Pazienza e missione

Editoriale su Pazienza e missione di Gigi Anataloni, direttore di MC |


All’inizio di maggio, il 4, parlando a braccio a «frati e suore» riuniti in un convegno internazionale di Istituti di vita consacrata e di Società di vita apostolica, Francesco, nostro amato papa, ha condiviso con loro la logica delle «tre p»: «Queste sono colonne che rimangono, che sono permanenti nella vita consacrata. La preghiera, la povertà e la pazienza».

Il nostro superiore ha invitato i miei confratelli e me a leggere e meditare quel discorso soprattutto perché tra fine maggio e inizio giugno ci incontriamo per una settimana allo scopo di decidere il nostro piano d’azione per i prossimi anni qui in Italia. Un’impresa non facile tenendo conto delle nostre forze, della nostra età e di questo nostro tempo tutt’altro che entusiasticamente cristiano.

Non entro nel merito della «p come preghiera», anche se è la chiave di volta di tutto (è il «prima santi» del nostro beato Allamano). Sulla «p come povertà» noto che la «povertà» che pesa di più è l’invecchiamento generale del nostro istituto in Italia e la mancanza di ricambio generazionale. Vedersi invecchiare senza avere qualcuno a cui passare il testimone è la cosa che pesa di più e sconvolge. Tutti noi, tanti anni fa, siamo partiti da una Chiesa italiana vibrante e piena di vitalità per andare ai quattro angoli del mondo dove abbiamo sperimentato la gioia dell’annuncio del Vangelo, affascinati e meravigliati dall’incredibile azione dello Spirito nei posti più remoti e improbabili. Siamo rientrati in Italia, spesso perché acciaccati, e abbiamo trovato seminari chiusi, parrocchie accorpate e chiese vuote in un paese dove edifici e opere cristiane diventano reperti da Ministero dei Beni culturali e l’essere e il pensare cristiani tendono a essere sempre più relegati nel più stretto ambito privato e le tradizioni cristiane sono o fagocitate dalla logica del mercato (vedi Natale) o addirittura impedite nella loro manifestazione pubblica in nome del pluralismo. Uno shock tremendo, da indurre a chiedere a noi stessi: «Ma abbiamo sbagliato tutto»? Se non fosse che il sistema sanitario italiano – a dispetto delle molte critiche che si fanno – è tra i migliori, la tentazione sarebbe quella di abbandonare il paese e andare a morire là dove abbiamo lasciato il nostro cuore e ci sono tanti giovani missionari che hanno voglia di partire verso le frontiere più remote del mondo.

Un passaggio del discorso di Francesco mi ha colpito: quello del «p come pazienza», soprattutto laddove il papa sottolinea che la pazienza va mano nella mano con la speranza. Tutt’altro che rassegnazione e tristezza, quindi. Tutt’altro che arrendersi all’ineluttabile. La pazienza, alimentata dalla speranza, è forza per costruire il futuro. Non solo, è soprattutto capacità di vedere che il futuro si sta costruendo nonostante le nostre debolezze e contraddizioni, perché c’è Qualcuno che lo crea in modo imprevedibile e sorprendente.

In sé, il papa non ha detto niente di nuovo. Questo tipo di pazienza è radicato nella tradizione cristiana. Noi preti e missionari dovremmo saperlo bene. Eppure, almeno per me, le parole di Francesco hanno avuto un sapore nuovo e quanto mai attuale. Suonano come un campanello d’allarme e una provocazione per noi missionari italiani tentati dalla rassegnazione e paghi di prepararsi a morire bene e nel modo più dignitoso possibile. Non abbiamo bisogno del «sopportare pazientemente le avversità» ma della vera pazienza che ci fa vivere guardando in avanti, sapendo che «sia che dormiamo, sia che vegliamo» il seme cresce da solo e porta frutto, e che Dio dà agli «Abramo e Sara» di ieri, di oggi e di sempre il figlio atteso anche se ormai vecchi, sterili e anche increduli.

Per noi missionari italiani – mi permetto di generalizzare perché la realtà dell’invecchiamento e della mancanza di giovani italiani tra i nostri ranghi è un fatto che riguarda un po’ tutti gli istituti maschili e femminili – vivere questo tipo di «pazienza che è speranza» è l’ultima frontiera della missione. È un dovere di fedeltà e riconoscenza verso Colui che ci ha mandato e verso tutte le persone che abbiamo amato e continuiamo ad amare anche «ai confini» della terra. È un atto di amore e fedeltà nei confronti di tutti quelli che hanno dato e danno la loro vita per un mondo più giusto e più bello come monsignor Oscar Romero, suor Leonella Sgorbati, abbé Albert Tongiumale-Baba in Centrafrica, don Juan Miguel Contreras Garcia in Messico, don Mark Ventura nelle Filippine, Asia Bibi prigioniera in Pakistan, i migranti affogati nel Mediterrano.

La pazienza, poi, è un modo di essere di cui siamo debitori soprattutto a chi ha perso la speranza, ingannato dalle false promesse di un mondo edonista e materialista che copre i suoi fallimenti con fake dreams e fake news. E agli anziani abbandonati alla solitudine, ai giovani senza lavoro, ai nuovi poveri, alle famiglie disgregate, a chi è abortito. Vivere con pazienza, in forza della debolezza, fragilità e povertà vissute sulla propria pelle, diventa davvero un proclamare la «buona notizia» che la Vita è più forte della morte, l’Amore vince tutto e la Bellezza non tramonta mai. È continuare a essere testimoni della Pasqua del Signore, oggi.

Gigi Anataloni

 




Fake news, internet, comunicazione … Usiamo la testa

Editoriale su Internet e fake news di Gigi Anataloni, direttore MC |


«La verità vi farà liberi (Gv 8,32). Fake news e giornalismo di pace». Questo è il titolo del messaggio di papa Francesco per la 52a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che si celebra il 13 maggio. È un messaggio di estrema attualità, da leggere con intelligenza e cuore. Nessun frequentatore dell’Internet dovrebbe ignorarlo.

Come direttore di una rivista missionaria, sarei tentato di dire «sono già a posto», quel messaggio «non mi riguarda», perché noi non cavalchiamo «fake news» e «già facciamo un giornalismo di pace» e cerchiamo di pubblicare notizie verificate senza scopi occulti o bramosia di guadagno, senza bombardare i nostri lettori, anzi, chiedendo loro di leggere tutto con la calma necessaria per digerire e controllare quello che scriviamo. Però le parole di Francesco sono un richiamo positivo anche per noi, perché – in verità – non siamo del tutto gratuiti, ma «esigiamo» molto dai nostri lettori: il loro tempo perché ci leggano senza fretta (slow news!), la loro intelligenza perché condividano con noi idee e valori, il loro cuore perché amino, gioiscano o piangano con noi, e la loro azione perché esprimano con i fatti solidarietà e sostegno al nostro servizio ai poveri, ai lontani, al Vangelo. Tutto questo non è poco. Non vi ringrazieremo mai abbastanza per la vostra vicinanza.

Certo è che stiamo vivendo un tempo molto bello per la comunicazione, la quale, grazie alla rete, gode oggi di opportunità, possibilità e servizi positivi e partecipativi, inimmaginabili solo qualche anno fa. È però anche un tempo di grande crisi, non solo quella cronica della carta stampata – libri e giornali -, ma anche dei social – Facebook, in primis – che sembrano aver tradito tutte le aspettattive vendendosi per profitto alla politica e ai gruppi di potere, senza alcuna considerazione per i propri utenti, se non quella del puro sfruttamento commerciale. Così, di colpo, cadono i miti, il re è nudo. Il «popolo della rete» si sente gabbato: siamo traditi, imbrogliati, usati, etichettati, classificati, analizzati, derubati della privacy, considerati come numeri, buoni solo per essere manipolati, sfruttati e rapinati dei soldi, del tempo, della buona fede.

Una visione troppo pessimista della situazione? Forse. Però bazzico nel mondo dell’Internet da troppo tempo per credere alle utopie della democrazia digitale, del tutto gratis, della privacy a tutti i costi, del puro idealismo che ci sarebbe in rete. Utopie che sono state smontate dal realismo dei costi di un sistema sempre più sofisticato e allo stesso tempo sempre più fragile, e dalla comprensione della sua potenzialità manipolativa ed economica. Non per niente alcune delle persone più ricche del mondo – certamente troppo ricche per i miei gusti – hanno a che fare con Internet e le cosiddette nuove tecnologie.

Non sono pessimista e non penso serva demonizzare o boicottare i social (o «quel» social in particolare). Credo invece sia più importante ricordarsi che ogni mezzo è solo un mezzo e come tale va usato, senza farne un idolo da adorare e servire o un mostro da temere. Quand’ero piccolo e mio nonno era l’unico e leggere il giornale nella nostra frazione, se lui diceva «l’ha detto il giornale», questo tagliava la testa al toro. Poi si è passati a «l’ho sentito alla radio», «l’ho visto in tv», fino all’idolatria o al terrore dei «like» dei nostri giorni. No, Internet e social «non tagliano la testa al toro», non ci esimono dal pensare con la nostra testa, dal verificare e dall’usarli responsabilmente.

La tentazione indotta dagli strumenti digitali è quella di farci «agire prima di pensare»: clicca, like, inoltra, condividi e così via. Ci vorrebbe calma, invece. Pensare prima di agire. Fare silenzio, ascoltare e ascoltarsi, verificare. Domandarsi «cui prodest?», chi ci guadagna? E poi chiedesi il perché aderisco a certe idee, diffondo notizie, immagini e filmati: lo faccio solo per puro divertimento personale o per creare e condividere felicità? Ho a cuore gli altri, l’ambiente, il mondo o penso solo a me stesso? Sono prudente o superficiale? Costruisco relazioni, comunione, armonia, gioia e pace o divido, istigo, provoco, alimento l’odio, diffondo paura e diffidenza, creo confusione? È importante mantenere il controllo del tempo, di cui i social vogliono l’esclusiva. Salvare tempo per se stessi, per gli altri e (perché no?) per Dio. A volte sarebbe anche meglio pregarci su prima di agire. No, non semplicemente dire una preghiera, ma pregare, cioè fermarsi nel silenzio, per confrontarsi con la Parola e con i valori, il modo di essere, di pensare e di agire di Gesù. Quel suo «ma io vi dico» (tipico in Mt 5) dovrebbe risuonare in noi, sempre. È l’invito a mettere al centro della nostra vita l’unica cosa che veramente costruisce umanità: l’amore. E l’amore si coniuga con la verità e solo la verità ci rende liberi. Liberi e fratelli. Senza le paure che ci fanno costruire muri, ci imprigionano nella menzogna e ci rendono schiavi di chi non ci considera persone ma numeri, consumatori, elementi di un algoritmo. Da che mondo è mondo con lo stesso strumento si può costruire o distruggere, dipende solo da chi lo usa. Solo la «verità nell’amore» ci rende liberi e liberatori.

Gigi Anataloni




Irriducibili sognatori

Editoriale. | Di Gigi Anataloni |


Mentre scrivo si stanno contando i voti. Populismo e destre sembrano alla riscossa. C’è chi esulta e c’è chi piange. «Metà Italia contro élite e migranti», titola un giornale. Quando leggerete queste righe, forse avremo già un nuovo presidente del consiglio e un nuovo governo. Il devoto di san Gennaro o chi ha in tasca il rosario della mamma? Oppure si deciderà di andare a una nuova votazione? Bisognerebbe essere indovini per saperlo.
Fare il commentatore politico non è mia competenza ma, come cittadino, prete e missionario, non posso essere indifferente a quanto succede, soprattutto di fronte alla svolta populista e razzista che intravedo nel paese che amo e di cui sono orgoglioso. Paese che, tra l’altro, ha uno dei tassi più alti di mescolamento genetico al mondo (le analisi sul nostro Dna ce lo confermano), visto che da tempi immemori è stato luogo di incontro e scontro tra i popoli più diversi. L’Italia deve molta della sua bellezza e genialità proprio alla sua diversità.
Quasi tutti i commentatori concordano nel dire che uno degli elementi che ha favorito i vincitori è stata la questione dei migranti, come se fossero loro la causa della mancanza di lavoro e dell’insicurezza diffusa. Noi, da irriducibili sognatori che siamo, continueremo a sostenere, incoraggiati da quei tantissimi italiani che danno più ascolto al cuore che alle paure della pancia, che i migranti non sono un pericolo, ma un valore; che sono persone, uomini e donne come noi, non alieni o nemici, e vanno trattate con giustizia, rispetto e dignità, senza falsi paternalismi o pregiudizi. Giustizia richiede pratiche burocratiche snelle ed efficienti, accoglienza in strutture adeguate e non mezze prigioni, e inserimento, integrazione, scuola, lavoro regolare, salari giusti e cittadinanza a chi è già italiano di fatto (jus soli e affini). Giustizia è anche eliminazione delle nuove schivitù, della tratta, dello sfruttamento dei minori, del lavoro nero. Giustizia è anche dire no al paternalismo e creare con i migranti rapporti seri basati su correttezza e responsabilità, diritti e doveri, e rispetto delle leggi, senza condonare atteggiamenti antisociali o mafiosi.
La paura e l’esagerata percezione di insicurezza stanno spingendo molti ad armarsi, imitando?i nostri eterni modelli e rivali nordamericani. La corsa alle armi non è solo degli individui, ma anche degli stati. La nostra bella nazione, che nella sua Costituzione rigetta la guerra, ha aumentato le spese militari almeno del 4,5% rispetto al 2017, e del 25,8% rispetto al 2006, ed è una delle prime produttrici e venditrici di armi al mondo. Noi, da irriducibili sognatori, continueremo a sostenere che la pace non si ottiene né mantiene con le armi, ma con il dialogo, il rispetto, l’aiuto reciproco tra le nazioni, la difesa dell’ambiente, il commercio equo, un’economia solidale e la lotta alla povertà. Che a livello personale l’arma più potente è il perdono e la nonviolenza, e che gratuità, volontariato, servizio, condivisione, aiuto a chi è nel bisogno e rispetto delle diversità sono più forti e danno più sicurezza di porte blindate, di regolamenti razzisti, di armi in casa, di ronde e vigilantes. Siamo incoraggiati dal fatto che il nostro paese è davvero ricco di gruppi, associazioni e movimenti che «lottano» per la pace e la nonviolenza e sono attivi nel volontariato e nel servizio alla comunità. Questo è bello e dà tanta speranza.
C’è un germe di speranza anche nelle elezioni appena svolte: l’affluenza alle urne ha battuto tutte le previsioni di astensionismo, soprattutto tra i giovani. Questo significa che, nonostante certi politici fallimentari e autoreferenziali, gli italiani credono ancora nella «Politica» e nella partecipazione alla vita del paese, e sono coscienti «del diritto, che è anche dovere, di usare del proprio libero voto per la promozione del bene comune» (Gaudium et Spes 75). Perché «la comunità politica esiste in funzione di quel bene comune, nel quale essa trova significato e piena giustificazione e che costituisce la base originaria del suo diritto all’esistenza» (GS 74). Noi, irriducibili sognatori, continueremo a credere che il futuro non è dei corrotti, dei venduti ai grandi poteri economici, di chi mette i suoi interessi al primo posto o è affamato di potere, dei mafiosi e dei massoni, ma di quegli uomini, cristiani e non, che, presa «coscienza della propria speciale vocazione nella comunità politica», si impegnano in prima persona, «sviluppando in se stessi il senso della responsabilità e la dedizione al bene comune» (GS 75).?«Bene comune» che, oggi più che mai, ha dimensioni planetarie, visto che ogni scelta politica, economica e ambientale ha effetti su tutta l’umanità.

Gigi Anataloni

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P.S. MC non ha cambiato titolo. Quest’anno la testata ricorda i 120 anni della rivista, fondata dal beato Allamano nel 1899 come il bollettino «La Consolata» dell’omonimo santuario di Torino. Dal 1901 il bollettino ha due anime: il santuario e le missioni d’Africa. Così nel 1928 si divide in due pubblicazioni: quella del santuario e «Missioni Consolata» che è la voce dei missionari.




Uomo, donna e robot

di Gigi Anataloni |


Siamo alla fine degli anni Sessanta a Tuuru, sulle colline vulcaniche che dal Monte Kenya scendono verso l’Oceano Indiano. Si sta costruendo un acquedotto per un centro di bambini poliomielitici. L’acqua è a 25 km di distanza, nella foresta dello Njambene. Arrivano fondi da donatori. Il progetto prevede l’acquisto di un grosso scavatore per accelerare i tempi. Ma l’uomo che è la mente e il cuore del progetto non è convinto. Si siede e fa due conti. Uno scavatore, una decina di operai, tre mesi di lavoro da una parte. Zappe e carriole, cento operai, tre anni di
lavoro dall’altra. Costo: invariato. Sceglie le zappe. Cento operai sono cento famiglie. E poi lo scavo fatto da un uomo con la zappa attraverso un campicello di mais è certo meno distruttivo di quello fatto con uno scavatore. Risultato? Dopo quasi cinquant’anni quell’acquedotto è ancora là e disseta quasi mezzo milione di persone e animali. Altri progetti coevi, fatti con «lo scavatore»,
sono da tempo spariti nel nulla, ingoiati dalla foresta.

La storia che vi ho raccontato non è nuova. Tante volte su questa rivista vi abbiamo parlato dell’acquedotto di Mukululu e di fratel Mukiri, Giuseppe Argese, il silenzioso.

Ho pensato a lui leggendo i numerosi articoli di giornali e riviste che di questi tempi informano entusiasti o, al contrario, suscitano paure a proposito dei robot e dell’intelligenza artificiale destinati a soppiantare il lavoro degli uomini. Come se a «rubarci il lavoro» non bastassero i «disperati» che provengono «da zone in cui il valore della vita umana è pressoché uguale a nulla» (come ha scritto un esimio professore). Ci si mettono pure i robot.

Davvero i robot? Non sono certo loro che decidono dove e come lavorare, in quali fabbriche, in quali settori, in quali aree. Il robot che gestisce in automatico gli acquisti e le vendite di azioni in borsa, non si attiva da solo, ma qualcuno ha scelto di usarlo così per guadagno, anche se rovina tantissimi altri. Il drone che sgancia la bomba su una festa di nozze in Afghanistan, è programmato e mandato da un uomo, non agisce autonomamente. Anche il fantastico robot che esegue operazioni chirurgiche di alta precisione, non agisce di sua iniziativa. L’algoritmo (oggi con «l’algoritmo» si spiega tutto!) che nei social controlla tutto e tutti alla faccia della privacy non si è creato da solo, ma è perfezionato da uomini controllati da altri uomini che in testa non hanno certo il bene-essere dell’umanità ma il denaro. È un caso che un gruppo ridottissimo di individui diventi sempre più ricco proprio mentre la maggioranza impoverisce? E non solo impoverisce, ma diventa sempre più litigiosa e spende sempre di più in muri e barriere e armamenti (che non portano maggiore pace e sicurezza, ma certo arricchiscono chi li produce e vende).

Non sono contro i robot e il progresso. Tutt’altro. Ma mi preoccupa l’erosione della libertà e il sempre maggior controllo che dobbiamo subire attraverso robot e programmi usati per condizionare la nostra vita. Vorrei poter usare la tecnologia, non essere usato attraverso di essa.

Come qualcuno ben più importante di me insegna, se al centro delle nostre scelte politiche, economiche e sociali non c’è l’uomo, la sua dignità e il suo bene-essere, rischiamo davvero di costruirci un mondo invivibile, sempre più diviso, ingiusto e meno umano.

Uomo al centro, come «adam», uomo e donna uniti.
In occasione dell’8 marzo si scrive e parla molto di «donna». Ed è bello e giusto che lo si faccia. Mi piacerebbe però che non si parlasse solo di quelle donne che hanno il coraggio del «Metoo!». Oltre alle tante, troppe vittime della violenza di chi dice di amarle, non dimentichiamo le donne Rohingya, le Yazide, le madri siriane, le donne sudanesi, somale, nigeriane, congolesi, centrafricane e di tanti altri paesi. Non si chiudano gli occhi sulle donne, sempre più giovani, costrette a contendersi i nostri marciapiedi, a esibirsi sulle nostre spiagge, a illuminare le nostre strade; donne trafficate, vendute, sfruttate da mafie nostrane e internazionali. Donne oggetto, usate da gente perbene, da italianissimi padri di famiglia, lavoratori, impiegati e professionisti. Gli stessi italianissimi che con la bandiera tricolore sulle spalle sparano (o applaudono a chi spara) su presunti pushers e magnaccia di colore, i quali, quelli che lo sono davvero, esistono e prosperano perché italianissimi giovani e meno giovani cercano e consumano quanto essi vendono sfacciatamente.

Nel mondo si è fatto e si fa tanto per difendere, aiutare e promuovere le donne. Tanto rimane ancora da fare. Ma non basta pensare solo a loro. Gli uomini, i maschi intendo, che spesso sono la causa prima di violenze e abusi, hanno anche loro bisogno d’aiuto per ritrovare se stessi, la propria dignità, il proprio ruolo nella società, non separati o sopra le donne, ma insieme, come ci ha sognati il nostro Creatore che ha fatto dei due, insieme e inseparabili, la sua immagine.

Gigi Anataloni




Scuse e perdono


Testo di Gigi Anataloni |


«Care Divany e Madina, scusateci».

Leggi tutta la rivista di Gennaio-Febbraio 2018 nello sfogliabile. La puoi anche scaricare tutta o solo le pagine che interessano.

Così cominciava su Vita.it del 12 dicembre scorso l’articolo che Daniele Biella – autore del dossier di questo mese – ha dedicato a Divany e Madina. «Divany, originaria del Camerun, è morta annegata a tre anni nelle acque a 30 miglia dalla Libia nel naufragio del 6 novembre 2017». Il suo corpo non è mai stato ritrovato. «Medina Husein, afgana di sei anni, è stata investita da un treno merci alla frontiera tra Croazia e Serbia lo scorso 21 novembre 2017». Il corpo è stato restituito ai suoi genitori solo dopo diversi giorni. «Nessun pietismo, ma un atto di estrema denuncia sì. Le due piccole hanno trovato la morte alle frontiere europee, che siano di terra o mare: frontiere che chi cerca rifugio da guerre o violenze non può attraversare oggi in modo legale e che quindi mettono a rischio la vita di tutti, bambini e adulti. Con i trafficanti a guadagnarci cifre stellari e con intere famiglie con più nulla da perdere che provano a passare confini in ogni condizione, venendo poi respinti dalle autorità (come accaduto alla famiglia di Madina qualche minuto prima della tragedia)». In copertina abbiamo messo la foto di Madina scattata da Silvia Maraone (dell’Ong Ipsia delle Acli) il 12 luglio scorso nel campo profughi di Bogovadja in Serbia. La storia di Divany, invece, è parte di quanto ci racconta Gennaro Giudetti alle pagine 43 e 44 del dossier. Leggere quelle storie fa venire i brividi. Mentre causano tristezza e sdegno certi commenti che purtroppo spopolano sui social a proposito dei migranti.
La vicenda di Divany e Madina ci obbliga a riflettere, perché è emblematica di un dramma che sta attraversando questi primi decenni di un secolo pieno di promesse ma anche di grandi paure. La morte delle due bambine non è un caso isolato, un’eccezione imbarbarita. I minori sono tra le prime vittime di un esodo che riguarda milioni di persone e di cui noi, in Europa, conosciamo solo le frange marginali e forse addirittura più qualificate. Fossero anche in 200mila quelli che sono arrivati in l’Italia nel 2017 per poi disperdersi in Europa, non sono che briciole di fronte agli oltre 500mila (Rohingya) in Bangladesh, ai 600mila (siriani) in Giordania, ai 700mila in Etiopia, quasi un milione in Iran, oltre un milione in Libano, un milione e mezzo in Pakistan, più di due milioni in Turchia, senza contare le masse di rifugiati interni ed esterni del Sud Sudan (800mila), della Somalia (800mila fuori, 1,5 milioni dentro), e di Eritrea, Yemen, Repubblica Democratica del Congo, Nigeria e paesi del Sahel, Colombia e Venezuela. E l’elenco è incompleto.
«Oggi stiamo assistendo ai più elevati livelli di migrazione mai registrati: 65,6 milioni di persone in tutto il mondo, un numero senza precedenti, sono state costrette a fuggire dal proprio Paese. Di queste, circa 22,5 milioni sono rifugiati, più della metà dei quali di età inferiore ai 18 anni». Questo scrive l’agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unchr) sul suo sito. Sono cifre da spavento (i dati forniti dall’Oim, Organizzazione internazionale per i Migranti, sono anche più elevati), mentre prosperano gli affari dei mercanti di armi, dei trafficanti di uomini, dei ladri di risorse naturali e di minerali strategici. E invece di una risposta internazionale coordinata ed efficace che affronti i problemi alle radici e metta l’economia e la finanza sotto il controllo della politica, vediamo i paesi ricchi costruire nuovi muri, aumentare i controlli e fomentare nuove guerre e tensioni in punti nevralgici del mondo.
Per questo è urgente avere il coraggio di dire a tutte le Madina e Divany del mondo non solo «scusateci», ma soprattutto «perdonateci». Perché le scuse rischiano di lasciare le cose così come stanno, senza sentire il bisogno di cambiare. Chiedere scusa è già un bel passo perché è riconoscere di aver sbagliato. Il chiedere perdono però è molto di più: è riconoscere lo sbaglio e assumerne la responsabilità per un impegno a cambiare mentalità e modo di agire. È anche mettere nelle mani dell’altro la propria persona. È stabilire relazioni profonde. Il dramma mondiale dei rifugiati e migranti richiede una rivoluzione nel pensiero e nel modo di agire.
«Offrire a richiedenti asilo, rifugiati, migranti e vittime di tratta una possibilità di trovare quella pace che stanno cercando, richiede una strategia che combini quattro azioni: accogliere, proteggere, promuovere e integrare». Così scrive papa Francesco nel suo messaggio per la giornata della pace. Quattro azioni coordinate di cui la prima, accogliere, è la fondamentale. Accogliere non è solo un fatto logistico. Ricevere i migranti e chiuderli dentro a «simil campi di internamento», non è accoglienza. Accogliere è conoscere e farsi carico della persona del rifugiato, del suo dramma, dei suoi sogni. Accogliere è vedere la persona per quello che è, essere umano come me con un nome e una storia, e non uno stereotipo, un pericolo, una minaccia. Accogliere è creare relazioni nuove, costruire un futuro per tutti insieme, senza isolarsi nella difesa dei propri privilegi o identità. Accogliere è amare. Per questo a Divany e a Madina non basta chiedere «scusa», ma bisogna dire «perdonateci».

Gigi Anataloni

 

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Natale, il pane nella cesta


Ricordo il mio primo presepio «da grande».
Ero in prima media. Mamma mi aveva lasciato usare tutta la tavola bella della «sala». Alla cartoleria del paese con le mance da chierichetto (battesimi e matrimoni) ero riuscito a comperare due palme. Solo due, ma mi sembravano un’intera oasi. Fatto il deserto con la crusca, avevo messo le due palme, uno specchio e un po’ di muschio: l’oasi perfetta con i re Magi parcheggiati in attesa di partire per andare alla capanna dall’altro lato del tavolo. Emozioni da infinito, nostalgia di sogni e di piccole cose come la stella cometa di cartone dipinta con l’«argento» dei tubi della stufa o la culla per il Bambino fatta di paglia vera. Ricordi. Come quello del mio primo presepe africano, Natale dell’89, a Maralal, Kenya. Con i giovani avevamo raccolto scatole di cartone e riprodotto il paese con le sue strade e botteghe. E le mucche d’argilla cruda modellate dai bambini e la stalla con una lampadina rossa, l’unica «Luce» che illuminava il tutto, a ricordarci che Gesù nasceva proprio là, per noi.
Ora, è proprio ripensando alla vita dei pastori nomadi del Nord del Kenya che mi pare di capire più da vicino il racconto del Natale. Il freddo e il gelo, l’esclusione, l’albergo, la solitudine di Maria, la mancanza di pannolini … forse non è andata proprio così. Provo a calarmi in quella realtà, in Betlemme, la «città/casa del pane», un piccolo villaggio di contadini e pastori sulle colline attorno a Gerusalemme. Non è inverno, perché pecore e pastori sono sui pascoli, anche di notte. Forse è già primavera, prima dei raccolti estivi, tempo giusto per far muovere la gente per il censimento. Nell’area riservata alle carovane, vicino al pozzo, è una confusione unica: animali, bambini, fuochi accesi, andirivieni, schiamazzi, litigi, canti, danze, chiacchiere a non finire… Non è certo quello il posto più adatto per far nascere un bambino. Le donne della famiglia di Giuseppe si mobilitano e trovano una casa per quella loro parente, mamma ancora bambina, al suo primo figlio. Ma l’unica stanza comune, lì dove tutta la vita si concentra, dove di notte tutti stendono la loro stuoia per dormire, non è certo la «sala parto» ideale. Meglio la stalla, la grotta sotto casa, dove la mucca e l’asino sono al sicuro e gli agnelli e i vitelli appena nati trovano un riparo. Lì nasce il bimbo, sano e bello. Maria non è sola, le donne sono con lei perché nessuna donna, in quel mondo, lascerebbe sola una mamma che deve partorire! Mani esperte e premurose si curano della giovane madre e del bimbo. Lo lavano, lo avvolgono in fasce, lo passano a Maria per la prima poppata e poi cercano un posto sicuro per metterlo a dormire. In un angolo c’è il basto di un asino, proprio quello di Maria. Da una parte ha una cesta con le poche cose di famiglia, dall’altra c’è quella del cibo per il viaggio, pane soprattutto. Il pane è finito e la cesta è vuota. Una culla perfetta per il bimbo. Così, colui che un giorno dirà «Io sono il pane della vita» è messo in quella culla e lì lo trovano i pastori venuti a cercare il «bambino avvolto in panni e adagiato nella cesta del pane». La cesta dalla quale tutti i viaggiatori possono servirsi.
Che bello, un Bambino, il pane della vita per saziare la fame d’amore dell’umanità.
Andiamo anche noi a mangiare di quel «pane». Andiamo, l’angelo ci invita …

Andare. Ma dove? Come trovare oggi la «città del pane»?
E poi, perché andare alla ricerca di semplice pane? Nel frigo c’è di tutto e di più e se manca qualcosa o quel che ho non mi piace, basta un salto al supermercato sotto casa dove ho solo l’imbarazzo della scelta. E non solo, posso anche permettermi di sprecare e buttare quel che non mi piace più e gli avanzi.
Ma la pigrizia e la pancia piena non sono l’unica difficoltà che oggi abbiamo. Vai per cercare la «città del pane» e ti ritrovi nel «villaggio di Babbo Natale», così simpatico con quel suo vocione e barba bianca, capace di accontentare tutti i tuoi desideri. Appena fuori, le «luci d’artista» ti prendono per mano e ti accompagnano in quelle luminosissime cattedrali del consumo dove sei invitato a concederti tutto ciò che puoi senza sensi di colpa. Non importa se poi in mano ti ritrovi più cose di quelle di cui avevi bisogno. È Natale, ci si può concedere qualcosa. Ti scappa l’occhio, là in quel punto d’incontro gli anni scorsi c’era un presepio. Non lo fanno più per rispetto a gente di altre religioni. Giusto, naturalmente. E ti affretti al cenone, quello di Natale appunto. Come mancare? Tacchino all’americana, panettone e spumante all’italiana. Mezzanotte! «A che ora è la messa di mezzanotte?». Meglio non andarci. Quel prete, con le sue prediche sul «pane da condividere con i poveri, sull’amore gratuito, su quelli che vengono da lontano e seguono la stella mentre noi non sappiamo più vederla, su un “Dio talmente pazzo e pazzesco che non riesce a vivere senza noi” tanto da farsi dono da spezzare e condividere», è capace di rovinarti la festa.
Il «pane della vita» è sempre là nella cesta, pronto a saziare la nostra fame, quella vera.




Lacrime nascoste di missionari


A Capodanno del 2012 ero a Campi Garba (periferia Nord di Isiro, Nord del Kenya), una sosta non programmata in quello che doveva essere il mio viaggio nel Meru er il centenario della Chiesa locale. La notte del 30 dicembre 2011 erano stati assassinati il catechista e alcuni abitanti di una parrocchia nella periferia Sud della città, e i campi da gioco attorno alla cattedrale erano pieni di gente terrorizzata dalla possibilità di ulteriori attacchi da parte di banditi manovrati da politicanti senza scrupoli (vedi «L’altalena non danza più» su MC 3/2012). Ho iniziato l’anno nuovo con padre Pierino Tallone in un villaggio dove erano concentrati molti di quelli che erano dovuti scappare dalla violenza. Nel pomeriggio, prima di proseguire il mio viaggio, ho scambiato un po’ di impressioni con lo lui, per cercare di capire le cause di quei cosiddetti «scontri tribali». Padre Pierino era un veterano del Kenya, nel quale era arrivato nel 1963, e dal 1965 viveva nel Nord del paese. Nella sua vita era passato attraverso sofferenze e disagi di ogni genere ed era stato temprato dall’aspra bellezza della terra Samburu. Ma quel pomeriggio, guardando alla desolazione e al dolore causato da tanta violenza, aveva la voce rotta dal pianto. Non era un pianto dirotto, anzi, lui faceva di tutto per nasconderlo.

Il ricordo di quel vecchio missionario commosso e desolato dalle sofferenze della gente da lui tanto amata è qualcosa di indelebile nel mio cuore. Un ricordo tanto più forte perché padre Pierino era abile a mascherare i suoi sentimenti dietro un carattere un po’ burbero che poco concedeva alla debolezza. Un ricordo tornato di prepotenza alla notizia della sua morte, avvenuta a Nairobi il 21 settembre scorso, dopo ben 54 anni passati a servire Samburu, Turkana, Pokot e tanti altri nelle loro splendide e dure terre.

Quel ricordo è tornato leggendo le parole misurate di padre Rinaldo Do, dal Nord del Congo. «Continuano devastazioni, saccheggi, uccisioni, … in altre regioni interi villaggi abbandonati, migliaia di persone in fuga. Fino a quando?», scrive nella lettera che pubblichiamo in questo numero. «Abbandonare il Congo, andare in un altro paese più tranquillo, ritornare a casa…», una grande tentazione, vinta solo da un amore più grande. Scusa, padre Rinaldo, se mi permetto di andare oltre il significato più immediato delle tue parole e provo a intuire quello che c’è nel tuo cuore. Ma il mio mestiere di lunga data mi ha fatto incontrare tanti amici e confratelli che, come te, hanno il cuore straziato dai drammi che condividono con le persone con cui vivono, magari nei posti più dimenticati del mondo, senza avere nemmeno il lusso di poter piangere.

Non è cosa di tutti i giorni vedere piangere un adulto, ancor meno un prete e per di più un missionario. Quando rientrano nei loro paesi di origine, di solito, raccontano solo le cose belle, la gioia di vivere, la fede, l’intensità dei mille impegni, la crescita delle comunità, le danze e i canti. Poco o niente dicono di sé, delle loro fatiche, dei dubbi, delle lacrime versate nel silenzio della propria stanza o nell’intimo della cappella di comunità, lontano da occhi indiscreti. Il loro non è il pianto incontrollabile del dolore fisico, ma quello del «beati quelli che piangono» perché si fanno carico delle sofferenze delle vittime dell’ingiustizia e della violenza. È il pianto che sgorga di fronte della durezza di cuore di chi il male lo fa o di chi è diventato indifferente e si è chiuso nella torre delle sue certezze, dei suoi diritti e della sua autosufficienza. È il pianto di chi si sente impotente a fermare la violenza e l’ingiustizia cieca che priva i poveri dei diritti più elementari.

È anche il pianto nascosto di chi non capisce più il nostro mondo «moderno» che vive di pregiudizi, fake news, dipendenze e paure, allontanandosi da Dio e dal suo modello di umanità incarnato in Gesù per seguire mode politicamente e consumisticamente corrette. Il pianto di chi ricordando la gioia festosa della sua ordinazione e la partecipazione comunitaria alla sua partenza per le missioni, trova, tanti anni dopo, nel suo stesso paese comunità scristianizzate, allo sbando e senza preti, e giovani, anche tra i pochi cristiani impegnati, indifferenti o troppo occupati in altro per pensare di mettersi a servizio a vita di quell’incredibile avventura d’amore che è la missione, quella lontano, tra altri popoli, lingue e culture.

Sono le lacrime dell’amore, di chi si affida totalmente, nella sua povertà e piccolezza, a Colui che tutto può e sulla pietra gettata via dai costruttori, scartata, costruisce nuove incredibili meraviglie.

Benedetto sia il Signore.




Missione … e malaria


In una valle delle nostre splendide Alpi un gruppo di giovani di una parrocchia di città, a fine agosto, sta facendo il campo estivo. Accanto alla casa che li ospita cresce una alberello di prugne, che, ormai mature, dolcissime e assolutamente bio, cadono sul sentiero che i giovani percorrono più volte al giorno. In terra prugne calpestate. In alto rami carichi di blu profondo. Passano i ripassano i giovani. Non vedono le prugne. Non allungano la mano per cogliere quella bontà fresca e gratuita.

Un’altra storia. Da un altro mondo. Africa, Tanzania. Un missionario scrive entusiasta ad amici e benefattori delle meraviglie che il Signore sta operando: le ordinazioni di tre nuovi missionari, dieci giovani che hanno completato il loro periodo di noviziato e iniziano gli studi di teologia, e molti altri che finita la scuola secondaria entrano in seminario per iniziare il cammino di formazione per essere un giorno testimoni di Gesù nei più remoti angoli del mondo.

Due storie apparentemente slegate tra loro, da due mondi molto diversi.

Missione, gioia contagiosa

Ho pensato a questi due fatti leggendo il messaggio di papa Francesco per la Giornata Missionaria Mondiale del 22 ottobre. «La missione della Chiesa, destinata a tutti gli uomini di buona volontà, è fondata sul potere trasformante del Vangelo. Il Vangelo è una Buona Notizia che porta in sé una gioia contagiosa perché contiene e offre una vita nuova: quella di Cristo risorto», scrive papa Francesco. Un messaggio trasformante, realizzato attraverso l’annuncio del Vangelo, nel quale Gesù si fa «sempre nuovamente nostro contemporaneo».

Leggendo queste parole ho pensato a quei ragazzi di città talmente abituati alla frutta del mercato o del frigo di casa da non accorgersi di quella ancora sull’albero. Forse ci rappresentano un po’, abituati come siamo a lasciarci saziare da social, televisione, giornali, fake news, opinione pubblica, guru, politicanti e specialisti vari che ci sommergono di «ricette» per vivere felici senza problemi, al punto da trascurare l’ascolto di quella Parola di Vita che è Gesù stesso, Parola spesso relegata a una frettolosa oretta domenicale – ferie, ponti e settimane bianche permettendo -.

Ho pensato anche ai giovani del Tanzania, più poveri e con meno mezzi di noi, perché sono ancora capaci di «arrampicarsi sugli alberi per cogliere la frutta fresca» della Parola di Dio che li apre alla gioia contagiosa e trasformante dell’incontro con il Cristo risorto e con gli altri.

Beati noi, però, perché Dio non si stanca mai di offrirci la sua «frutta fresca e gratuita».
Beati noi, perché Dio crede nell’uomo più dell’uomo stesso.

Malaria e manipolazione della verità

Malaria. Cambio argomento, provocato dalle assurdità che vedo, leggo e sento in questi giorni a proposito di malaria. Comincio autodenunciandomi come suo possibile «portatore sano» e potenziale fonte di contagio (cfr. articolo pag. 62) per chi mi sta vicino con zanzara anofele di mezzo. Questo perché dopo 21 anni di Kenya e un po’ di Tanzania, di punture di zanzare portatrici del parassita ne ho prese a volontà, anche se la malaria vera e propria non l’ho mai avuta. Mi vergogno come italiano della strumentalizzazione della morte di una bambina e del dolore della sua famiglia per diffondere notizie false che alimentano odio e razzismo, sfruttando buon cuore, ignoranza e paure della gente. Certo la malaria non è una bella malattia. L’ho visto di persona. Ricordo che all’ospedale di Wamba nel Nord del Kenya, durante i periodi di siccità e fame moriva almeno un bambino al giorno di malaria. Inoltre so bene che più di un missionario ha perso la vita per lo stesso motivo, tra di essi alcuni cari amici. Ma usare il pretesto della malaria per alimentare il razzismo e aumentare l’odio verso persone come i migranti dall’Africa che di dolore, violenze e sofferenze sono carichi, mi sembra ingiusto e indegno del nostro essere italiani.

Queste manipolazioni a scopi di politica elettorale non sono accettabili, né per i migranti che ne pagano il prezzo con ulteriori sofferenze, né per ogni italiano, perché come italiani ci meritiamo più rispetto di quello che certi nostri politici ci danno. Solidarietà e volontariato sono due impagabili caratteristiche del nostro paese che noi missionari conosciamo bene. Due forze di vita che si manifestano sia sul nostro territorio sia nella miriade di associazioni e gruppi che aiutano a livello internazionale. Solo che non fanno rumore, come la foresta che cresce. «L’italiano qualunque», quello che ama la pace, quello dal cuore grande, ha gli anticorpi al plasmodio dell’intolleranza e del razzismo. Usiamo l’insetticida della fraternità, della compassione e della vera umanità contro le zanzare dell’odio e del razzismo che si nutrono delle nostre paure.




Editoriale: Ciao, non solo un saluto

Ciao
Titolo non proprio originale, lo ammetto. Ciao è un saluto facile, immediato, familiare, informale, perfino un po’ trasandato e quasi universale. Nelle sue variazioni è diventato un saluto internazionale che si trova bene sulle bocche di giovani e adulti in Francia e in Russia, in Vietnam come in Brasile e in tanti altri paesi del mondo, anche dove si parla inglese. Usato originariamente nel Veneto, nell’Ottocento ha conquistato la Lombardia e poi anche la Toscana, diventando il saluto informale comune di tutta l’Italia del Novecento. Ma se i Veneti di un tempo (forse) ne conoscevano bene il significato, abituati com’erano a togliersi il cappello di fronte ai signori quando li salutavano, dubito che i giovani e meno giovani che lo usano con disinvoltura in ogni angolo del mondo siano preoccupati di saperne il significato etimologico. Se questo saluto fosse davvero capito e messo in pratica alla lettera, potrebbe innescare la più grande rivoluzione pacifica del pianeta e cambiare le relazioni tra persone e popoli. Sì, proprio il semplice «ciao». Ma andiamo con ordine.
Ciao «deriva infatti dal termine veneto (più specificamente veneziano) s’ciao, proveniente dal tardolatino sclavus, traducibile come “[sono suo] schiavo”. Si trattava di un saluto assolutamente reverenziale». Così su Wikipedia e, similmente, su la Treccani, su Focus e su altri dizionari facilmente consultabili online. Ovvio che in origine era il saluto dei servi ai padroni, soprattutto i grandi proprietari terrieri e latifondisti che controllavano gran parte delle terre di tutta Europa fin dai tempi dei Romani. Retaggio di tempi in cui il fattore, longa manus del padrone, poteva entrare nelle case dei contadini e controllare quello che mangiavano per verificare che non ci fossero cibi non autorizzati e riservati soltanto ai signori. Era il saluto da servo a padrone, ma il tempo e l’uso l’hanno modificato e reso patrimonio comune. Nessuno oggi ne ricorda la dimensione servile, ma solo la familiarità, la gioiosità e l’uguaglianza tra persone che esso esprime.
Eppure il significato che questo saluto nasconde è davvero rivoluzionario. Immaginate solo per un momento che quello che si dice con la bocca (ciao = «sono suo/tuo schiavo») esprima davvero quello che si porta nel cuore, che davvero voglia dire: «Mi metto al tuo servizio» e, quindi, non penso ai miei interessi ma faccio tutto quello che è necessario per la tua felicità, il tuo benessere, la tua pace e la tua gioia. E che chi risponde al saluto con il suo «ciao» abbia gli stessi sentimenti e sia pronto ad aiutare, sostenere, accogliere, «servire» la persona che lo ha salutato. Immaginate un «ciao (= sono tuo servo)» che non sia di maniera né di opportunità, libero da timore e dipendenza, non corrotto da relazioni di tipo mafioso. Un «ciao» che esprima rapporti nuovi tra le persone, nei quali ognuno metta il benessere e la felicità dell’altro al centro. Un «ciao» che faccia sentire benvenuta, accolta, rispettata e, perché no?, servita la persona che è salutata.
Ve la vedete la scena di un qualsiasi ufficio pubblico dove l’impiegato/funzionario di turno ti dice «ciao» e veramente ti guarda e ti serve come una persona e non un numero o un rompiscatole? Un avvocato che dicendoti «ciao» pensa «come posso aiutare questa persona?» e non «quanto ci posso guadagnare?». Un prete che ti vede con gli occhi di Gesù e non con quelli del diritto canonico? I vicini di casa che non aumentino i divieti e i cancelli, ma dicano veramente «ciao» ai vivaci figli del vicino che hanno voglia di giocare in cortile e sappiano gioire della loro vitalità sbarazzina senza appellarsi ai regolamenti condominiali? Che succederebbe se i politici italiani incontrando la gente dicessero «ciao» perché vogliono fare un reale servizio al bene comune, con speciale attenzione a chi è più debole nella società? E un G20 del «ciao», nel quale i vari Trump, Putin, Xi, Merkel, May e tutti gli altri non pensino ciascuno a portare a casa il massimo vantaggio per la propria popolarità e il proprio paese, ma vogliano essere servi dell’umanità, della pace e della giustizia? Una pazzia?
Qualcuno, quasi duemila anni fa, ha osato sognare un mondo così. Nella cena in cui ha salutato per l’ultima volta i suoi amici, si è tolto il vestito della festa, ha indossato un grembiule da servo e si è messo a lavare i loro piedi. Alle loro reazioni scandalizzate ha detto che quello che lui faceva non era un’eccezione, ma mostrava quello che doveva essere il loro comportamento normale, quotidiano: «Lavarsi i piedi a vicenda» (Gv 13,14), «diventare servi gli uni degli altri» (cfr. Mc 9,35), come ha fatto lui che «non è venuto per essere servito, ma per servire» (Mt 20,28). Facendosi servo Gesù ha rivelato quello che è il vero volto di Dio, il volto dell’Amore. E ha anche mostrato agli uomini cosa significa essere davvero uomini, figli di quel Dio che è Amore, che è Misericordia.
Un sogno? A tutti un’estate ricca di ciao!




Lumache e camaleonti


Quando avrete tra le mani questo numero di MC, il Capitolo generale dei missionari della Consolata sarà già concluso. Mentre scrivo, invece, è ancora in corso.
Mi sembra di vivere in un mondo irreale, chiuso tra le mura di questa casa a due passi da san Pietro, assordato giorno e notte dal garrito dei gabbiani che hanno invaso il bel cielo di Roma, con il tempo ritmato dalle campane della basilica, il sordo rumore di fondo del traffico e il ta-ta-tum-ta-ta lontano dei fuochi artificiali che quasi ogni notte scoppiano lontano (ma cos’hanno sempre da celebrare in questa città?). Le ore passano veloci tra riunioni e sedute, preghiera e studio, condivisione e servizi. La possibilità di pregare il rosario passeggiando sotto i mandarini del nostro piccolo giardino è una benedizione per corpo e spirito.

Eppure non siamo qui per stare fuori dal mondo. Siamo qui per ricaricarci e per essere, sempre più, veri missionari. Lo scopo del nostro stare insieme per quattro settimane, 45 missionari originari di tre continenti (Africa, Europa e America Latina), è proprio quello di aprire il cuore e la mente alla realtà per tornarvi con energia e vita nuova, per «essere nel mondo» in maniera sempre più efficace e responsabile.

«Rivitalizzazione» e «ristrutturazione» sono le due parole più usate in questi giorni. E il buffo è che più ne parliamo, più io penso a due animaletti che sono entrati di soppiatto nel nostro capitolo: il camaleonte e la lumaca. Sono «scappati dalla borsa» di padre Giuseppe Frizzi, un bergamasco, missionario in Mozambico da una vita. Nel 1989, a gennaio, era a Nipepe quando suor Irene Stefani, ora beata, dissetò per diversi giorni un centinaio di persone – chiuse nella chiesa a causa delle minacce dei ribelli della Renamo che avevano assalito il villaggio – facendo scaturire acqua da un tronco secco, usato solitamente come fonte battesimale. Il «vecchio veterano» padre Giuseppe è venuto a condividere con noi capitolari lo speciale stile missionario della nostra beata e a raccontarci come i Makua di Nipepe l’avessero capita. L’ha fatto tramite immagini disegnate da artisti del posto. In alcune di esse, suor Irene era paragonata a un camaleonte, in un altro a una lumaca.

Io subito mi sono domandato: com’è possibile paragonare una missionaria dinamica e attiva come suor Irene alla lumaca, simbolo della pigrizia, o al camaleonte, simbolo del trasformismo che evita tutte le difficoltà?

Ho provato allora a mettermi nella prospettiva di padre Frizzi e dei suoi Makua: la lumaca è una creatura che non si lascia fermare da nessun ostacolo. Che il terreno sia liscio o ruvido, piano o in salita, spinoso o corrugato, sassoso o impolverato, bagnato o asciutto, lei avanza sempre. Niente la ferma. E lo fa senza violenza, senza imporsi, senza distruggere sul suo cammino. Altro che pigra! Una forza della natura invece. Però una forza mite, rispettosa.

E il camaleonte? È una sorpresa ancora più grande: egli, pur rimanendo se stesso, sa entrare in un ambiente senza spaventare, senza imporsi, con gesti lenti e misurati, assumendo il colore di chi è attorno a lui, diventando parte dell’ambiente.

Proprio come suor Irene che sapeva entrare nella vita delle persone con pazienza e mitezza, senza violenza o imposizione, nel rispetto dell’altro, della sua sensibilità e cultura. Delicata e sensibile, ma nello stesso tempo pertinace, resistente, inarrestabile. Disposta a farsi consumare dalla fatica, a dare tutto, pur di comunicare l’Amore di Dio.

Davvero una provocazione per i missionari di oggi e per ogni cristiano. Un modo di essere decisamente contro corrente, in un mondo in cui sembra prevalere la logica dell’imposizione con la forza (vedi ad esempio la corsa agli armamenti), del prendere per sé ciò che si vuole con ogni mezzo (land e water grabbing, rapina delle risorse, traffico di persone, giochi in borsa, corruzione, violenza sulle donne, ecc.) e della rassegnazione (di fronte a disastri o situazioni che non ci interessano finché non ci toccano). Il modo di vivere di una persona che, come la lumaca, spende senza riserve tutto quello che è e che ha, non si rassegna mai, non si lascia fermare da nessun ostacolo, non aspetta che siano gli altri a muoversi per primi e agisce con mitezza e rispetto, senza la fretta di avere i risultati «ieri» … ci fa dire: «Wow! Forse vale la pena pensarci».

Se poi, come il camaleonte, assumessimo i valori e le cose belle degli altri, facendo diventare il rispetto dialogo, l’accoglienza uno scambio, l’incontro una festa … tanto più direi: «Ne vale la pena!».

Per noi missionari «professionisti». Ma non sarebbe una bella proposta per ogni cristiano?