La ragazza del treno

«Si ricorda di me?» esordisce lei con un sorriso incerto. Padre Marco ricambia il sorriso, ma l’interlocutrice gli è sconosciuta. «Io sono la ragazza del treno – continua l’interessata -, che le ha chiesto se una prostituta può…». Ora Marco ricorda perfettamente.

Anni fa, sull’interregionale Torino-Milano, una donna dall’aspetto giovanile gli domandò a bruciapelo: «Può una prostituta diventare missionaria?». Era italiana: e, notando la crocetta bianca sul maglione blu del sacerdote, si era staccata da alcune «colleghe» straniere per rivolgergli quell’insolito quesito.

– Anch’io sono missionario – rispose padre Marco dopo un istante di esitazione.

– Ma immagino che lei non abbia battuto i marciapiedi. Io, invece, lo faccio da tempo.
– Quanti anni hai?
– Diciassette.
– Tutto è possibile a questa età.
Eccola ora suora. «Padre Marco, non è stato facile per me, prostituta, mutare vita. Per prima cosa, son dovuta uscire dal giro».
– Come hai fatto?
– Fuggendo, nascondendomi come una ladra. Non avevo casa. Finché una sera ho bussato ad un istituto di suore missionarie.
Padre Marco ha il cuore in gola mentre ascolta questa storia. La religiosa parla sottovoce, a raffica, senza pause: sembra posseduta da un’incalzante forza misteriosa, che la obbliga a raccontare.
Alla superiora dell’istituto (straordinariamente comprensiva) svelò tutto: anche sua madre faceva il mestiere (oggi ha smesso, data l’età); il padre era «protettore», mentre lei, sua figlia, non lo vide mai. Aveva una sorella: anch’essa sulla strada. «È morta a 22 anni, in seguito ad “una malattia peggiore del cancro”. Lo ha detto il medico…».

La suora continua a raccontare: gli occhi bassi e le dita delle mani incrociate, quasi per una supplica. «In convento la cosa più difficile da superare sono state le mie parolacce… Però volevo non solo cambiare vita, ma anche spenderla per i poveri, come penitenza, in nome di Cristo».

– E lo stai facendo – commenta padre Marco.

– Mah! Non ne sono certa…
In convento discute anche sull’ingiusto rapporto fra Nord e Sud del mondo. Ricorda, soprattutto, le guerre dimenticate «tra» e «contro» i poveri, che non scoppiano per caso. Terrorismi, crisi economiche, inquinamento dell’ambiente… affliggono anche il primo mondo. «Come se ciò non bastasse, c’è qualcuno che, a tutti i costi (e sono enormi), vuole fare la guerra: una guerra per nulla “intelligente”…».

In vista della missione, consegue il diploma di infermiera professionale: è caposala. Viene destinata all’Africa. Per natale dovrebbe già essere in…

– Ce l’hai proprio fatta – interrompe padre Marco!

– No! Perché ieri ho scoperto di essere sieropositiva. Dio perdona tutto. La natura no!

Scoppia a piangere. Ed è lì con una domanda straziante: cosa può fare una suora, ex prostituta, oggi sieropositiva?

– Dovresti dirlo alla tua superiora?

– Se lo dico, non parto più.

– Ammalata, in missione saresti più di peso che di aiuto.

La suora si avvia verso l’uscita mormorando: «Padre Marco, ho sperato che lei, come quel giorno in treno, mi potesse dire… In Africa i malati di Aids sono milioni. Si curano come possono, cioè miseramente. E perché non posso farlo anch’io? Intanto sono con loro: forse con un briciolo di fede in più. Se dovrò morire, morirò come loro…».

Padre Marco l’abbraccia e sussurra: «Buon viaggio, suor Manuela. E buon natale».

Francesco Beardi




La «charta magna» delle BEATITUDINI

T orino, santuario della Consolata. La
coice è quella delle occasioni solenni.
Il tempio risplende di cascate di luci,
che si rinfrangono sui marmi multicolori e
preziosi. L’altare maggiore è ammantato di
gigli dall’intenso e inconfondibile profumo. È
il 19 maggio 2002, solennità di Pentecoste…
con l’apostolo Pietro, gli altri apostoli, la madre
di Gesù e alcune donne che annunciano
la discesa dello Spirito Santo.
Pietro e compagni sbalordiscono gli ascoltatori,
non solo per il contenuto del loro messaggio,
ma anche perché parlano in aramaico,
mentre l’uditorio è composto da «parti, medi, elamiti»… piemontesi e siciliani, cinesi e
tibetani, russi e ceceni, palestinesi e israeliani,
americani, indiani, australiani…
E tutti capiscono…
Nel santuario torinese pregano il cardinale
Crescenzio Sepe (massimo responsabile dell’evangelizzazione
dei popoli), il vescovo
Mino Lanzetti (che rappresenta l’arcivescovo
Severino Poletto), i superiori dei missionari e
delle missionarie della Consolata. Ma gli occhi
dei numerosi fedeli sono puntati sui padri
Paolo Fedrigoni e Giorgio Marengo, le suore
Lucia Bartolomasi e Maria Inés: sono «della
Consolata», stanno per ricevere il crocifisso
e partire per la Mongolia.
S antuario della Consolata, maggio
1902. Il cardinale Agostino Richelmi
consegna il crocifisso ai primi quattro
missionari della Consolata in partenza per il
Kenya. Sono «figli» di Giuseppe Allamano,
rettore del tempio, oggi «beato»; appartengono
all’Istituto Missioni Consolata, che
l’Allamano ha fondato dopo aver miracolosamente
superato una gravissima malattia. E
raggiungono ii kikuyu del Kenya.
Sull’allora carta geografica del paese africano
compare anche «hic sunt leones» (questa
è terra di leoni). I leoni ci sono, eccome! Ma
il Kenya è abitato soprattutto da uomini e
donne: r meru, samburu, turkana, borana, rendille, el molo, luo…
I missionari della Consolata li incontreranno
tutti per annunciare le beatitudini di Dio.
Questo «numero speciale»
KENYA, AMORE NOSTRO
insegue una (stra)ordinaria missione.

Dunque 100 anni sono trascorsi dalla
prima partenza dei missionari per il Kenya. «Dal 1902 ad oggi ogni missionario
della Consolata – afferma il cardinale
Sepe – parte idealmente da questo santuario;
parte con l’intento di vivere la missione ad
gentes con le caratteristiche suggerite dal titolo
“Consolata”, consegnato dal fondatore
Giuseppe Allamano come principio ispiratore
dell’attività: “elevare” la condizione delle
persone attraverso l’annuncio del vangelo, la
promozione umana, la difesa dei diritti umani,
la lotta contro le ingiustizie; incontrare la
gente e stare con essa, specialmente con chi è
emarginato, solo, triste, sfruttato; preoccuparsi
delle sue necessità e mirare al bene integrale
delle persone».
Al presente i missionari e le missionarie della
Consolata sono circa 2 mila, presenti in 25
nazioni: in Africa, nelle Americhe, in Asia, in
Europa. E oggi puntano verso le sterminate
steppe del mitico Gengis Khan, con una piccola
squadra multiculturale (vi sono pure una
colombiana e un argentino). È «una partenza
insieme»: non a caso per l’Asia, dove vive e
soffre la stragrande maggioranza dei non cristiani.
«La Pentecoste continua oggi – prosegue il
cardinale -. La consegna del crocifisso a questi
missionari ci ricorda che il dovere di annunciare
il vangelo in ogni parte del mondo è
di tutti i battezzati. “Non possiamo starcene
tranquilli – afferma pure Giovanni Paolo II –
di fronte a milioni di fratelli e sorelle, anch’essi
redenti dal sangue di Cristo, che vivono
ignari dell’amore di Dio. Per il singolo credente,
come per l’intera chiesa, la causa missionaria
deve essere la prima, perché riguarda
il destino eterno degli uomini e risponde
al disegno misterioso e misericordioso di
Dio” (Redemptoris missio, 86)».
È«lo zoccolo duro» o «la natura» della
chiesa cattolica, che è tale (cioè universale)
solo se missionaria. Lo ribadì con
forza il Concilio ecumenico Vaticano II, che 40
anni fa (l’11 ottobre 1962) aprì i battenti per
celebrare l’evento ecclesiale più significativo
del secolo.
Un evento attualissimo, per rilanciare la pace
e la giustizia, il dialogo interculturale, la libertà
religiosa, senza tuttavia demordere dall’annunciare
Gesù Cristo.
Ma la missione non è un andare a senso unico:
è «andata e ritorno». Così, Joseph Gitonga,
Reuben Kanake e James Lengarin (rispettivamente kikuyu , meru e samburu) sono missionari
della Consolata in Italia.
Cent’anni fa i «nostri» partivano
per il Kenya. Oggi si
assiste al processo inverso.
Questo perché la
«casa», in Africa o in
Europa, è di tutti. Con
la certezza che invano
si affaticano i loro costruttori,
se non lo fanno
secondo le «beatitudini»
del vangelo.
La «charta magna» di
tutti i cristiani.

FRANCESCO BERNARDI




KENYA, AMORE NOSTRO

Voci speciali del coro

Missionari alla ribalta
Ecioè: padre Giuseppe Richetti,
ricco di molti doni; suor Prisca
Groppo, «la grande sorella medico»;
padre Franco Soldati, divenuto africano
come pochi; i padri Peter Njoroge
e Joseph Otieno, kenyani, oggi missionari
in Corea del Sud; padre Franco Cellana
con i ragazzi di strada a Nairobi….

LA RICCHEZZA
DI MOLTI DONI

Padre Giuseppe Richetti (1933-1993)
I giovani e i pellegrini che in quest’anno
centenario del nostro arrivo
in Kenya hanno visitato la
«culla» delle missioni della Consolata,
a Tuthu, avranno certamente sostato
presso un tempietto, isolato
nella radura: è il luogo esatto dove, il
29 giugno 1902, fu celebrata la prima
messa in territorio kikuyu. Quel
monumento, modesto e prezioso ad
un tempo, fu progettato e realizzato
da padre Giuseppe Richetti. Tra le
molteplici attività della sua vita missionaria,
era anche attento alle piccole
cose, ai «segni» capaci di suscitare
emozioni e interrogativi.
Ricordandolo oggi, a quasi 10 anni
dalla sua scomparsa improvvisa,
l’immagine che di lui è rimasta più
impressa è quella di un uomo «tuttofare
», dall’instancabile e variegata
attività. Per lui, essere missionario significava
affrontare la realtà con generosa
dedizione e sguardo intelligente,
per rispondere ai bisogni, prevenire
le attese, inventare soluzioni.
Se la parola non fosse un po’ abusata,
si potrebbe dire che fu «un profeta
»: non arrabbiato o scostante, ma
buono, sensibile e… furbo!
L’Africa l’aveva nel sangue e, prima
di raggiungerla, dopo l’ordinazione
sacerdotale, aveva dovuto aspettare
«impazientemente» oltre 10
anni in Italia e Spagna. Le idee sulla
missione le aveva chiare, anche perché
aveva operato una scelta convinta,
lasciando il seminario diocesano
di Modena per entrare tra i missionari
della Consolata.
Ma i superiori volevano prima approfittare
delle molteplici doti di un
giovane prete, pieno di entusiasmo e
voglia di fare, brillante nell’insegnamento,
trascinatore nell’animazione
missionaria, capace di maneggiare
senza problemi soldi e bilanci. Anche
se lui, il chiodo lo ribatteva continuamente,
insistendo con richieste
accorate per la partenza, convinto
che se questa fosse stata ancora dilazionata,
avrebbe inferto «un colpo
mortale al suo entusiasmo missionario».
Finalmente, nel 1968, poteva raggiungere
il Kenya, convinto che quello
sarebbe stato il luogo definitivo
dei suoi giorni, che nessuno gli avrebbe
mai strappato via; nemmeno
i superiori che, dopo aver tentato di
proporgli un’eventuale destinazione,
come economo negli Stati Uniti, si
sentirono rispondere: «Non mi sento
più di lasciare questa vita per intraprendere
un lavoro in gran parte
sconosciuto e che, nel poco che conosco, mi ripugna profondamente…
Mi permetto di chiedere di non darmi
un’obbedienza che mi richiederebbe
una violenza che non sono in
grado di farmi!».
Ci riuscirono in realtà, qualche anno
dopo, a farlo ritornare in Spagna
come maestro dei novizi. Ma fu solo
una parentesi di nemmeno due anni.
In Kenya iniziò nella missione di
Tompson’s Falls e poi a Kerugoya.
Qui, pur sommerso da intense attività
pastorali, riuscì a costruire, con
l’aiuto dei fratelli coadiutori, un’artistica
chiesa parrocchiale (la prima di
una lunga serie), funzionale e ammirata
da tutti. Insieme ad un’équipe affiatatissima,
fu richiesto per due anni
a Nyeri, per organizzare il «Centro
pastorale».
Nonostante fosse impegnato al
massimo nel campo pastorale (e anche…
murario), non trascurava quello
che era uno dei suoi risvolti più caratteristici:
l’attenzione amorosa ai
poveri. Rimaneva profondamente
colpito dalle situazioni di indigenza
e, nello stesso tempo, della sua impotenza
di fronte all’enormità dei
problemi.
Scriveva agli amici, nel natale del
1992: «L’esperienza più forte è quella
della povertà, nei suoi aspetti elementari
(mancanza di cibo-medicine-
vestiti) e in quelli più complessi:
bambini che non vanno a scuola, genitori
che non si curano dei figli, disoccupazione
giovanile, corruzione…
Davanti a tali situazioni, spesso mi
prende un senso di impotenza. Tanto
più che, mentre tradizionalmente
la frateità del clan assicurava protezione
a tutti e a ciascuno, oggi le esigenze
della sopravvivenza acuiscono
(ahimè) l’individualismo… “I poveri
li avete sempre con voi e potete
aiutarli quando volete”. Ma li teniamo
veramente sempre con noi, in
mezzo a noi? Oppure, sono sempre
più emarginati e dimenticati? Cosa
vuol dire aiutarli? Si fa presto a dire:
“Insegnate a pescare, invece di dare
un pesce!”. Non bisogna dimenticare
che per pescare, oltre all’amo, occorrono
i pesci e l’acqua!». Sono rimaste
famose due sue iniziative, per
venire incontro ai bisogni: il «revolving
fund», microcrediti concessi alla
gente e che, una volta restituiti, venivano
nuovamente «investiti» per
altri; e il mulino mobile, trasportato
di villaggio in villaggio, secondo le
necessità di coltivatori e contadini.
Venne anche nominato amministratore
della missione del Sagana: una
realtà complessa e variegata per la
presenza di molteplici attività: noviziato,
casa di ritiri, parrocchia, dispensario,
villaggio per donne anziane,
scuole professionali… Riuscì, come
sempre, a tenere testa a tutto con
vivacità, saggezza e creatività.
Un tocco tutto personale lo diede
all’ideazione della cappella rotonda
della Bethany House, così da lui sognata:
«I fedeli siedono su di un’unica
panca circolare, che corre tutta intorno
all’edificio; lo scranno più alto
è riservato al celebrante: simbolo della
comunità, stretta attorno al suo pastore.
L’altare, al centro, costruito su
una roccia che balza dal pavimento,
richiama il Calvario; l’ambone è la
tomba vuota, rappresentazione plastica
del mistero che qui si celebra:
calpestando la tomba, simbolo di
morte, proclamiamo la risurrezione».
Tra le numerose iniziative, rimise
in attività la tipografia, sfoando a
pieno ritmo sussidi di ogni tipo per
la formazione di catechisti, animatori
di gruppi giovanili, leaders di comunità
di base, missionari. Suo chiodo
fisso era il catecumenato degli adulti
(non molto presente in Kenya,
nonostante la riforma del Concilio ecumenico):
si impegnò perché fosse
serio, duraturo, impostato come vero
cammino di iniziazione cristiana,
quale era appunto nella chiesa dei
primi tempi.
L’aspetto che più colpiva in padre
Giuseppe, fragile all’apparenza, erano
le mille idee che erogava, instancabile
nel ricercare il nuovo, ma attentissimo
anche agli aspetti più normali
dell’esistenza. Amava fermarsi
a chiacchierare con tutti, domandando
informazioni, interessandosi
ai problemi (anche spicci) e elargendo
consigli pratici (e non solo spirituali)
sull’agricoltura, l’allevamento,
le costruzioni, le malattie, i soldi…
Ebbe anche problemi di salute e due
volte dovette subire l’operazione all’anca
destra, che lo costrinsero ad usare
un caratteristico bastone-seggiolino
a forma di ombrello, che non
abbandonava mai.
L’ultimo suo campo di lavoro fu
alla periferia di Nairobi, nella
parrocchia di Banana Hill (la collina
delle banane): piccola come territorio,
ma popolata di 65 mila persone
(1.500 per chilometro quadrato), con
una marea sconfinata di giovani:
2.700 nella scuola matea; 14 mila in
quella elementare; 7 mila al liceo. Cifre
da capogiro! Come sempre, si
tuffò nell’impresa cercando di trovare,
ancora una volta, strade e mezzi
perché la piccola comunità cristiana
locale diventasse punto di riferimento
e luogo di frateità per tutti.
Ma quell’uomo che non sapeva coniugare
il verbo «riposare» non riuscì
a terminare la lunga serie dei progetti
in cantiere. A soli 60 anni, la sua
corsa frenetica si arrestava, lasciando
in tutti il vuoto e la tristezza per la sua
scomparsa.
Una persona buona, generosa e capace
di sognare in grande. Con i piedi
per terra e un grande ottimismo in
cuore.

L’HOTEL A CINQUE STELLE
«Andiamo a parlarne… nell’hotel
a cinque stelle, dove mangiano
e dormono».
Non riesco a capire dove voglia parare
questo trentino tagliato con l’accetta,
con una trentina d’anni di missione,
che trasmette simpatia a chili.
Ma stasera è giù di corda, padre Franco
Cellana a Nairobi: un paio di ore
fa, la polizia ha «pizzicato» 20 suoi ragazzi.
La stampa locale, il giorno dopo, ne
darà ampio risalto: volti terrorizzati di
bimbi fra poliziotti sorridenti e soddisfatti
del loro operato. La didascalia
di una grande foto recita: «Ragazzi
di strada. La polizia ha ricevuto numerose
denunce da pedofili aggrediti
e derubati»… Secondo padre Franco,
le retate si ripetono regolarmente: e,
dopo 3-4 giorni, i ragazzi ritornano
stravolti. Cosa succede in quel lasso
di tempo? Meglio sorvolare…
Sono le 9 di sera. Alcuni ragazzini
ci corrono incontro. Da un baracchino
nei pressi, padre Franco incomincia
a servire la cena. Gli «ospiti» siedono
sul marciapiede. La strada è il
loro quartiere; qui vivono e dormono.
Il cielo come tetto; asfalto o erba come
materasso. Schiena contro schiena
per sentire meno freddo: a Nairobi
le notti sono abbastanza rigide.
Mi siedo fra loro, ma non posso
non pensare alle mie tasche: c’è roba
da sfilare, se lo volessero. Ma sono
con il «loro padre», che difenderebbero
senza riserve: anche a costo di
pesanti conseguenze da parte di aggressori.
Aggressori forse su commissione,
perché il «loro padre è scomodo».
Mentre mangiamo, i ragazzi parlano
in swahili con foga. Per uno strano
miracolo (che nei paesi poveri
spesso succede), il senso del loro discorso
giunge anche a me, mentre essi
capiscono il mio. Chiedo loro di
cantare qualcosa.
Passano le ore, ma non hanno intenzione
di mettersi a dormire: temono
che la polizia possa ritornare.
Molti di loro non hanno mai ricevuto
un gesto di affetto, una parola buona.
Molti non conoscono il papà, ma solo
le percosse di tanti patrigni…
È notte fonda. Il taxi, che mi deve
portare alla modesta stanza in cui soggiorno,
attende. Cinque ragazzi si offrono
di accompagnarmi. «Potrebbe
essere pericoloso» dice uno. Uno di
quelli che, secondo negozianti e poliziotti,
borseggiano le signore troppo
eleganti. Ed è vero: e pure padre
Franco li rimprovera.
Questi, però, quasi a giustificarlo,
mi fa capire che la lotta contro la miseria
è sempre troppo dura.
Il missionario mi abbraccia, come
se ci conoscessimo da sempre. Poi…
«Hai visto il loro hotel a cinque stelle?
». Al mio no, con un dito indica il
cielo. «A Nairobi è sempre nuvoloso.
È difficile vedee più di cinque…».
Una sonora risata accompagna il primo
quarto di luna che si affaccia tra le
nubi.
Ripenso ad altre espressioni di padre
Franco. «Nelle baraccopoli
di Nairobi lo stato di denutrizione è
permanente. L’inquinamento presso
le discariche provoca asma e congiuntivite.
Tifo e malaria sono endemici.
Frequenti le epidemie di colera,
epatite e meningite. La tubercolosi è
in recrudescenza. Per non parlare dell’Aids…
Il mondo missionario ha fatto
molto, ma non basta. Occorre ripensare
la sanità secondo ideali umani
e cristiani più veri, credendo che la
salute per i poveri non è un’elargizione,
ma un diritto sacrosanto…».
MARIO BELTRAMI

UN’«ANGIOLA»
PER AMICA

Suor Prisca Groppo (1931-1971)
Aveva solo 40 anni. La sua vita
si fermò impietosamente
sulla strada Mombasa-Nairobi.
L’incidente (uno dei tanti su
quel tragitto della morte) strappava
al Kenya una missionaria tutta d’un
pezzo, generosa, intraprendente e
piena di sogni per alleviare le sofferenze
dei malati: suor Prisca Groppo,
la sister dagetari mkuu (la grande
sorella medico), come la chiamavano
gli africani (*).
Originaria di Torino, aveva dovuto
sfuggire ai pericoli della seconda
guerra mondiale rifugiandosi a Casorzo,
piccolo paese del Monferrato,
dove era rimasta per tre anni. E fu lì
che, ancora tredicenne, decise di dare
alla sua vita una direzione precisa.
Si era trovata per caso al funerale di
una suora della Consolata, morta a
soli 27 anni, senza aver potuto coronare
il suo sogno missionario. La piccola
Angiola (così si chiamava allora
suor Prisca) fu folgorata dal pensiero
che il posto di quella giovane suora
fosse rimasto vuoto. Disse tra sé: andrò
io per lei in Africa!
E quella decisione, frutto forse dell’emozione
del momento, rimarrà come
un chiodo fisso, una strada ormai
decisa e che aspettava solo di essere
percorsa. Per questo, quando dopo il
liceo si trattò di scegliere l’università,
nonostante che le piacessero le lettere
classiche, si iscrisse alla facoltà di
medicina: sempre in vista dell’Africa.
Intanto, accanto agli studi, riempiva
le sue giornate di mille altri «interessi
», in favore degli altri: i ragazzi dell’oratorio,
i piccoli a cui dare ripetizioni,
gli anziani delle soffitte torinesi,
gli ammalati e i poveri della «San
Vincenzo»…
Era una bella ragazza, esuberante
e piena di vita, ma anche capace di silenzio
e preghiera. Ai genitori aveva
confidato il suo sogno, che però poté
realizzare solo dopo aver raggiunto i
21 anni, diventando maggiorenne. Le
costò non poco lasciare il suo mondo
felice, i genitori che l’adoravano e, soprattutto,
il fratello Gian a cui scriveva:
«Noi due eravamo proprio amici
e tu ti fidavi molto della tua sorella così
mattacchiona. Ma sei stato contento
della mia gioia, mi hai capita e non
ti sei vergognato di fronte ai compagni
per avere una sorella così… retrograda
da andare a farsi suora».
Il 22 maggio 1955 faceva la professione
religiosa tra le missionarie
della Consolata. Riprese gli studi di
medicina, laureandosi nel 1959. Sensibile
com’era (nonostante le apparenze),
non le fu facile avvicinarsi al
mondo del dolore, soprattutto quando
doveva entrare in sala operatoria.
Con un amico, che incoraggiava la figlia
a iscriversi a medicina, sbottò:
«No, non incoraggiarla, è troppo doloroso
per una donna!». L’amico la
guardò sorpreso e le chiese:
– Ma, allora, perché ti sei fatta medico?
– Oh, per me è diverso – rispose -; lo
sai che l’ho scelto per l’Africa.
Era quella la sua meta, lo scopo
della sua vita. E neanche là sarà chirurgo,
ma solo un medico in giro per
i villaggi a curare, confortare e stare
accanto ai malati.
Arrivò in Kenya nel 1964, all’indomani
dell’indipendenza, e la
sua prima destinazione fu un piccolo
ambulatorio, con 18 letti a 30 chilometri
da Nairobi, che le suore avevano
battezzato Nazareth Dispensary,
proprio per la sua piccolezza e povertà.
E qui, la medico-missionaria iniziò
il suo tirocinio, fatto di accoglienza
dei malati, visite ai villaggi
sparsi sui collinoni vicini, incontro (e
scontro) con atteggiamenti e mentalità
che non sempre riusciva a capire.
Poi il problema della lingua, che imparò
con non poca fatica.
Un medico così bravo come suor
Prisca sembrava «sprecato» in un
piccolo dispensario… e poi le richieste
di assistenza aumentavano sempre
di più. Si arrivò così alla decisione di
ampliare la struttura e fae un vero
ospedale. L’artefice e protagonista di
questa lenta trasformazione fu proprio
suor Prisca; si vide moltiplicato
per mille il lavoro già intenso di medico,
che continuava a svolgere con
amore, intelligenza e la passione di
cercare il meglio. Soprattutto le mamme
impararono ad avere fiducia in
quel malaika rafiki (angelo amico),
capace di commuoversi per i piccoli
che nascevano in numero sempre più
abbondante e che, quando avevano
bisogno di lei, ricevevano sicuramente
il massimo delle attenzioni.
Le mille preoccupazioni per l’ospedale
che stava crescendo rendevano
ancora più faticose le sue giornate;
ma lei era sempre sorridente,
correndo da una parte all’altra, premurosa
e disponibile a chi la chiamava
per un paziente grave o per dare
un parere sul colore della sala operatoria.
Era contenta che i nuovi reparti
avrebbero potuto accogliere più
malati, venire incontro ai bisogni
sempre crescenti. E tutto sempre nello
stesso stile, senza deroghe: «Non
cambieremo sistema: le preferenze
saranno sempre per i più poveri!».
Prima dell’inaugurazione dei nuovi
padiglioni, volle darsi una pausa e
poter fare con calma gli esercizi spirituali.
Ottenne di andare a Mombasa,
sull’Oceano Indiano, dove sarebbe
potuta stare più tranquilla, riposarsi
e pregare con calma.
Il 25 novembre 1971 riprendeva la
strada del ritorno, sulla macchina
che lo zio aveva regalato all’ospedale,
in compagnia di un giovane medico,
autista, una consorella. Improvvisamente
la Volkswagen si trovò incastrata
nel retro di un grosso camion,
accartocciandosi come un giocattolo.
La più colpita fu lei che rimase immobile
mentre il sangue, inarrestabile,
le tingeva l’abito bianco. Fu trasportata
in un ospedaletto, a una sessantina
di chilometri (il più vicino) e
poi a Nairobi. Ma non ci fu nulla da
fare, nonostante le mille attenzioni, i
tentativi, le due operazioni…
Si spense, senza aver ripreso la parola,
il 30 novembre, lasciando attorno
a sé incredulità e disperazione. La
seppellirono nel piccolo cimitero dell’ospedale,
tra quei malati per cui aveva
dato il meglio di se stessa, vita
compresa. L’ultimo gesto, di delicatezza
e affetto fu del cardinale di Nairobi:
non volle che la bara fosse calata
nella tomba, ma vi fece scendere
alcuni uomini perché accogliessero la
missionaria e l’adagiassero, piano piano,
nella terra buona.
Era l’Africa che riceveva il piccolo
seme, perché, nascosto nella terra,
continuasse a portare vita e vita in abbondanza.
(*) Su Prisca Groppo si veda: Gian Paola
Mina, In Africa con amore, Emi, Bologna
1977.

La condizione della donna,
ALLEVIARE IL DOLORE È PROPRIO DI DIO…
Grazia ricevuta: una settimana di deserto, lontana dal
traffico assorbente dell’ospedale. Una settimana trascorsa
fuori del tempo in un altro mondo, un mondo immobile
di sole, pietre e spine. Immersi in questo mondo primordiale
vi sono gli abitanti, perfettamente connaturati con
l’ambiente, i nomadi del deserto appartenenti alla preistorica
età del ferro, senza la minima relazione con l’attuale era
post-atomica.
Il distretto del Nord è la zona del Kenya confinante con
l’Etiopia e la Somalia e si estende a nord-ovest fino al magnifico
lago Turkana nella
Rift Valley. Vulcani
spenti, montagne di pietre
laviche e sabbia danno
un senso di desolazione
eterna. Qua e là
arbusti spinosi. La strada
è appena tracciata:
una pista vagante dalle
mille direzioni, come la
vita quaggiù. Là si sente
che cos’è la vita. Si
percepisce cos’è l’esistenza.
Nulla è facile:
l’acqua per prima. Un filo
d’erba ha il suo valore.
Là tutto è ridotto all’essenziale.
Incontrare
un uomo, là, diventa una
cosa importante. E
non c’è uomo senza lancia
per la propria difesa.
L’uomo (antico come i
primi abitanti della terra
e nuovo come appena
creato) dai sensi acutissimi,
non logori né smorzati
dalla mollezza del
non uso.
Come sono belli i borana,
i samburu, i rendille,
i turkana: torniti
come statue d’artista! Mi
allontano dalla jeep per
fotografare alcune capannucce
rendille così
diverse da quelle kikuyu,
allineate laggiù all’orizzonte, mentre una processione di
cammelli torna al recinto. Sono pervasa dalla maestà rude
e semplice del paesaggio. Ma un vecchio, con la lancia, mi
viene incontro: calo rapidamente nella realtà e mi viene il
dubbio che voglia infilzarmi, perché ho profanato il suo regno.
Toare indietro ormai è impossibile. Avessi almeno
del tabacco! Ma egli ha qualcosa che lo preoccupa. Accenna
alla capanna ancora lontana e dice delle parole di cui
ne afferro una sola: malato. Lo seguo incuriosita. In un attimo
un gruppetto di guerrieri – sbucati da dove? – mi circonda
e mi scorta. Che meraviglia! Uno sa lo swahili. Mi
sento quasi un inviato celeste, un «Raffaele» (qui i richiami
biblici sono spontanei), capace di portare un bene, la
medicina, a questi esseri nomadi.
Si tratta di un bambino della cui malattia non sanno
dirmi alcun sintomo: loro non hanno osservato, sanno solo
che sta male. Guardandolo, mi sembra abbia una brutta
bronchite. Poi compare una donna a farmi vedere la mano
gonfia per un’infezione e mi fa capire che da tante notti
non dorme per il male. Un terzo ha la febbre, un quarto
qualcosa nell’occhio. Un altro, un altro… Ora non più meraviglia,
ma profonda compassione per questa gente che
soffre senza sollievo, senza uno di quei semplici conforti
che noi (con o senza ricetta)
usiamo con tanta
naturalezza senza
neanche pensarci.
Nelle mie capaci tasche
ho sulfamidici, antimalarici,
colliri, vitamine e
analgesici. Distribuisco
tutto con una certa trepidazione.
La mia arte
medica, sebbene semplice,
è troppo raffinata
per gli uomini del deserto!
Tuttavia essi ripetono
in coro le mie parole:
«Una pillola al mattino,
una a mezzogiorno, una
alla sera». Ho imparato
il ritornello perfino io,
nella loro lingua, e sono
sicura che non sbaglieranno
la dose. Come finale,
una vecchietta
vuole anche la scatola
ormai vuota, felice di
possedere qualcosa pure
lei.
Nel loro vagabondare
non hanno ancora incontrato
le suore che
stanno nelle missioni
del deserto, proprio per
loro. Vorrei restare là!
Penso a quel detto ritrito:
«Alleviare il dolore è
proprio di Dio»… e lo
sento vero.
Con fatica mi accomiato, mentre i compagni sulla jeep
cominciano a impensierirsi: è vicino il tramonto e la missione
è ancora lontana! I guerrieri mi scortano felici.
Un episodio come questo compensa largamente gli affanni
ordinari e i disagi della vita medico-missionaria. Tra
queste pietre ripenso ai miei colleghi, tutti presi da altri
problemi, eppure così sensibili a questo misterioso fascino
della dedizione che si cela nella coscienza sociale del medico.
Mi sembra di aver dato – con il semplice gesto di distribuire
una medicina a degli esseri tra i più bisognosi e
sconosciuti del mondo – una testimonianza di valore universale,
quella della frateità cristiana.
SUOR PRISCA

PIÙ AFRICANO
DI COSÌ…

Padre Franco Soldati
Èabbastanza raro che di un personaggio
si pubblichi la biografia
mentre è ancora in vita,
a meno che non sia davvero eccezionale.
Ma anche un umile missionario
della Consolata, da 50 anni in Kenya,
ha avuto questo onore ed è interessante
scoprie i motivi.
La storia di padre Franco Soldati
inizia nel 1921 ed è accompagnata,
fin dai primi giorni, dal ticchettio regolare
e continuo (pure di notte) di
una macchina da cucire Singer: quella
di sua madre che, rimasta vedova
con tre marmocchi e una femminuccia,
doveva trovare il modo di procurare
alla famiglia il pane quotidiano.
Lui era il più grande e la vita era
grama in quegli anni,
subito dopo la prima
guerra mondiale. Con il
fratello Pietro era stato
accolto dai salesiani; ma,
arrivati alla fine del ginnasio,
furono ambedue rispediti
a casa. Il motivo lo scopriranno
più tardi: essendo il
papà morto di tubercolosi,
non potevano intraprendere…
la carriera ecclesiastica in
una congregazione religiosa.
Ma Franco, diventato con
gli anni un ragazzetto esile e
smilzo, sapeva quello che voleva:
gli piaceva (chissà perché!)
essere missionario. Pertanto
tentò di entrare nell’Istituto della
Consolata, che aveva la sede vicino a
casa sua, a Torino, dove la famiglia si
era trasferita. Fu accettato «in prova
», mentre Pietro entrava dai gesuiti.
Rimaneva ancora l’ultimo fratello,
Gabriele, sul quale erano riposte le
speranze della famiglia per il futuro.
Ma un giorno aveva trovato il coraggio
di dire a mamma: «Anch’io voglio
farmi missionario!», e partì per
il seminario di Varallo Sesia con il fratello
Franco.
Poi la guerra distrusse la loro casa.
La mamma, dopo un’inutile operazione,
se ne volò al cielo e, tanto per
cambiare, pure l’ultima rimasta, Aldina,
si fece missionaria della Consolata.
Una famiglia al completo per
Dio!
Intanto Franco era diventato prete,
ma invece di spedirlo in Africa, i
superiori lo trattennero in Italia con
incarichi vari: professore di latino,
greco e geografia, assistente dei seminaristi
e vicerettore. Trangugiò i
bocconi amari e seppe resistere.
Poi arrivò il permesso di partire e,
il 24 marzo 1951, sbarcò in Kenya, iniziando
il suo tirocinio a Tuuru. Era
la missione «più scalcinata, pagana
e restia» di tutte le missioni del
Meru; dei 100 mila abitanti che popolavano
la zona, solo 475 erano cattolici.
Avrebbe voluto iniziare subito
a… convertire, ma preferì il metodo
di san Paolo «di farsi tutto a tutti»,
diventando il più possibile africano
con gli africani. Aiutato dalla sua indole
aperta e dall’ottima padronanza
della lingua, non ebbe paura di
«perdere tempo» nelle interminabili
conversazioni, visitando assiduamente
le capanne, mangiando con i
nativi fegato di capra in segno di amicizia,
lasciandosi perfino andare a
timidi saltelli nelle danze tribali.
E sì che il carattere di padre Franco
non era per niente conciliante, anzi!
Egli stesso si definiva un «orso irsuto,
litigioso, brontolone» e, di fronte
a un’ingiustizia o un sopruso, era
meglio stargli alla larga, perché tutti i
mezzi erano buoni per raggiungere lo
scopo. La sua fama comunque si consolidava,
il suo parere cercato, la sua
parola ascoltata…
Questo legame divenne ancora più
profondo e… visibile, quando gli anziani
decisero di ammetterlo nelle loro
file, facendolo diventare uno di loro:
mwareki. I ricchi pagani meru,
giunti ad una certa età e sistemati i figli
entravano a far parte di un sodalizio
a carattere patriarcale, in cui venivano
rispettati e presi in considerazione
per la loro saggezza. Essere
accolti tra gli anziani (areki) era una
meta sognata, perché significava raggiungere
uno stato di privilegio, una
condizione nuova, espressa dal cambio
del nome e dal segno distintivo
di una corona di conchigliette da
portare in testa.
Una notte anche padre Franco fu
ammesso a far parte di questa società:
gli furono date le insegne della
nuova condizione e gli venne imposto
il nome di mwereria: termine intraducibile,
indicante colui che, camminando,
fa del bene a tutti. Un nome
originale che indicava in quale
considerazione era tenuto il missionario.
Anche se, pur essendo diventato
un «pezzo importante», la gente
continuava a fare la sua strada e i
frequentatori della chiesa continuavano
a rimanere… pochi!
Ma arrivò il momento giusto per
cambiare le cose. Terminata la
bella chiesa di Tuuru, si era pensato
di iniziare una scuola di economia
domestica, anche se non si trovava
l’insegnante. Mentre si aspettava di
risolvere il problema, una sera, padre
Franco trovò sul bordo della strada
un ragazzino poliomielitico, malridotto.
Se lo portò a casa e fu lì che
scoccò la scintilla: invece di economia, avrebbe iniziato una «scuola di
misericordia».
Il numero dei bambini handicappati
cominciò ad aumentare. In breve,
a Tuuru, divennero famosi quei
piccoli ospiti, assistiti con amore e…
mantenuti dalla gente. La messa domenicale
cominciò così a diventare
un appuntamento irrinunciabile: all’offertorio,
la lunga fila di fedeli (cristiani
e no) si avvicinava all’altare per
deporre sui gradini una serie variegata
di doni: due zucche, un grappolo
di banane, un pollo, una misura di
fagioli, un cestello di uova: tutto per
quei bimbi sfortunati.
E fu proprio questa «la molla» capace
di avvicinare anche i refrattari
al messaggio cristiano, più di mille
prediche. Padre Franco iniziò, allora,
una gara di solidarietà, perché alla
gente locale si unissero volontari,
amici lontani e associazioni varie per
sostenere un’opera nata dal niente e
diventata, in breve tempo, il fiore all’occhiello
della missione.
Un altro fatto rese famoso il nostro
mwereria: quello dell’acqua. Fin dal
suo arrivo era rimasto colpito dallo
spettacolo quotidiano di gruppi di
donne condannate tutto il giorno alla
ricerca di acqua, che tornavano alla
sera ricurve sotto il peso di enormi
zucche. La carenza del prezioso liquido
diventava drammatica e toccava
il cuore del padre, soprattutto
quando a soffrire erano i piccoli poliomielitici.
Davanti a questa emergenza
continua, il missionario non si
diede pace finché non ingaggiò fratel
Giuseppe Argese (un altro «mito») a trovare la soluzione.
La vicenda è nota: per mesi il «fratello
dell’acqua» (silenzioso, quanto
intraprendente) viaggiò, cercò, studiò
e… trovò il rimedio. Sfruttando
la catena del Nyambene, coperta di
foreste vergini e ricca di acqua, riuscì
a costruire quella che è diventata
una delle meraviglie della zona: un
acquedotto lungo e fantasioso, capace
di dissetare migliaia di persone.
Il nostro protagonista poteva ormai
ritenersi soddisfatto: ben radicato
tra la gente e famoso per le «opere di
misericordia» (assetati e bambini sofferenti),
avrebbe potuto ritirarsi in
santa pace e… obbedire ai superiori
d’Italia, che avevano pensato ad un
suo «avvicendamento». Ma la sola idea
scatenò un putiferio di reazioni.
Per farla breve, la gente di Meru, sinceramente
affezionata al suo mwereria,
escogitò uno stratagemma che,
secondo loro, avrebbe funzionato:
legare ancora di più padre Franco,
facendolo entrare tra gli njuri (un altro
sodalizio distinto dagli areki, a cui
il padre già apparteneva).
L’accettazione da parte del missionario
non era scontata, anche per via
di certe cerimonie, non tutte approvate
dalla chiesa. Ma, pur di averlo,
gli anziani sarebbero stati disposti ad
esonerarlo da tutto ciò che era contrario
alla morale cristiana e al suo
stato sacerdotale.
Ecco allora padre Franco, con il
volto dipinto di ocra rossa e bianca,
diluita con succo di banane, diventare
njuri nceke, acquisendo così il
potere di giudicare senza appello le
liti tribali e risolvere i problemi con
l’autorità derivante dalle tradizioni
più antiche e sacre.
E, per completare l’operazione,
anche gli areki gli offrirono l’ultimo
e ambizioso grado del loro sodalizio:
quello di mwareki wa naicio, al quale
nessun europeo era mai potuto accedere.
Unto con grasso di montone
e cosparso di farina bianca, il missionario
ricevette la corona degli areki,
il bastone di mogano e anche un secondo
nome: Kiunga, cioè colui che
raduna tutte le cose e ne fa una sola!
Probabilmente queste due ultime
cerimonie ebbero il potere di toccare
il cuore dei superiori, che non trovarono
più il coraggio di richiamare
in Italia padre Franco, il quale, unico
tra tutti, è riuscito ad entrare così
profondamente nel cuore e nella cultura
dei meru, da distinguersi ormai
soltanto per la pelle bianca.

QUALCHE TUORLO D’UOVA
Ricorda commosso padre Franco che, quando gli fu proposto (e non una
volta sola) di chiudere quella missione che appariva inconvertibile
e negata ai frutti dello Spirito, furono le suore, solitamente silenziose ma
sempre indomite, a insistere che si continuasse nello sforzo apparentemente
inutile, perché quella gente esse l’avevano capita per femminile intuito
e l’amavano per quello che era e che sicuramente sarebbe stata.
Mwereria ricorda… Anche a lui era capitato, una domenica dei suoi primi
anni a Tuuru, di sentirsi depresso e svuotato di speranza, da decidere
di far fagotto e abbandonare quella sterile missione, dove nemmeno di domenica
la chiesetta tarlata si riempiva, là, sulla cima del colle, inutilmente
visibile a tanti.
Era una mattina fredda e nebbiosa e lui, chiusosi in casa perché quell’assalto
di tristezza non avesse testimoni, non riusciva a trattenere lacrime
di desolazione. Dove se ne era andata tutta la sua giovanile baldanza?
Che ne era di quei momenti in cui sentiva in sé tanta forza, tanto esuberante
amore per tutti da immaginarsi capace di schiacciare tutto il male
del mondo?
Aveva sentito bussare discretamente. Non si era mosso. Altri picchi più
risoluti. Aveva aperto. Si era trovato davanti suor E… e a due aitanti giovani
africani. Pieno di confusione, aveva balbettato qualche parola su un
suo vago non sentirsi bene. Ma suor E…, mateamente accorta, aveva
compreso al volo il suo stato d’animo.
«Su su, padre, animo! C’è gente che l’aspetta al confessionale. Coraggio!
Ma aspetti prima un momento!».
Era sparita e presto tornata con una tazza piena di tuorli sbattuti.
«Su, prenda questo cordiale. Ne ha bisogno. E se lo prenda tutto!».
Era stata suor E…, creatura che come le consorelle non si volgeva mai
indietro, lo strumento della Provvidenza, perché egli superasse la crisi. I
due africani non avevano detto parola, ma avevano capito, condiviso, e
poi avevano fatto il diavolo a quattro per svegliare i dormienti di Tuuru…
Erano trascorsi altri anni di durissimo impegno. Ora il buon seme fruttificava.
Ma non importava chi fosse a raccogliere la messe in quella… harambee
(lavoro d’insieme) degli spiriti, che è il mondo cristiano.
M. TERESA DAINOTTI,
autrice di E venne tra la sua gente, Emi, Bologna 1993

Due kenyani in Corea del Sud
QUASI UN NUOVO INIZIO
I padri Peter, Tamrat e Joseph, oggi… in Corea del Sud

Così potrebbe chiamarsi la destinazione
dei primi tre missionari
africani (dei quali due kenyani) per
la Corea: i padri Tamrat Defar (etiope),
Peter Njoroge e Joseph Otieno.
Nel centenario della missione in
Kenya, questa partenza rappresenta
una vera sfida: nella loro persona,
l’Africa, che cent’anni fa ha ricevuto
l’annuncio del vangelo, oggi ne fa
dono all’Asia.
Com’è nata la decisione di partire
per la Corea?
PETER: Nel momento di esprimere
le mie preferenze, non avevo pensato
alla Corea. Poi mi è stata fatta
la proposta dicendomi che due miei
compagni di noviziato, che studiavano
a Londra, andavano in Corea
e si desiderava che fossero almeno
in tre. Non è stato facile scegliere.
Quando, in passato, si parlava della
Corea era sempre per sottolineae
le difficoltà, soprattutto della lingua.
Ho riflettuto un po’ e mi sono
detto che qualcuno doveva pur andare
e non avevo ragioni per dire di
no. Pensando che altri confratelli lavorano
in Corea e sono riusciti ad
inserirsi… alla fine ho accettato volentieri
di andarci anch’io.
JOSEPH: La possibilità di andare in
Asia ci è stata presentata solo alla fine
e, per me, si è trattato di disponibilità.
La nostra scelta iniziale era
diversa, ma, dopo aver riflettuto a
lungo, abbiamo accettato la sfida
della Corea. È stata una scelta difficile,
ci è voluto un po’ di coraggio;
ma anche con l’aiuto della preghiera
siamo riusciti a farla nostra.
Quali sono le difficoltà che prevedete
di incontrare?
PETER: Anche se la lingua costituisce
indubbiamente una grossa
sfida (bisognerà, infatti, studiarla
per cinque anni), la difficoltà più
grande, credo, sarà lo sforzo di inserirci
in una cultura così diversa
dalla nostra. Subito dopo, viene il
«cosa fare», ossia come essere missionari
in Corea. Da quanto sappiamo,
la chiesa coreana apparentemente
non ha bisogno di preti ed è
autosufficiente. Noi africani abbiamo
l’esperienza della missione come
di un «fare»: costruire chiese,
scuole, dispensari… mentre in Corea
non ci sarà bisogno di questo.
Pertanto la nostra missione consisterà
soprattutto in un «essere»; ossia,
si tratterà di testimoniare con la
vita il vangelo di Gesù. Lo faremo
come africani, diventando strumenti
di comunione e arricchimento reciproco
tra la cultura africana e
quella coreana.
JOSEPH: La prima sfida sarà quel- la di realizzare una vera inculturazione.
La difficoltà potrebbe riguardare
l’adattamento agli usi e costumi
di un mondo completamente
diverso da quello da cui proveniamo.
Poi, come sappiamo, in Corea
l’istituto è impegnato a fare missione
in modo diverso: si tratta, allora,
di sottolineare soprattutto l’aspetto
della testimonianza cristiana.
PETER: Abbiamo coscienza di essere
i primi sacerdoti africani dell’istituto
che partono per la Corea e,
per quanto abbiamo udito, non sarà
facile essere accettati in un paese
che si considera all’avanguardia in
tanti campi. Sarà una cosa bella e un
grosso passo in avanti nella costruzione
del Regno, se i coreani sapranno
accettare che degli africani
possano portare loro l’annuncio di
Cristo.
A CURA DI SERGIO FRASSETTO

GIACOMO MAZZOTTI




ADELANTE, MA…

Sono in Colombia da due giorni. Padre José è
addetto al mio soggiorno a Bogotá, prima di
«andare in missione». Oggi è giorno di spesa
e decide di portarmi al mercato o Carrefour.
«No ai nada de terzer mundo»
mi anticipa ridendo.
L’auto percorre le vie di Modelia, il quartiere dove
risiediamo, evitando le grandiose buche nell’asfalto
o piombandoci dentro a tutta birra. Il sindaco
della capitale ha, nel rilancio del sistema dei trasporti,
uno dei punti forti del suo programma politico.
Ma le dimensioni di Bogotá (7 milioni di abitanti)
sono tali che…
Siamo arrivati. Il Carrefour si staglia davanti con
il suo parcheggio ancora semivuoto e le insegne così
uguali in tutto il mondo. Sorpresa.
Ma non mi sorprende l’ipermercato in se stesso,
bensì il trovare il «mio» ipermercato, dove 10
giorni prima ho comprato il giubbetto di tela blu
leggera (che taglia l’aria), le lamette da barba di riserva
(perché «non si sa mai») e le pile per la radio-
sveglia (anche se l’«orologio biologico» mi sveglia
regolarmente alle due del mattino).
Dunque la prima sensazione, positiva, è l’incontrare
il mio Carrefour dietro l’angolo. È la cancellazione
dell’imprevisto, dell’incognita «x», che rappresenta
una palla al piede per la civiltà superoccidentalizzata.
Grazie, Carrefour.
Entro e mi trovo davvero a… Torino, al centro
commerciale Le Gru. Ho impiegato 13
ore di aereo per ritornare esattamente dove
ero partito. Mi vengono
in mente alcuni versi di
Thomas Eliot:
«Non cesseremo mai di
esplorare.
E alla fine di ogni nostra
esplorazione
arriveremo dove abbiamo
iniziato.
E conoscere il luogo per
la prima volta».
In altre parole, grazie al
Carrefour, conoscerò
meglio me stesso in
Colombia… Il primo assaggio di frutta esotica avviene
in una sala spaziosa con… mele e pere; ma
c’è pure un oceano di papaie, manghi, guayabas.
L’ipermercato è enorme, lussuoso, asettico. I ragazzi
del banco «macelleria» indossano berretti e
mascherine bianche: sembrano infermieri. La ragazza
con radio-microfono lancia messaggi interni,
rullando su velocissimi pattini a rotelle. Se non
fosse per l’agente di sicurezza all’ingresso (che ci
ha fatto aprire il baule dell’auto e ne ha scandagliato
il fondo con il metal detector prima di concederci
di parcheggiare), parrebbe proprio di essere
altrove.
Poi la domanda: «Chi compra in questo ipermercato?». In un paese dove lo stipendio medio di un
impiegato si aggira sui 200 euro mensili, chi può
permettersi acquisti consistenti al Carrefour?
«Carrefour» in francese significa «incrocio».
Penso a Il libro dei proverbi, secondo il quale la
sapienza è presente anche agli incroci delle strade
(cfr. Pro 8, 2). Ma dubito che essa abiti nel regno
del consumismo.
A meno che uno sappia scegliere!
Toando a casa, scorgo in cielo due aerei
militari in rotta verso il sud del paese. Il
pensiero corre al Caquetá, ieri zona di distensione
e oggi di scontro. Là operano confratelli,
silenziosi segni di speranza fra stragi di «destra» e
di «sinistra». E ora? Due aerei in più, carichi di
bombe e di vite umane. Altre madri in ansia, altri
dolori da lenire. Forse altri morti ammazzati.
Riconciliazione e pace.
Ma come?
La patata bollente (narcotraffico,
guerriglie, sequestri
di persona, violenza
generalizzata) è
anche nelle mani del
nuovo presidente
ALVARO URIBE, eletto
il 26 maggio scorso.
«Adelante, signor presidente,
ma… con juicio».

UGO POZZOLI




GUERRA ALLA PACE in terra santa

Dire
Gerusalemme è dire terra santa, e viceversa. Gerusalemme oggi è, più che
mai, di drammatica attualità: occupa ampi spazi sulla stampa e sul piccolo
schermo, a causa del sanguinoso conflitto israelo-palestinese.


Gerusalemme è sempre stata di attualità, fin da quando Dio la scelse come
luogo di incontro e dialogo con gli uomini. A Gerusalemme «tutti sono
nati… e l’Altissimo la tiene salda» (Sal 87, 4-5). Quel «tutti» contiene
una carica ecumenica di respiro universale. Gerusalemme appare come radice
di armonia e unità fra le genti. Sul libro della storia, curato da Dio,
«tutti» sono gli uomini e i popoli che Egli registra come cittadini di
Gerusalemme.

Il
carattere peculiare di Gerusalemme è l’universalità. E non è un tratto
immaginario, ma reale. Basti ricordare il ritornello ebraico, che ha
sfidato i secoli: «L’anno prossimo a Gerusalemme». Basti ricordare
l’affetto dei cristiani per la città santa, concretizzato nel
pellegrinaggio… e il fatto che, perfino fra le montagne
dell’Afghanistan, la foto di Gerusalemme è appesa con devozione alle
pareti delle case musulmane.


Gerusalemme, l’universale, fa sì che la comunità mondiale vi si riconosca
in un modo o nell’altro: interessa non solo chi vi trova una specifica
fede religiosa, ma anche chi vede in essa un riferimento a valori umani
fondamentali.

Se Assisi
affascina e coinvolge per la soffusa e penetrante spiritualità,
Gerusalemme seduce e attira per il mistero. Un mistero che perdura tutt’oggi
e che fa pensare al Deus absconditus (Dio nascosto).

Mi ritorna
in mente l’incontro, di qualche anno fa, con una giornalista svedese.
Aveva partecipato ad un congresso di archeologia a Tel Aviv, al termine
del quale effettuò una rapida escursione a Gerusalemme. E capitò che, nel
dedalo di viuzze della città vecchia, la giornalista avesse smarrito la
strada al suo hotel. Io, per caso, passavo di lì; lei mi pregò di
indicarle la via dell’albergo. L’accompagnai fino alla Porta di Damasco.
Cammin facendo, mi confidò che, essendo nata in una famiglia atea, non era
credente. «Però ho letto molto su Gerusalemme – disse -; ora sono qui e
avverto (non so perché) che qualcosa mi attira come una potente calamita.
Dovrei prendere l’aereo questa sera, ma non partirò; c’è qualcosa di
strano qui che mi sollecita a cercare, indagare e approfondire il mistero
di Gerusalemme, che mi tocca l’anima».

Ci
salutammo. Due anni dopo mi scrisse per annunciare che aveva ricevuto il
battesimo.


 Gerusalemme, che secondo un’etimologia popolare sarebbe la «città della
pace», non ha mai conosciuta la tranquillità. Lungo tutta la sua storia
millenaria è stata teatro di lotte, e tuttavia essa rimane la sede della «shalom»;
ma non per coloro che vogliono trovarvi una pace già confezionata, ma per
quanti vogliono costruirla.

La pace è
il risultato di relazioni rispettose fra i popoli, fra le persone;
scaturisce dall’amore tra gli individui, tra le comunità; nasce dalla
conversione, dall’accoglienza delle diversità.

La
tragedia odiea in terra santa grava anche sulla comunità internazionale
e su ogni persona sensibile alla pace… strettamente legata alla
giustizia. Da mesi, nonostante gli innumerevoli tentativi del passato di
approdare ad un serio e risolutivo processo di pace, una spirale di
violenze assurde e apparentemente inarrestabili soffoca la terra dove Dio
e gli uomini si sono incontrati e uniti per sempre.

Mentre
scrivo, la spirale attanaglia particolarmente Betlemme, dove la pace è
nata e annunciata per la prima volta agli «uomini che Dio ama».

Il pastore
protestante Dietrich Bonhoeffer, il martire per la libertà che ha pagato
con l’impiccagione la sua resistenza al nazismo, scriveva che non si
poteva cantare alleluja mentre gli ebrei venivano perseguitati. Così è
stata quest’anno la nostra pasqua, in terra santa, celebrata con il cuore
ferito. Come potevamo, in quei giorni di sangue, cantare alleluja?

Israeliani
e palestinesi sembrano sprofondare sempre di più in un vortice di odio e
vendetta. I ripetuti e accorati appelli che, insieme alle altre chiese
cristiane, abbiamo rivolto ai responsabili del paese e dei governi restano
tuttora inascoltati. Fino a quando? Quanto durerà l’occupazione militare?

Fino a
quando verranno disattese le risoluzioni delle Nazioni Unite?

È
necessario ritornare al rispetto della legalità internazionale. Lo afferma
da sempre Giovanni Paolo II (fra pochi), dimostrando una preveggente
visione della realtà. E il cardinale Martini ha rivelato una grande
preoccupazione nel dire di non comprendere

come
Israele, con la sua politica, persegua sicurezza e pace, «che pure è
sempre nel desiderio di tutto quel popolo».

Il
significato della preghiera per la terra santa (e, ovviamente, per le
persone che vi risiedono) è anche questo: sperare che il miracolo si
compia ancora. Sarebbe un primo e importante passo verso la pace. Ci vuole
fiducia e speranza.

La terra
di Gesù non è forse la terra dei miracoli?


Sfogliando s’impara…

«IO
TROVO VERGOGNOSO»

«Trovo
vergognoso che la stampa scritta (…) si indigni perché a Betlemme i
carri armati israeliani circondano la Chiesa della Natività, che non si
indigni perché nella medesima chiesa duecento terroristi palestinesi ben
foiti di anitra e mumz ni ed esplosivi (tra loro vari capi di Hamas e
Al-Aqsa) siano non sgraditi ospiti dei frati (che poi dai militari dei
carri armati accettano le bottiglie d’acqua minerale e il cestino di
mele). (…)

lo trovo
vergognoso che L’Osservatore Romano cioè il giornale del Papa, un Papa che
non molto tempo fa lasciò nel Muro del Pianto una lettera di scuse per gli
ebrei, accusi di sterminio un popolo sterminato a milioni dai cristiani.
Dagli europei. Trovo vergognoso che ai sopravvissuti di quel popolo (gente
che ha ancora il numero tatuato sul braccio) quel giornale neghi il
diritto di reagire, di difendersi, non farsi sterminare di nuovo.

Trovo
vergognoso che in nome di Gesù Cristo (un ebreo senza il quale oggi
sarebbero tutti disoccupati) i preti delle nostre parrocchie o Centri
Sociali o quel che sono amoreggino con gli assassini di chi a Gerusalemme
non può recarsi a mangiar la pizza o a comprar le uova senza saltare in
aria. Trovo vergognoso che essi stiano dalla parte dei medesimi che
inaugurarono il terrorismo ammazzandoci sugli aerei, negli aeroporti, alle
Olimpiadi, e che oggi si divertono ad ammazzare i giornalisti
occidentali».

Oriana
Fallaci sul settimanale «Panorama»,

12 aprile
2002


QUEI CANNONI
PUNTATI

«“Ecco,
noi francescani della Basilica della Natività chiediamo agli ebrei stessi
che facciano qualcosa, che impediscano questa ingiustizia, che dimostrino
che il volto d’Israele non è quello dei cannoni puntati contro un luogo
santo di una città sacra alle tre religoni monoteiste; io non penso che
siano tutti cattivi, al contrario so che dentro il cuore sono buoni e
giusti e so che vogliono il bene di tutti. Chiedo agli ebrei di buona
volontà di aiutarci e di farci uscire fuori da questa situazione”. (…)

Sharon ha
buttato all’aria ogni regola precedente. Tutte le parti coinvolte:
palestinesi, cristiani, le diplomazie occidentali e quella della Santa
Sede hanno avviato trattative mai accolte dall’intransigenza di Sharon.
Hanno nel frattempo persino prodotto un Cd-Rom intitolato “Unholy Asylum”,
asilo assai poco santo, polemizzando con lo spirito umanitario
dell’accoglienza che è storicamente il connotato dei francescani. Quanti
di essi, durante la Seconda Guerra Mondiale, hanno accolto dietro i muri
di pietra dei loro conventi, i disperati ebrei inseguiti dai nazisti? O i
partigiani che i nazisti definivano “terroristi”. Qualcuno, per questa
generosità, ha pagato persino con la morte. (…)

“Noi
francescani non ci fidiamo: se andiamo via, cosa succederà?”, incalza
padre Ibrahim. Appunto, padre, lei ci ha pensato? “Bella domanda. Mi sono
dato una sola risposta: restiamo. L’abbiamo deciso tutti all’unanimità,
dopo una discussione comune”. Le truppe di padre Ibrahim imbracciano il
crocifisso e sfidano i lunghi fucili dei cecchini. Il motorino del
generatore che alimentava le batterie dei francescani ha funzionato per 36
ore e si è fermato ieri. Con la sua energia si tirava su l’acqua dei
pozzi. Se i frati vanno in cucina, alla Casa Nova, l’ostello attiguo al
convento, gli sparano addosso (…)».

Leonardo
Coen sul quotidiano «La Repubblica»,

12 aprile
2002


 UNA GUERRA
PER LA VITA O LA MORTE

«Chi
conduce una guerra per la vita o la morte del popolo intero ha il diritto
di ricorrere a tutti i mezzi, compreso quello del terrore suicida delle
donne kamikaze o dei massacri in campi  profughi come Jenin.

Il
guerriero totale coltivato dai vertici dell’Autorità palestinese non è
criticabile in un contesto di guerra finale, così come non lo è lo stato
israeliano che annuncia battaglie di sopravvivenza e che considera la
guerra come una replica della distruzione del Tempio da parte degli
antichi romani. In conflitti di questo genere non si guarda molto ai
risultati politici delle operazioni, né si è responsabili del male – il
più delle volte inane – che si arreca.

Ma la
guerra per la sopravvivenza non si limita solo a cancellare eventuali
responsabilità: essa dissimula anche, distorcendola, l’autentica natura
del conflitto. E vela consapevolmente la verità».

Barbara
Spinelli sul quotidiano «La Stampa»,

padre Marco Malagola




IL BUON SAMARITANO… COMUNISTA

Il comunista, che
ha giustamente
votato contro la
guerra in Afghanistan,
dove si trovava
quando l’Urss
invadeva quel paese?
Ha protestato contro le mine disseminate
dai sovietici, che hanno
amputato le gambe al povero contadino
e ai suoi figli intenti a «coltivare
un campicello nelle vicinanze di
Kabul»?
Perché quel comunista, seduto in
parlamento nella precedente legislatura,
ha votato a fianco degli americani
per la guerra nel Kosovo?
Ho sempre pesato con diffidenza
le affermazioni dei politici di destra
e di sinistra… Ma a voi posso chiedere
di parlarci di più dell’amore di
Dio, il Buon Samaritano, e dei vostri
santi missionari?… Non cadete nella
trappola, dando spazio a chi si
presenta in veste d’agnello. «Dai loro
frutti li riconoscerete».

Sacrosanto! E vi sono pure «lupi»…
che poi si comportano da agnelli.

V. MARIN




ARROTONDANDO, ma per difetto

Erano i
giorni tragici dell’esodo dal Rwanda, luglio 1994. Ricordo una donna con
un cesto in testa, un fagotto sotto il braccio destro e sul sinistro un
bimbo di pochi mesi, che tentava di succhiare qualche goccia di latte dal
seno vuoto. Accanto, un bambino di tre anni sorreggeva con la manina il
fagotto della mamma: un po’ di farina, una coperta per proteggere tutti e
tre di notte…

In Etiopia
rivedo quella manina nei piccoli malati di Aids: ogni giorno mi tendono le
mani nel saluto mattutino. Avverto in loro il bisogno di essere
accarezzati, e lo faccio. È bello sentire le loro braccia sul collo. Mi
sento come Gesù, che coccolava i piccoli.

Mi sento
quasi un po’ Dio. Un Dio che prende per mano gli ultimi, ma che non riesce
a cancellare la loro condanna a morte.

Mentre li
stringo con tenerezza, interrogo con lo sguardo la missionaria infermiera:
manca qualcuno? «Lui è morto stanotte» mormora la suora. La frase mi
trafigge come un coltello tagliente.

Ebbene
Tzehaie (che significa «mio sole») non apparirà più in mezzo al gruppetto
giornioso dei compagni, che mi ricevono festanti sul cortile.

Entro in
chiesa (un vecchio container, adibito a cappella) e interpello il mio Dio:
«Mi stai prendendo in giro? Mi fai sentire come se fossi tu stesso ad
accarezzarli, e poi… Sono un giocattolo nelle tue mani?». E risento la
bruciante risposta: «Il rimedio per l’Aids c’è. Ma non è colpa mia se non
viene distribuito a tutti equamente». «È vero, Signore – commento -. Tu
hai fatto tutti gli uomini uguali. Ma è anche vero ciò che si legge ne La
fattoria degli animali di George Orwell: “Tutti gli animali sono uguali,
ma alcuni sono più uguali degli altri”. Siamo stati noi a rendere alcuni
“più uguali” degli altri?».

Inizio la
messa e invito: «Riconosciamo i nostri peccati». Poi guardo i bambini
colpiti da Aids. Nessuno di loro ha peccato, ma stanno pagando per i
peccati altrui. Mi viene in mente il profeta Amos: «Odio le vostre feste,
non gradisco le vostre riunioni, né i vostri doni. Piuttosto, scorra come
acqua la giustizia, come un torrente perenne» (cfr. Am 5, 21-24).

Penso ai
cristiani che vanno in chiesa senza capire che il popolo di Dio è formato
da «poveri in spirito», che sopravvivono anche nella miseria. E, mentre
continuo l’eucaristia, risento l’impotenza di rimediare allo scandalo di
troppi cristiani: orgogliosi di essere figli di Dio, ma fratelli solo a
parole. Mi affido alla preghiera.

p.
Salvador Del Molino


Post scriptum
. Ho appreso che,
nel dicembre scorso, il parlamento italiano ha votato all’unanimità un
aumento mensile di stipendio per gli onorevoli, pari a 1.162 euro
(2.250.000 lire). Così essi percepiscono 4.648 euro di indennità, 3.873 di
diaria, 4.028 per i portaborse (spesso familiari), 774 per spese-viaggio.
Totale: 13.323 euro (arrotondando per difetto), pari a 26 milioni di lire
al mese.

Ma è
proprio vero?… Dopo 35 mesi di parlamento, l’onorevole ha diritto alla
pensione, mentre il cittadino vi accede (se vi accede) dopo 35 anni.
Inoltre per lor signori sono gratis telefono cellulare, cinema e teatro,
viaggi in treno e aereo (nazionali), circolazione su autostrade, piscine,
palestre…

Nemmeno
Bertinotti e Pannella hanno protestato?

E non è
finita, perché pure il ristorante è gratuito. Nel 1999 gli onorevoli hanno
mangiato e bevuto per 2.850 milioni di lire, a spese del popolo.

Cari
amici, ditemi che sono tutte balle. Altrimenti… Buona quaresima!

Salvador Del Molino




Alla fiera dell’est

Scesi da
cammello, i tre si inchinano e formulano subito il quesito, concordato
dopo accese dispute durante l’estenuante marcia sul deserto.

«Gesù, sei
tu veramente “il” liberatore, salvatore e redentore di tutti i popoli?».

«Perché me
lo domandate?».

«Perché io
sono “l’illuminato” – risponde Budda -; ma la mia luce spesso si spegne…

Io sono
“il profeta” – aggiunge Muhammad -; ma la mia profezia spesso scatena
odio…

Io sono
“il poeta” – conclude Muyaka -;

ma la mia
poesia spesso si perde fra le nuvole».


L’illuminato, il profeta e il poeta sono “re magi”. Dopo di loro,
sopraggiungono altri personaggi, anch’essi con un interrogativo.

«Gesù, tu
da che parte stai?».

«Perché me
lo domandate?».

«Perché
noi siamo i padroni del mondo. Come l’imperatore Augusto, abbiamo ordinato
il censimento dei nostri sudditi. Oggi tutti devono sapere che chi non è
con noi è contro di noi. Nessuna pietà per gli infedeli, i terroristi e i
loro fiancheggiatori: ricorreremo alla pena di morte e alla guerra per
stabilire l’ordine mondiale».

Ecco
alcuni personaggi del presepio 2001, proposto da Sara e Daniele, animatori
nella parrocchia di don Pietro. È stato lo stesso “don” a richiedere ai
giovani qualche idea al riguardo. Ora però il sacerdote è preoccupato.

«Ragazzi,
dove finiremo con questi personaggi?».

«Don, nel
presepio ci sono pure i “genitori” di Gesù, cioè Fatima e Francesco. Lei,
musulmana del Marocco, ha sfidato la scomunica dell’imam per sposare il
cattolico Francesco; e questi, quando passa per strada, si sente insultare
dai bambini: Sei un…».

Il parroco
interrompe gli animatori con la domanda che gli sta maggiormente a cuore.

«E Gesù
chi sarà?».

«Gesù non
si tocca. È il figlio di Dio, e basta: “con” e per “noi”. Solo Lui è la
risposta a illuminati, profeti, poeti e grandi del mondo».

Fra i
pastori del presepio c’è anche Rosalia, la giovane figlia di un noto
mafioso assassino, ucciso a sua volta da un boss rivale. Rosalia suona la
chitarra e canta:

«Ragazzi,
per piacere, non trasformiamo il presepio in farsa!».

«Don
Pietro, scusa! La filastrocca descrive la spirale di violenza, che da
sempre attanaglia l’umanità. E Rosalia, figlia di un assassino
assassinato, intende spezzare la catena infeale. Canta e rende omaggio
al figlio di Dio, che è la pace: Egli ha trasformato in un unico popolo
ebrei e pagani, demolendo il muro di ostilità che li separava».

«Ma la
gente capirà questo messaggio?».

«Se non lo
capirà, glielo spiegherai tu durante la messa di natale».

«Senza
tante prediche, basta ricordare l’articolo 11 della Costituzione: l’Italia
ripudia la guerra».

«Bravo,
don! E per noi cristiani c’è soprattutto una ragione divina. Poiché la
guerra uccide, è peccato. Sempre e dovunque».

Sara Daniele




Giustizia infinita?

 

New York e Washington.
Mi è impossibile esprimere il dolore e l’orrore provati di fronte alle stragi, a
sette giorni dalla tragedia. È un evento che segna per sempre la storia di un individuo,
e non solo di una nazione. Non c’è chirurgia plastica che possa sanare la
coltellata-sfregio, inferta dall’atto terroristico dell’11 settembre. Un
abisso fisico e morale.
Presto avremo la conta definitiva delle vittime. Saranno
troppe: una cifra superiore alla capacità umana di sopportazione, come ha ricordato il
sindaco di New York, Rudy Giuliani.

Inizieremo a conoscere le storie di manager, commessi, pompieri,
poliziotti, donne delle pulizie, turisti… che si sono "persi"
nell’inferno di cristallo del World Trade Center. Che vigliaccheria schifosa è mai
questa? Eppure chi l’ha commessa vi ha sacrificato la vita! Ma ha ammazzato migliaia
di innocenti. Quale Allah è così sfrontato da richiedere tanto sacrificio?

Qualcuno pagherà il conto. Speriamo che si individuino i responsabili
giusti e non capri espiatori. Il timore è che a versare il dazio siano innocenti di altra
bandiera, di altro credo religioso. La parola "guerra" echeggia sempre più
forte nelle dichiarazioni dei politici americani. Ma contro chi? Si respira aria da
legge del taglione.

Perdono? Sembra irrispettoso oggi, a week after. Sembra
offendere la sensibilità di tanti che non hanno più lacrime. Giustizia… infinita
allora? La CNN ha mostrato un giovane prete che si aggirava fra le rovine delle torri
gemelle, sporco al punto da sembrare nudo. Girava come chi sa che quello era il posto in
cui Dio lo chiamava, senza capire la ragione. Era silenziosamente presente
nell’oceano della morte. "Se esco in aperta campagna, ecco i trafitti di spada;
se percorro la città, ecco gli orrori della fame. Anche il profeta e il sacerdote si
aggirano per il paese e non sanno che cosa fare" (Ger 14, 18). Ma padre Judge,
cappellano dei vigili del fuoco, sapeva cosa fare: si è sacrificato dando la vita nel suo
servizio sacerdotale.

I vescovi statunitensi hanno provato ad incoraggiare i cristiani alla
pace; invitano tutti a rinnovare la fiducia in Dio, a rifiutare la tentazione
dell’odio,
la vera causa della tragedia. Che la caccia ai responsabili
dell’atto scellerato non si tramuti in una spirale di violenza, in cui i poveri
pagano il prezzo più alto! Come sempre.

Leggo su internet che Francesco Cossiga avrebbe dichiarato:
"Adesso ci sarà certamente qualcuno che dirà: gli americani se la sono
meritata!".
Purtroppo qualcuno ci sarà, perché la madre dei cretini è
sempre gravida…
Preghiamo che i morti servano, almeno, a renderci conto del disagio
mondiale che i sistemi politici non controllano più. La politica statunitense non si è
dimostrata particolarmente illuminata sul rapporto Nord-Sud del mondo. Gli americani (che
ora chiamano a raccolta tutti gli alleati contro il terrorismo) dimenticano le loro prese
di posizione unilaterali,
che li hanno esposti a critiche anche da parte degli amici
europei. C’è stata arroganza nelle scelte riguardanti l’ambiente, il nucleare,
gli armamenti, per non parlare dell’embargo contro Iraq e Cuba. È davvero così
strano che qualcuno non ami l’America?

Tutti siamo consapevoli che molto, nell’immediato futuro del
mondo, è nelle mani degli Stati Uniti. Una leadership illuminata tiene conto di chi
lavora a fianco, lo promuove, lo guida per ottenere i risultati migliori nel bene comune.
Questa è la leadership che il mondo si aspetta dagli Usa a livello economico, politico e
militare. Tale è la leadership che potrà sconfiggere con successo ogni tentativo
terrorista di minare i valori della democrazia e libertà, di cui gli Stati Uniti si
dichiarano paladini.

A Washington e New York il mondo intero è stato colpito
l’11 settembre. Ciò che unisce tutti i popoli di fronte a quell’eccidio è il
male, che colpisce l’innocente. E quanti morti innocenti in ex Jugoslavia, Rwanda,
Burundi, Congo, Liberia, Sierra Leone, Timor Est, Sudan, Medio Oriente!…
Ad essi si
aggiungono le vittime del disinteresse o interesse di chi vuole mantenere
intatti i suoi privilegi.

Suggerirei agli amici statunitensi di cogliere l’esempio splendido
di alcuni loro giovani, che in questi sette giorni hanno offerto la vita per salvae
altre. Se chiamati alle armi, faranno anche la guerra. Ma quanto sarebbe più bello se
questi ed altri ragazzi, in ogni parte del mondo, avessero l’opportunità di provare
quanto valgono sul terreno della pace e della solidarietà internazionale!

La chiesa ha il difficile compito di creare ponti di pace fra
"distanze grandi" e "terreni impervi". Non si può prescindere da una
presenza di consolazione in questi giorni di disperazione. È necessario il
dialogo con le altre fedi religiose, in primis con la comunità islamica ed ebraica.

Preghiamo perché il mondo rifiuti ogni violenza e ognuno apra
(finalmente) mente e cuore. Che Dio accolga le vittime delle stragi di New York e
Washington, consoli le loro famiglie!

padre Ugo Pozzoli




Ma la violenza e le bugie non fermeranno i sognatori

Genova, 21 luglio.
"Vedrete, domani saremo tutti dei criminali". Sul pullman che ci riporterà a
casa si respira un’atmosfera pesante. Delusione, sconcerto, malinconia sono i
sentimenti più diffusi. Qualcuno è più ottimista: "Ma no. Sapranno distinguere. Le
violenze di certe multinazionali non fanno dimenticare che altre imprese lavorano con
coscienza. Le esecuzioni capitali degli Usa non fanno dire che tutti gli statunitensi sono
dei barbari. I teppisti degli stadi non vengono confusi con i tifosi veri. Sì, sapranno
dividere chi è venuto per contestare con una maglietta colorata, uno striscione, uno
zainetto pieno soltanto di acqua e panini".

Alcuni di noi sono stati in cima al corteo dei duecentomila (o più) manifestanti,
venuti da ogni regione d’Italia e da decine di altri paesi (Francia, Grecia, Spagna,
Inghilterra, ecc.). "Il corteo si è trovato spezzato in due tronconi. Piovevano
candelotti lacrimogeni sulla gente. Molti, impauriti, indietreggiavano, incrementando il
panico. Altri riuscivano a mantenere il controllo, alzando le mani imbiancate e gridando
"Calmi, calmi. Non scappate". Abbiamo visto gruppetti di tute nere, sbucati
all’improvviso da chissà dove, dare l’assalto a banche e negozi. Con sassi,
spranghe, bastoni, calci. Chi doveva fermare questi teppisti scatenati? Dove erano le
forze dell’ordine?".

"A tirare i loro lacrimogeni sui pacifisti", grida qualcuno dal fondo del
bus; "a difendere George il texano", aggiunge un altro; "ad ammirarci
dall’alto", ironizza amara una signora, riferendosi agli elicotteri che, per
tutto il giorno, hanno volteggiato sulle teste dei manifestanti.

Il pullman entra a Torino poco dopo la mezzanotte. I saluti sono veloci. Stremati nel
fisico e nello spirito, tutti vogliono tornare a casa. Ma – questo è certo – nessuno si
è pentito della scelta operata, né smetterà di sognare un mondo diverso
dall’attuale.

Domenica, 22 luglio. Le previsioni si stanno avverando. Alcuni
quotidiani e diverse televisioni si scatenano in un impudico travisamento dei fatti. Che
tristezza leggere: "Vogliono cambiare il mondo. Così hanno cambiato Genova"
(prima pagina de il Gioale). E Libero di Vittorio Feltri rincara la dosa: "Sono
solo dei criminali. I pacifisti devastano e incendiano Genova". Si dà fondo al
dizionario degli insulti: lanzichenecchi, nazi-comunisti, terroristi, rivoluzionari
deliranti, mandria allo sbando, catto-comunisti, turisti della violenza, pessimi alunni di
cattivi maestri. Chissà come si sentirà la ragazza di Mani Tese, l’ambientalista
del Wwf, l’iscritto della Fiom, la signora francese di Attac, il comunista greco o il
missionario della Consolata?

Sui canali televisivi scorrono le devastazioni del "popolo di Seattle" e i
sorrisi di circostanza degli otto cosiddetti "grandi" che, nei palazzi della
città proibita (la famigerata "zona rossa"), raccontano alla stampa mondiale
cosa hanno deciso in questa tre giorni di discussioni. "Abbiamo lavorato per il bene
dell’umanità". Ci sarà un fondo per la lotta all’Aids, alla malaria, alla
tubercolosi (3 mila miliardi di lire, poco più di un’elemosina). Per ridurre la
povertà (e aumentare i profitti delle multinazionali), i commerci saranno ancora più
liberi. C’è l’ennesima promessa di aiutare l’Africa. Nessun accordo,
invece, sul trattato di Kyoto, sullo sviluppo diseguale, sulle energie rinnovabili, sullo
scudo stellare di George il texano, sulla cancellazione totale del debito. Della finanza
speculativa e della "Tobin Tax" non si è parlato perché, come si dice, non
erano temi in agenda. Insomma, ancora una volta, tante chiacchiere, ma pochissimi
risultati. Ma che importa? I cattivi sono gli altri. Le banche devastate, le vetrine
infrante, le auto bruciate, la città messa a ferro e fuoco sono lì a dimostrarlo. Il
mondo può andare avanti così.

Paolo Moiola