Missione da sfogliare

L a parrocchia è stato l’oggetto privilegiato dell’assemblea straordinaria della Conferenza episcopale italiana (Cei), svoltasi ad Assisi alla fine del novembre scorso. Oltre a rilevae difficoltà e problemi, a ribadie importanza e ruolo, i vescovi ne hanno delineato «il volto missionario», convinti che la «connotazione missionaria può aiutare la parrocchia a superare il rischio dell’autoreferenzialità, come pure di configurarsi come stazione di servizio».
Il riferimento alla missionarietà deriva dal programma tracciato nel documento Cei: «Comunicare il vangelo in un mondo che cambia», in cui sono stati indicati gli orientamenti pastorali per il decennio 2001-2012. In esso si invita la chiesa ad «allargare il nostro sguardo… alla vera e propria missione ad gentes, paradigma dell’evangelizzazione»; a «non leggerà più l’impegno dell’evangelizzazione del mondo come riservato a “specialisti”, quali potrebbero essere i missionari, ma lo sentirà come proprio di tutta la comunità. L’allargamento dello sguardo verso un orizzonte planetario, compiuto riaprendo il “libro delle missioni”, aiuterà le nostre comunità a non chiudersi nel “qui e ora” della loro situazione peculiare e consentirà loro di attingere risorse di speranza e intuizioni apostoliche nuove guardando a realtà spesso più povere materialmente, ma nient’affatto tali a livello spirituale e pastorale» (46).

P er «dare concretezza alle decisioni indicate… per imprimere un dinamismo missionario» alle singole comunità cristiane, è in corso la preparazione del «Convegno missionario nazionale», che si terrà a Montesilvano (Pescara) dal 27 al 30 settembre 2004 ed ha come tema «Comunione e corresponsabilità per la missione».
Organizzato dall’Ufficio nazionale per la cooperazione tra le chiese, il convegno ha alcuni obiettivi molto importanti, spiega mons. Giuseppe Andreozzi, direttore dello stesso Ufficio:
– aiutare la comunità cristiana, e in particolare la comunità parrocchiale, a prendere coscienza che si deve aprire all’universalità, assumendo come paradigma della propria attività pastorale la missio ad gentes;
– superare il preconcetto che il compito missionario sia solo per «addetti ai lavori»;
– proporre nuove forme di evangelizzazione, perché tutta la comunità possa sentirsi missionaria;
– individuare e sostenere occasioni e strumenti di lavoro che concorrono a definire e qualificare l’apertura ad gentes della comunità cristiana.

T ale apertura non è a senso unico. Sfogliando «il libro delle missioni» le parrocchie italiane possono trovare risposte alle sfide che fanno anche dell’Italia una «terra di missione». Le comunità cristiane in Africa, Asia e America Latina hanno molto da insegnare in fatto di freschezza di fede vissuta, gioia delle celebrazioni, testimonianza fino all’eroismo e, soprattutto, ricchezza di ministeri laicali .
Una delle mete del documento Cei per il decennio in corso riguarda proprio «l’impegno dei fedeli laici alla testimonianza evangelica, all’assunzione di nuove forme ministeriali» (67). Soprattutto in questo campo «il libro delle missioni» può essere di stimolo e di esempio per valorizzare il ruolo dei laici, uomini e donne, trasformare la parrocchia in una «chiesa ministeriale», ancora tutta da inventare, senza scivolare in una ennesima «clericalizzazione».

Benedetto Bellesi




Gli angeli di pietra sono stanchi

GLI ANGELI DI PIETRA
SONO STANCHI

Messaggio alle comunità cristiane
nel mondo
G li angeli di pietra sono stanchi. Da 2.000 anni attendono i coloni cristiani a Gerusalemme… I coloni cristiani partirono a migliaia verso la Palestina per pulirla del sangue e distruggere le leggi dell’odio.
Finalmente i crociati della pace cammineranno sopra dune d’acqua per abbracciare il Cristo ferito, mille volte deriso, calpestato dalle armi: a Gerusalemme, Nazaret, Betlemme.
Quanti verrete, coloni, tra un miliardo di cristiani? Tutti i cristiani della terra. Tutti i cristiani uniti a difendere un popolo costretto alla morte e un altro costretto alla guerra.
Gli angeli di pietra piangono Gerusalemme. Gerusalemme di tutti i popoli, Gerusalemme di tutti gli dei e di un solo Dio. Gerusalemme del Monte degli Ulivi e del Golgota, dove sei?
La Pasqua non è più ebraica e non è cristiana, finché un’arma schiaccia la colomba della pace: la vita di una ragazza o di un giornalista cosa contano in terra di Palestina? Rabin è morto per la pace. Quante volte è stato ucciso Rabin!
Israele vedrà i granelli del deserto farsi uomini-scudo contro le stragi perpetue. Israele, città del Messia ucciso, risorto e che verrà.
Israele, è tempo di perdono: è tempo che l’Arca rapisca i malvagi della tua terra, perché chi attende preghi al muro del pianto, chi spera nel Risorto s’incammini premuroso per le vie dei miracoli e raggiunga le acque del Giordano.
Allora gli apostoli e i bimbi di Gesù ritoeranno a frotte, non da macerie e sangue, ma da case e orti profumati. Cristiana

Cristiana




Una pace che non dà pace

Cari amici di Missioni Consolata, prima di tutto vogliamo ringraziarVi per le attestazioni di simpatia con cui avete accolto il numero speciale della nostra rivista su «La guerra. Le guerre». Non ci aspettavamo una risposta così straordinaria: per telefono, posta e via elettronica, abbiamo ricevuto tante testimonianze di apprezzamento, alcune delle quali pubblicheremo nel numero di gennaio.

Qualcuno ci ha detto che siamo stati coraggiosi. Diciamo semplicemente che abbiamo fatto il nostro dovere, un servizio alla pace e alla verità, perché «la pace ha bisogno di verità – scriveva Giovanni Paolo ii nel messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1980 -. Verità significa, anzitutto, chiamare col proprio nome l’omicidio e i massacri di uomini e donne, qualunque sia la loro appartenenza etnica, chiamare col loro nome la tortura e tutte le forme di oppressione e di sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, dell’uomo da parte dello stato, di un popolo da parte di un altro popolo».

Tempo fa, Beppe Grillo disse che «ormai restano poche voci a cantare fuori dal coro: quelle dei comici e dei missionari». Ne siamo lusingati; ma diciamo che sono tante, prima tra tutte quella del papa; anzi, è una schiera innumerevole di persone di ogni etnia, popolo e nazione che, a gran voce, condanna la guerra e chiede la pace. E ci siete anche voi, cari lettori, perché siete convinti, come noi, che la prima vittima della guerra è la verità.

Come ogni anno, il natale di Cristo Signore fa risuonare il suo annuncio: «Pace in terra agli uomini di buona volontà». Non si tratta, però, di una pace qualsiasi, che si acquista al supermercato, fatta di pacchetti, nastri e palle colorate, ma di quella vera, totale, che viene solo da Dio. È dono suo; anzi, è beatitudine da chiedere, accogliere, coltivare, costruire: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio».

Ma non la si costruisce con la potenza e la prepotenza delle armi. Non basta disarmare le mani, come ci ricorda spesso il papa; ma occorre «disarmare le coscienze e i cuori», dove si annidano i nemici della pace: egoismo, odio, vendetta, prepotenza, menzogna, ingiustizia…

Dalla grotta di Betlemme al Calvario, il Dio della pace non si presenta con il braccio armato, ma nell’umiltà e nello svuotamento, nella mitezza e nel perdono, in una parola, nell’amore.

Per i credenti, e per ogni uomo di buona volontà, le armi della pace si chiamano: giustizia, solidarietà, mutua convivenza, accoglienza reciproca, ascolto e stima dell’altro, accettazione, perdono, riconciliazione, dialogo a tutti i livelli…

«La pace, prima che traguardo, è cammino, cammino in salita. Ha le sue tabelle di marcia e i suoi ritmi. I suoi rallentamenti e le sue accelerazioni. Forse anche le sue soste. Se è così, occorrono attese pazienti. E sarà beato, perché operatore di pace, non chi pretende di trovarsi all’arrivo senza essere partito, ma chi parte» (don Tonino Bello).

Buon natale, cari amici lettori. In voi e attorno a voi trabocchi la pace, quella vera, che viene dall’alto, annunciata e promessa a tutti gli uomini di buona volontà.

Ricordiamo, però, che tale pace è dono dinamico, che «non lascia in pace», ma rimette in marcia.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Mercanti di salvezza

In questo numero iniziamo una nuova rubrica: «al supermercato delle religioni, viaggio-inchiesta tra i “nuovi” culti». Si tratta di un fenomeno allarmante anche per la società civile: governi di vari paesi europei (Francia, Belgio, Italia…) hanno censito il numero delle cosiddette «nuove religioni» e stilato rapporti sulla loro attività, da quando alcune di esse sono venute alla ribalta con gesti di suicidi collettivi o gravi violazioni delle leggi
Esse costituiscono una sfida per le chiese cristiane, per quella cattolica in particolare: non è un mistero il fatto che molti movimenti religiosi, fortemente ultraconservatori e integralisti, sono sovvenzionati dal governo americano, per contrastare l’attività che la chiesa svolge in difesa della giustizia e dei diritti umani nei paesi in via di sviluppo.

Nel mondo, secondo lo specialista americano Gordon Melton, tali gruppi sono circa 20 mila; la loro espansione interessa principalmente l’America Latina e l’Est. Ma anche in Italia, oggi, alcuni parlano di «invasione delle sètte»; altri di «invasioni di sigle». Il numero di adepti, infatti, rimane relativamente stabile e ridotto; ogni giorno nascono nuovi gruppi; ma altrettanti scompaiono.

Psicologi e sociologi spiegano che tale fenomeno emerge soprattutto nei periodi di crisi e transizione, come quella che stiamo vivendo. Da una parte, secolarizzazione della società, avvento dell’individualismo, massificazione e globalizzazione, fallimento delle ideologie… provocano il bisogno di sicurezza e salvezza, ricerca di significato per la propria esistenza, anelito a una società differente da quella attuale.
Dall’altra, nonostante il grido di Nietzsche: «Dio è morto», l’uomo è per natura religioso e la religione è una dimensione necessaria nella vita. Da qui il pullulare di movimenti, gruppi, logge, magia bianca e nera, religioni occulte ed esoteriche, riti diabolici: un mercato di salvezza per tutti i gusti, dove fioriscono commistioni, sincretismi, innovazioni, insieme al pullulare di truffatori di ogni genere, che lucrano sulla religiosità.

Non vogliamo fare di ogni erba un fascio, tanto meno scatenare una caccia alle streghe. Ma è chiaro che gli aneliti religiosi si intrecciano con interessi economici. Nostro scopo è fare chiarezza sulla natura e i comportamenti di certi gruppi religiosi e aiutare a non cadere nelle loro trappole, dalle quali, una volta scattate, non è facile liberarsi. Alcune «sètte» o «sigle», adoperano tecniche subdole e raffinate, desunte dalle modee scienze umane, che sfociano in autentici lavaggi del cervello, fino a far perdere la propria identità.

Non esiste un vaccino, ma ci sono medicine preventive. La prima è l’informazione: anche in questo caso vale il detto «se le conosci, le eviti»; un’informazione che, nel rispetto della libertà di coscienza e delle scelte personali, stimoli uno spirito critico più autentico e costruttivo.
In questo caso entra in gioco un secondo antidoto: approfondire la conoscenza della propria fede. La maggioranza di coloro che passano dalla chiesa cattolica a una «nuova» o altra religione, non ha mai gustato la bellezza di Cristo e del suo vangelo.

Anche il cristianesimo, quando cominciò ad affermarsi, fu considerato da ebrei e pagani alla stregua di una «sètta». I romani lo definirono «superstizione nuova e malefica», finché gli scrittori cristiani dimostrarono il contrario con vigore ed efficacia: i valori del vangelo fanno parte dell’anima umana, rispondono alle sue più profonde aspirazioni e si trovano, come «semi del Verbo», in tutte le tendenze culturali e religiose dell’umanità. Semi che hanno bisogno di diventare fiori e frutti di autentica felicità.
Da qui un terzo antidoto: tradurre la fede in testimonianza di vita e impegno missionario: anche in questo caso vale l’ammonimento di Giovanni Paolo II: «La fede la si accresce donandola».
Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




LA PACE NON SI AMMAINA

Passata la buriana della guerra del Golfo, sconfitto
Saddam, conquistati i punti strategici di
Bassora, Mossul e Baghdad, occupati i pozzi
petroliferi dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti,
anche il circo massmediatico internazionale, accorso
come mosche sulle piaghe purulenti di una «sporca
guerra preventiva», fa dietro front e tutto rientra
nel grigio anonimato del tran tran dell’informazione
soporifera dei giorni feriali.
Restano sul terreno le migliaia di morti innocenti e
senza volto, falcidiati da una potenza di fuoco tanto
impressionante quanto imperturbabile di fronte ai
lutti e tragedie causati dall’arroganza.
Durante i giorni del conflitto, larga parte dell’opinione
pubblica italiana e internazionale si era schierata
apertamente per la pace con manifestazioni, sit
in, incontri, dibattiti, digiuni e preghiere, stimolata
e sostenuta dall’autorevole presa di posizione di Giovanni
Paolo II. Egli non ha mai smesso di alzare la
voce, in forza anche dell’esperienza vissuta sulla sua
pelle durante la seconda guerra mondiale, diventando
così un punto di riferimento per tutti i costruttori
di pace e persone di buona volontà.
Un simile atteggiamento è stato stigmatizzato e
scheito da quella parte di società che, di fronte ai
problemi del mondo, non vede altra soluzione che
«mostrare i muscoli» e «menare le mani», appoggiati
dalle nostrane Platinette dell’informazione,
sempre pronte a incensare l’imperatore di tuo.
Ci preme sottolineare come i veri amanti della
pace non aspettano le sollecitazioni dei mass
media per prendere posizione. Da anni organismi
e associazioni cattoliche hanno organizzato e
proposto incontri sulle realtà tragiche del sud del
mondo: le guerre dimenticate che i nostri missionari
non hanno mai smesso di segnalarci e che noi, pur
con la limitatezza della nostra voce e mezzi, abbiamo
sempre offerto come spunti di riflessione alla comunità
ecclesiale e alla società civile.
Quanti incontri sulla tragedia dei Grandi Laghi, Timor
Est, Medio Oriente, indios e minoranze etniche,
bambini soldato, ex Unione Sovietica…!
A volte, pur avendo invitato relatori
di prestigio, ci si ritrovava solo con pochi amici: la
stragrande maggioranza della gente non veniva coinvolta
perché i grandi mezzi di comunicazione di massa
(ma anche i piccoli e mediani di casa nostra) se ne
guardavano bene dal coinvolgere e informare, preferendo
ammannire notizie pruriginose e piene di
suspense alla «grande fratello», per vendere qualche
copia in più o attirare ulteriori allocchi.
Di chi la responsabilità, allora, se la mobilitazione
di massa avviene solo quando il circuito
dei mass media fa da cassa di risonanza
agli avvenimenti importanti? Come spiegare il risalto
dato dai mass media inteazionali agli
interventi di Giovanni Paolo II sulla pace in Iraq,
con il disinteresse totale di tutte le altre volte che lo
stesso pontefice ha alzato la voce per porre un freno
alla tragedia dei Grandi Laghi?
Perché la Cnn o Al Jazeera non calano in massa in
Cecenia o in Sudan, inondandoci di informazioni di
prima mano sulla tragedia di questi popoli dimenticati
e su altre situazioni che attendono di essere presentate
al vasto pubblico internazionale? Chi muove
le fila dell’informazione planetaria?
Su queste situazioni, ognuno può farsi un’opinione,
grazie ad altri canali d’informazione: perché, allora,
non insistere su una vera, autentica e corretta mole
di notizie, in grado di aiutare le coscienze a leggere
la realtà e interpretarla, come le riviste missionarie
e la Misna fanno in maniera irreprensibile, senza
mai demordere di fronte alle mille difficoltà?
Vogliamo sottolineare questi interrogativi proprio
adesso che, finita la guerra in Iraq, tutto
sembra attenuarsi, favorendo il qualunquismo
di quei maliziosi che trovano mille scuse per non
prendere alcuna posizione di fronte ai problemi della
pace, ma sono sempre pronti a sbeffeggiare tutti
coloro (papa compreso) che, proprio perché hanno a
cuore le sorti della pace nel mondo, si impegnano senza
risparmiarsi ogni volta che essa è messa in pericolo
da texani, talebani o cosacchi di tuo!
La bandiera della pace non sarà mai ammainata dalle
nostre coscienze.

DON MARIO BANDERA




PASTICCIO GROSSO A L’AVANA

Sono passati solo 5 anni, ma sembrano anni luce:
come regalo a Giovanni Paolo II per la sua
visita a Cuba (gennaio 1998) Fidel Castro
svuotò le carceri dei prigionieri politici. All’improvviso,
si sono ripopolate.
Nel 2002 l’ex presidente degli Stati Uniti, Jimmy
Carter, in visita a Cuba, proclamò davanti all’Assemblea
e alla televisione che l’isola era strangolata
da 40 anni di ingiuste sanzioni, dal partito unico e
mancanza di libertà. Il lider maximo non si offese,
ma abbracciò l’ospite come se fosse il compagno Che
Guevara.
Un mese dopo, fu emendata la Costituzione: «Il sistema
socialista è irrevocabile».
Il 19 marzo scorso, mentre il primo missile americano
cadeva su Baghdad, la polizia segreta cubana cominciò
ad arrestare 80 dissidenti: giornalisti, intellettuali,
professori universitari, leaders di movimenti
di opposizione e di difesa dei diritti umani. Molti
di essi avevano appoggiato il «progetto Varela»: una
raccolta di firme per chiedere libertà di associazione,
parola, stampa, impresa ed elezioni multipartitiche.
Il Parlamento rigettò la petizione per vizio di forma;
molti promotori vennero imprigionati, processati a
porte chiuse e condannati a pene detentive oscillanti
tra i 15 e 27 anni; con l’accusa più banale: «Attentato
alla sovranità nazionale». Ossia, aver scritto e
detto cose contrarie al regime castrista.
Il 13 aprile furono fucilati tre giovani sprovveduti,
con l’accusa di «terrorismo»: avevano sequestrato un
traghetto e costretto l’equipaggio a fare rotta verso gli
Stati Uniti.
«Un balzo da gigante a ritroso – denuncia Amnesty
Inteational -. La pena capitale era congelata da tre
anni; processi sommari di massa non se ne vedevano
da 20».
Perché la sterzata del regime è avvenuta in concomitanza
con la discussione all’Onu sulla situazione
dei diritti umani a Cuba e la presentazione
all’Unione Europea della sua candidatura alla
convenzione di Cotonou (cooperazione tra EU a
78 paesi dell’Africa, Caraibi
e Pacifico)?
«È la sindrome dell’assedio
– spiegano i politologi -;
paura che Cuba diventi il
prossimo Iraq, con un’operazione
per un «cambio di regime» sullo stile di quella
che, nel 1989-90, rovesciò il dittatore panamense».
Le minacce non sono affatto velate. Dalla Florida, i
fuoriusciti cubani continuano negli attentati contro
l’economia e turismo dell’isola. L’incaricato degli affari
statunitensi a Cuba, James Cason, ha trasformato
il suo ufficio in un covo di dissidenti, spesso comprati
con regali vari, nell’intento dichiarato di scardinare
l’ordine costituito.
Anziché espellere l’incaricato come «persona non grata», Castro si è accanito contro gli oppositori che con
Cason non hanno nulla da spartire.
A chi giova questa strategia della tensione tra il dittatore
e l’impero americano? Non certo al popolo
cubano. Anzi, la reazione disperata del regime fa il
gioco dei falchi di Washington, che già accusano l’isola
di essere uno «stato terrorista e di preparare armi
di distruzione di massa».
Sarebbe ora che ognuno facesse un passo indietro.
È incomprensibile come il governo Usa,
mentre dialoga con Cina e Corea del Nord, continui
a considerare Cuba un pericolo per la sicurezza
americana. Ancora più incomprensibile è come si possa
punire un popolo con un embargo che dura da oltre
40 anni e condannato dall’Onu come «immorale» per 10 volte consecutive.
A 76 anni di età e 44 di dittatura, dopo aver tenuto
testa a 10 presidenti statunitensi, anche per Fidel è
giunta l’ora di pensare al «dopo Castro», mettendo
nel cassetto l’ideologia e cominciando a dialogare con
il suo popolo e a rispondere alle sue aspettative.
È pure il tema del messaggio che il papa, il 13 aprile
scorso, ha inviato al lider maximo. Oltre a esprimere
il suo «profondo dolore» per le pesanti pene e le
esecuzioni contro i cittadini cubani, il pontefice dice
al dittatore: «Sono certo che anche lei condivide con
me la convinzione che soltanto il confronto sincero e
costruttivo tra cittadini e autorità civili può garantire
la promozione di uno stato moderno e democratico,
in una Cuba sempre più unita e fratea».
È pure la convinzione nostra e del popolo cubano, che
attende una «nuova primavera
», da fare sbocciare pacificamente
e non imposta
da stranieri.

BENEDETTO BELLESI




VACCHE VOLANTII

La fame non fa più notizia, neppure quando raggiunge
proporzioni catastrofiche: 13 milioni di
persone sono colpite dalla carestia in sei paesi
dell’Africa Australe (Mozambico, Zimbabwe, Malawi,
Zambia, Lesotho e Swaziland); altri 6 milioni
rischiano di morire di fame in Etiopia, una calamità
più devastante che negli anni ’80 e ’90.
Al di là delle emergenze, 40 mila persone muoiono
ogni giorno per fame o malnutrizione.
Ma non se ne parla: quello della fame è diventato un
problema imbarazzante e scandaloso.
Il «Piano d’azione», varato da 180 paesi al World
Food Summit di Roma nel 1996, si prefiggeva di dimezzare
la popolazione affamata nel mondo entro il
2015. L’ultimo rapporto della Fao, Situazione dell’insicurezza
alimentare nel mondo 2002, ammette
che gli affamati sono diminuiti appena di 2,5 milioni
l’anno, invece dei 24 milioni programmati.
Eppure, a detta degli esperti, la soluzione tecnica
per sfamare tutti esiste, se si volesse. A parole,
tutti lo vogliono; ma le soluzioni pratiche
vengono spesso contestate e rifiutate. E non è l’unica
contraddizione, a cominciare dalle cifre.
I numeri della fame sono molto discussi: secondo il
rapporto della Fao a soffrie sarebbero 840 milioni.
A questi bisogna aggiungere altri 300 milioni di malnutriti.
Per altre organizzazioni le statistiche sarebbero
molto più elevate.
L’assurdo, poi, è che l’85% degli affamati nel mondo
vivono nelle campagne, dove si produce il cibo.
Cause della fame non sono solo siccità e calamità naturali,
ma anche meccanismi perversi: guerre e instabilità
politica, corruzione e inettitudine di governi
locali, Aids e altre epidemie, maneggi di multinazionali
e finanziari, disuguaglianze e ingiustizie
sociali… Base di tutto, però, è la povertà: il cibo c’è,
specialmente nei paesi sviluppati, ma la gente non ha
soldi per comprarlo.
Per salvare dalla fame i sei stati dell’Africa Australe,
il «Programma
alimentare
mondiale» dell’Onu
ha inviato migliaia di
tonnellate di cereali,
metà dei quali proveniente
dagli Stati Uniti,
in gran parte modificati
geneticamente. Inizialmente
vari governi hanno rifiutato l’aiuto: «Meglio
morire di fame che avvelenati» diceva il presidente
dello Zambia. Ma poi hanno accettato il «dono».
Oltre che dal rischio per la salute, tale rifiuto è motivato
da ragioni economiche: se i semi geneticamente
modificati venissero seminati, potrebbero contaminare
altri prodotti agricoli da esportazione, che verrebbero
rifiutati dai mercati europei, dove i cibi transgenici
sono banditi.
Ma le conseguenze più disastrose per le economie agricole
dei paesi in via di sviluppo (pvs) vengono dalle
eccedenze alimentari dei paesi ricchi. Grazie ai forti
sussidi governativi agli agricoltori e allevatori europei
e americani, cereali, latte, zucchero… vengono
immessi nei mercati dei pvs a un prezzo inferiore al
costo di produzione, facendo concorrenza ai produttori
locali. Al contrario, i prodotti agricoli dei psv sono
soggetti alle restrizioni doganali dei paesi ricchi.
E tutto in barba ai dogmi della globalizzazione, concorrenza,
libero mercato…
«Igoverni europei potrebbero mandare, ogni
anno, 21 milioni di mucche da latte in un
viaggio attorno al mondo, con scali nelle più
grandi città» sottolinea un volantino della Cafod,
Ong cattolica inglese, promotrice della campagna
Flying cows (vacche volanti) per invocare regole commerciali
uguali per tutti. Una mucca europea, infatti,
riceve in media un sussidio di 2,20 euro al giorno:
cifra che costituisce il reddito medio di metà della
popolazione mondiale, quasi 3 miliardi di persone.
La somma che l’Africa perde a causa delle regole
commerciali ingiuste è maggiore di quella richiesta
per cancellare il suo debito estero.
«Causa della fame è la povertà – afferma Civiltà Cattolica,
nov. 2002, n. 3658 -. L’unica soluzione sembra
essere quella di mettere gli affamati in condizione
di produrre il cibo per sopravvivere… I paesi ricchi,
più che trasferire o “donare” le proprie eccedenze,
con effetti disastrosi per l’agricoltura dei paesi poveri,
dovrebbero piuttosto smantellare i sussidi alla propria
agricoltura e favorire
il buon governo dei paesi
poveri, in modo da aiutarli
a combattere la povertà».
Non bastano le scelte economiche;
bisogna fare
scelte etiche.

BENEDETTO BELLESI




TRE DOMANDE

1. Quante delle cose che fa la chiesa oggi nel mondo
(dal papa ai vescovi, parrocchie, istituti missionari,
associazioni di laici, ecc.) sono «comunicazione
del vangelo»? Quante di esse non sarebbero
fatte da ogni buona religione o ente
umanitario? Esigenza di riscoprire l’essenziale, di
tornare al nocciolo della questione. «Marta, Marta,
tu ti affanni per troppe cose! Di una cosa sola c’è bisogno.
Maria ha scelto la parte buona e nessuno gliela
porterà via» (Lc 10,41-42). Le nostre riviste «missionarie» sono comunicazioni di vangelo? Come?
2. Il problema principale della comunicazione
del vangelo è dato dal fatto che esso è legato
alla nostra vita. Teologicamente la cosa ha uno
spessore molto più grande
di un banale invito alla
coerenza: noi siamo il
Cristo risorto! Certo,
non solo noi, ma il «corpo
esteso» del risorto è la
chiesa nel mondo, dalla
«prima domenica» alla
fine della storia («Ecco,
io sono con voi tutti i
giorni fino alla fine…»
Mt 28). La resurrezione
di Gesù va mostrata,
non dimostrata. Quindi
non c’è che una strada:
la conversione, la costante riforma della chiesa, il
tornare ad essere comunità cristiane.
Oggi il più grande problema missionario è una
chiesa che non intende convertirsi al vangelo. Ogni
discorso missionario – anche sulle nostre riviste – non
può che essere un discorso di radicalismo evangelico
(per esempio, sulla nonviolenza, ma anche sulla
povertà, lavarsi i piedi gli uni gli altri, perdono dei
nemici, sull’indissolubilità del matrimonio…).
Queste due domande potrebbero far nascere il sospetto
di un certo fondamentalismo (nec nominetur
in nobis!), se non fossero accompagnate da una
terza domanda, la più profonda e la più disattesa.
3. Continuiamo a concepire l’incarnazione, e
quindi la missione, come la venuta di Dio nel
mondo, per cambiare il mondo («il Verbo si è
fatto carne» Gv 1,14; «Dio ha tanto amato il mondo
da mandare il suo figlio unigenito… perché il
mondo si salvi per mezzo di lui» Gv 3,16.17; «Dio
ha mandato il suo unigenito figlio nel mondo, perché
avessimo la vita per mezzo di lui» 1 Gv 4,9).
Questa è la teologia giovannea, che esprime senza
dubbio una realtà fondamentale della nostra fede.
Ma l’abbiamo un po’ assolutizzata. In qualche
modo confondiamo la preesistenza del Verbo con la
preesistenza di Gesù Signore.
La prospettiva dei sinottici e specialmente di Paolo
è diversa: è quella di un Dio che prende un uomo
concreto, storico, Gesù di Nazaret, e lo assume all’interno
della Trinità. Un Dio che prende un volto
umano. Abbiamo mai pensato che, con l’incarnazione,
l’uomo Gesù è entrato in Dio e ha cambiato
il volto di Dio? Dio si è reso permeabile a tutto ciò
che passa nella storia
umana e nel cosmo.
È una riflessione, questa,
che cambia tutta la
rigidità dell’istituzione
ecclesiastica: la chiesa
non preesiste all’assunzione
della realtà
umana nel suo divenire.
La chiesa si forma come
un bambino nel seno
della madre e il sangue
che gli porta
nutrimento è ciò che
succede nel mondo.
Certo l’essere è già prefigurato, ha un codice (il codice
è Cristo, è il vangelo), ma non sappiamo ancora
quello che sarà. Della chiesa non abbiamo scoperto
che un lembo: sappiamo ciò che è stata, non
ciò che sarà.
Le riviste missionarie sono un po’ quel cordone
ombelicale che portano sangue all’«embrionechiesa
»: esse non devono avere solo la prospettiva
del «portare la chiesa al mondo», ma anche quella
di «portare il mondo alla chiesa».
Portare il mondo alla chiesa significa in concreto valorizzare
tutto ciò che è salvabile nel mondo d’oggi,
anche in un mondo così dissacrato e dissacrante, ateo
e disumano. Le riviste missionarie sono riviste di denuncia,
ma anche di annuncio di tutto ciò che di buono
il mondo d’oggi presenta; a servizio di un dialogo
esistenziale difficile, pluriforme, spesso rifiutato, ma
essenziale al divenire della chiesa-regno di Dio.

Francesco Grasselli




I CONFINI DEL BENE E DEL MALE

«Dio non si rivela più, sembra nascondersi nel suo
cielo, in silenzio, quasi disgustato dalle azioni dell’umanità».
Così, dicono le cronache, il pontefice si è rivolto
ai fedeli durante un’udienza collettiva di catechesi,
lo scorso 11 dicembre. Parole di fuoco, così aspre non
erano mai state dette. Un’immagine di Dio più corrucciata
non era mai stata proposta da un vicario di Cristo.
Credo che sia uno dei segnali della estrema gravità della
situazione di questa umanità contemporanea, e di questo
pianeta.
Undici anni sono trascorsi dalla fine di quello che venne
definito – da Ronald Reagan – l’«Impero del Male».
Invasione di campo, poiché non spetta a un uomo politico,
nemmeno se è presidente dell’unica superpotenza
mondiale, definire i confini del Bene e del Male.
Deformazione inusitata della politica, che non poteva che
produrre effetti devastanti, sia sulla politica che sulla morale.
Poiché stabilire in sede politica ciò che è il Male
Assoluto, significa parallelamente, implicitamente, assegnare
alla politica il diritto di stabilire che cosa è il Bene.
Da 11 anni, dunque, noi tutti, noi ricchi, noi sazi, abbiamo
vissuto in quello che è divenuto, per definizione,
il Bene. E adesso scopriamo, con stupore, con angoscia,
che questo Bene non ha molto a che vedere né con l’etica,
né con la spiritualità, né con la giustizia. Un altro
materialismo ha occupato prepotentemente il posto dell’ateismo
di Stato che sembrava ergersi come una minaccia
universale. E questo appare oggi più minaccioso
del predecessore, poiché è più insidioso, pervasivo, onnipresente,
subdolo, perfino – a tratti – caritatevole. La vita,
specie quella dei nostri figli, è ormai riempita di disvalori,
di vuoto intellettuale, di egoismo, di una insensata
corsa a procurarsi oggetti di cui nemmeno abbiamo
bisogno.
Siamo divenuti tutti homines videntes, coloro che vedono,
coloro che apprendono, quel poco che apprendono,
attraverso la televisione. E la televisione è divenuta il
nostro cattivo maestro. Cattivo ma così potente da avere
scardinato i caposaldi della nostra vita e di quella delle generazioni
che ci hanno preceduto. Famiglia, scuola, società
civile: luoghi dove ci si guardava negli occhi, luoghi
del confronto diretto tra i visi reali, dove si poteva cercare
di capirsi, sono stati travolti dall’ondata catodica.
Coloro che creano i flussi di sentimenti, di emozioni,
d’informazioni, non hanno altri criteri di regolazione che
il risultato finale di una infinita crescita della vendita di
quei prodotti che avvelenano la nostra vita quotidiana e
la nostra anima. Aspettarsi da loro un qualsiasi messaggio
di verità, giustizia, pace è cosa del tutto vana, poiché
l’ondata catodica non è di queste cose che si occupa. Ma
loro sono divenuti determinanti nello stabilire qual è la
nostra agenda quotidiana.
Io non so se si possa dire che Dio è adirato. E con chi
è adirato. Ma non si può restare indifferenti di fronte a
tanto disastro morale, di fronte all’indifferenza, di fronte
alla distrazione collettiva nella quale siamo trascinati e
che ci porta a dimenticare e stravolgere non solo il passato
ma perfino il presente.
Non so neppure se sia giusto incolpare la gente comune
di questa apatia e indifferenza, poiché la gente comune
– l’«uomo della strada», come lo si definisce comunemente
– non può più sapere in quale mondo vive, che
cosa sta accadendo attorno a noi e perché accade. Non
può saperlo perché il sistema di informazione-comunicazione-
intrattenimento che ci circonda, nel quale noi
siamo immersi senza soluzione di continuità, anche coloro
che pensano, spegnendo la televisione, di sottrarsene,
ci avvolge proiettandoci in un mondo irreale, il prodotto
di una «fabbrica dei sogni», che ci nasconde le verità
più elementari e ci impedisce di trarre perfino le più
elementari conclusioni che conceono la nostra vita
quotidiana.
In queste condizioni è la democrazia stessa a essere minacciata,
poiché non può aversi società democratica là dove
i cittadini non conoscono le scelte possibili, e vengono
quindi condotti, anzi trascinati, a scegliere dentro un
mazzo di carte mescolato da bari, che hanno tolto dal mazzo,
preventivamente, le scelte che loro non piacciono.
Il papa ha parlato, angosciato, evidentemente. Ma le sue
parole sono annegate nel gran mare di chiacchiere, nell’indifferenza
generale. Subito dimenticate, subito cancellate
da quel frenetico voltar di pagina che contraddistingue
tutto il lavorio mediatico del villaggio globale.

GIULIETTO CHIESA




TOCCA A LULA!!

Dal 1° gennaio il Brasile ha un nuovo presidente:
Luis Inácio da Silva, soprannominato
Lula, vincitore delle elezioni presidenziali
tenute lo scorso ottobre, candidato del
Partido dos trabalhadores (Pt). Il 39° presidente
della Repubblica brasiliana proviene dalla classe
dei poveri e degli emarginati: è la prima volta
nella storia del paese.
Dopo tre tentativi andati a vuoto (nel 1990,
1994 e 1998), Lula sembrava deciso a gettare la
spugna, come confessò in un’intervista rilasciata
alla nostra rivista nel 1999 (cfr. M.C. dicembre
’99). Ci ha riprovato e i brasiliani ne hanno premiato
carisma e caparbietà; soprattutto, hanno
dato credito al programma condensato nel motto
elettorale: «Per un Brasile decente».
Contro la più grande concentrazione al mondo
di latifondi, Lula ha promesso la riforma agraria a
favore di centinaia di migliaia di famiglie «senza
terra»; a oltre 34 milioni di persone che vivono
con meno di un dollaro al giorno ha dichiarato
«zero fame»; ad altri milioni al di sotto della soglia
della povertà ha assicurato una più equa distribuzione
delle ricchezze; di fronte al dilagare della criminalità
organizzata e di quella spicciola ha promesso
di garantire la sicurezza di tutta la popolazione;
di fronte a un’economia alla deriva ha
dichiarato guerra alla corruzione.
Per garantirsi il sostegno delle classi medie e
medio-alte e per non allarmare i «poteri forti»,
Lula ha fatto capriole ideologiche: ha moderato la
sua abituale retorica contro il capitalismo, Stati
Uniti e istituti finanziari inteazionali, ha abbracciato
vari principi dell’economia di mercato,
ha abbandonato l’intenzione di rifiutare il pagamento
del debito estero e di rompere i rapporti col
Fondo monetario. Idee che hanno causato travasi
di bile ai più radicali leaders del suo partito.
«Più che povero, il Brasile è un paese ingiusto»
ha affermato il suo ex rivale F. H. Cardoso. Forse
per questo anche i «poteri forti» gli hanno dato
credito, convinti che prendersi cura dei poveri,
combattere l’analfabetismo, riformare la distribuzione
della terra e delle pensioni, non mettono a
rischio i loro interessi. Anzi.
I l 1° gennaio in tutto il mondo si celebra la
Giornata mondiale della pace: sia di buon auspicio
anche per Lula e il popolo brasiliano.
Nel messaggio per tale occasione, Giovanni
Paolo II ripropone i valori dell’enciclica Pacem in
terris, pubblicata 40 anni fa da Giovanni XXIII e
indirizzata a «tutti gli uomini di buona volontà»,
per costruire un’autentica convivenza umana.
Anche Lula appartiene a questa categoria e tali
valori, come «bene comune, diritti umani fondamentali,
verità, giustizia, carità, libertà», fanno
parte del suo programma di governo.
Fare in modo che, come diceva Giovanni XXIII,
non rimangano «solo un suono di voce», non è facile
neppure in Brasile. Cinque secoli di squilibri e
ingiustizie non si risolvono con un decreto presidenziale.
Lula lo sa.
I pericoli ci sono, dentro e fuori: c’è il conflitto
tra la cruda realtà e le aspettative della gente;
ci sono le resistenze del mondo finanziario e
imprenditoriale. Lo «zio Tom» gli ha fatto tanti
auguri, ma lo aspetta al varco, pronto a stringere i
cordoni finanziari.
Egli sa pure che la sua elezione è un’occasione
storica per il suo paese e tutta l’America Latina, da
oltre 20 anni laboratorio mondiale del liberalismo
più selvaggio. Il Brasile potrebbe diventare il laboratorio
per un mercato dal
volto umano e uno sviluppo
sostenibile.
Sempre che Lula
riesca a mantenere
le promesse.
«Ce la faremo
» ha detto il
neopresidente il
giorno della vittoria.
Glielo auguriamo
di cuore,
per il bene dei brasiliani
e di tutti i latinoamericani!

BENEDETTO BELLESI