EDITORIALELa via della pace

«Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male». Queste parole, scritte da san Paolo ai cristiani di Roma, costituiscono il titolo e il motivo dominante del messaggio di Giovanni Paolo ii per la 38a Giornata mondiale della pace, che si celebra il 1° gennaio, ma deve ispirare tutto il 2005.
Il tema intende sollecitare una presa di coscienza sul male come «causa e fonte di conflitti e guerre» e, al tempo stesso, sul legame inscindibile tra la pace e il bene morale, concetto da cui trae concretezza uno dei principi più rilevanti della dottrina sociale della chiesa: quello del «bene comune universale».
Per avere la pace, infatti, non basta rifiutare il male e «ripudiare la guerra», come sancisce la nostra Costituzione; occorre fare scelte ispirate e orientate al bene comune. Fondamentale diventa, al riguardo, la concezione dei «beni materiali» che, secondo la dottrina sociale della chiesa, devono avere una «destinazione universale».
L’impegno nel ricercare il bene e rifiutare il male non può non prendere in considerazione i tanti problemi sociali ed economici, le disuguaglianze, le privazioni di ogni genere, le insicurezze, le ingiustizie diffuse che gravano sulla vita dei popoli. «C’è una stretta connessione tra diritto allo sviluppo e diritto alla pace» ricorda il papa, ribadendo un principio da lui ripetutamente affermato.

Purtroppo le armi continuano a insanguinare il pianeta. Una ricerca di prossima pubblicazione, promossa della Caritas Italiana, rivela che le vittime civili dei numerosi conflitti in corso sono in continuo aumento: il 93% dei «caduti in guerra» sono uomini, donne e bambini che con la guerra non hanno niente a che fare. Ai «caduti», si aggiungono altre cifre sconcertanti: 35,5 milioni di profughi e 300 mila bambini soldato.
La ricerca sottolinea che, mentre una stringente categoria tecnica conta 19 conflitti armati «di rilievo» nel mondo, sono molto più numerosi quelli «dimenticati» o «taciuti», in cui la violenza su vasta scala continua a mietere un altissimo numero di vittime.
Ormai si parla di guerre infinite, sia per la cronicità di certi conflitti, in cui è sempre più difficile distinguere le fasi di guerra da quelle di pace, sia per la diffusione nello spazio, a causa del terrorismo internazionale.
Inoltre, è sempre più evidente la relazione tra conflitti armati e dinamiche di impoverimento: il 90% delle situazioni di guerre e di violenza nasce nei cosiddetti paesi in via di sviluppo.

Tra tanti dati preoccupanti, qualche barlume di speranza. Alcuni paesi (Etiopia ed Eritrea, Guinea Bissau, Sierra Leone) le situazioni sono risolte o in netto miglioramento.
Inoltre, si registra una crescente attenzione ai conflitti dimenticati: i media ne parlano sempre più spesso, anche se non ne approfondiscono le cause e dinamiche.
Note positive sono foite da un sondaggio effettuato da Swg, secondo il quale il 76% degli italiani ritengono la guerra un elemento evitabile; per il 78% non esistono «guerre giuste»; l’80% sostiene che il ruolo dell’Onu dovrebbe essere potenziato, mentre il 91% ritiene che non ci siano paesi al sicuro da attacchi terroristici. Inoltre, la maggioranza degli intervistati (42%, 5 punti percentuali in più rispetto al 2001) ha indicato il papa e la chiesa cattolica tra le voci che più spesso si alzano contro la guerra e l’ingiustizia.
Intanto, nel suo messaggio, il papa continua a esortare tutti alla «responsabilità personale e collettiva», perché tutti ci impegniamo nella ricerca della via del «bene», come la via più sicura e veloce per giungere alla pace.

Benedetto Bellesi




EDITORIALEPace preventiva

Era nella sua casa natale, vicino a Nyeri (Kenya), il 9 ottobre scorso, quando le fu comunicato che le era stato assegnato il premio Nobel per la pace 2004. Per celebrare l’inaspettata notizia, Wangari Maathai ha piantato con le proprie mani un piccolo nandi flame, un albero tipico della vegetazione locale.
Prima africana a ricevere il Nobel per la pace, Wangari Maathai, 64 anni, vanta altri primati: laureata in biologia all’università del Kansas (Usa), fu la prima donna in Africa centro-orientale a ottenere un dottorato di ricerca; entrata nel dipartimento di medicina veterinaria all’università di Nairobi come ricercatrice e poi docente, diventò, nonostante lo scetticismo e l’opposizione maschilista di allievi e colleghi, la prima preside della stessa facoltà; nel 1977 fondò il movimento Green Belt (cintura verde), che ha piantato oltre 30 milioni di alberi.
Nella sua crociata ambientalista Maathai coinvolse decine di organizzazioni non governative e centinaia di migliaia di persone, donne soprattutto, creando progetti dal basso e offrendo occupazione, per frenare l’erosione del terreno e lo spreco delle riserve d’acqua: un fenomeno che, specie in Africa, causa una reazione a catena, i cui anelli sono siccità, sottosviluppo, malnutrizione e malattie d’ogni genere.

A lla salvaguardia del creato, la leader kenyana ha sempre unito la lotta per la democrazia e la difesa dei diritti umani dei più poveri e marginali, fino a sfidare lo strapotere del presidente Daniel Arap Moi. Nel 1997 si candidò alla presidenza del paese, ma il suo partito ritirò la sua candidatura pochi giorni prima del voto; nel 1998 riuscì a bloccare un progetto del governo, che prevedeva la distruzione di una parte dell’Uhuru Park, polmone verde di Nairobi, per fare spazio a un complesso residenziale di 60 appartamenti.
Tale impegno civile le procurò fama internazionale, insieme all’opposizione del regime e incomprensioni familiari: fu più volte incarcerata; nel 1999 venne ferita alla testa mentre piantava alberi nella foresta di Karura (Nairobi); negli anni ’80 fu abbandonata dal marito, un ex deputato da cui ha avuto tre figli, protestando che era «troppo istruita, troppo forte, troppo riuscita, troppo testarda e troppo difficile da controllare».
Ripresentatasi alle elezioni del dicembre 2002, è stata eletta al parlamento e, attualmente, ricopre la carica di sottosegretario al ministero dell’ambiente, risorse naturali e fauna selvatica.

N on c’è pace senza la salvaguardia del creato, abbiamo scritto nell’editoriale di settembre. Lo conferma la signora Maathai, commentando a caldo la notizia della sua premiazione: «La maggior parte dei conflitti in Africa e in altre parti del mondo derivano da una lotta per accaparrarsi le risorse naturali. Dobbiamo garantire che vi sia giustizia nella distribuzione di queste ricchezze. Occorre una pace preventiva: è necessario evitare le guerre, invece di risolverle quando sono ormai iniziate. La protezione dell’ambiente e la gestione delle sue risorse sono essenziali; ma per una vera pace è necessario garantire anche equità e giustizia».
L’attribuzione del premio Nobel alla coraggiosa donna kenyana è una pietra miliare nel riconoscimento del ruolo, ancora misconosciuto, delle donne in tutto il continente africano. Mogli, madri, infaticabili lavoratrici, esse sono le spine dorsali della società. Sulle loro spalle gravano il peso e le responsabilità del vivere quotidiano.
Le donne sono, le mani invisibili che, silenziosamente, da sempre, costruiscono l’Africa, ne strutturano la società e ne provocano i cambiamenti: esse sono il motore del futuro, a patto che vengano loro riconosciuti tutti i diritti e maggiore spazio e voce nella vita culturale, politica e sociale.

Benedetto Bellesi




Conversione ecologica

Da alcuni decenni il problema ecologico è dibattuto a livello internazionale. Da un punto di vista sociale, l’ecologia è diventata un problema di coscienza civile, la questione etica per eccellenza, soprattutto nella prospettica occidentale. Dai vari summit mondiali tenuti su tale argomento, si sono levate voci allarmanti, prospettando un futuro catastrofico per il nostro pianeta e di ogni essere vivente che lo abita, se l’uomo non inverte la rotta del dissennato sviluppo economico e consumistico e non imbocca la strada di uno sviluppo sostenibile.
Nella visione cristiana, non è in gioco solo un’ecologia «fisica», attenta a tutelare l’habitat dei vari esseri viventi, ma anche un’ecologia «umana», che renda più dignitosa l’esistenza delle creature, protegga il bene radicale della vita in tutte le sue manifestazioni, facendo sì che l’ambiente si avvicini sempre più al progetto del Creatore.
L’impegno per la promozione della vita e la percezione di un disegno provvidenziale della creazione sono due momenti inscindibili della «teologia cristiana della natura», che riecheggia nell’insegnamento del magistero della chiesa nei riguardi del problema ecologico.
Può sembrare contraddittorio: l’ecologia è una scienza concreta, mentre la teologia ci parla dell’uomo e del suo rapporto con Dio. Invece il legame c’è ed è molto profondo, dal momento che la teologia cristiana mette al centro l’uomo creato in questo mondo e per questo mondo.

L a natura vivente, vegetale e animale, partecipa all’«opera redentrice di Cristo» ha ricordato il papa nella Novo Millennio. «La natura stessa, com’è sottoposta al non senso e al degrado provocato dal peccato, così partecipa della gioia e della liberazione di Cristo». La frase rievoca un’espressione celebre e «scandalosa» della lettera di Paolo ai Romani: «Tutto il creato soffre e geme come una donna che partorisce, perché anch’esso sarà liberato». Ogni filo d’erba sospira la liberazione che viene da Cristo e l’aspetta dall’uomo, il solo vivente che possa deliberatamente salvarsi e, insieme a sé, salvare gli altri esseri viventi. È più che teologia: è escatologia della natura.
Dio ha dato all’uomo la responsabilità sulla natura, ma l’uomo, devastandola, «ha deluso l’attesa divina», per cui occorre «una conversione ecologica» ha sottolineato più volte Giovanni Paolo ii. Si tratta di cambiare mentalità nei riguardi del creato e della vita, che sono doni di Dio a servizio di tutti e non da sprecare egoisticamente. «Il dominio dell’uomo sulla natura non si faccia assoluto, ma riflesso della signoria unica e infinita di Dio – ammonisce ancora il papa -. Se l’uomo si fa della natura non custode, ma tiranno, la natura si ribella».
Tradotta in altri termini, frequenti nel magistero della chiesa, tale conversione consiste in nuovi modelli di vita e sviluppo, a livello personale e globale.

L a salvaguardia del creato, afferma ancora il papa, è una delle sfide del nuovo millennio, insieme a quelle della pace e del dialogo tra le culture e le religioni.
Di tale affermazione si fa portavoce anche il Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa (Ccee), che alla fine della consultazione tenuta a Namur (Belgio) all’inizio del giugno 2004, afferma: «La responsabilità per il creato è una sfida centrale per il futuro della terra, per la difesa della pace e anche per la testimonianza cristiana nella società contemporanea».
Riecheggiando il messaggio del papa per la Giornata mondiale della pace del 2003, «non c’è pace senza giustizia», i vescovi affermano che «non c’è giustizia senza corretta gestione e salvaguardia delle risorse del creato. Dietro ogni conflitto c’è di fatto un problema di ripartizione delle risorse naturali. Sono necessarie azioni concrete e dialoghi intensi per fare in modo che i conflitti ecologici sull’accesso alle risorse di acqua (come in Medio Oriente), petrolio (in Iraq) e terra coltivabile (Africa) vengano bloccati e non trasferiti sul piano religioso».
Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




EDITORIALEScuola di assassini

Di fronte alla polemica sull’utilizzo della tortura sui prigionieri iracheni e la ripetitiva presentazione di immagini truculenti di tali fatti, non posso non riandare con la memoria all’esperienza vissuta sulla mia pelle negli anni ’70, mentre ero in Uruguay.
In quegli anni tutta l’America Latina era praticamente un enorme campo di concentramento, gestito da dittature militari che imponevano modelli sociali e politici che prevedevano l’abolizione della democrazia e l’instaurazione di regimi totalitari, al servizio delle multinazionali.
Insieme ai sacerdoti novaresi e a tutti i missionari italiani che lavoravano in quegli anni nell’America Latina, ci toccò la sorte di condividere il dolore e la sofferenza di tante famiglie innocenti, profondamente toccate dalla detenzione dei loro cari, della tortura e in diversi casi anche del dramma dei desaparecidos.
Per una serie di circostanze imprevedibili, mi trovai coinvolto nella vicenda giudiziaria e detenzione di don Pierluigi Murgioni, integerrimo sacerdote bresciano Fidei donum, incarcerato e ripetutamente torturato: lo vedevo una volta al mese durante i colloqui che i detenuti avevano con i familiari e gli amici; tramite lui entrai in contatto con l’umanità dolente dei prigionieri politici e delle loro famiglie ferite e umiliate dalla barbara pratica della tortura.
La cosa più sconcertante fu la scoperta che la tortura era una prassi abituale non solo per estorcere informazioni, ma per creare terrore e soggezione fra i prigionieri.
I raffinati artisti della tortura si laureavano alla famigerata School of Americas (Soa), fondata nel 1946 a Panama e trasferita nel 1984 a Fort Benning, in Georgia (Stati Uniti). In 58 anni di vita ha insegnato a più di 60 mila soldati latinoamericani, tecniche di repressione, guerra d’assalto e psicologica, spionaggio militare e tattiche per interrogatori. Tra di loro, è certo, passarono anche ministri e responsabili di governo di vari paesi del Centro e Sud America.
Tra le centinaia di migliaia di latinoamericani torturati, assassinati, massacrati, fatti sparire o costretti a fuggire ad opera dei «diplomati» della Scuola delle Americhe (soprannominata «scuola di assassini») ci sono educatori, sindacalisti, studenti, personale religioso, preti e frati, come il domenicano Frei Betto, che, in Battesimo di sangue (1983), ha raccontato l’odissea patita da lui e dai suoi confratelli nelle carceri brasiliane, dove furono ripetutamente torturati da squadre speciali, addestrate quasi in maniera scientifica a spezzare lo spirito di resistenza dei prigionieri.
Pur riacquistando la libertà (furono esiliati in Francia), alcuni di loro non riuscirono più a liberarsi dallo spettro dei torturatori: uno di questi domenicani, Tito de Alencar Lima, si suicidò, lasciando scritto su un pezzo di carta: «È meglio morire che perdere la vita!».

T utte queste cose venivano ampiamente raccontate nei periodici rientri in Italia, ma restava sempre un’amarezza profonda: spesso e volentieri non si era creduti.
In clima di guerra fredda, nella contrapposizione Usa-Urss, il regno del male da combattere era da una sola parte: gulag, prigioni della Lubianka, efferatezze del Kgb, epurazioni e crudeltà staliniste. Ogni volta che si raccontava delle nefandezze incontrate sulle strade dell’America Latina, si era tacciati di essere al soldo dei bolscevichi; anche la più cristallina testimonianza veniva rifiutata: l’ottusità mentale di molti benpensanti era incapace di percepire che anche il sistema di potere americano generava mostri identici.
Con la dissoluzione dell’impero sovietico si credeva che la tortura fosse sparita. Invece le immagini del carcere di Abu Grahib (Baghdad) sono su internet alla portata di tutti. Ci sia consentito di dissentire e denunciare, oggi come ieri, per costruire con biblica speranza e rinnovato vigore un mondo dove queste cose non succedano più.
don Mario Bandera

Mario Bandera




EDITORIALEMissionari con la “M” maiuscola

Missione, dal latino «mittere» (mandare): una parola sulla bocca di tutti. Curiosamente ognuno ne parla, vantandone una sorta di diritto di proprietà. A cominciare dal mondo ecclesiale, troppi aspetti della vita pastorale sono etichettati come «missione»; a forza di sentire che «la chiesa è missionaria per natura» e che «si è missionari in forza del battesimo», tanti cristiani si credono tali senza sentire affatto l’urgenza dell’evangelizzazione.
Ma al di là del significato teologico, si tratta di un vocabolo inflazionato, utilizzato a proposito o a sproposito da politici, intellettuali, operatori umanitari e militari. Quante volte si parla di «soldati… in missione»
Senza voler indugiare in sterili polemiche, sarebbe importante cogliere la linea di demarcazione tra la missione di chi ha fatto una scelta a carattere religioso e altri tipi di missione. Poco importa che si tratti di gesuiti, salesiani, saveriani, comboniani o della Consolata, tutti coloro che appartengono a queste realtà congregazionali non ricevono mercede alcuna; la loro è una scelta di vita totalizzante e non vanno in giro armati.
Vivono, alcuni addirittura da decenni, nelle periferie del «villaggio globale» in Africa, in America Latina, in Asia o Oceania, prodigandosi per i poveri, senza peraltro che la madrepatria – l’Italia nella fattispecie – sembri accorgersene. Rischiano spesso la vita, vengono sequestrati o addirittura uccisi nel quasi totale disinteresse della grande stampa.
Nel gennaio del 1999, ad esempio, furono rapiti dai ribelli alla periferia di Freetown (Sierra Leone) ben 13 missionari, tra cui sei Missionarie della Carità, la congregazione fondata da Madre Teresa di Calcutta, delle quali quattro persero tragicamente la vita.

Se da una parte è opportuno riconoscere le competenze e, dunque, il valore delle varie professionalità sul campo, al di là del fatto che uno sia in divisa, impegnato in un’operazione di pace o cornoperante a servizio di un’organizzazione non governativa, dall’altra non è lecito fare di tutte le erbe un fascio.
Vi sono diversi modi di interpretare la solidarietà a partire proprio dai valori ispiratori che possono prescindere o meno dalle indennità, dai contributi o da qualsiasi altra forma di agevolazione. Lo scorso anno, il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi disse pubblicamente che i missionari fanno onore all’Italia per la loro dedizione incondizionata in terre lontane.
Siamo certi che le sue siano state parole sincere, ma che vorremmo fossero anche accompagnate da una maggiore attenzione da parte dello stato. Basti pensare che quando i religiosi e i laici missionari sono all’estero è impedito loro di percepire la pensione sociale e ricevere ogni forma di assistenza mutualistica.
Ma forse proprio per questo è giusto dire che sono missionari con la «M» maiuscola.

Giulio Albanese
Direttore di MISNA

Giulio Albanese




Kosovo: fermiamo l’orrore

Attraverso Enrico Vigna, presidente dell’Associazione SOS Jugoslavia, è giunto in Italia il seguente appello:
«Agli amici del popolo del Kosovo Metohija e del popolo serbo, alle associazioni come la vostra, conosciuta e stimata per quanto fatto finora per la nostra gente, vi giunga l’appello da questa terra martoriata, dove in questi giorni il sangue e la guerra sono nuovamente parte della nostra già difficile quotidianità di questi terribili e duri cinque anni trascorsi dai bombardamenti della Nato e dalla conseguente espulsione e pulizia etnica di centinaia di migliaia di nostri fratelli e sorelle dalle proprie case e campi, dalle proprie radici millenarie e molte migliaia anche strappati alla vita e all’affetto delle loro famiglie, mediante assassinii e rapimenti.
Vi chiediamo di attivarvi in qualsiasi modo e forma per contribuire a cercare di fermare l’orrore e il bagno di sangue, causati da forze terroristiche che distruggono, incendiano, uccidono e lapidano uomini e donne che da sempre vivono qui.
Vi chiediamo di informare correttamente quali sono le verità e la realtà di quanto sta accadendo, di chiedere a tutte le persone oneste e che credono nei diritti umani nel vostro paese di aiutare il nostro popolo a non subire un vero e proprio genocidio. Distruggono anche gli ultimi cimiteri, monumenti e monasteri della cultura ortodossa che non avevano distrutto in questi anni.

Siamo stanchi di vedere i nostri campi e le nostre case bruciate, di essere vessati, uccisi, perseguitati con la sola colpa di essere serbi e di voler continuare a vivere dove da centinaia di anni abbiamo sempre vissuto. In una terra per la cui difesa dalle aggressioni e dalle occupazioni degli stranieri invasori, nella storia, sempre abbiamo versato fiumi del nostro sangue. Siamo stanchi ma non consegneremo ad assassini e terroristi estremisti la nostra terra, le nostre vite, le nostre radici, la nostra dignità. Dovranno ucciderci tutti, anche i nostri figli e le nostre mogli. È un nostro diritto.
Le chiediamo di divulgare queste parole, di dare voce a noi, semplici cittadini, stranieri a casa propria, di un popolo senza voce, senza televisioni, senza neanche più la forza per urlare la nostra indignazione e le nostre ragioni. Ma determinati a non cedere.

Nel nostro ospedale di Kosovska Mitrovica non ci sono più posti liberi, non ci sono sufficienti medicinali, né sufficiente sangue per colmare quello versato dagli estremisti albanesi; da ogni angolo di questo Kosovo crocefisso, questo è l’ultimo lembo di terra dove confluiscono i nostri fratelli e sorelle scacciati dalle bande assassine, che dopo averli terrorizzati e incendiato le case, non sono riusciti ad assassinare.
Nelle nostre case scarseggia tutto, i nostri figli non hanno più nulla che non sia paura e angoscia. Aiutateci a fermarli, che la gente onesta e buona si alzi per gridare basta, la nostra amicizia e fratellanza sarà eterna.
Noi siamo ancora in piedi e fermi nella volontà di fermarli, di resistere, ma siamo soli con i nostri fratelli della Serbia. Ci dicono gli inteazionali di qui, perché siamo serbi.
Sappiamo che voi e le vostre associazioni non la pensate così, per questo confidiamo sulla vostra amicizia e impegno. Ma fate presto.
Con rispetto e tanta amicizia».

Cittadini e cittadine di Kosovska Mitrovica,
Associazioni dei Profughi in Serbia

(Per contatti o maggiori informazioni:
enricoto@iname.com; oppure: 328/7366501)

Autori vari




La croce dell’Islam fondamentalista

Anche l’islam fondamentalista ha imparato a fare la croce. Ma è un segno di maledizione e sterminio.
In un tour attraverso l’Africa sono passato a Khartoum, in Sudan, paese dominato dall’integralismo islamico. Paese dove si discute il trattato di pace, dominato dai musulmani del nord, che volevano dare al sud cristiano, che poggia sul petrolio, il 15% dei proventi: il fatto che sia stato firmato il 50/50 è già positivo.
Con amici ho potuto vedere ciò che grida vendetta al cospetto di Dio: i campi profughi intorno a Khartoum; una guerra che dura da 20 anni e ha fatto oltre 2 milioni di morti e obbligato 4 milioni di persone a lasciare il loro verde e fruttuoso villaggio al sud, la loro capanna con gli animali e, su camion da bestiame o con marce forzate di 800 km, portati e buttati come animali da macello nella sabbia rovente intorno alla capitale dove manca tutto.
Per il cibo devono dipendere dalle organizzazioni umanitarie; mancano pozzi e l’acqua viene trasportata con gli asini e venduta in taniche; medicinali e medici sono un sogno.
Nel 2003, mi diceva un’amica, per 2 mesi la temperatura non è mai scesa sotto i 55° e una mosca, come le nostre, a questo calore, diventa velenosa e una sua puntura scava fino all’osso e lacera per 6 mesi.

M a è ciò che ho visto al campo di Geberona (700.000 profughi) che mi spinge a farmi voce di chi non ha voce.
L’Esodo parla dell’angelo sterminatore che risparmiava le case segnate col sangue dell’agnello. A Geberona, invece, ho visto lo sterminio dei poveri più poveri: una spianata di catapecchie, che la gente, in diversi anni e con infiniti sforzi e sacrifici, era riuscita a costruirsi con le proprie mani.
Con la scusa del futuro sviluppo della città, un grosso bulldozer opera la distruzione: vengono date 24 ore per sloggiare e prendere il nulla che hanno e poi le case segnate con una croce bianca vengono rase al suolo, e quella povera gente deve ricominciare da capo.
Ho pensato a un’altra croce, quella uncinata: stessa persecuzione, stessa crudeltà, stessa logica di morte.
Mi ha colpito la dignità di quei fratelli calpestati.
I miei amici cercano di aiutare i giovani dei campi profughi, offrendo loro il trasporto, un pasto (l’unico al giorno), l’istruzione e l’apprendimento di un mestiere. E un loro fratello fa da ponte per gli aiuti umanitari e la realizzazione di progetti per una preparazione adeguata e modea.
Sentivo il bisogno di far sapere tali atrocità, affinché nessuno possa dire: «Io non lo sapevo!».
Il popolo sudanese, il musulmano comune è buono, rispettoso e cortese. Il veleno del fanatismo è morte. Uno dei miei amici ha sognato, una notte, che stava difendendo gli agnelli, attaccati da lupi ringhiosi e decisi a sbranarli.
Sta costruendo la pace.
Sudan, sia pace su di te!
John

John




QUATTRO & QUATTR’OTTO

Roma, 8 febbraio 2002. Noi, 150 missionarie
e missionari partecipanti dal 4 all’8 febbraio
al Forum «Insieme, prendere il largo», organizzato
dalla Conferenza degli istituti missionari italiani
(Cimi), dal Segretariato unitario di animazione
missionaria (Suam) e dall’Editrice missionaria italiana
(Emi), ci rivolgiamo alla società italiana, alle
istituzioni politiche ed ecclesiali facendoci voce delle
popolazioni con le quali condividiamo sofferenze e
speranze.
Esprimiamo forte preoccupazione per il crescente
clima di diffidenza e paura, di violenza ed emarginazione
che percepiamo nella società italiana e in alcuni
recenti orientamenti politici. In particolare circa:
1. L’adesione alla guerra come risposta agli atti di
terrorismo. Con il papa riteniamo che «mai le vie
della violenza conducono a vere soluzioni dei problemi
dell’umanità» (udienza del 12 settembre
2001). La guerra non solo non risolve i problemi,
ma è contraria alla Costituzione italiana (art. 11) e
al diritto internazionale vigente.
2. La gestione delle politiche migratorie secondo
una logica di mercato. Siamo convinti che gli immigrati
sul nostro territorio sono prima persone e poi
«forza lavoro» e che i loro diritti vanno riconosciuti.
Occorre, perciò, favorire nella società italiana l’apertura
alle diverse culture per un effettivo inserimento
degli immigrati.
3. Il disegno di legge n. 1927 che modificherà la legge
185/90 sul controllo del commercio di armi.
Chiediamo che la normativa attualmente in discussione
al parlamento non stravolga i principi ispiratori
della legge 185/90 (divieto di esportare armi a nazioni
in guerra o che violano i diritti umani) e introduca
invece misure di controllo sulla destinazione
finale di armi per evitare «triangolazioni».
4. L’aumento delle spese militari e la riduzione degli
aiuti per la cooperazione. Dopo che nel biennio
2000-01 l’incremento delle spese militari era già stato
del 10%, per quest’anno è previsto un aumento
del 15%, mentre la quota che l’Italia destina nell’aiuto
allo sviluppo non raggiunge ancora lo 0,2%
del prodotto interno lordo, ben lontano dalla percentuale
dello 0,7% fissata dall’Onu.
Chiediamo alle istituzioni politiche di:
1. Sviluppare una politica estera italiana ed europea
a favore della prevenzione e la soluzione non-violenta
dei conflitti. In particolare chiediamo un impegno
preciso per porre fine al conflitto israelo-palestinese
e alle numerose guerre «dimenticate» ancora in atto
in tante nazioni del Sud del mondo.
2. L’introduzione di una tassazione sulle transazioni
finanziarie (tipo «Tobin tax») nella «zona euro» per
ridurre le speculazioni, ridistribuendo le risorse ricavate
a favore dello sviluppo.
3. Farsi promotrici nelle istituzioni inteazionali
(Fondo monetario internazionale, Organizzazione
mondiale del commercio e Banca Mondiale) di politiche
economiche, per favorire scambi commerciali
più equi nei confronti dei paesi impoveriti e rapporti
più paritari tra i paesi del Nord e Sud del mondo.
4. L’accoglienza delle istanze provenienti dalle componenti
sociali e religiose nella formulazione della
Costituzione europea.
Infine auspichiamo che le comunità cristiane
non vengano meno al loro dovere di cittadinanza
attiva, per costruire una società più giusta e
rispettosa dei diritti di tutti.
A noi, missionari, san Paolo rivolge il monito:
«Guai a voi se non annunciate Gesù Cristo!»;
ed anche: «Non vi vergognate del vangelo,
perché è potenza di Dio per salvare
chiunque ha fede (cfr. 1 Co 9, 16; Rom 1, 16).

MISSIONARIE ALM – PADRI BIANCHI –
CARMELITANI – COMBONIANI/E –
MISSIONARI/E DELLA CONSOLATA –
MISSIONARI DEL PIME, MISSIONARIE FALMI –
FRANCESCANE DIMARIA, LAICI MISSIONARI –
MISSIONARIE DELL’IMMACOLATA –
MISSIONARIE NSA – SAVERIANI/E – VERBITI
Tre missionari della Consolata
al Forum di Ariccia.

Vari




Il soffio perduto delle parole

«Benché l’onda delle parole ci sovrasti sempre, le nostre profondità sono sempre silenti» (Kahlil Gibran).
Tema impegnativo e carico di responsabilità per noi cristiani, al tempo stesso delicato e pericoloso, quello di misurarsi con le parole, con ciò che esse svelano e a volte nascondono; con la loro portata rivoluzionaria e conservatrice allo stesso tempo.
Dio è il verbo fatto carne; ma feticci possono essere le parole multiuso: equivoche e prestanti a ogni uso. L’ossimoro, classica figura retorica, nella quale convivono due opposti, si è autopromosso come forma concettuale in cui convivono due contrasti: l’affermazione di una realtà con la sua negazione. Guerra e Pace, nel vocabolario del potere fanno ormai rima, ballano insieme nel caleidoscopio del pensiero dominante, battezzandone il matrimonio come «intervento umanitario».
La prosa volgare del potere ha prostituito le parole, che ormai non significano nulla, «non commuovono più – scrive Juan Arias – non gridano dentro, non innamorano».
Ivan Illich, nel meeting di San Rossore che precedette il G8 di Genova, mise in guardia contro le «parole di plastica», che inquinano, sterilizzano, occultano i fenomeni che vorrebbero descrivere.

N ell’età adulta in cui ci troviamo, le nostre parole non hanno più l’innocenza antica e il linguaggio da mezzo di comunicazione si perverte in strumento di depistaggio.
«C ome scrivere, quali parole utilizzare, quando tutte le parole sono state ormai contaminate? Come restituire loro l’originale bellezza, la loro purezza?» si domandava il 27 gennaio scorso, nel giorno della Memoria, lo scrittore Elie Diesel, ebreo scampato al campo di Buchenwald.
Ma già un saggio orientale diceva che, se lui avesse avuto per un attimo l’onnipotenza di Dio, l’unico miracolo che avrebbe fatto sarebbe stato quello di ridare alle parole il senso originario.
Miracolo necessario ed urgente, tanto più oggi che di questa sindrome dei significati stravolti sono affette le parole più nobili, quelle che più ci coinvolgono nei sentimenti e nelle aspirazioni: amore, pace, libertà…
La «voce del padrone» non ama che proclamare se stessa; le sue parole, disancorate dalla realtà, sono puramente autoreferenziali, quando non vengono usate per occultare, appunto, ciò che dovrebbero svelare. Cessata la loro originaria e nobile funzione, quella di «tradere», consegnare, comunicare (di cui il termine «tradizione»), hanno finito per tradire (di qui il «tradimento») la realtà e, quindi, se stesse, la loro vocazione.

A noi il compito di sottrarle a questa losca manipolazione e restituirle alla loro originaria vocazione.
Non è un caso che la proposta della Rosa Bianca per una nuova politica inizia con questa sfida.
«L’argilla del mondo ha bisogno di un soffio. Il soffio delle parole. Quando l’argilla e il soffio si incontrano, sgorga la vita. Così è successo all’inizio, nella notte dei tempi, così accade ogni giorno. Da una parte la materia, un pezzo di terra, un pò di carne. Dall’altra parole. Parole che s’insinuano nelle crepe della materia e la mettono in moto. Parole che penetrano la terra, rendendola fertile. Parole che fanno l’amore con la carne così da far nascere i corpi delle donne e degli uomini.
Oggi, al posto di parole, bolle di sapone, leggere, libere, iridescenti ma vuote. Ed è per questo che i nostri corpi non sussultano più e dormiamo senza sogni e ci svegliamo con l’idea di sapere già tutto a memoria, di conoscere ormai l’esistenza in ogni suo penoso ingranaggio e che nulla più ci possa stupire o insegnare qualcosa. Siamo senza nome, persi in un dormiveglia. Ma basta il suono di una frase giusta e in un attimo siamo di nuovo noi: nome e cognome, fame e curiosità, desiderio di felicità e voglia di giustizia».

Don Aldo Antonelli




Il sequestro

Roraima / Brasile, 6 gennaio 2004. Latifondisti (fazendeiros) e risicoltori, con l’appoggio di indios, sequestrano tre missionari della Consolata a Surumú, a 220 km dalla capitale Boa Vista, e li detengono in ostaggio. Un fatto inedito a Roraima. Il giorno 8 i missionari vengono rilasciati. Ma la vicenda resta gravissima, e non solo perché sono stati vilipesi tre religiosi: un brasiliano, un colombiano e uno spagnolo.
Con il fattaccio, gli autori:
– hanno depredato una missione cattolica;
– hanno assalito l’annesso Centro di formazione indigena, sequestrando persino alcuni allievi;
– hanno attaccato a Boa Vista due istituzioni nazionali: la Funai (Fondazione nazionale dell’indio) e l’Incra (Istituto nazionale di colonizzazione e riforma agraria);
– hanno bloccato le vie di accesso a Boa Vista e le autostrade 174 e 401, che collegano rispettivamente al Venezuela e alla Guyana inglese;
– hanno impedito l’accesso di generi alimentari…
La ragione? Esprimere un secco no al governo federale per l’omologazione dell’area indigena Raposa/Serra do Sol, prevista per la fine di gennaio, dopo estenuanti pressioni durate un trentennio. Intanto, nel 1998, il ministro della giustizia firmava il decreto di demarcazione dell’area.
Il territorio, di 16.500 kmq, è abitato dagli indigeni Macuxi, Wapichana Ingarikò, Patamoma e Taurepang. Complessivamente 15.000 persone.
Ma c’è di più nei fatti del 6 gennaio. Sotto la punta di un iceberg, si cela il disegno perverso di conservare il territorio di Roraima nell’anarchia ed impunità.
Noi, al contrario, riteniamo che la legalità non solo sia possibile, ma soprattutto doverosa. Lo affermiamo confortati dalle seguenti esperienze positive.
– 1997, giugno-luglio. Le comunità indigene, dell’area ovest della Raposa/Serra do Sol, insorgono pacificamente, pressando il governo federale di Brasilia affinché allontani dal territorio i cercatori d’oro e diamanti (garimpeiros). Questi tuttavia, sostenuti da vasti settori della comunità dei bianchi, sostengono che l’intervento delle forze del governo federale avrebbe scatenato la guerra civile. Alla fine, di fronte alla polizia federale, i garimpeiros (benché armati) si arrendono senza colpo ferire.
– 1998. I garimpeiros occupano illegalmente l’area est della Raposa/Serra do Sol, e gli indios incalzano la Funai affinché allontani gli invasori. Costoro, ancora una volta, minacciano il caos sociale. Ma il 31 gennaio intervengono le forze federali, accompagnate da indigeni. E tutto si risolve nella tranquillità. La stessa società roraimense, pur ostile agli indios, non reagisce.
Dunque, l’ordine è garantito dal governo federale, mentre quello di Roraima è inetto e fomenta le invasioni nel territorio indigeno.
Dopo i fatti del 6 gennaio, il governo federale deve ristabilire l’«ordine», come vuole anche la bandiera nazionale del Brasile. Non farlo significherebbe avallare anarchia e impunità, su cui contano le autorità corrotte di Roraima.

Dal gennaio 2003 a Roraima è in corso la Campagna internazionale «Nos existimos», che vede i popoli indigeni, i contadini poveri e gli emarginati della città alleati contro l’impunità. La Campagna, promossa dalla diocesi di Roraima, missionari della Consolata, Centro indigeno, Centrale unica dei lavoratori, Centro dei diritti umani, ecc., rivendica pure l’omologazione in area continua della Raposa/Serra do Sol: omologazione che il presidente Luis Inazio Lula da Silva dovrebbe presto sottoscrivere.
Ci auguriamo che il presidente di una grande nazione democratica, come il Brasile, non si lasci intimorire da un pugno di facinorosi.
Nos Existimos,
Italia

Benedetto Bellesi