Urgenza di agire

I nostri missionari e missionarie che operano nei paesi dell’Africa subsahariana con ospedali, dispensari, orfanotrofi e altre iniziative di sviluppo, continuano a lanciare drammatici appelli per salvare il continente dalla pandemia dell’Hiv/Aids. Parlano di moribondi al ciglio delle strade, di orfani in aumento, di scomparsa di un’intera generazione, soprattutto la classe dirigente e produttiva, di fantasmi ancestrali alla ricerca del colpevole. Siamo di fronte a un dramma che distrugge il tessuto sociale, economico e culturale di interi paesi, già minati da povertà, carestie, malattie, annullando ogni possibilità di costruire un futuro e coinvolgendo nella tragedia l’intera umanità.
Senza contare che l’Aids sta mettendo a rischio il loro lavoro di evangelizzazione e di formazione di comunità cristiane. «Siamo stanchi di procurare bare e impartire benedizioni funebri – dicono -. Ci stiamo impegnando in iniziative di educazione alla prevenzione, di attenzione e cura delle gestanti, perché nascano bambini senza il virus, di lotta contro i pregiudizi, la paura e l’emarginazione».
Tale appello è stato raccolto e concretizzato nel giugno 2004, con la costituzione del comitato «Salute Africa», per volontà degli Istituti dei missionari e missionarie della Consolata, l’ospedale Koelliker, le associazioni Amici Missioni Consolata e Impegnarsi Serve Onlus. Scopo del comitato è lanciare programmi finalizzati alla lotta contro l’Aids, nell’ambito di una Campagna la cui chiusura è prevista per la fine del 2006, ma che potrà essere prolungata, se le condizioni lo richiederanno.
Il 2004 doveva servire a preparare le basi e gli strumenti di tale Campagna; invece si sono già concretizzati alcuni risultati, sia in termini di diffusione, sensibilizzazione e apertura di segreterie in varie regioni d’Italia, sia sotto l’aspetto economico, con la raccolta di fondi che hanno già finanziato diversi progetti.

Una delle più importanti iniziative della Campagna è stato il convegno «Pandemia Aids: Africa chiama Italia», organizzato a Torino il 1° dicembre scorso, giornata mondiale dell’Aids, per far conoscere la malattia dell’Hiv nella sua complessità e gravità, affrontando ed esaminando le variabili di ordine economico, etico, giuridico, sanitario e politico che influiscono sul suo dilagare, e trovare contemporaneamente risposte concrete anche dall’incontro tra esperti africani e italiani, che dedicano la loro professionalità alla lotta contro la diffusione.
In questo numero monografico della rivista Missioni Consolata troverete gli estratti del convegno uniti ad altri documenti, testimonianze, riflessioni e previsioni sull’argomento. Potrete inoltre documentarvi sulle attività già svolte e sulle iniziative in programma della Campagna e su tutti gli strumenti a disposizione per prendee parte in prima persona, ciascuno secondo le proprie possibilità.
Abbiamo parlato delle sciagure che affliggono l’umanità, come le guerre e le nuove schiavitù: di fronte a questo genocidio strisciante, che minaccia l’umanità e, soprattutto, il continente africano, non possiamo tacere, sia come missionari che come cristiani. Anche in coloro che sono colpiti dalla sindrome di immunodeficienza Cristo continua la sua passione, morte e risurrezione: «Ero malato e…». Dipende da noi la capacità di riconoscerlo e servirlo nei nostri fratelli e sorelle colpiti dalla pandemia.

Silvia Perotti




TG RAI: DATECI NOTIZIE, NON GOSSIP!

Siamo sconcertati e indignati nel constatare la sostanziale indifferenza dei telegiornali verso fatti e problemi che toccano una vasta fetta del mondo. Conflitti e disastri naturali fanno sì notizia, ma gli abusi e lo sfruttamento costante del Sud del mondo quasi mai bucano lo schermo. Come missionari siamo a contatto ogni giorno con la povertà, le carestie, le violazioni dei diritti di molte popolazioni del pianeta, ma anche con la creatività e la freschezza di tanti Paesi. Eppure, tornando in Italia e guardando il telegiornale, è come se d’incanto ci apparisse un nuovo mondo, fatto di divi dello spettacolo, sfilate di moda e così via. Con amarezza abbiamo appreso dall’Osservatorio sui media di Pavia, ad esempio, che, nei mesi di luglio e agosto 2005, a fronte di 11 ore e 35 minuti dedicati al gossip sui vip, solo 19 minuti sono stati dati alla gravissima emergenza alimentare in Niger.
Non ne possiamo più del gossip sui vip! Vogliamo che il Tg, la cui funzione è portare nelle case le vicende dell’Italia e del mondo, dia spazio anche a ciò che accade nel sud del pianeta, dove la gente è spesso vittima di violazioni, ma anche promotrice di fermenti e di iniziative dai quali avremmo tanto da imparare.
Come cittadini che pagano regolarmente il canone, ci rivolgiamo in particolare alla Rai che ha l’obbligo di essere «servizio pubblico». È nostro diritto esigere un’informazione aperta al mondo, senza dover ricorrere a canali esteri. È nostro diritto un’informazione di qualità che non sia relegata negli speciali (a volte anche molto interessanti) in onda in fasce orarie da sonnambuli.

Attualmente la Rai non dispone di un corrispondente fisso in ogni continente. Colmare questa lacuna ci pare un passo nella direzione giusta, di un’informazione più equilibrata e attenta al mondo. Una richiesta in tal senso è già stata avanzata da tre riviste (Missione Oggi, Mosaico di Pace e Nigrizia) e altri enti in occasione della Tavola della Pace a Perugia (settembre 2005 ); il direttore della Rai, Alfredo Meocci, ha promesso di aprire sedi Rai in Africa e in India. Ora la Fesmi (Federazione della stampa missionaria italiana) intende far pressione perché sia dato seguito a tale promessa. Non è vero che i telespettatori non sono interessati a conoscere le notizie di altri Paesi. Crediamo anzi che molti italiani, in primis i nostri lettori, condividano questa nostra indignazione, anche perché, pagando il canone Rai, contribuiamo al mantenimento del servizio pubblico di informazione.
Invitiamo tutti i contribuenti a mandare una cartolina di adesione a questa campagna all’indirizzo della Fesmi, segnalando l’avvenuto pagamento del canone. Sulla causale del versamento va scritto il seguente testo: Tg Rai: dateci notizie, non gossip!
Le cartoline pervenute alla sede della Fesmi entro fine giugno saranno consegnate al Direttore generale della Rai, accompagnate dalla richiesta di esercitare la sua funzione di garante di un’informazione più globale e a servizio dei contribuenti.

Fesmi




Generò, generò, generò…

A bramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe… Aram generò Aminadàd, Aminadàd generò Naassòn e Naassòn generò Salmòn. Salmòn generò… «Ah, don Marcello! E che è tutto ’sto casino de nomi?» sbottò Valentino interrompendo la lettura del vangelo (cfr. Mt 1,2ss).
Marcello, già missionario in Congo e ora parroco nella periferia di Roma, sorrise alla provocazione di Valentino, animatore della comunità. «Sì, è un casino, ma un bel casino!» pensò il sacerdote, dall’alto dei suoi 74 anni.
D’improvviso si rivide giovane prete alle prese con la messa in latino, curvo su un messale istoriato, mentre sillabava faticosamente quei nomi astrusi anche per lui. Poi, con l’eucaristia in italiano, la filastrocca del «generò, generò, generò» rimase solo sulla carta, perché i preti la dribblavano seduta stante. Ma, in preparazione al Natale, don Marcello la rispolverò, perché era straordinaria.

G enerò, generò, generò… È la sequela degli antenati di Gesù di Nazaret, tra i quali spiccano anche quattro donne: Tamar, Raab, Betsabea e Rut, protagoniste di storie incredibili. Tamar adesca l’ignaro suocero Giuda, che la rende incinta; Raab è una prostituta di Gerico; Betsabea diventa moglie del re Davide e madre del saggio Salomone in una scandalosa vicenda di adulterio e omicidio. E Rut? Appartiene al popolo pagano di Moab. Per anni moabiti e israeliti si guardano in cagnesco. Tuttavia Rut, per affetto verso la suocera Noemi, emigra proprio nella infida Betlemme…
Valentino ascoltò queste spiegazioni del «don», stralunando gli occhi increduli. Alla fine esclamò:
– E mo’, er Cristo è pure un…».
– È pure figlio di Dio! – tagliò corto il sacerdote.
– Come no! Però, voio dì: Gesù è pure un gaiardo… meticcio!
Allora: perché tanta strizza per gli stranieri?

M eticciato culturale-religioso. Al riguardo, don Marcello citò Joseph Ratzinger, alias papa Benedetto xvi.
Secondo l’ex professore tedesco, nei cinque secoli che separarono l’esilio degli israeliti a Babilonia dalla comparsa di Gesù, nell’ebraismo si sviluppò il fenomeno della «Sapienza». Così, accanto a «Legge» e «Profeti», sorse un terzo pilastro: la Sapienza appunto. Essa subì l’influsso religioso dell’Egitto e poi manifestò il rapporto con la filosofia greca, in particolare quella platonica e stornica. A partire dal 3° secolo a. C., si tradusse persino in greco la bibbia dell’Antico Testamento, nota come «Settanta» (cfr. J. Ratzinger, Verità, fede, tolleranza, Cantagalli, Siena 2005, pp. 157-160)…
Valentino capì poco del dotto riferimento del parroco. Ma un punto era lampante: anche la bibbia è meticcia! E ritornava il quesito: perché in Italia stracciarsi le vesti di fronte al reciproco influsso religioso-culturale, causato dall’impatto islam-cristianesimo? Perché temere di diventare «diversi» vivendo con «diversi»?
Valentino, fresco laureato in scienze politiche, tentò una risposta con un riferimento alla nostra storia.
Francesco Crispi, mangiapreti, aveva sempre osteggiato la chiesa cattolica, con un codazzo di liberali e massoni. Però, verso la fine del 1800, i nemici da temere apparivano soprattutto i socialisti, meno i cattolici. A Napoli, il 10 settembre 1894, il baffuto Crispi tuonò: «Dalle più nere profondità della terra è sbucata una setta infame, la quale scrisse sulla sua bandiera: né Dio né capo… Stringiamoci insieme per combattere codesto mostro e scriviamo sul nostro vessillo: con Dio, col re e per la patria!».
Quando ci sentiamo minacciati – ragionò Valentino -, i nemici di ieri diventano gli amici di oggi. Al presente, anche per gli agnostici, la minaccia è rappresentata dai musulmani. E certi laici ritengono che i cattolici non facciano il loro dovere di occidentali se non li combattono.
– Don Marcé, tu che dici?
– A me «combattere» non piace in alcun modo. Io sono orfano di guerra. In Congo, poi, di «battaglie» ne ho viste troppe, con milioni e milioni di amazzati.

T amar generò, Raab generò, Betsabea generò… Anche Maria generò. Diede alla luce Gesù, chiamato Cristo (cfr. Mt 1,16).
Per la consolazione di tutti.
Francesco Beardi

Francesco Beardi




Negativo anche il buon Gesù?

Eccoli ancora «in vetrina» nel castello di Gleneagles (Scozia). I G8, ossia, i capi dei paesi più industrializzati del mondo, Italia compresa, dal 5 all’8 luglio 2005 si sono ritrovati nella cittadina scozzese per discutere di petrolio, crescita economica, clima, nonché degli affanni dell’Africa. Come in altre occasioni, non sono mancati i contestatori, fra cui i black block con i loro vandalismi. Di fronte all’incivile spettacolo qualcuno ha commentato: «Speriamo che non ci scappi il morto come al G8 di Genova nel 2001».
Speranza vana. Le vittime sono quasi 60. Ma, rispetto a Genova, la strage è differente: è avveunta a Londra il 7 luglio, sui convogli della metropolitana, edè stata rivendicata dalla famigerata Al Qaeda.
Al cospetto delle vittime (innocenti) di ieri e oggi, la «simpatia» è profonda e la condanna totale per gli attentatori. I sentimenti si tramutano soprattutto in preghiera. E non scordiamo l’Africa, che svettava come priorità nell’agenda dei G8. Poi, con l’incalzare della tragedia londinese, l’attenzione è quasi svanita: destino perverso, ricorrente per il continente nero.

N el loro documento finale i G8 hanno proposto un piano di aiuti all’Africa: prevede anche l’azzeramento del debito estero di 14 paesi poveri. Il problema era stato sollevato qualche giorno prima, a Londra, dai ministri finanziari dei G8 (Russia esclusa), groriandosi di «una scelta epocale». Esagerati! La cancellazione di debiti multilaterali è un’iniziativa già in atto da tempo per opera della società civile e religiosa, chiesa cattolica in testa. Pertanto è fuori luogo ascrivere ai G8 una scelta epocale.
E poi, la scelta è largamente insufficiente: sono circa 70 le nazioni gravate dal debito estero. Spesso si va per le lunghe. Ma, se vi sono interessi occidentali in gioco, i debiti si azzerano in fretta. Nel 2004 l’Iraq beneficiò di un condono di 30 miliardi di dollari.
Insufficienti sono pure i 50 miliardi di dollari destinati dai G8, entro il 2010, allo sviluppo dell’Africa. Secondo l’Onu, tale somma dovrebbe essere stanziata ogni anno per realizzare nel 2015 gli obiettivi proclamati nel 2000. Intanto le nazioni ricche sono lontanissime dal devolvere allo sviluppo del Sud del mondo lo 0,7% del loro prodotto interno lordo, promesso da decenni, riaffermato solennemente dai G8 a Genova e sempre disatteso. Oggi l’impegno dello 0,7% viene posposto al 2015, allorché almeno i paesi dell’Unione europea dovrebbero assolverlo.
Nel 2001 i G8 avevano pure deciso di combattere l’Aids in Africa: un’altra promessa da marinaio, rilanciata a Gleneagles. La verità è che, spesso, i G8 non possono né vogliono decidere, né tanto meno agire, ma solo «raccomandare», specialmente quando sono coinvolte istituzioni inteazionali.
I meeting dei G8 sono discutibili anche per il loro regolamento e per numero e identità dei partecipanti. A Gleneagles, dove si intendeva portare alla ribalta l’Africa, i suoi veri portavoce erano pochissimi. Dal G8 si dovrebbe passare al «G-tutti»: parola di Dionigi Tettamanzi nel 2001, arcivescovo di Genova.

A llibiti dalla strage di Londra, i G8 non hanno potuto ignorare il terrorismo internazionale. Tony Blair ha dichiarato che bisogna eliminare le sue cause profonde: la repressione non basta. Il premier britannico lo ha detto anche perché, nelle ultime votazioni, ha rischiato di perdere la poltrona, dato il coinvolgimento armato della Gran Bretagna in Iraq.
La risposta militare ad azioni terroristiche annienta vite in Iraq e Afghanistan, con una instabilità che potrà durare anni. È necessaria una riflessione critica sugli atti di violenza e ingiustizia che alienano milioni di uomini e donne in tutto il mondo. «La pace si costruisce giorno per giorno nel perseguimento di un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini» Populorum progressio 76).
Noi abbiamo sempre creduto nella trattativa politica e nel dialogo. Però il dialogo non è praticabile con chi parla solo seminando morte e terrore. Ma questo non deve scoraggiare; invece deve intensificare lo sforzo per interloquire con chi, specie nel mondo arabo e islamico, persegue cammini di convivenza, di equa ripartizione delle risorse (patrimonio dell’intera umanità), di solidarietà. Una sfida gigantesca.
Pare che persino Gesù non fosse sempre solidale con gli stranieri. A una madre, sirofenicia, che gli chiese di soccorrere la figlia indemoniata, replicò con arroganza: «Non è giusto buttare ai cani il pane dei figli». «È vero, Signore – replicò la donna -. Ma i cani, sotto la tavola, non possono mangiare le briciole dei padroni?». E Gesù fu sconfitto da «un’extracomunitaria infedele» (cfr. Mt 15, 21-28).
Francesco Beardi

Francesco Beardi




L’eternamente giovane

«Siamo venuti per adorarlo»: è questo il tema della Giornata mondiale della gioventù, che si celebrerà a Colonia (Germania) dal 16 al 21 agosto 2005. Il motto riprende le parole dei Magi, tratte dal vangelo di Matteo, ed esprimono il fine del loro lungo peregrinare che li ha condotti all’incontro con il Salvatore. Sull’esempio dei Magi, le cui reliquie secondo una pia tradizione sono venerate proprio in quella città, i giovani di ogni continente sono invitati a ripercorrere idealmente il loro itinerario per incontrare il Messia di tutte le nazioni.
L’idea della Giornata mondiale della gioventù (Gmg) è una mirabile intuizione di Giovanni Paolo ii. Poco prima della pasqua del 1984, a conclusione dell’anno santo straordinario (1983-84) in memoria della morte e risurrezione di Gesù Cristo avvenuta 1.950 anni prima, il papa invitò i giovani di tutto il mondo a venire a Roma per la domenica delle palme. L’invito fu ripetuto l’anno seguente.
Impressionato dal successo di tali incontri, nel dicembre 1985 il papa annunciò solennemente di voler ripetere l’evento annualmente, prevedendo l’alternarsi di giornate diocesane, celebrate la domenica delle palme a livello di chiesa locale, e Gioate mondiali globali, da celebrarsi in posti sempre diversi del mondo. Numerando le Gmg in modo continuo, senza distinguere tra quelle inteazionali o a livello diocesano, quella di Colonia è la ventesima.
Fin dall’inizio Giovanni Paolo ii è stato il motore degli incontri. La presenza del papa ne è un elemento fondamentale. Per questo Benedetto xvi si è affrettato più volte ad assicurare la sua presenza alla Gmg di Colonia: «Ai giovani, interlocutori privilegiati del papa Giovanni Paolo ii, va il mio affettuoso abbraccio nell’attesa di incontrarli a Colonia… Con voi, cari giovani, futuro e speranza della chiesa e dell’umanità, continuerò a dialogare, ascoltando le vostre attese, nell’intento di aiutarvi a incontrare sempre più in profondità il Cristo vivente, l’eternamente giovane».

L a Giornata mondiale della gioventù è un evento straordinario che contagia tutta la chiesa; è una festa dove gioia e fede si toccano. Oggi più che mai, tutti, giovani e meno giovani, abbiamo bisogno di incontrare «l’eternamente giovane», per testimoniare che la sua buona notizia è fonte di gioia.
Nel messaggio per la 20a Giornata mondiale della gioventù, preparata già l’anno scorso, Giovanni Paolo ii, portando i Magi come esempio, invita tutti a seguire la «stella», cioè a imparare «a scrutare i segni con cui Dio ci chiama e ci guida», a riconoscere il Cristo presente nella povertà e semplicità della vita feriale, a offrirgli «l’oro della propria esistenza, l’incenso della preghiera ardente, la mirra dell’affetto pieno di gratitudine». Soprattutto invita ad adorarlo, «riconoscendogli il primo posto nella propria esistenza».
E continua: «Non cedete a mendaci illusioni e mode effimere che lasciano non di rado un tragico vuoto spirituale! Rifiutate le seduzioni del denaro, del consumismo e della subdola violenza che esercitano talora i mass-media. L’adorazione del vero Dio costituisce un autentico atto di resistenza contro ogni forma di idolatria. Adorate Cristo: Egli è la Roccia su cui costruire il vostro futuro e un mondo più giusto e solidale. Gesù è il Principe della pace, la fonte di perdono e di riconciliazione, che può rendere fratelli tutti i membri della famiglia umana».
Nel suo messaggio il papa si rivolge non solo ai cattolici: «L’invito… è anche per voi, cari amici che non siete battezzati o che non vi riconoscete nella chiesa. Non è forse vero che pure voi avete sete di Assoluto e siete in ricerca di “qualcosa” che dia significato alla vostra esistenza? Rivolgetevi a Cristo e non sarete delusi».

La Gmg di Colonia è per tutti un nuovo stimolo a riscoprire la fede cristiana e a testimoniarla di fronte a un mondo sempre più scristianizzato. «Sono tanti – continua il messaggio – i nostri contemporanei che non conoscono ancora l’amore di Dio, o cercano di riempirsi il cuore con surrogati insignificanti. È urgente essere testimoni dell’amore contemplato in Cristo… La chiesa ha bisogno di autentici testimoni per la nuova evangelizzazione: uomini e donne la cui vita sia stata trasformata dall’incontro con Gesù; uomini e donne capaci di comunicare quest’esperienza agli altri. La chiesa ha bisogno di santi. Tutti siamo chiamati alla santità, e solo i santi possono rinnovare l’umanità».

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Io da che parte sto?

Tempo fa, sulla facciata della cattedrale di Cueavaca (Messico) fu appeso uno striscione che diceva: «Il mondo è diviso in oppressi e oppressori: tu da che parte stai?». Di fronte alle ingiustizie che colpiscono buona parte dell’umanità, l’interrogativo s’impone anche oggi e, soprattutto, invita a uscire dalle nostre ambiguità, per schierarci sempre più al fianco di chi, oggi come 2000 anni fa, è messo in croce da quanti vogliono mantenere l’ordine e la legge, a cui sta più a cuore la legge del sinedrio e dell’impero.
La scelta di campo non è facile, soprattutto quando tali ambiguità si nascondono sotto l’orpello religioso e la fede viene messa a servizio dell’ideologia del potere. Ne è un esempio quanto è capitato negli anni ’60-’70 del secolo scorso in America Latina: regimi militari, guidati da dittatori «cristiani», hanno massacrato, torturato, perseguitato, ucciso vescovi, preti, suore e migliaia di inermi catechisti e laici impegnati… per difendere la cosiddetta «civiltà cristiana».
È la logica di chi pretende d’impersonare l’impero del bene per opporsi all’impero del male. Una logica trionfante, oggi più che mai, non solo oltre oceano, dove, per indicare l’uso strumentale della religione è stato coniato il neologismo theocon (da theological conservative), cioè coloro che mettono la teologia a servizio di un’ideologia conservatrice.

V ari intellettuali, giornalisti, opinionisti e politici nostrani si sono subito definiti «teocon» (teoconservatori); termine poi tradotto, con un italiano più comprensibile, in «atei devoti» e «cristiani atei». (Oriana Fallaci, per esempio, si professa così: «Io sono un’atea cristiana. Sono cresciuta nella filosofia cristiana. Ma non credo in ciò che indichiamo col termine Dio»). Anche tanti credenti, definiti «cristianisti», nutrono le idee dei teocon.
Pur con i dovuti distinguo, tutti hanno in comune l’uso della religione per fini politici: con spirito da crociati, difendono il cristianesimo e la civiltà cristiana, identificati con l’Occidente, contro l’invasione islamica e rimproverano quei cattolici che si mostrano tiepidi nello «scontro di civiltà».
I teocon più seri parlano di «religione civile». Ne è un esempio il nostro presidente del Senato: egli si rammarica che nella Costituzione europea non sia stato inserito il riferimento alle «radici cristiane»; anzi, lo giudica quasi un suicidio; esalta il cristianesimo, i suoi valori, il messaggio evangelico e combatte il relativismo, nichilismo e scetticismo da sembrare un santo padre; per poi proporre una «religione civile» e auspicare una «religione cristiana non confessionale», in cui possano riconoscersi anche i non credenti. «Oggi, noi liberali non dobbiamo limitarci a dire “non possiamo non dirci cristiani” – spiega il presidente, citando Benedetto Croce -. Adesso “dobbiamo dirci cristiani”. E tutti gli europei dovrebbero dirlo. Soprattutto i laici… Oggi, nell’accezione comune, laico vuol dire non credente o addirittura ateo».
Svuotata di ogni trascendenza, la «religione civile» riduce la fede cristiana a ideologia, col compito di compattare la società civile, salvaguardare la cultura e l’identità nazionale, dare supporto etico allo stato ormai orfano di valori: un «supporto d’anima» che non influisce, però, negli orientamenti e scelte concrete di un mondo regolato dall’idolo del mercato.

È una seduzione insidiosa e pervasiva anche per la comunità cristiana. Non sono pochi a pensare che la fede non possa sostenersi senza l’appoggio dei poteri, senza politiche culturali, senza organicità sociale che la presidi e la difenda; senza cioè diventare civiltà cristiana o religione civile.
Sollecitata dalle attese dei politici, riconosciuta, applaudita e a volte ricompensata da Cesare per la sua utilità sociale, la chiesa è tentata di ricostruire un cristianesimo solido e misurabile, di ritornare a essere forza di pressione, anche se numericamente minoritaria, di recuperare gli spazi lasciati vuoti dal crollo delle ideologie.
Cedere a tale tentazione equivale a ridurre la chiesa a una lobby etico-sociale, incapace di essere profezia, «sentinella della libertà, della giustizia e della pace» (Giovanni Paolo ii). Un rinnovato «ethos mondiale», affermava il card. Ratzinger, ora Benedetto xvi, non può nascere a tavolino… da pur nobili auspici intellettuali; ma può sorgere solo da «minoranze creative»: cioè cristiani convinti, uomini e donne che abbiano fatto l’incontro decisivo con Cristo come Salvatore, che si nutrano dei sacramenti amministrati dalla chiesa, nella quale riconoscano «la forza da cui sgorga la vita spirituale».
Parafrasando lo striscione di Cueavaca, possiamo domandarci: «Il mondo si divide in teocon, atei devoti, cristiani atei, cristianisti e cristiani convinti: io da che parte sto?».
Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Ricordando Romero

Lunedì 24 marzo 1980, mons. Oscar Romero, vescovo di San Salvador, fu assassinato mentre stava celebrando l’eucaristia nella cappella di un ospedale, insieme agli ammalati. Cadde sull’altare, mescolando il suo sangue al vino che stava offrendo per il sacrificio eucaristico. Fu ucciso perché si era schierato e identificato con i poveri, gli emarginati, i disprezzati, condividendone le sofferenze, sull’esempio di Cristo, fino a dare la vita.
«Credo di conoscere il vangelo – disse un giorno in un incontro di preghiera comunitaria -; ma sto imparando a leggerlo in altro modo». La radicalità evangelica era la base della sua libertà straordinaria, che lo spingeva ad ammonire i potenti, fino a chiedere ai soldati di disubbidire agli ordini di morte, come fece il giorno prima del martirio, nell’omelia tenuta nella cattedrale, «Fratelli… davanti all’ordine di uccidere dato da un uomo, deve prevalere la legge di Dio che dice: non uccidere. Nessun soldato è tenuto a obbedire un ordine che è contro la legge di Dio. Una legge immorale, nessuno deve adempierla. È tempo che recuperiate e obbediate alla vostra coscienza, piuttosto che agli ordini del peccato. La chiesa, che difende i diritti di Dio, la dignità umana, la persona, non può tacere davanti a tanto orrore… In nome di Dio e di questo popolo sofferente, vi supplico, vi chiedo, vi ordino: cessi la repressione».
Era una morte annunciata. «Se mi uccidono, risorgerò nel mio popolo» aveva detto poco tempo prima.
A 25 anni dal suo martirio, Romero è vivo non solo nella sua gente e nelle chiese dell’America Latina, ma anche in quella universale e in tutti coloro che nel mondo si schierano in difesa della dignità della persona, per la giustizia e per la pace.

Egli sapeva che tale scelta evangelica gli avrebbe procurato la persecuzione, come ebbe a dire in una omelia del 1977: «La persecuzione è qualcosa di necessario nella chiesa. Sapete perché? Perché la verità è sempre perseguitata… Quando un giorno fu domandato a Leone xiii quali siano le note che distinguono l’autentica chiesa cattolica, il papa disse subito le quattro conosciute: una, santa, cattolica, apostolica. “Aggiungiamone un’altra – disse il papa -: perseguitata”. La chiesa che compie il suo dovere non può vivere senza essere perseguitata».
A 25 anni dalla morte, Romero continua a essere un profeta scomodo, non solo ai potenti della terra, ma anche nella chiesa: nell’indirizzare il processo di beatificazione qualcuno cerca di farlo passare come confessore della fede, piuttosto che come martire della giustizia.
Scriveva Giovanni Paolo ii nella lettera apostolica Tertio millennio adveniente: «Gli eventi storici legati alla figura di Costantino non avrebbero mai potuto garantire uno sviluppo della chiesa quale si verificò nel primo millennio, se non fosse stato per quella seminagione di martiri e per quel patrimonio di santità che caratterizzarono le prime generazioni cristiane. Al termine del secondo millennio, la chiesa è diventata nuovamente chiesa di martiri, come nei primi tre secoli» (Tma 37).
È un’affermazione coraggiosa, che va oltre quella di Leone xiii: non solo la persecuzione è una nota dell’autenticità della chiesa; ma questa è più più libera quando è osteggiata e perseguitata.

La libertà evangelica di Romero è un esempio valido anche per noi, in Italia ed Europa, dove da secoli, i cristiani vivono liberi e rispettati, cittadini con pieni diritti e libertà.
La perdita di certi privilegi acquisiti, per cui si sente levarsi voci di lamento e vittimismo, è nulla in confronto alla «grande tribolazione» che vivono i nostri fratelli e sorelle in altri continenti, dove i cristiani pagano con il sangue la loro sequela del Signore, la radicalità delle beatitudini, la fame e sete di giustizia, la ricerca della pace, il farsi prossimo dei poveri, dei malati, dei carcerati degli stranieri.
Oggi, piuttosto, esiste un’altra persecuzione, di cui parlava Ilario di Poitiers nel 360, all’inizio dell’era costantiniana: «Ora combattiamo contro un persecutore insidioso, un nemico che lusinga… che non flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre, non ci confisca i beni dandoci così la vita, ma ci fa ricchi per darci la morte; non ci imprigiona spingendoci verso la libertà, ma ci onora nel palazzo spingendoci alla schiavitù; non ci stringe i fianchi con catene, ma s’impossessa del nostro cuore; non ci taglia la testa, ma uccide l’anima con l’oro e il potere…» (Contra Costantium 5).

Benedetto Bellesi




Resistenza alla barbarie

È accaduto tra il 21 e il 22 febbraio scorso, a San José de Apartadó Urabá, dipartimento di Antioquia, nord-ovest della Colombia: 7 civili della Comunità di pace, tra cui il leader Eduardo Guerra e tre bambini, sono stati massacrati a colpi di machete, fatti a pezzi e gettati in un fossato.
«Una vergogna per l’umanità» ha esclamato Amerigo Incalcaterra, direttore aggiunto dell’Ufficio colombiano dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. La vergogna non sta solo nella barbarie dimostrata in tale eccidio, ma che a compierlo sia stato l’esercito, cui è affidato il compito di proteggere tali Comunità. Quello di San José è solo l’ultimo di una lunga serie di crimini, con cui si vuole uccidere ogni speranza di pace in un paese martoriato da 40 anni di guerra civile.

P assaggio obbligato verso i dipartimenti circostanti, il territorio di San José e le sue 32 frazioni è un punto strategico per gli attori del conflitto armato: esercito, guerriglia e paramilitari. Inoltre, questa zona, essendo molto fertile e ricca di carbone, ha attirato l’attenzione di imprese nazionali e transnazionali, per le quali è utile lo sfollamento messo in atto dai paramilitari, che terrorizzano la gente e la costringe ad abbandonare le loro terre.
Di fronte a tale situazione e al problema dello sfollamento forzato a livello nazionale, il vescovo della diocesi di Apartadó, mons. Isaías Duarte Cancino (assassinato nella città di Cali nel 2002), propose la costituzione di spazi neutrali, dove fosse garantito il rispetto alla vita e all’integrità della popolazione civile. Il 23 marzo 1997, 500 contadini di 17 frazioni di San José decisero di organizzarsi per allontanare la guerra dal territorio, di non collaborare con nessun gruppo armato, di sviluppare un processo di neutralità, in un paese dove questa è severamente combattuta da tutti gli attori armati.
Con l’accompagnamento formativo e l’assistenza giuridica della Commissione intercongregazionale di Giustizia e Pace, la Comunità di pace di San José si è organizzata in modo tale da diventare un interlocutore per il governo, per istituzioni nazionali e inteazionali.
Con la strategia di vivere in Comunità e lavorare in gruppo, i contadini hanno riconquistato poco a poco il territorio perso, hanno creato le condizioni per il ritorno di tutte le famiglie nelle proprie terre e dato vita a strutture di organizzazione sociale, formazione culturale, produzione e commercializzazione dei frutti del loro lavoro.
Tale processo non è stato indolore: oltre un centinaio di persone della Comunità di pace sono state uccise da formazioni guerrigliere, esercito e paramilitari. Senza contare le distruzioni, furti, attacchi e minacce.

L a determinazione della Comunità di San José di continuare il processo di resistenza non violenta, le ha attirato l’attenzione di numerosi organismi inteazionali: la rivista statunitense Fellowship of Reconcillation le ha assegnato il premio Pfeffer della pace.
Su raccomandazione della Corte interamericana dei diritti umani, la Corte costituzionale della Colombia, lo scorso anno, ha dichiarato che la Comunità di pace ha diritto a una protezione speciale da parte delle forze armate, perché regolarmente esposta alle vessazioni della guerriglia e dei paramilitari.
La continuazione di questo processo di resistenza civile e nonviolenta dipende in larga misura dal coinvolgimento di ampi settori dell’opinione pubblica e dall’azione di diverse organizzazioni nazionali ed inteazionali. Amnesty Inteational ha avviato una campagna di pressione sul governo colombiano, in difesa di questa comunità (www.amnesty.it/primopiano/colombia).
Tenendo conto della degradazione e ferocità del conflitto colombiano, la sola esistenza della Comunità di pace di San José di Apartadó (e di altre esperienze simili) è già un successo e prova che è possibile resistere collettivamente alla guerra e alla barbarie.
Tale esperienza, poi, va oltre la semplice neutralità. La Comunità di pace, con i suoi processi economici di tipo comunitario, le relazioni democratiche di autogoverno, la convivenza civile che risolve le tensioni pacificamente, testimonia che è possibile un’alternativa al modello dominante di sviluppo economico e convivenza sociale sia in Colombia che in altre parti del mondo.
Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Eucarestia & Missione

In questo anno, consacrato all’eucaristia, i cristiani sono invitati ad accostarsi con rispetto e devozione al mistero della presenza di Cristo in mezzo all’umanità. Il mondo missionario s’interroga su come la sua azione di evangelizzazione e di promozione umana può far riferimento all’eucaristia, quale momento privilegiato di riflessione nel suo incedere sui sentirneri della storia umana.
In una sana prospettiva missionaria, oltre alla devozione e al culto liturgico che le sono dovuti, l’eucaristia contiene numerosi e puntuali riferimenti all’impegno di denuncia per i mali della terra e di solidarietà con tutti gli oppressi del mondo. Ecco alcuni esempi.
Durante la messa della notte di natale 1537, nella cattedrale di Hispaniola (oggi Santo Domingo), fra’ Montesino de Guzmán, pronunciò una fortissima omelia contro i conquistadores spagnoli, che sulle terre appena scoperte rubano, ammazzano, seviziano gli indios. Quell’omelia colpì profondamente un giovane novizio domenicano, Bartolomé de las Casas: scosso dalle parole del suo confratello, diventò il più strenuo difensore degli indios.
Quella denuncia, pronunciata in una solenne celebrazione eucaristica, fu un incisivo punto di partenza per l’attenzione e la cura che la chiesa latinoamericana ha sviluppato verso gli indigeni lungo i secoli, difendendoli dai soprusi dei nuovi arrivati.
Sempre in un contesto prettamente missionario, l’eucaristia si fa memoria di martirio e celebrazione di speranza. Questo aspetto è testimoniato dallo scrittore cattolico giapponese Susaku Endo nel suo romanzo Silenzio, dove viene narrata la persecuzione che, tra la fine del 1500 e l’inizio del 1600, annientò tutte le comunità cristiane fondate da san Francesco Saverio. Si salvò solo un «piccolo resto». Nel 1870, quando i missionari europei poterono rientrare, arrivati nel porto di Nagasaki, si sentirono chiedere dai discendenti di quei cristiani giapponesi di celebrare l’eucaristia in memoria dei loro martiri: un’eucaristia attesa per più di 200 anni!

I n occasione dell’anno eucaristico, iniziato proprio nello scorso ottobre, mese missionario per eccellenza, Giovanni Paolo ii ha ripreso ed evidenziato questi temi nella lettera apostolica Mane nobiscum Domine. In essa il papa ricorda che «l’eucaristia ci spinge a mostrare solidarietà verso gli altri, rendendoci promotori di armonia, di pace e, specialmente, di condivisione con i bisognosi.
L’«Anno dell’Eucaristia» deve condurre le comunità diocesane e parrocchiali a un particolare interessamento per le varie manifestazioni della povertà nel mondo, come fame e malattie nelle nazioni in via di sviluppo, solitudine degli anziani, disoccupazione, sofferenze degli immigrati. Questo criterio di carità sarà il «segno dell’autenticità delle nostre celebrazioni eucaristiche».
L’eucaristia, prosegue il papa, «non è solo espressione di comunione nella vita della chiesa; essa è anche progetto di solidarietà per l’intera umanità. Nella celebrazione eucaristica la chiesa rinnova continuamente la sua coscienza di essere segno e strumento, non solo dell’intima unione con Dio, ma anche dell’unità di tutto il genere umano».
Ogni messa, anche se celebrata nella più umile delle comunità e nelle regioni più sperdute della terra, porta in sé il segno indelebile della universalità. Il cristiano che partecipa all’eucaristia, impara a farsi promotore di comunione, di pace, di giustizia e di solidarietà in tutte le circostanze della vita.

I l nuovo millennio è iniziato avendo davanti a sé lo spettro del terrorismo e la tragedia della guerra. La grande famiglia missionaria, che reca in sé come la coscienza storica di un cammino di evangelizzazione che ha plasmato intere generazioni, chiama i cristiani a vivere più che mai il mistero dell’eucaristia come scuola di pace, in cui uomini e donne, partecipando alla vita di Cristo, si fanno tessitori di dialogo e comunione, oltre che costruttori incessanti di cammini di giustizia e di pace.
Interessanti pagine di vita attendono ancora di essere scritte nel meraviglioso libro della missione, da chi con fede e umiltà celebra e partecipa al mistero dell’eucaristia.

Mario Bandera

Mario Bandera




“Vorrei ma non posso…”

Lo scorso anno, a Stresa, sul Lago Maggiore, si è tenuto l’incontro The World Political Forum, avente per tema: «Povertà nel mondo: una sfida alla globalizzazione». Ho avuto la possibilità di parteciparvi; penso che valga la pena sottolineare qualche aspetto che merita ulteriore approfondimento.
È fuori discussione che qualunque sforzo di analisi e programmazione per risolvere la drammatica situazione della povertà e della fame nel Terzo Mondo è meritevole di attenzione. Sotto questo profilo ben vengano iniziative che, mettendo attorno a un tavolo tanti personaggi famosi della politica internazionale, ricerchino soluzioni fattibili, atte a dare una svolta alla stagnante condizione esistente.
I politici presenti a Stresa erano effettivamente di primissimo piano: da Michail Gorbacev a Boutros Ghali, da Benazir Bhutto a Mario Soares, da Wojciech Jaruzelski a Lionel Jospin, da Giulio Andreotti a Oscar Luigi Scalfaro e via dicendo; gente abituata a gestire il potere con acume e intelligenza, capaci anche di dare svolte epocali al corso della storia (basti pensare a quello che ha fatto Gorbacev nella ex Unione Sovietica) per capire che i discorsi che sono stati fatti erano veramente incisivi e coglievano nel segno per quello che riguardava i problemi trattati.
Per la verità, ad ascoltarli sembrava di «leggere» una rivista missionaria con le ultime novità dalle periferie del mondo.

I l limite di quest’incontro, però, sta proprio nel fatto che «le vecchie glorie» presenti, che si sono alternate discettando su questi temi, sono ormai politici fuori dalla mischia o in pensione, assolutamente non più in grado di determinare nessun orientamento né economico, né sociale, né politico, in grado d’influenzare le scelte dei governi e la vita dei popoli del Terzo Mondo.
Anzi, proprio l’ascoltare discorsi innovativi, per certi versi (sulle loro bocche) rivoluzionari, portava a considerare che forse la profondità delle analisi e la chiarezza delle soluzioni dette, erano determinate dal fatto che a questi discorsi non sarebbe seguita nessuna presa di posizione politica.
Tanto per essere chiari, sentire relatori di prima grandezza, che hanno avuto in mano i destini dell’umanità per periodi abbastanza lunghi, affermare che bisogna porre un freno alla corsa agli armamenti, azzerare il debito estero e condannare la politica protezionistica dei rispettivi paesi, che impedisce ai prodotti del Terzo Mondo di entrare nel libero mercato, sembrava davvero di ascoltare padre Alex Zanotelli in una delle sue profetiche prese di posizione.
Purtroppo, e qui sta il vero tallone d’Achille di questo Forum: i politici, pur autorevoli, che affermavano queste cose, non hanno più autorità per determinare linee concrete di azione, in grado di dar seguito alle loro parole.
Sembrava quasi di sentire il ritornello di una canzone alla moda qualche tempo fa che diceva: «Vorrei ma non posso…», nel senso che questi personaggi, quando occupavano posti di rilievo nei rispettivi governi, potevano, ma non hanno voluto cambiare nulla; adesso che vorrebbero fare qualcosa, non possono in quanto sono fuori dalle stanze dei bottoni.
E i poveri, nel frattempo, come sempre stanno a guardare.
Mario Bandera

Mario Bandera