individui: dopo l’evacuazione del 1986, sono ritornati a casa loro, nonostante che il territorio soffra ancora le conseguenze dell’inquinamento radioattivo. La «peste» durerà almeno 100 anni!
Invece più sicuri sarebbero i prodotti agricoli, a prescindere dagli organismi geneticamente modificati. Però, in Ucraina, soprattutto l’agricoltura è in crisi. Si importa persino frumento. Che ne è del paese «granaio d’Europa»? E dove sono finiti i potenti trattori che, sino a pochi anni fa, aravano vastissime steppe? «Sono scomparsi misteriosamente» risponde un piccolo agricoltore, con un linguaggio che ricorda quello in voga nell’Unione Sovietica.
In ogni caso la terra è proprietà dello stato. I contadini attendono con ansia dal governo ucraino la riforma agraria, per ottenere qualche ettaro in più e produrre una maggiore quantità di pannocchie o barbabietole. «Terreno comunque da acquistare» dichiara un modestissimo bracciante.
Ma con quali denari, se il salvadanaio dei risparmi si svuota continuamente?
Così l’80% degli ucraini vive sotto la soglia della povertà e 5 milioni sfidano la fortuna emigrando anche in Italia. Fra le donne, ecco le ricercate badanti per gli anziani. Però altre ucraine, adescate da raggiri mafiosi, devono adattarsi a battere i marciapiedi di Torino, insieme a qualche nigeriana.

MEGLIO IERI O OGGI?
Soggioando (anche poche settimane) nell’ex Unione Sovietica, gli interrogativi che pungolano continuamente la mente del visitatore sono sempre gli stessi. E cioè: è preferibile il regime marxista o quello capitalista, lo stile di vita di ieri o quello di oggi? Sono stati socialmente più validi «i piani quinquennali» di Nikita Kruscev o il libero mercato di Vladimir Putin? In Russia gli anziani non nutrono dubbi al riguardo: la grande maggioranza rimpiange il comunismo, in città come in campagna.
In Ucraina la musica non cambia. Dalla metropoli di Kiev al porto di Odessa i settantenni stentano, oggigiorno, a sbarcare il lunario. Le loro pensioni, per esempio, sono da «terzo mondo»: appena 24 euro mensili, al cospetto di generi alimentari, capi di abbigliamento e farmaci costosissimi.
Fino al fatidico 1989 (l’anno della caduta del muro di Berlino) l’istruzione era gratuita e garantita a tutti. Gratuita era pure l’assistenza sanitaria, anche se nelle repubbliche dell’Unione Sovietica (già prima della «glasnost-trasparenza» e della «perestrojka-ristrutturazione» di Michail Gorbacev) qualcuno mormorava con sarcasmo: «Se la salute non ti interessa, va’ a curarti in un ospedale pubblico!».
Tuttavia l’Unione offriva a tanti la possibilità di spostarsi per le ferie da un capo all’altro dell’Urss: dall’inospitale e gelida Siberia alla dolce e florida Crimea sul Mare Nero.
Però i giovani non rimpiangono il passato. «Io ho due figlie, di 20 e 30 anni – dichiara Natascia -. La ventenne non sa nulla del regime comunista, mentre la trentenne ricorda poco. Però preferisce il sistema attuale, perché offre maggiore libertà. Ma occorre fronteggiare la minaccia del terrorismo…».
Natascia, colta guida turistica di Kiev sulla cinquantina, afferma: «Oltre al russo e all’ucraino, parlo italiano, francese e inglese. Anni fa sono stata a Roma, Parigi e Londra. Ai tempi dell’impero sovietico non mi era consentito uscire dall’Urss. Confrontando lo standard di vita dell’Europa occidentale con il nostro, sono giunta alla seguente conclusione: le persone come me, che godevano di una buona cultura e di una discreta posizione statale, erano abbastanza fortunate rispetto a tante altre. Però ero chiusa in gabbia, e non me ne rendevo conto».
Conversiamo con Natascia in un piccolo ristorante, attorno a un piatto di cetrioli. Già, cetrioli! Sempre cetrioli: a colazione, pranzo e cena. Anche la guida li osserva con un pizzico di commiserazione, girandoli e rigirandoli con la forchetta. E soggiunge: «Se l’Ucraina vuole attirare i turisti europei e americani, deve rivedere la propria cucina, soprattutto se a tavola siedono italiani».

TURISTI BENVENUTI
In Ucraina il patrimonio storico, culturale e paesaggistico è favoloso. Per esempio: la penisola di Crimea, al di là delle attrazioni climatiche, offre uno spaccato di storia tormentata. Terra antichissima, abitata già nel paleolitico dal popolo iranico degli sciti e successivamente, nell’arco di secoli, dai tauri, dai tartari, ecc. Nel 13° secolo vi approdarono anche colonie di genovesi in lotta contro i veneziani.
In Crimea i turisti italiani osserveranno con interesse il fiume Ceaia, sulle cui sponde nel 1855 l’esercito del Piemonte, alleato dei francesi e degli inglesi, vinse una sanguinosa battaglia contro i russi.
Nel 1941-43 la penisola fu preda delle truppe tedesche naziste, che sterminarono gli ebrei locali. Al ritorno dei russi-sovietici, i tartari furono deportati in Siberia: 200 mila perirono di stenti.
In Crimea non si può mancare Jalta, splendida località marina e ambita sede vacanziera di tanti «vip» comunisti dell’Unione Sovietica. Inoltre a Jalta, il 4-11 febbraio 1945, Iosif Stalin, Winston Churchill e Franklin D. Roosevelt si spartirono una cospicua fetta del potere mondiale, dichiarandosi «guerra fredda».
Dal 1992 la Crimea è parte dell’Ucraina, ma con una larga autonomia.
Notevole è pure il richiamo turistico esercitato da Leopoli, città di 900 mila abitanti: un po’ austro-ungarica (fece parte dell’impero asburgico dal 1772 al 1917), un po’ polacca (la Polonia l’ha rivendicata per molto tempo), un po’ russa (si contano circa 140 mila russi), ma soprattutto ucraina. Da Leopoli (meglio L’viv), sotto il profilo culturale, si guarda più all’Europa occidentale che alla Russia.
A 40 chilometri dalla città, su una fonte ritenuta miracolosa sorge il monastero studita di Univ. È uno dei massimi centri della religione greco-cattolica, che risale al 1300, importante anche per capire la storia della nazione…
Ma il cuore dell’Ucraina è, certamente, Kiev: e non solo perché è la capitale. La metropoli è addirittura considerata «la madre delle città russe». Secondo le cronache antiche, il popolo di Kiev, con il principe Vladimir in testa, scese nelle acque del fiume Dneper, dove l’intera comunità sarebbe stata battezzata con il nome di Rus. Correva l’anno del Signore 988, che segna l’inizio del cristianesimo in Ucraina e nelle regioni limitrofe, Russia compresa.
Nel 13° secolo l’invasione delle orde tartare segnò per sempre il destino di Kiev, distruggendo inestimabili opere artistiche. Più a nord sorsero nuovi principati e centri politici: San Pietroburgo, Mosca…
Nel 2001 anche Giovanni Paolo ii visitò Kiev e dintorni, soffermandosi in preghiera presso due «colossei modei» o luoghi di martirio. Il primo è Babij Jar, alla periferia della città. Qui, nel 1941-43, i nazisti consumarono terribili massacri: scomparvero circa 100 mila persone, in gran parte ebrei, ma anche zingari, oppositori e prigionieri di guerra sovietici. Dal 1976 un monumento di bronzo ricorda quegli eccidi.
Il secondo «colosseo» si chiama Bykivnja, a 30 chilometri da Kiev. In una zona boschiva, nel 1937-41 Stalin seppellì in fosse comuni circa 50 mila presunti oppositori del regime (di cui 15 mila identificati), vittime delle «purghe» del dittatore. Oggi su una pietra si legge: «La cosa più cara è stata la libertà. Noi l’abbiamo pagata con la vita».

E LA SITUAZIONE RELIGIOSA?
Natascia, l’esperta guida di Kiev che si trastulla con slavati cetrioli, accenna anche alla complessa situazione religiosa dell’Ucraina. Alla domanda «lei è credente?», risponde: «Vorrei esserlo, come lo sono stati i nonni e un po’ i genitori. Invece sono agnostica. Ma, se fossi credente, non vorrei essere né ortodossa, né cattolica, né protestante, ma semplicemente cristiana».
I cattolici e gli ortodossi d’Ucraina ebbero «un sussulto» nel 2001, con la visita di Giovanni Paolo ii del 23-27 giugno. «Desidero rassicurare gli ortodossi che non sono venuto qui con intenti di proselitismo. Prostrati davanti al comune Signore, riconosciamo le nostre colpe. Assicuriamo il perdono per i torti subiti…». Sono alcune battute, con le quali il papa invitava tutti i cristiani a superare i nefasti pregiudizi del passato.
Gli ortodossi rappresentano il 55% della popolazione e i cattolici l’11%. Vi sono anche piccole minoranze di protestanti, ebrei e musulmani, mentre il 30% si dichiara ateo.
Le contese non dividono solo gli ortodossi dai cattolici, ma anche gli stessi cattolici, distinti in rito greco-cattolico (9%) e rito latino-cattolico (2%). Gli ortodossi hanno disprezzato e disprezzano i greco-cattolici, chiamandoli «uniati» (uniti al pontefice romano).
Nel 2001 papa Wojtila invitò tutti a riconoscere «l’ecumenismo dei testimoni dell’unica fede cristiana», anche se vissuta in denominazioni differenti. Inoltre sottolineò «l’ecumenismo dei martiri»: martiri ortodossi, cattolici e protestanti. Nel ’900 la sola Ucraina vide soccombere, sotto i colpi della guerra, del nazismo e del comunismo, ben 17 milioni di persone, appartenenti a diversi credo.
Le persecuzioni subite dai cattolici sono rievocate, in parte, da Iryna Kolomyec, dell’università cattolica di Leopoli, figlia del prete greco-cattolico Stephan Kolomyec (ndr: i sacerdoti greco-cattolici possono sposarsi).
Padre Stephan fu vittima del comunismo. A partire dal 1935, divenuto parroco in un villaggio, esercitò il ministero (con fatica) sino alla fine della 2a guerra mondiale, allorché venne brutalmente arrestato dalla polizia Kgb e condannato a 10 anni di lavori forzati. Morto Stalin, nel 1954 Stephan ritoò a casa. La moglie Maria non lo riconobbe più, tanto era sfigurato per gli stenti patiti. Riprese a esercitare il ministero pastorale. Ma la Kgb lo ricercava. Il sacerdote, saputolo, fuggì nell’Ucraina orientale, dove lavorò come contadino in un kolkoz. Ma nella pasqua del 1969 la polizia lo scovò e ricacciò ai lavori forzati e, poi, agli arresti domiciliari. Padre Stephan morì nel 1974 a 65 anni…
Leonid è un prete cattolico polacco di rito latino: solleva l’annoso problema della restituzione ai legittimi proprietari degli edifici di culto, requisiti dal regime comunista. Da otto anni è responsabile della comunità cattolica di Sebastopoli (Crimea). Ma la chiesa è un cinema dal 1935, allorché il parroco finì nel famigerato carcere Lubjamka di Mosca e poi fucilato. Malgrado tutto, padre Leonid è contento. Anche i rapporti con gli ortodossi sono cordiali; vi sono pure incontri interconfessionali per esaminare insieme i problemi sociali e religiosi…
Un pomeriggio concelebriamo l’eucaristia in una stanza dell’appartamento del sacerdote, in un condominio, con alcuni fedeli. L’attesa di tutti è che il cinema, all’angolo della strada, ridiventi chiesa.

Odessa. Celeberrima è la scalinata della città, immortalata dal film La corazzata Potemkin di Sergej Ejzenstejn (1925). Il capolavoro racconta la rivolta dell’equipaggio della nave russa Potemkin, che raggiunge Odessa. L’ammutinamento scoppia perché il medico di bordo dichiara commestibile carne marcia. La gente è solidale con l’equipaggio. Ma la polizia dello zar affoga nel sangue la ribellione. Fra le vittime c’è una mamma, con una carrozzina, sulla sommità della scalinata di Odessa. Colpita a morte, la donna abbandona la carrozzina, che precipita lungo la gradinata. Finché si rovescia. La scena del film è apparsa anche un preludio dei tragici «kapitomboli» nei paesi dell’Unione Sovietica.

Francesco Beardi




CUBA – Tutti uguali… ma alcuni più uguali degli altri

Note di viaggio, senza retorica, né pregiudizi…
Attente, però, alle piccole vicende di gente comune, che vive nell’ultimo baluardo del «socialismo» tra rassegnazione, intraprendenza e attesa del nuovo.

Miguel ha le spalle larghe e il fisico robusto. Istruttore di judo, arrotonda i guadagni con il suo lavoro sul ciclo-taxi: un mezzo pratico ed economico che si è costruito da solo, utilizzando una vecchia bicicletta e una sedia di ferro, imbottita di plastica. Quando riesce ad avere un turista straniero da accompagnare, è ben felice e il prezzo si alza. Miguel approfitta della nostra inesperienza e ci chiede una cifra assurda. Eppure, gli siamo grati, perché al nostro arrivo a L’Avana ci ha fatto conoscere la casa di… Maria e Gesù!

Cristianesimo misto
Maria è una donna in gamba. Con la sua casetta, affondata tra le vie più degradate di L’Avana vecchia, è riuscita a creare una piccola impresa. Le due stanze sono sempre prenotate, perché sono confortevoli e pulitissime. Qualche anno fa, il governo ha permesso ai privati di organizzarsi e mettere a disposizione dei turisti al massimo due camere, pagando 200 dollari al mese per ogni stanza. Questa apertura verso l’iniziativa privata comincia a dare i suoi frutti e chi ha voglia di impegnarsi riesce a migliorare la condizione della propria famiglia.
Scegliamo di prendere i pasti in casa e devo dire che ci troviamo bene. Gesù è il marito, un distinto signore dai capelli bianchi e la pelle scura. Le redini sono però in mano di Maria, che è riuscita pure a sistemare le due figlie sposate, entrambe con un bimbo. Yonaika e Yonaisis mi spiegano il perché di questi strani nomi, suggeriti da uno zio materno, che un tempo andava sovente in Russia, per studio e per lavoro.
L’antico centro coloniale di L’Avana è il più vasto e conservato in America. Purtroppo, c’è ancora molto lavoro da fare, ma i primi risultati dei restauri voluti dall’Unesco si vedono soprattutto intorno alla cattedrale e alle piazze principali.
Incontro monsignor Ramón Suárez Porcari nel patio dell’arcivescovado, nel cuore della città vecchia. Al centro dello spazio ombroso di vegetazione tropicale, una statua bianca di Cristo. Qui, nel ’98, giunse in visita Giovanni Paoloii. «La mia famiglia è di origine italiana, i miei nonni emigrarono da Potenza» – mi precisa il prelato. Parliamo della religiosità dei cubani, dopo tanti anni di dittatura castrista, ancora legata alla tradizione afro-cubana. La cultura africana si è sovrapposta a quella cristiana, portata dai missionari spagnoli, e tuttora è molto radicato il culto per gli orixa, divinità associate ai santi della chiesa cattolica.
Parliamo della situazione della gente. «Non vi è solo l’embargo americano – mi dice monsignore -; c’è anche un blocco interno, di un popolo che non si apre a una prospettiva mondiale. La gente non è al corrente di ciò che avviene nel mondo, è ripiegata su se stessa. Il populismo ha rovinato il popolo. L’ideologia sovrasta la cultura e ora tutti si lamentano dei servizi sempre più scadenti, in particolare la sanità».
A Cuba operano alcuni gruppi di suore che si occupano di sanità, tra le quali le Serve di Maria e le missionarie della Carità, di madre Teresa. Monsignor Porcari è cancelliere dell’arcivescovo e parroco di Guanabacoa, centro urbano situato al di là del canale del porto, abitato soprattutto da gente di colore. Con la rivoluzione, tutte le scuole sono state nazionalizzate e ora i religiosi si occupano di catechesi. Sono tre le diocesi a Cuba: Santiago, L’Avana e Camaguey.

Due sardine per pranzo
Non è un lungomare come lo intendiamo noi, questo Malecón, ma una striscia di cemento che costeggia il mare per diversi chilometri, collegando la vecchia città coloniale ai quartieri più recenti. A fine gennaio, la notte può fare anche freddo, ma oggi il sole splende e l’aria si sta riscaldando. Eriberto ha appoggiato la bici arrugginita al parapetto e sta pescando con lenza e amo.
Dopo aver lavorato 44 anni come muratore, ora che riceve la pensione di stato di 124 pesos, passa il suo tempo a pescare. Mi indica il magro bottino: due sardine, che cucinerà a pranzo per la moglie, anche lei con una piccola pensione di custode di un edificio multiplo.
La soddisfazione grande della coppia è avere tre nipotini e due figli ben sistemati. Uno è chirurgo ortopedico, con 500 pesos mensili; l’altro è chimico e prende solo 200 pesos. Incomincio a fare due conti per capire il valore del peso usato a Cuba dalla gente. Per una libbra di carne, ci vogliono 30 pesos e, comunque, ciascuno ha diritto a quote molto limitate di prodotti e non può fare acquisti nei negozi per turisti, dove sono accettati i pesos convertibili, del valore del dollaro. «Ascolta, stanno sparando le 21 salve di cannone per l’anniversario di José Martí, il nostro eroe nazionale».
L’indomani, decidiamo di partire per Trinidad. A Cuba vige l’ora legale per cui, alle otto del mattino, è ancora buio. Si avvicina un giovane e mi chiede dove siamo diretti. «Trinidad? Bene – replica -, se volete vi porto io per lo stesso prezzo del bus». Con il diploma di capitano di lungo corso, Alean ha molto tempo libero, perché la sua nave è ferma in porto da due anni. L’auto non è sua, ma di una cornoperativa. La cosa non mi è molto chiara, certo è che i posti di blocco della polizia per lui non sono un problema: con un saluto, li superiamo tutti facilmente. Comincio a capire che anche qui chi ha iniziativa e conoscenze riesce a cavarsela bene.
Giunti a Trinidad, scopriremo che la mamma di Alean ha già affittato le due stanze, ma non è un problema trovare una sistemazione. Vivienne è giovane, ma intraprendente. Originaria di Sancti Spiritus, è riuscita a permutare la sua casa con una nel centro storico di Trinidad, città turisticamente molto più importante.
A Cuba tutti hanno diritto a una casa di proprietà, ma non possono venderla, solo permutarla. Vivienne, aiutata dal marito che lavora nell’albergo di stato sulla penisola di Ancón, ha ricavato nel patio due linde stanze da affittare ai turisti; cura le relazioni con gli ospiti ed è riuscita a ottenere già da alcuni anni gli inviti tramite ambasciata, necessari per viaggiare in Europa. Una mail è giunta oggi per confermare che amici italiani hanno disposto una fideiussione, affinché anche la prossima estate lei si possa recare in Italia.

Il regime «migliore»
Iraida è molto triste, perché non ha notizie di suo figlio da quasi un mese. «Il ragazzo era stato espulso dall’università di Sancti Spiritus per cattiva condotta – mi confessa – così ha deciso di accettare un invito in Costa Rica e ora si trova molto male. Il suo sogno è Miami, dove vive una forte comunità cubana». Iraida ha perso il marito cinque anni fa e ha dovuto trasferirsi a Trinidad presso la cugina, per potersi mantenere. Trinidad fu uno dei primi insediamenti spagnoli. La sua è una storia affascinante, legata alla pirateria nel ’700 e, più tardi, alla coltura della canna, affidata a schiavi africani. La maggior parte dei turisti che arrivano la mattina con i bus, ripartono nella serata.
Ritorniamo a Trinidad, passando per Ancón, una sottile penisola sabbiosa che chiude una laguna densa di mangrovie. Alle 5 della sera, i dipendenti dell’albergo che smontano trovano un bus che li riporta a casa. Saliamo anche noi e così scopriremo i quartieri periferici dove vivono i lavoratori. File di case fatiscenti attraversate dalla ferrovia, ora in disuso, che un tempo serviva per trasportare lo zucchero proveniente dalla valle de los ingenios, dove un tempo decine di mulini trattavano la canna raccolta dagli schiavi africani, in una zona ora dichiarata patrimonio dell’umanità.
Piazza De Céspedes è il centro amministrativo di Trinidad, con il municipio, il tabaccaio che vende il Gramma, quotidiano cubano, e il cinema. Nei giardini sostano i pensionati anziani, per godersi il sole. Luis è stato insegnante di spagnolo, ora che è in pensione studia l’italiano, seguendo le lezioni alla televisione. È molto magro, ha le scarpe di tela rotte, ma tanta dignità. Il suo problema è la cataratta ed è in attesa dell’operazione. Anche Luis avrebbe bisogno di denti nuovi, gliene resta solo uno superiore.
A Cuba gli anziani rimangono attivi a lungo. In un laboratorio di ceramica, ho il piacere di conoscere tre personaggi, intenti a lucidare piccoli vasi di terracotta, seduti ad un tavolo. Il più anziano è un arzillo signore di 86 anni, magrissimo, dalle orecchie a sventola, che sorridendo mi dice con orgoglio di essere ancora utile in famiglia, con la sua modesta paga. Questi vecchietti hanno l’aria più serena dei nostri, che patiscono sovente la solitudine.
Anche Teresita è orgogliosa di avere un lavoro e lo si capisce dall’entusiasmo che mette nel preparare bibite e cocco fresco per gli avventori di uno dei tanti locali di Trinidad, dove si fa musica son, (tradizionale cubana) con strumenti originali. Una musica capace di incantare i visitatori, che passano da un locale all’altro per godersela.
Teresita è più che sicura: questo regime, imposto da Fidel, è il migliore che ci sia. «Dopo 5 anni di affitto pagato, lo stato mi ha dato la casa, 4 stanze e due bagni, per solo 10 pesos al mese. Anziani e handicappati sono assistiti e seguiti da medici e maestri». Poi, orgogliosa, aggiunge: «Potrei andare in pensione, ma mi piace lavorare; per ora non ci penso». Il suo entusiasmo mi pare esagerato.

Come nel farwest
Questa volta viaggeremo sul Viazul: il percorso è breve, grazie alla superstrada voluta da Castro per collegare le regioni occidentali dell’isola, un tempo arretrate perché difficilmente raggiungibili. Qui sorgono catene montuose e la campagna è fertile e irrigata. Conduttore e bigliettaio sono due distinti anziani signori in divisa, che desiderano darci qualche informazione sulla nostra meta, Vinales, amena località nel nord ovest di Cuba, famosa per le coltivazioni di tabacco.
Circondato da strani monti calcarei, coperti da una densa vegetazione, è un villaggio che ricorda il farwest. Per le vie del paese, dove le case coi portici sono dipinte a colori vivaci, passano i cowboys a cavallo, i carretti e qualche vecchia auto. Ci fermiamo volentieri alcuni giorni per via di quest’atmosfera tranquilla, fuori dal tempo. Anche qui, per visitare le vallate nei dintorni, useremo la bicicletta, che ci consente di fermarci per ammirare il paesaggio e i rari splendidi esemplari di alberi autoctoni sopravvissuti al disboscamento dei secoli scorsi. Sui monti che separano queste vallate dalla costa, il governo ha fatto mettere a dimora milioni di conifere per il rimboschimento, che risultano però poco adatte al paesaggio.
In un appezzamento di terreno ben coltivato a ortaggi, intervallati da file di fiori gialli e viola, incontriamo due contadini di una cornoperativa. Stanno preparando i buoi per l’aratura, sotto il giogo. Prima di iniziare il lavoro, uno di loro raccoglie un fiore per offrirmelo. Questi cubani mi rimarranno nel cuore, molti di loro mi hanno commossa con gesti simpatici. Scopro che a loro è proibito mangiare carne di bovino, pena la reclusione. Anche i buoi appartengono allo stato e si possono affittare per arare i campi. Le famiglie, se possono, cercano di allevare polli e maiali, o tacchini.
Juan Francisco ha un solo rene e un solo polmone. Ormai sono passati dieci anni dall’operazione, dovuta a un tumore. «Sono stato curato bene» – mi dice, orgoglioso del servizio sanitario cubano. Ha vissuto la rivoluzione, da giovane. Come allora è un entusiasta e convinto sostenitore della politica di Fidel. «Con la “Battaglia delle idee” abbiamo ottenuto università e cure mediche per tutti». Ne parliamo a lungo, dopo l’ottima cena che ci ha preparato.
Per essere un rivoluzionario, mi pare che Juan Francisco abbia troppo viziato i suoi due figli. Oggi ha dovuto ammettere che «il campo» socialista è ormai finito. «Prima avevamo ottenuto l’eguaglianza tra tutti i cittadini, ora invece mi rendo conto che si sono formate le classi sociali e che una fascia della popolazione vive con difficoltà, anche se vi sono alcuni servizi garantiti per tutti, come il litro di latte giornaliero per i bimbi e gli anziani».
Situata nel centro della cittadina, dopo 30 anni di chiusura e abbandono, la chiesa di Vinales è rinata otto anni fa in seguito alla collaborazione della diocesi di Pinar del Río con quella di Verona. Padre Gianfranco Falconi è originario di Verona e, da qualche mese, ha sostituito l’anziano padre giunto per primo a Vinales, nel ’96. Dopo la messa, alcuni giovani si fermano per aiutarlo: mi paiono motivati e volonterosi.
Il sacerdote è molto cauto nel parlare: «Quando si riaprirono le chiese, nel ’95, ci furono delle difficoltà e i sacerdoti erano pochissimi». Cerco di capire se la gente ha mantenuto la fede cristiana. A messa erano presenti alcuni giovani e un gruppetto di donne anziane. La maggior parte delle famiglie vuole che i figli siano battezzati, poi non si fanno più vedere.
La piazza della chiesa è il luogo di ritrovo per i giovanissimi, la sera. I «grandi» frequentano i due locali dove si fa musica e si balla; ma non ho mai visto, durante il mio soggiorno a Cuba, le scene disgustose di prostituzione, comuni in molti paesi latinoamericani. Pare che la polizia abbia stretto i controlli.

Claudia Caramanti




ITALIA – Week end all’inferno

Adolescenti e giovani di una parrocchia torinese,provocati ad «annunciare la risurrezione» in modo nuovo e avvincente.
Una sfida riuscita e che sa un po’ di… miracolo!

«Il nostro musical desidera annunciare che “Gesù è risorto”; per questo l’abbiamo intitolato WEEKEND ALL’INFERNO, a ricordo della sua discesa agli inferi prima della risurrezione»… racconta con decisione don Ugo Bellucci, vice parroco della Beata Vergine delle Grazie di Torino, comunemente conosciuta come parrocchia della «Crocetta».
Non si è trattato, però, della solita recita nel teatro parrocchiale perché, con grinta e determinazione, più di cento adolescenti e giovani si sono esibiti nel cuore di Torino, cioè la regale piazza Castello, davanti alle autorità, al cardinale e a un pubblico di 3.500 persone; poi, con l’appoggio del Centro Studi San Tommaso Moro, alla 8th Gallery, cioè la parte della Fiat-Lingotto trasformata in centro commerciale, davanti a un pubblico di oltre mille persone.


Lo spettacolo inizia con lo smarrimento di Giovanni, l’apostolo prediletto di Gesù, dopo la morte del maestro e con rapidi flash black rievoca gli episodi più salienti della vita del Figlio di Dio, fino all’inaspettata gioia della risurrezione. La scenografia è semplice e imponente allo stesso tempo. Già il coro, formato da più di trenta elementi, con lunghe tonache marroni impreziosite da vistosi oamenti in oro ed argento, si rivela un importante elemento coreografico insieme ai musici (batteria, due chitarre, percussioni e tastiera); ma è l’imponente schermo bianco sul fondo che scandisce, con le ombre proiettate, il succedersi delle scene.
Gesù, gli apostoli ed altri personaggi del vangelo, vestiti con mantelli e tuniche dai colori vivaci, animano i vari episodi caratterizzati da rapidi cambi di scena, effettuati dagli stessi attori. Vediamo comparire delle reti, quando Gesù invita gli apostoli a diventare pescatori di uomini; tavoli e sgabelli per le nozze di Cana e l’ultima cena; otri, vasi, ceste e persino la croce dove Gesù è appeso. Di tanto in tanto compare anche il balletto, che enfatizza i vari brani musicali, filo conduttore di tutto. Lo spettatore è incantato da un tripudio di colori, musica, voci, da tutti questi giovani attori e anche dalla cinquantina di bambini che fanno eco a Gesù quando annuncia le beatitudini e si uniscono nell’imponente coro finale, che inneggia al miracolo della risurrezione.
In una società, dove gli adolescenti fanno notizia quando allagano le scuole, uno spettacolo come questo ha quasi del miracoloso. Abbiamo, perciò, rivolto alcune domande a don Ugo, per capie di più.

Don Ugo, come vi è venuta l’idea di mettere in scena uno spettacolo come questo? In che modo vi siete organizzati?

L’idea ci è venuta perché la diocesi aveva lanciato l’anno della «missione giovani» (2003-2004) e ci è parso doveroso che i giovani annunciassero Gesù alla città a modo loro, cioè con la musica. Siamo partiti per tempo, abbiamo lavorato su periodi lunghi, ci siamo preparati con calma. L’idea è stata discussa durante una settimana comunitaria con gli universitari, presso i missionari della Consolata di Torino. Ricordo che il responsabile del Centro, padre Renato, era presente: ha visto la nostra volontà di realizzare lo spettacolo, ma anche la nostra grande titubanza. Il nostro parroco, don Franco Alessio, ci ha sempre aiutati, anche finanziariamente, ed incoraggiati: senza il suo sostegno, molto probabilmente non ce l’avremmo fatta.
Il gruppo universitari (20-25 anni) si è rivelato l’asse portante di tutto il progetto. Questi ragazzi (circa 20 persone) sono educatori del gruppo-adolescenti e ancora amici dei loro educatori, alcuni ormai giovani coppie sposate. E così abbiamo trovato il cast, circa 100 adolescenti e giovani della parrocchia, dai 15 ai 30 anni. Ci siamo, poi, divisi i ruoli: tre impegnati nella regia e poi altri 12 ragazzi responsabili di scenografia, luci, musici, coro, costumi, balletto. Esserci preparati per circa un anno ci ha dato modo di pensare, discutere, crescere e prepararci.

Come avete scelto gli episodi del vangelo e con quali musiche?

Volevamo annunciare la «risurrezione di Gesù»; per questo, abbiamo scelto gli episodi che ci parevano importanti e ci sentivamo di rappresentare: la parabola del seminatore, le nozze di Cana, Marta e Maria, la chiamata di Levi, la scelta degli apostoli, le beatitudini, il buon samaritano, l’adultera, la risurrezione di Lazzaro, la cacciata dei venditori dal tempio, il litigio degli apostoli (su chi fosse il più grande), l’ultima cena, passione e crocifissione, risurrezione. Le musiche sono tratte da film o spettacoli famosi, che piacciono ai giovani (Il re Leone, La bella e la bestia, Il principe d’Egitto, Streets of Philadelphia, una canzone di Elton John). Con l’équipe della regia abbiamo poi scritto le parole, componendo 17 canzoni adatte ai vari episodi.

Come vi siete organizzati per i costumi, il trucco (così vistoso ed efficace), le prove, la regia? Eravate così numerosi…

Per i costumi ci siamo ispirati al film «Gesù di Nazareth» di Zeffirelli. La ragazza responsabile e una mamma, appassionata di teatro, hanno disegnato costumi, realizzati poi da un senegalese di San Salvario, e studiato il trucco degli attori. Abbiamo prima provato i singoli episodi e le musiche e, poi, assemblato un po’ alla volta i vari episodi. In parrocchia, il teatro è molto piccolo; quindi, la platea è diventata il nostro palco.

E, poi, il grande debutto; come siete riusciti ad ottenere un palco in piazza Castello per un musical, realizzato da giovani sconosciuti alla città?

Tutto il nostro sforzo è stato sorretto da molta fede e tenacia. Il cardinale ci ha appoggiati con una lettera per avere piazza Castello e il palco dal comune di Torino. Ci è sempre parsa una sfida superiore alle nostre forze; però, eravamo contenti di «annunciare Gesù», che certamente ci ha aiutati. Il successo nei due spettacoli è stato molto buono. Alcuni giovani, anche se hanno recepito qualche «stecca» nell’esecuzione delle canzoni, si sono riavvicinati ai gruppi della parrocchia. Speriamo non sia una bolla di sapone e che il seme cresca.

Progetti futuri?

Abbiamo tradotto tutto lo spettacolo in inglese e, in agosto, saremo a Bonn, a presentarlo in un teatro di 800 posti e un palco di 115 metri quadrati, in occasione della Giornata mondiale della Gioventù. In questo progetto, sono attualmente impegnate 134 persone. Pregate per noi! •

Silvana Bottignole




OBIETTIVI DI SVILUPPO DEL MILLENNIO Nemmeno cinque candeline(4)

Ogni giorno nel mondo muoiono trentamila bambini: nella maggior parte dei casi la loro vita può essere salvata.

Ogni anno quasi 11 milioni di bambini muoiono prima di compiere 5 anni: 30 mila al giorno. La maggior parte di queste morti avviene per cause evitabili: disidratazione, malnutrizione, malattie che si potrebbero prevenire o curare, per lo meno nei paesi più ricchi.
Infatti, se nelle nazioni più povere muore 1 bambino ogni 10 prima dei 5 anni, in quelli con reddito maggiore la percentuale crolla a 1 bimbo ogni 143. Inoltre, i numeri riportati sono solo stime, valutazioni approssimative. Nei paesi più poveri, dove è più difficile l’accesso alle cure, non è nemmeno prevista una registrazione delle nascite e delle morti. Infatti quasi nessuna delle regioni che coprono il 98% delle morti infantili possiede un sistema adeguato e completo di annotazione dei morti e delle cause.
Le vittime potrebbero quindi essere molte di più di quello che si pensa e la mancanza di informazioni precise sulla situazione di salute e malattia in questi paesi rappresenta un ostacolo alla pianificazione di programmi efficaci per migliorare lo stato delle cose.

La strage degli innocenti

Il 4° Obiettivo di sviluppo del millennio si concentra proprio sulla strage infantile e sugli interventi necessari per ridurre di due terzi il numero di morti entro il 2015 (rispetto ai dati del 1990).
Fra il 1960 e il 1990 vi era stato un notevole miglioramento delle condizioni di salute dell’infanzia, che aveva portato a dimezzare la mortalità. Ma negli anni successivi i progressi sono rallentati e la mortalità è scesa solo del 15%. In qualche paese sono addirittura stati fatti passi indietro.
Se le cose continuano di questo passo, saranno poche le zone del mondo in cui fra dieci anni verrà raggiunta la meta prefissata: solo America Latina, Caraibi, Europa e Asia centrale sono sulla buona strada. Altrove le cose non vanno bene; i progressi sono particolarmente lenti nell’Africa sub-sahariana, dove i conflitti e l’epidemia di Hiv/Aids hanno addirittura fatto innalzare il numero delle giovani vittime rispetto al 1990: muoiono prima dei cinque anni quasi 2 bimbi ogni 10.

Cause prevenibili
Secondo l’ultimo Rapporto sulla salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il 90% di tutte queste morti è causato da sei condizioni: patologie neonatali acute (soprattutto complicanze da nascita prima del termine, crisi respiratorie con asfissia), infezioni respiratorie (in particolare polmonite), diarrea, malaria, morbillo e, da ultimo, anche se è una delle malattie di cui si parla di più, solo nel 3% dei casi, Hiv.
Questo significa che moltissimi di quei neonati e quei bambini, assistiti in modo appropriato, non sarebbero morti. Nascendo in un paese più ricco avrebbero avuto a loro disposizione l’assistenza neonatale adeguata se prematuri, la cura di complicanze infettive e respiratorie in neonatologia, gli antibiotici mirati in caso di polmonite, le soluzioni reidratanti e le condizioni igieniche corrette per prevenire o curare la diarrea, le misure di prevenzione e i farmaci appropriati per la malaria, le vaccinazioni contro il morbillo, i farmaci per proteggerli dal rischio di trasmissione dell’Aids da parte della mamma. E si sarebbero salvati, per lo meno una buona parte di loro.
Un’analisi pubblicata dalla rivista medica The Lancet diversi mesi fa aveva sottolineato che non erano necessari grossi progetti e finanziamenti impegnativi: pochi interventi semplici e di basso costo (promozione dell’allattamento al seno, disponibilità di zanzariere trattate con insetticidi, vaccinazioni contro il morbillo e terapie reidratanti) avrebbero già abbassato drasticamente il numero di morti.

Nemmeno un mese
Considerando poi solo il sottogruppo dei neonati, cioè i piccoli con meno di un mese di vita, i morti contati ogni anno sono 4 milioni, circa il 38% del totale. Di questi, tre quarti non arrivano nemmeno a compiere una settimana, muoiono prima, muoiono subito.
E il 99% di queste morti neonatali avviene ancora una volta nei paesi più poveri, soprattutto nelle zone dell’Asia sudcentrale (con l’eccezione del Bangladesh e Sri Lanka, dove la situazione è migliore) e dell’Africa subsahariana. Due terzi di queste morti sono concentrate in 10 paesi e la metà avviene in casa, senza assistenza. Muoiono perché nati troppo presto, prima del termine, per difficoltà respiratorie, per infezioni, come il tetano, che è facilmente prevenibile, malattia di altri tempi per i paesi ricchi.
Ancora una volta la rivista medica The Lancet ha dedicato una serie di articoli proprio alle morti neonatali, dei primi giorni di vita, sottolineando come la loro prevenzione non sia un punto centrale nei programmi sulla sopravvivenza infantile e la salute matea: il risultato sono 450 neonati che muoiono ogni ora, 10 mila ogni giorno, ancora una volta per cause, nella maggior parte dei casi, evitabili.
Ma non se ne parla, fa parte delle emergenze dimenticate. E in fondo basterebbero pochi semplici interventi per migliorare di molto il desolante quadro: per esempio vaccinazioni contro il tetano per le donne in gravidanza, parti in condizioni igieniche e pulizia adeguate, allattamento al seno immediato ed esclusivo, assistenza per i nati di basso peso e antibiotici per le infezioni neonatali.

Cercare le soluzioni
Le ultime previsioni delle Nazioni Unite, sulla base dell’andamento finora registrato, mostrano un quadro pessimistico per il raggiungimento del quarto obiettivo: se si fallisce, fra oggi e il 2015 moriranno 29 milioni di bambini prima di arrivare a 5 anni di vita. Dieci nazioni africane hanno oggi una mortalità peggiore di quella del 2000, anno in cui sono stati stabiliti gli obiettivi; altre 29 potrebbero invece arrivare al risultato, ma con 35 anni di ritardo.
Eppure, a volte basta davvero poco per ottenere grandi risultati, come attuare gli interventi rapidi ed economici prima ricordati. È importante riuscire a calarsi nelle realtà che si hanno di fronte, pianificare sulla base del tessuto sociale in cui si agisce e delle risposte che si possono ottenere; capire quali siano i reali bisogni primari, capire come arrivare alle famiglie, come integrare l’intervento perché diventi un progetto comune e abbia possibilità di riuscita.
Certo vi sono, in diversi stati, campagne inteazionali di diffusione delle vaccinazioni e di prevenzione delle malattie. Quella promossa in Togo alla fine dello scorso anno è un esempio fra tanti, in cui sono stati uniti gli sforzi contro morbillo, poliomielite, vermi intestinali e malaria. Lo scopo era raggiungere e proteggere circa un milione di bambini fra i nove mesi e i cinque anni.
Ma a volte la soluzione è nascosta anche in interventi apparentemente banali e di basso costo, che aggirano l’ostacolo della povertà, dell’impossibilità di avere attrezzature sanitarie adeguate. Interventi che, per esempio, permettono di salvare la vita a molti bambini disidratati dalla diarrea anche se non ci sono i soldi per ricoverarli o dar loro liquidi in vena. Il Bangladesh ha fatto da apripista in questa ricerca di risposte semplici e immediate ed è stato tra i primi a utilizzare per questi bambini una semplice bevanda, composta da acqua, sale e zucchero.
Perché, se è importante non trascurare la ricerca sul Dna e su nuovi vaccini, a cosa serve se i bambini muoiono di una banale diarrea prima di potee beneficiare? La somministrazione della bevanda in sostituzione della più complicata, e spesso impossibile da realizzare, terapia endovenosa si valuta abbia salvato nel corso degli anni 40 milioni di persone. E dagli anni settanta a oggi la mortalità infantile in Bangladesh è pressoché dimezzata, ridotta a un terzo in alcune zone.

Mete da raggiungere

1. Povertà e fame: dimezzare rispetto al 1990 la povertà estrema e la fame.
2. Istruzione: garantire a tutti un livello di istruzione primaria.
3. Parità dei sessi: promuovere l’uguaglianza tra maschi e femmine; dare maggiore autonomia e poteri alle donne.
4. Bambini: ridurre di due terzi rispetto al 1990 la mortalità infantile.
5. Mamme: migliorare la salute matea, inclusa la riduzione di tre quarti rispetto al 1990 della mortalità in gravidanza e da parto.
6. Malattie: prevenire la diffusione di HIV/AIDS, malaria e altre malattie.
7. Ambiente: assicurare uno sviluppo sostenibile.
8. Scienza, tecnologia, progresso: sviluppare una collaborazione globale per lo sviluppo.

OBIETTIVO N°4

Ridurre di due terzi
rispetto al 1990
la mortalità infantile

Vi sono enormi differenze fra le possibilità di avere una vita futura offerte a un bambino in base a dove nasce. Se infatti nei paesi in via di sviluppo muore 1 bambino su 12, prima dei cinque anni di età, nei paesi più ricchi ne muore 1 su 143. Complessivamente ogni anno muoiono quasi 11 milioni di bambini nei paesi più poveri prima del loro quinto compleanno, e la maggior parte di queste morti sarebbe evitabile migliorando l’assistenza sanitaria, l’alimentazione e le terapie mediche. L’Obiettivo di sviluppo del millennio numero quattro si propone di ridurre di due terzi la mortalità infantile prima dei cinque anni entro il 2015 (rispetto ai dati registrati nel 1990).

Valeria Confalonieri




GUATEMALA – Viaggio in America centrale (4)

RICOSTRUIRE LA AMEMORIA PER RICOSTRUIRE LA PACE

La maggioranza della popolazione del Guatemala è formata dai discendenti degli antichi maya, la cui storia è segnata da tre genocidi. L’ultimo (1954-96) riporta cifre agghiaccianti: 250 mila tra assassinati e desaparecidos, 100 mila orfani,
1,5 milioni di rifugiati e sfollati.
La strada della pace e riconciliazione nazionale è tutta in salita, perché i responsabili del genocidio rimangono impuniti e le leve dell’economia e della politica sono sempre in mano a una minoranza di bianchi e meticci. Eppure non mancano segni concreti di speranza.

Ricordando la loro storia dalla colonizzazione a oggi, gli indigeni maya del Guatemala parlano di tre genocidi. L’ultimo è terminato, dopo 36 anni di guerra civile, con gli accordi di pace nel 1996. Ma a distanza di quasi 10 anni, la società civile guatemalteca sta ancora tentando di costruire una nuova cultura di pace e una riconciliazione inclusiva, cioè, estesa a tutti i guatemaltechi, compresi i responsabili dei crimini compiuti durante la guerra.
TRAGEDIA IN TRE ATTI
Il primo genocidio ebbe inizio nel 1524, quando le truppe di Pedro de Alvarado, luogotenente di Hean Cortez, invasero le terre dei maya, dove le popolazioni indigene abitavano da più di 12 mila anni: territorio poi chiamato dagli invasori «Capitaneria generale del regno del Guatemala».
Occupazione e colonizzazione del Mesoamerica si tradussero in politica di saccheggio, schiavizzazione e sterminio a danno delle popolazioni autoctone, a vantaggio degli interessi espansionistici, economici e religiosi dei sovrani e della società spagnola dell’epoca.
In effetti, nel giro di pochi decenni del xvi secolo, le popolazioni maya furono decimate, sia dalle malattie portate dai conquistatori, contro le quali gli indigeni non avevano difese immunitarie, sia dalle fatiche e stenti a cui furono sottoposti nelle miniere d’oro e d’argento, dove lavoravano come schiavi. Nonostante i tre secoli di colonizzazione diretta, il regime coloniale non riuscì a troncare il legame che univa i popoli indigeni con la propria cultura.
Il secondo genocidio iniziò a metà del secolo xviii, con l’invenzione dei coloranti artificiali in Europa: tale scoperta ebbe forti ripercussioni in Guatemala, allora paese esportatore di tinture vegetali, provocando una grave crisi economica.
Per risolvere tale crisi, l’élite filo-europea allora al potere introdusse la coltura intensiva del caffè. Per incrementare la produzione, la cosiddetta «Riforma liberale», nel 1871, espropriò le terre comunitarie degli indigeni maya, acquistate poi dai grandi latifondisti meticci per la creazione di piantagioni di caffè.
La «Riforma liberale» imprigionò gli indigeni nella loro stessa terra, costringendoli a diventare braccianti stagionali. Cominciò un secondo periodo di genocidio fisico e culturale per la popolazione maya, nella cui spiritualità la terra è considerata «dea madre».
Il terzo periodo tragico ebbe inizio nel 1954 con la fine della cosiddetta «rivoluzione di ottobre», chiamata poeticamente dai guatemaltechi: «I dieci anni di primavera nel paese dell’eterna dittatura». In effetti, finita questa rivoluzione, iniziò la lunga successione di dittature militari, durata più di 40 anni.
SOTTO IL TALLONE MILITARE
Per capire il significato della «rivoluzione di ottobre» bisogna andare al 1944. Il governo progressista di Juan José Arévalo, democraticamente eletto, diede il via a riforme economiche e sociali di ampia portata, tra cui l’estensione del diritto di voto alle donne (1945). Fu pure progettato un vasto programma di riforma agraria, ideato dal presidente Jacobo Arbenz a cavallo degli anni ’50.
Tale riforma, però, minacciava gli interessi della transnazionale nordamericana United Fruit Company (Ufco), che all’epoca possedeva il 2% delle terre del paese, molte delle quali lasciate incolte, e sfruttava gli indigeni, usati come braccianti con salari da fame. La riforma agraria proponeva la ridistribuzione di 100 mila acri di terra di proprietà dell’Ufco.
Per l’esproprio la Compagnia sarebbe stata indennizzata in base al valore dichiarato nel pagamento delle imposte allo stato guatemalteco. Il governo sapeva, infatti, che la United Fruit Company aveva da sempre falsificato il valore reale delle proprietà terriere per trarre il massimo beneficio dall’evasione fiscale.
Di fronte a questa riforma, John Foster Dulles, segretario del Dipartimento di stato Usa, oltre che azionista e avvocato della Compagnia, fece pressioni sul governo statunitense per ottenere la condanna del governo guatemalteco di Arbenz. La reazione dell’amministrazione di Dwight Eisenhower fu immediata: la riforma agraria venne dichiarata «una minaccia per gli interessi americani» e Allen Dulles, direttore della Cia ed ex presidente dell’Ufco, fu incaricato di organizzare un’invasione, partendo dall’Honduras, per «ristabilire l’ordine in Guatemala».
Era il 1954. Centinaia d’indigeni, operai e leaders contadini furono catturati e fucilati, le terre restituite alla United Fruit Company e il governo di Arbenz rovesciato; al suo posto fu insediato il colonnello Carlos Castillo Armas, che arrivò in Guatemala nell’aereo privato dell’ambasciatore Usa.
Seguirono sei anni di instabilità politica, sfociata in una serie di governi militari, contro cui insorsero vari movimenti rivoluzionari armati. Dal 1960 l’esercito iniziò a terrorizzare il Guatemala con repressioni, violenze, torture e massacri contro le comunità indigene. Il genocidio fisico e culturale raggiunge il culmine negli anni ’80. Le forze armate adottano la strategia della «terra bruciata». Per eliminare l’appoggio alla guerriglia, 400 comunità indigene vengono disarticolate e ristrutturate, secondo un progetto di ingegneria sociale, in «poli di sviluppo», cioè, «villaggi modello», in cui i contadini furono trasferiti e costretti a produrre per l’esportazione e non per l’autosostentamento.
Sotto la vigilanza stretta dell’esercito, essi venivano indottrinati. Una vasta rete d’informatori bloccava qualsiasi manifestazione di dissenso. Molti contadini e indigeni furono costretti a entrare nelle Pattuglie di autodifesa civile (Pac), una sorta di gruppi paramilitari che, sotto il controllo dell’esercito, dovevano combattere la guerriglia.
Vari tentativi di ritorno alla democrazia furono frustrati dall’ingerenza dei militari, che proseguirono nella violazione dei diritti umani, in massacri e assassini politici fino al 1996, quando vennero firmati gli accordi di pace tra il governo, guidato da Alvaro Arzú del Partito progressista nazionale, e l’Unione rivoluzionaria nazionale guatemalteca (Ug), formata fin dal 1982 dai tre principali gruppi guerriglieri.
RICERCA DELLA MEMORIA
Finito il conflitto, rimangono le ferite da rimarginare, come racconta una leader indigena, Maria Ebedarda Tista, cornordinatrice del Comitato nazionale delle vedove del Guatemala (Conavigua). «La nostra organizzazione è sorta negli anni ’80, durante la repressione perpetrata dall’esercito e “squadroni della morte”. È composta prevalentemente da vedove che, fin dall’inizio, si sono poste l’obiettivo di appoggiare la smilitarizzazione del territorio e la ricerca della pace. Oggi Conavigua lavora in 12 dipartimenti del Guatemala, prevalentemente nell’ambito della ricostruzione della memoria e delle esumazioni.
Le donne sopravvissute al genocidio continuano a cercare i loro familiari desaparecidos, fino a denunciare davanti ai tribunali le ingiustizie subite e chiedere le esumazioni dei resti dei familiari, sepolti in più di mille cimiteri clandestini in tutto il territorio guatemalteco. È l’aspetto più importante: queste donne sono riuscite ad arrivare alle autorità giudiziarie, fatto insolito per una indigena in questo paese, e avviare i processi contro i loro carnefici, responsabili di 250 mila morti tra assassinati e desaparecidos».
Purtroppo si assiste a un fenomeno preoccupante, precisa la leader indigena: «Molte di queste donne ricevono intimidazioni e minacce e sono perfino oggetto di attentati, per far sì che desistano dal loro proposito di chiedere giustizia».
Al momento la quasi totalità dei responsabili del genocidio restano impuniti, protetti dalla connivenza dell’élite politica e dal loro passato di potenti gerarchi dell’esercito. Uno dei più feroci dittatori contemporanei, per esempio, l’ex generale Rios Montt, ha avuto l’ardire di candidarsi alle presidenziali del 2003, con una campagna elettorale di intimidazioni e violenze, gettando di nuovo il paese nel terrore.
Il recente passato del Guatemala continua a pesare enormemente sul presente, come spiega la signora Tista: «L’impatto culturale dello sterminio delle comunità indigene, per noi donne, ha significato la perdita dei nostri diritti fondamentali, della nostra cultura e, al tempo stesso, la proibizione delle nostre credenze e tradizioni culturali. Per esempio, nella nostra cultura gli anziani hanno un ruolo centrale, perché concentrano in sé tutta la saggezza tramandata oralmente di generazione in generazione: sono una “biblioteca vivente”. Ebbene, questi anziani non hanno avuto lo spazio d’insegnare alla nostra gente questo sapere millenario, perché per più di tre decenni hanno dovuto restare in silenzio, fuggendo dalla guerra.
Inoltre, cosa ancor più grave, molti di essi sono stati rapiti e assassinati dall’esercito, in cui militavano molti indigeni che, quindi, sapevano dell’importanza degli anziani nelle nostre società indigene. La nostra cultura ha subito una specie di amputazione. Tuttavia abbiamo resistito, nella convinzione di avere il diritto di sopravvivere, conservando la cultura e cosmovisione maya. Nonostante tutto, siamo ancora il 70% della popolazione del paese».
NUNCA MAS
«Un paese senza memoria e autocoscienza della propria storia – dicono i guatemaltechi -, non riuscirà a costruire una pace duratura». Per rimarginare le ferite aperte nel tessuto sociale occorre conoscere la verità di quanto è accaduto; altrimenti la pace sarà sempre fragile.
La ricerca della verità è lo scopo principale del «Progetto interdiocesano di recupero della memoria storica» (Remhi) che, nell’immediato dopoguerra, ha pubblicato il rapporto Guatemala nunca más (Guatemala mai più), pietra miliare del processo di chiarificazione storica.
Questo rapporto, promosso dall’Ufficio per i diritti umani dell’arcidiocesi di Città del Guatemala (Odhag), fu fortemente voluto dal vescovo della capitale, mons. Juan Gerardi, che tre giorni dopo la pubblicazione venne assassinato. In Guatemala nunca más, frutto di meticolose indagini, mons. Gerardi denunciava dettagliatamente gli omicidi e altri crimini contro i diritti umani perpetrati dai militari durante la guerra. Vi sono registrati 663 massacri. Finora, in 12 anni di lavoro, sono state realizzate 381 esumazioni, il 57% dei massacri registrati; ma si stima che ce ne siano altrettanti non ancora scoperti. In 36 anni di conflitto ci sarebbero state oltre mille esecuzioni di massa.
Il lavoro di riesumazione, in cui è impegnato anche l’Odhag (vedi riquadro), è fondamentale per la ricostruzione della verità: è la chiave di volta per una vera pacificazione del Guatemala attuale. Ma non basta. Oltre che ricostruire la memoria storica della società guatemalteca, l’Odhag è impegnato nella ricerca di nuove forme di convivenza, nel rafforzare l’organizzazione comunitaria, nel costruire una nuova cultura di pace, affinché mai più si ripeta la violenza sofferta nel passato.
OCCORRONO RISARCIMENTI
Tutto questo lavoro indica che la situazione sta cambiando in meglio; ma è indispensabile che a tali sforzi seguino azioni concrete per elevare la qualità della vita di comunità e persone che hanno vissuto sulla propria pelle il flagello della violenza. Il processo di pace e riconciliazione deve portare a gesti di risarcimento.
A tale proposito è stato creato il Programma nazionale di risarcimento (Pnr), a capo del quale c’è Rosalina Tuyuc, ex deputata e leader indigena guatemalteca. «Come strategia di lavoro usiamo la riparazione tanto materiale quanto psicologica – spiega la signora Tuyuc -. Il nostro obiettivo è quello di creare un registro nazionale delle vittime e delle esumazioni. Inoltre, vogliamo assicurare un risarcimento alle vittime della guerra e riparare i danni psicologici e fisici causati da torture, esecuzioni extra giudiziarie, stupri e tutti i delitti di lesa umanità commessi dall’esercito, agenti della polizia segreta e gruppi paramilitari.
I membri indigeni che partecipano al Pnr esigono che il progetto abbia anche una dimensione culturale, che costruisca, cioè, una mappa dei centri cerimoniali distrutti e delle comunità indigene smembrate. Tali dati sono importanti per riuscire a contestualizzare la vastità e gravità delle conseguenze che la guerra ha lasciato nei popoli indigeni. Finora abbiamo in mano dati molto generici. Si sa, ad esempio, che ci sono attualmente 663 cimiteri clandestini, ma non si sa quanti siano i cimiteri per ognuna delle 23 comunità linguistiche; ci sono stati un milione e mezzo di profughi, ma ancora non sappiamo da quali comunità linguistiche provengono».
Rosalina Tuyuc ci tiene a sottolineare che «l’impatto culturale del conflitto ha danneggiato il tessuto sociale comunitario dei popoli indigeni, ha provocato la distruzione dei terreni comunitari e l’interruzione dell’esercizio sia delle guide spirituali maya che delle autorità indigene. Abbiamo il bisogno di conoscere il grado di smembramento e distruzione provocato nella nostra società indigena, per calcolare il tempo necessario per ricostruire e, soprattutto, sapere da dove iniziare».
Una delle mete a cui punta il Pnr è incamminare il Guatemala sulla strada della costruzione della pace, mediante una riconciliazione duratura. «Questa, però – conclude Rosalina Tuyuc -, sarà possibile solamente quando coloro che hanno partecipato al disegno ed esecuzione delle violenze contro uomini, donne e bambini, riconosceranno le loro responsabilità e ne pagheranno le conseguenze».
PIÙ SPAZIO ALLE DONNE
Norma Isabel Santic Suque, presidente dell’Associazione politica di donne maya (Moloj), sottolinea un altro aspetto importante del processo di pace e riconciliazione nazionale: la partecipazione delle donne indigene nella vita politica del paese. In Guatemala, infatti, le donne indigene sono la categoria più emarginata della società, una discriminazione più forte di quella razziale.
Moloj è una associazione sorta nel 1999, in occasione della prima tornata elettorale dopo la pace del 1996, con lo scopo di creare spazio e formazione complessiva alle donne indigene. «Noi donne siamo praticamente escluse dalla partecipazione politica guatemalteca, per mancanza di strumenti giuridici e politici – spiega Norma Isabel -. Moloj vuole colmare questo deficit democratico a livello nazionale e internazionale. Vogliamo offrire alle donne una formazione politica, in cui siano integrati gli elementi della cultura, cosmovisione e spiritualità maya. Cerchiamo di creare spazi in cui le donne leader indigene, nelle 23 comunità linguistiche presenti in Guatemala, possano crescere interiormente senza perdere la loro identità e senza rinunciare alle loro credenze e pratiche culturali proprie della tradizione maya.
Nel processo di globalizzazione in atto, infatti, esistono molti meccanismi che allontanano i popoli indigeni della loro cultura. Tutto ciò implica gravi conseguenze: rischiamo di non trasmettere ai giovani i valori maya o lasciamo loro in eredità un patrimonio culturale viziato».
Per questo l’Associazione ha tessuto una rete di donne maya, una classe dirigente, pronta ad assumere responsabilità civili. Tra le varie iniziative formative figura il corso di laurea biennale in «Gestione politica maya», avallato dalla facoltà di Scienze politiche presso l’Università statale San Carlos de Guatemala. Frequentando tale corso, molte donne maya hanno imparato a conoscere i propri diritti e il valore della politica come strumento di pace; al tempo stesso hanno potuto approfondire la conoscenza della cosmovisione maya.
DEMOCRAZIA INCLUSIVA
«Molti punti del trattato di pace del 1996 restano ancora incompiuti – continua Norma Isabel -. Per esempio, è stato impossibile concretizzare l’accordo sul tema dell’identità, nonostante le chiare proposte che abbiamo avanzato in proposito. E questo perché ci troviamo di fronte uno stato che non ha la volontà politica di migliorare la situazione dei popoli indigeni; è uno stato basato sull’esclusione: non permette che le proposte dei popoli indigeni si integrino nella coice giuridica istituzionale attuale.
Noi vorremmo vivere in una democrazia partecipativa, che includa tutti; una democrazia che si costruisce giorno per giorno mediante il dialogo. Abbiamo avuto alcune esperienze di dialogo con il governo, anche in passato; ma nessuno ha messo i diritti dei popoli indigeni tra le priorità nazionali. Sono state fatte manifestazioni di massa, a cui hanno partecipato le comunità indigene, venute dalla campagna dopo giorni di viaggio a piedi, per consegnare alle istituzioni l’agenda politica contenente le priorità dei popoli indigeni; ma non è servito a nulla. Gli accordi di pace continuano a essere violati. Noi indigeni abbiamo il diritto di ricevere risposte concrete, perché è ora di essere trattati come cittadini del Guatemala, non come stranieri nella nostra terra».

Josè Carlos Bonino