Quale profezia?

La storia dell’uomo si evolve grazie alle impronte lasciate da pochi e capaci di influenzare i più. La storia della chiesa e della missione non fa eccezione. Fermo restando che in questo campo bisogna riconoscere allo Spirito Santo un protagonismo indiscusso, i grandi cambiamenti sono fenomeni che nascono da una base pressoché elitaria. Se non tutti sono santi o profeti, va però detto che tali figure non appartengono alla galassia dei superuomini, ma vivono tra noi. Anzi, la «zampata» decisiva, quella che lascia il segno indelebile sulla storia, potrebbe essere uno di noi a darla. Perché no?
Ciò che caratterizza la profezia è la spontaneità assoluta, l’imprevedibilità radicata nell’iniziativa di Dio, in seguito accolta e, quindi, tradotta in realtà. La profezia va letta nel quotidiano, scovata negli anfratti della storia, stanata dalle pieghe della marginalità. La profezia alberga nelle stanze degli esclusi e per tal ragione è poco visibile, anche se di per sé illuminante.
Quali profezie si scorgono, in atto o in potenza, nell’oggi della missione in Italia?
Se lo sono chiesti più di cento missionari e missionarie che hanno preso parte nel mese di febbraio al Forum della C.I.M.I., la Conferenza che riunisce i superiori provinciali degli istituti esclusivamente ad gentes presenti in Italia. Al di là della bella esperienza del trovarsi insieme a Pacognano, nella penisola sorrentina, qualcosa non ha funzionato.

Gli interrogativi non sono mancati, anche se sono stati conditi da un senso di smarrimento, inadeguatezza, difficoltà ad adattarsi a un mondo – quello europeo e italiano – che a molti sembra non appartenere geneticamente al Dna del missionario. Le conferenze su un’Europa da ri-conoscere e nella quale ubicarsi efficacemente come missionari, sulla contestualizzazione del lascito carismatico dei fondatori dei vari istituti missionari e della teologia per una missione in Europa hanno offerto solo in parte piste da percorrere. Le proposte finali su un’ipotesi di lavoro missionario comune sono rimaste imbrigliate nel tentativo di fare giusta sintesi tra utopia e disincanto.
I momenti di maggior impatto si sono avuti grazie ad alcune testimonianze, offerte sia da ospiti estei, come anche da partecipanti al Forum. Il condividere esperienze missionarie significative, talvolta difficili, di frontiera e nello stesso tempo gratificanti, ha dato fiducia all’assemblea, indicando cammini possibili per una missione profetica in Italia e ribadendo ancora una volta la centralità del racconto come strumento di animazione missionaria.
Il missionario, abitualmente un grande fagocitatore e ripetitore di storie, pare faticare una volta rientrato in Europa a nutrirsi del racconto dell’altro. Commette, forse, l’errore di pensare di esser l’unico ad avere una narrazione che vale la pena di essere ascoltata e si chiude alle storie di chi incontra. In che altro spazio merita andare a cercare uno spunto profetico se non nel vissuto di chi ci circonda? Una delle immagini di maggior impatto di tutto il Forum è stata quella del confine. Il missionario, una volta inviato ad «attraversare» i confini, è ora chiamato ad «abitare» quei bordi sfrangiati che la modeità ha ricavato dall’erosione costante delle frontiere geopolitiche, sociali, generazionali, ecc. Occorre far sì che tali confini si riempiano di storie di vita vissuta, da raccogliere, ripensare ed elaborare, al fine di costruire la missione di domani. Un approccio che non tenga conto di questi racconti già in atto potrà forse costruire un’ideologia della missione, ma non troverà la strada per la missione profetica sulla quale ci si interroga e di cui si ha bisogno.
di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Napoli e dintorni: anno del signore 2008

Le immagini di degrado che dai teleschermi si riversano nelle nostre case sembrano veicolare anche il fetore miasmatico dei rifiuti che tutti producono e che tutti a loro volta rifiutano. Le oltre 3.500 tonnellate di «munnezza» che invadono le strade della città sono il monumento osceno alla bulimia dei produttori, alla cecità degli amministratori e all’incoscienza dei consumatori. Ciò che scandalizza, tra la rabbia di questi ultimi, il balbettio dei secondi e il silenzio dei primi, è la mancanza di un pur minimo tentativo di individuazione delle cause che hanno portato a questo stato di cose e, ancor più, l’assenza assoluta di ogni voce critica  circa questo modello di sviluppo totalmente appiattito sulla categoria della produzione e del mercato.
Lasciamo agli esperti e agli specialisti il compito di ricercare le cause locali e circostanziate che hanno generato questo caos di putrescenza, anche perché noi non siamo all’altezza e non siamo in possesso dei dati necessari per una disanima precisa e imparziale. Ci preme piuttosto rilevare che la crisi napoletana è la manifestazione traumatica di qualcosa che sta avvenendo ovunque, in Italia e fuori. La crisi è planetaria.
«I mercati avanzano sulla desertificazione della società» ebbe a scrivere non molto tempo fa Karl Polanyi, mentre già nel 1932 Gandhi preannunciava la catastrofe: «Si esige oggi che la produzione industriale aumenti di anno in anno. Questa è un’autentica follia che non può portare altro che alla catastrofe».
Il «pensiero unico», ovvero il monoteismo della merce, che impone come imperativo categorico una crescita economica senza limiti sino a scaraventarci nel vortice del «guadagna e spendi» e «dell’usa e getta», non può che produrre quel consumismo sfrenato che uccide fisicamente chi non può accedervi e uccide moralmente i beneficiari, recando inoltre numerosi danni all’ecosistema. La nostra civiltà sopravvive consumando e consumandosi… La «megamacchina sociale» (cfr. Serge Latouche) riproduce se stessa divorando, dissipando irreversibilmente energie, beni, risorse, opere e linguaggi, culture, forme di vita e d’organizzazione, degradando complessità, omologando differenze e moltiplicando entropia.  

I nostri rappresentanti istituzionali, indistintamente, di destra e di sinistra, inalberando l’ideologia dello «sviluppo» e agendo come complici di imprenditori senza scrupoli hanno dilapidato montagne di denaro e prodotto montagne di rifiuti. Il livello di intossicazione è tale da ritrovarci anche con la coscienza inquinata. Siamo disposti a concedere credito anche ai valori improduttivi, purché li induciamo a produrre: l’arte per promuovere il turismo, l’amore per «accasarsi», Dio per concedere favori, la preghiera per salvarsi l’anima. Questo involgarimento delle esperienze umane più elevate, ridotte a beni di consumo, dà la misura del nostro modello antropologico, direbbe Adriana Zarri, fatto di «buon senso o di calcolo e del tutto privo di gratuità e di stupore».  
Appunto: i mercati avanzano sulla desertificazione della società! Non solo. In questa (in)civiltà, dove le cose importano sempre più e le persone sempre meno, i fini sono stati sequestrati dai mezzi, fino a sovvertie il rapporto: le cose ci posseggono, le auto ci guidano, il computer ci programma, la televisione ci comanda. Crediamo di possedere ma siamo dei posseduti.
Le discariche, ormai, sono il buco nero in cui tutto è destinato a precipitare: usi e costumi, lavoro e divertimento, pensieri e sentimenti, sogni e realtà.

In due secoli la popolazione del pianeta è triplicata, ma nei soli ultimi 50 anni la produzione e i consumi materiali sono sestuplicati. Nonostante questo, continuiamo a comportarci come se il pianeta avesse una capienza infinita per assorbire i resti del nostro banchetto tossico.
Ulderico Pesce ha messo in scena a Milano, a fine gennaio, il suo nuovo spettacolo «Asso di Monnezza». Vi si ricostruisce, attraverso la storia di una famiglia pugliese, il traffico di rifiuti industriali «speciali» che, dalle fabbriche del nord, finiscono in Campania e nel resto del meridione, dopo essere stati «trasformati» in rifiuti normali, grazie all’intervento della criminalità organizzata. In particolare, fa luce sulla complicità di alcuni laboratori di analisi chimiche della Toscana, dove i rifiuti speciali sostano per poco, prima di ripartire verso sud: giusto il tempo di essere riclassificati come innocui. Le imprese del nord, in questo modo, risparmiano i costi di bonifica e i rifiuti finiscono nelle discariche abusive o in finte fabbriche di compost e quindi nel terreno.
E non si tratta solo di «invenzione» teatrale. Già 8 anni fa, una commissione parlamentare accertò l’arrivo a Pianura dei rifiuti velenosi dell’Acna di Cengio (Savona). Massimo Scalia, docente di Fisica alla Sapienza di Roma, che tra il 1998 e il 2000 ha presieduto la commissione di inchiesta sui rifiuti, dice: «Otto anni fa, nel nostro lavoro d’indagine, accertammo in modo incontrovertibile che a Pianura erano finiti sicuramente i fanghi velenosi dell’Acna di Cengio. Un quantitativo rilevante, che purtroppo non riuscimmo a definire con esattezza, perché buona parte della documentazione che riguardava i trasporti o era andata distrutta o era incompleta. Quei fanghi, ovviamente, sono ancora lì, a Pianura. E se nessuno metterà mano continueranno ad avvelenare la terra e l’acqua. Per sempre».
Sorprende il silenzio di allora della popolazione. Una domanda si fa strada nella selva intrigata dei dubbi e delle ipotesi: forse che i lauti guadagni della mafia nel riempire le tasche dei pochi ha chiuso la bocca ai molti?

L’inversione di rotta è ormai improcrastinabile: produrre di meno e consumare di meno. La salvezza ci può venire solo da una presa di coscienza forte da parte dei consumatori, trovandosi, essi, in una posizione strategica: in base ai loro acquisti si possono trasformare in complici delle imprese che inquinano e sfruttano o in agenti di cambiamento.
A noi non resta che lavorare a questa coscientizzazione, fortemente convinti che un altro mondo è possibile e avendo già da tempo fatto nostro il monito di Mohawk: «Quando avrete inquinato l’ultimo fiume e avrete preso l’ultimo pesce, quando avrete abbattuto l’ultimo albero, allora e solo allora vi renderete conto che non potete mangiare il denaro che avete ammucchiato nelle vostre banche».

Di Aldo Antonelli

Aldo Antonelli




Quale pace per il Kenya?

Dopo l’«indigestione» di notizie del mese scorso, per il Kenya c’è il rischio molto alto che i riflettori si spengano su questo come su altri paesi africani. Basti pensare alla copertura mediatica offerta un anno fa, sempre nel mese di gennaio, per il primo World Social Forum organizzato in Africa, proprio a Nairobi: un silenzio imbarazzante, interrotto da pochi lanci di agenzia disseminati qua e là fra le pagine dei maggiori quotidiani.
I fatti di violenza di un mese fa, scatenati dalla contestata elezione presidenziale, sono stati amplificati anche dal fatto che un buon numero di nostri connazionali fosse andato a svernare sulle spiagge del paradiso artificiale di Malindi. Grazie anche a un certo gusto del macabro, che sempre aiuta a vendere bene il prodotto, anche in Italia ci si è resi conto che il Kenya è ben di più che gli scorci da cartolina della sua costa. Si sono scoperte località ai più sconosciute, come Kisumu e Eldoret, e si è fatto capolino nelle periferie disagiate di Nairobi: Kibera, Korogocho.
Nel racconto delle violenze ci si è soffermati sulle lotte tribali che hanno insanguinato il paese: Luo, Luia, Kalenjin, gruppi che si sentono emarginati dalla vita politica ed economica del paese, che si trova invece saldamente nelle mani dei Kikuyu. Sicuramente questo è un elemento da tenere sempre presente e da approfondire quando si affrontano problemi africani: non si capiscono la storia e la vita politica di un paese se non si considerano i rapporti fra le diverse etnie che lo colorano demograficamente. L’errore, semmai, è quello di sdoganare la questione etnica come l’unica possibile ragione del fallimento post-coloniale della maggior parte degli stati africani.
Sicuramente, rimangono moltissimi punti interrogativi che l’analisi offerta dagli organi d’informazione occidentali, specie europei, non ha neppure sfiorato. Occorre, a mio giudizio, andare al di là del giudizio di colpevolezza attribuito in forma univoca all’odio tribale, facile da comprendere e di forte impatto emotivo per la nostra gente. Pensare, però, che le sommosse e le violenze siano da imputare solamente a questo fattore non solo non aiuta a spiegare il fenomeno nella sua complessità, ma serve a nascondere quelle che sono in realtà le nostre responsabilità in quanto occidentali ed europei.
I tumulti del mese passato sono infatti un atto di accusa all’atteggiamento aggressivo dei paesi industrializzati (e multinazionali che ne muovono le fila) nei confronti di un continente malato e volutamente lasciato in lungo-degenza da quelle stesse potenze occidentali che oggi cercano la mediazione politica fra le parti in conflitto. Ipocrisia bella e buona di chi finora si è solamente interessato del Kenya «utile»: quello delle località turistiche, regione oggetto di investimenti, paese delle «zone franche» per l’industria tessile e dei fiori. Facile battuta, ma in Kenya, per davvero, «non è tutto rose e fiori». Anche gli slums di Nairobi, dove alberga un’umanità di milioni di disperati, ci dice che l’odio tribale è una concausa (se non una scusa) del malessere di un intero continente. Lì dove la forbice tra ricchi e poveri è così tragicamente aperta, dove la sperequazione è troppo evidente per non sfociare nell’ingiustizia, fa molto più comodo una guerra fra poveri che non una coalizione, anche pacifica, dei poveri contro il sistema.

All’Africa delle nuove conquiste coloniali corrisponde, come conseguenza, l’Africa malata, il continente delle tragedie, dei profughi, degli interi villaggi decimati dalla guerra o Aids. La situazione che oggi si è venuta a creare in Kenya interpella moltissimi di noi, agenti di pastorale a vari livelli, esercito di «buoni samaritani», sempre pronti a mettere le bende lì dove le ferite sanguinano, ma forse non così decisivi nell’analizzare, informare e denunciare le cause di ciò che provoca tanta sofferenza nei più poveri, in coloro che sempre rimangono ai margini e non hanno voce in capitolo.
Questi fatti dovrebbero aiutarci a valutare il modo in cui, oggi, ci presentiamo nelle nostre attività di evangelizzazione e promozione umana, spingendoci a riflettere, per esempio, sul modo in cui formiamo le persone che inviamo in Kenya o in altri paesi africani, sia per brevi viaggi di conoscenza come per più lunghi periodi di volontariato a sostegno delle missioni. In che misura aiutiamo queste persone a leggere una realtà di disagio, molto più complessa di quella che si può cogliere in superficie e di come ci viene raccontata dai nostri mezzi di comunicazione?

Antonio Rovelli




Caro Amico

Caro Amico,

per anni gli editoriali che hanno occupato la tua prima pagina sono iniziati così, con la leggerezza e il calore di una lettera ai lettori, ragazzi e ragazze, compagni di cammino che da sempre hai chiamato con confidenza «amici», cari amici.
E proprio in qualità di «amici di amico» oggi ti auguriamo «Buon Compleanno». Mezzo secolo di vita – mica uno scherzo – al servizio della missione, sempre attento ai cambiamenti che questa ha presentato sullo scenario di un mondo sempre più complesso e sempre più grande. «Ti sei saputo conservare bene»; te lo diciamo noi che guardiamo lo stesso universo in cui sei immerso tu e lo facciamo da ben più tempo (pensa un po’, proprio quest’anno «Missioni Consolata» compie 110 anni).
Una cosa che ti ho sempre invidiato, te lo dico francamente, è il nome: amico, una parola che immediatamente richiama una relazione positiva fra le persone. Cinque lettere cariche di un profondo significato teologico e missionario, ma che sono anche il felice frutto di un acronimo: a.mi.co.: «Agenzia Missioni Consolata». Padre Caera, l’uomo che ti vide nascere,  mi disse una volta che ti chiamò «agenzia» perché voleva che tutti, sin dall’inizio, ti prendessero sul serio. E così è stato. Sei nato come una vera e propria agenzia di notizie, pubblicando sulle tue pagine le lettere dei missionari che lavoravano sul campo. Erano i seminaristi a raccoglierle e, una volta ciclostilate, le distribuivano ad altri giovani affinché potessero conoscere cosa succedeva dall’altra parte del mondo: in Africa… in America Latina. Il tutto per creare una relazione fra la missione di frontiera e quella imparata a tavolino: una relazione di amicizia.

Con il tempo sei cresciuto. Hai cambiato molte volte formato e altrettante volte stile, seguendo l’istinto di chi si occupava di te e, soprattutto, le tendenze della missione. Dopo gli anni del Concilio hai avuto una grande metamorfosi, sei diventato adulto e hai assunto il carattere che ancora oggi ti identifica: quello di essere uno strumento di «form-Azione» missionaria per i giovani. Pagine da leggere, ma che invitano anche ad agire. Una rivista che, soprattutto, ha sempre ricordato l’importanza di «raccontare» la missione, strumento su cui si fonda ogni animazione missionaria di ieri, di oggi, di sempre.
Ancora oggi, lo stile che ti rende ciò che sei, amico,  può essere sintetizzato attraverso un semplice schema. Il punto di partenza è la vita. È la realtà che ci interpella, attraverso situazioni che, di volta in volta, aprono finestre sugli universi della giustizia e della pace, della salvaguardia del creato, dell’alterità, della mondialità. Una realtà colta nella sua complessità, ma presentata ai giovani senza reticenze e con indicazioni per poter affrontare individualmente o in gruppo un determinato tema. Tutto ciò – e siamo al secondo passo – insisti nel volerlo interpretare alla luce della Parola di Dio, ponendo Gesù, la sua vita, le sue scelte, la sua missione come punto di riferimento del tuo rivolgerti ai giovani.
Infine, continui a ricordare che la vita, illuminata dalla luce della buona notizia, deve mirare all’azione e alla testimonianza. Lo fai comunicando l’esperienza di coloro che vivono l’ad gentes in prima persona e cercando, nel medesimo tempo, di far innamorare della missione coloro che ti leggono in Italia.
Insomma, un bello sforzo. Per essere un cinquantenne, caro amico, ti difendi «alla grande».

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




I rom, i rumeni e l’italia: molti muri, pochi ponti

Ogni crimine, ogni delitto, ogni omicidio è sempre un episodio sconvolgente, che dovrebbe far inorridire la coscienza di ciascuno. Tuttavia, quando a commettere un delitto sono dei rom, sembra che il crimine diventi particolarmente odioso e l’assassino si trasforma in un mostro da sbattere in prima pagina. I fatti di novembre, accaduti in una degradata periferia di Roma, sono lì a dimostrarlo.
Gli zingari (siano essi rom o sinti) da secoli sono discriminati ed emarginati, la loro semplice apparizione in un qualsiasi comune o borgata delle nostre città, scatena una repulsione immediata per la fama poco onorevole che li accompagna. Nell’immaginario collettivo essi sono visti come ladri o, peggio, rapitori di bambini, ma quello che sconcerta ancora di più è che i rom non sembrano preoccuparsi di questa nomea che si sono procurati con alcuni loro atteggiamenti ripugnanti come il furto o il mandare i bambini ad elemosinare lungo le strade, allontanando un difficile ma non impossibile inserimento nella nostra società. Nel passato molti governanti hanno tentato di porre soluzione al problema degli zingari, attraverso delle leggi che costantemente li mettevano al bando. Hitler, unitamente agli ebrei, attuò la soluzione finale anche nei loro confronti. La sconfitta del nazismo evitò che questo criminale disegno si compisse, ma è amaro scoprire, visitando i vari campi di sterminio, che ci sono lapidi e cippi a ricordo di tutte le vittime dei popoli soggiogati dal nazismo, ma stranamente non c’è nessun ricordo che faccia memoria delle migliaia di vittime del popolo zingaro.
Non è certamente facile il dialogo con chi vive ai margini della società e della legge. Tuttavia, in una società multietnica e multiculturale come quella europea, non si può pensare di erigere mura che separano o ghettizzano, ma deve essere un punto centrale delle istituzioni cercare di costruire ponti che favoriscano la conoscenza ed il dialogo reciproco. La comunità cristiana (al contrario del circostante mondo «celtico-padano» che invoca «soluzioni forti» nei confronti dei rom) ha il dovere di percorrere queste strade.

D iverso il discorso relativo ai rumeni. Il fatto che la Romania sia entrata a far parte dell’Unione europea, li pone nella condizione di potersi muovere senza nessun problema all’interno degli stati membri. In Italia essi sono già la prima comunità straniera e, purtroppo, stando alle statistiche, anche la prima comunità per numero di reati. Il fatto che il presidente rumeno Calin Popescu Tariceanu, dopo i fatti di Roma si sia affrettato a venire in Italia (lo scorso 7 novembre) a discutere con Prodi i problemi legati alle relazioni tra i due paesi, la dice lunga sulla posta in gioco. Se la presenza dei rumeni in Italia ha raggiunto cifre ragguardevoli, garantendo attraverso le rimesse degli emigranti entrate sostanziose al bilancio rumeno, va anche tenuto presente che sono oltre 20.000 le imprese italiane operanti in Romania.
Il cammino dell’integrazione è difficile da percorrere, soprattutto tenendo conto che chi ha vissuto per anni sotto il tallone di Ceausescu ha sviluppato un senso di rifiuto per le leggi e questo ha portato a una forma mentis collettiva che relativizza di molto i principi morali. Tutto ciò non per giustificare chi delinque, ma per comprendere che alla base di tutto c’è il bisogno immenso di costruire non solo la nostra cortese tolleranza, ma un cammino pedagogico di formazione delle coscienze a cui tutti sono chiamati e in modo particolare il mondo istituzionale.
Alla luce di questi fatti, possiamo dire che la presenza del male nel mondo va contrastata vivendo fino in fondo la logica del Vangelo, e forse è il caso di ricordare che esso si basa sull’amore e non sull’odio, sull’accoglienza e non sul rifiuto dell’altro. Chiunque esso sia.

Di Mario Bandera

Mario Bandera




Un a piccola parrocchia di montagna

Il quarantesimo anniversario della morte di Don Lorenzo Milani, celebratosi alla fine di giugno di quest’anno, ne ha riportato ancora una volta la figura al centro dell’attenzione mediatica; libri, articoli, speciali televisivi, «pellegrinaggi» a Barbiana (anche Veltroni vi si è recato a cercare ispirazione in vista delle incombenti nuove avventure politiche che lo attendono). La fronte spaziosa e gli occhi penetranti del «priore» sono tornati a riempire il nostro immaginario di cristiani sempre in cerca di icone da contemplare, di punti di riferimento. Chissà se le sue parole, rilette e riascoltate oggi fino all’eccesso, saranno ancora capaci di produrre il miracolo di risvegliare coscienze intorpidite, come accadde al tempo delle sue battaglie più tenaci.
Me lo chiedo leggendo l’ultimo messaggio per la Giornata missionaria mondiale (pubblicato in questo numero di Missioni Consolata alle pagine 74-75), nel punto in cui il papa, rivolgendosi alle nostre comunità cristiane di più antica tradizione, scrive: «… queste chiese corrono il rischio di rinchiudersi in se stesse, di guardare con ridotta speranza al futuro e di rallentare il loro sforzo missionario».
La situazione ecclesiale in cui stiamo vivendo è molto diversa da quella di mezzo secolo fa, questo è certo, ma lo stile pastorale di Don Milani può dire qualcosa di importante anche a noi e alle nostre comunità di oggi. Don Lorenzo non ebbe fra le sue corde una specifica attenzione alla missione ad gentes. Soprattutto nella seconda fase del suo apostolato, quella di Barbiana, la sua azione si concentrò in modo radicale ed esclusivo sulla sua comunità, all’insegnamento e all’educazione dei ragazzi. A ciò dedicò tutto se stesso al limite dello sfinimento. Era e si sentiva il prete della sua gente e «solo» della sua gente. Ciò che rimproverava ad alcuni suoi colleghi era la dispersione in mille attività che non si focalizzassero direttamente sulle necessità dei più poveri affidati alle loro cure pastorali.
Allo stesso tempo, fu capace di stimolare nei suoi ragazzi quella visione aperta del mondo e quel profondo senso di giustizia globale che sprizzano dalla Parola di Dio e di cui si nutre la missione di sempre. I ripetuti invii dei suoi ragazzi all’estero affinché apprendessero più lingue possibili, l’invito fatto ai loro coetanei stranieri di soggioare a Barbiana e condividere la loro realtà con i ragazzi del posto, lo studio sistematico e critico della realtà fatto attraverso la lettura dei giornali e l’incontro con professionisti, politici, uomini di fede (non sempre capaci, per la verità, di superare la ghigliottina critica del parroco e dei suoi studenti) furono strumenti che Don Milani usò abbondantemente  per spalancare ai suoi giovani le porte che da Barbiana li avrebbe proiettati nel mondo. Un mondo che li avrebbe rispettati e non più sfruttati, visto che ora erano capaci di comprenderne e dominae i meccanismi. Non importa se questo viaggio si sarebbe fermato a Vicchio o a Firenze. Gli strumenti per andare «fino agli estremi confini della terra» erano ormai in loro possesso.
L’invito fatto dal papa alle nostre comunità a non chiudersi in se stesse non deve escludere la scelta, che Don Milani visse in modo quasi «fondamentalista», di chiudersi «con» esse, in una relazione di donazione totale. Penso sia rischioso, anche se oggi è la tendenza, limitare l’azione di animazione missionaria a una formazione intensiva alla missione sul modello «toccata e fuga», trascurando il contatto diretto, personale, continuativo e spiritualmente profondo con le persone.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Balcani, la bomba Kosovo

Con l’avvio dei colloqui conclusivi al Consiglio di sicurezza dell’Onu per definire lo status finale della provincia serba del Kosovo, la situazione nella regione balcanica sta divenendo sempre più incandescente, con violenze e atti terroristici quotidiani, di cui però non si trova traccia nel panorama dell’informazione mediatica occidentale.
Assalti, ferimenti, incendi, omicidi, attentati alle comunità serbe e rom, alle loro case ed agli ultimi monasteri ortodossi (quelli non ancora devastati), così come gli attentati e l’ostilità contro strutture e mezzi delle Nazioni Unite, considerati possibili testimoni scomodi, in previsione degli scenari della definitiva pulizia etnica, che si preparano per il post indipendenza. Ormai è uno stillicidio continuo e quotidiano, così come monta sulla stampa e i media televisivi indipendentisti albanesi kosovari, una campagna mediatica sistematica che fomenta l’odio etnico e l’obiettivo – a loro dire – «non più trattabile» della secessione e indipendenza definitivi.
Negli incontri con membri delle comunità serbe kosovare e dei profughi in Serbia, al di là del senso di solitudine che sentono sulla pelle, emerge una forte determinazione alla resistenza e opposizione a questo ennesimo atto di ingiustizia e di violenza contro le minoranze del Kosmet. Per tutto questo le popolazioni chiedono di non essere nuovamente lasciate sole di fronte ad atti e logiche violente, che nulla hanno a che fare con il progresso e la convivenza tra i popoli; chiedono che il destino e il futuro del Kosovo non sia deciso in cancellerie inteazionali dell’Occidente, ma venga discusso e deciso dai popoli (minoranze o maggioranze) che hanno sempre abitato quella terra. È una richiesta assurda e stravagante?

Sia a livello europeo, che negli Usa e in Canada, molti noti giornalisti di testate inteazionali informano e denunciano ormai apertamente la situazione di pericolo e i nuovi venti di guerra che si vanno profilando; è necessario e giusto che anche in Italia il movimento per la pace, i sinceri democratici, le forze progressiste prendano atto dei rischi di una nuova escalation di guerra e conflittualità. Un fatto che certamente non rimarrebbe circoscritto, ma produrrebbe un nuovo sconvolgimento degli equilibri inteazionali, con il riaccendersi di focolai di violenza, legittimati da un’eventuale indipendenza decisa negli uffici dei padroni dell’impero, ma fuori dal diritto internazionale e dalla Carta dell’Onu.
Sarebbe quell’ «effetto domino» già preannunciato da molti esperti e osservatori inteazionali: se una banda di criminali e narcotrafficanti (come fu definita l’Uck nel ’98 in un report della stessa Cia), può vedere riconosciuto un territorio come repubblica indipendente («uno stato delle mafie», come è stato definito), fuori da qualsiasi ragionevole logica, perché i serbi della Bosnia e della Repubblica di Krajina in Croazia, i popoli dell’Ossezia, dell’Abkhazia, della Transnistria, i curdi della Turchia, i corsi e i bretoni in Francia, i baschi in Spagna, i nordirlandesi, i palestinesi, i russi perseguitati nelle Repubbliche Baltiche, non potranno avere il diritto alla secessione e all’indipendenza?
E l’elenco potrebbe continuare. Ma c’è anche un altro aspetto: sono gli effetti devastanti che si scatenerebbero nella stessa Serbia, dove nella provincia del Sangiaccato l’«Armata nazionale albanese» opera con assalti, attentati, violenze, collegata con un’altra forza secessionista albanese della Valle del Presevo nel sud della Serbia, per unirsi al Kosovo indipendente; ma nella stessa strategia operano forze secessioniste albanesi in Macedonia, Montenegro, Grecia del nord.
Dopo la vergognosa partecipazione dell’Italia ai bombardamenti del 1999, il nostro paese sarebbe nuovamente coinvolto direttamente in scenari di guerra, con le relative conseguenze. Per opporci a tutto questo, per lavorare per la pace e contro la guerra, per continuare a lavorare per la convivenza e l’amicizia tra i popoli, lanciamo un appello/manifesto (sosyugoslavia@libero.it) come strumento positivo per una soluzione pacifica e negoziale del problema Kosovo Metohija e delle genti che lo hanno sempre abitato.

Enrico Vigna
(Forum Belgrado Italia e Associazione SOS Yugoslavia)

Enrico Vigna




«NOTIZIE, NON GOSSIP»

«Se la Rai ha aperto una sede in Africa, molto lo si deve alla mobilitazione del mondo missionario». Parola di Enzo Nucci, corrispondente Rai da Nairobi. Attivo da alcuni mesi, il suo ufficio, intitolato a Ilaria Alpi e Milan Hrovatin uccisi in Somalia nel 1994, verrà ufficialmente inaugurato di qui a qualche settimana. Riportiamo la notizia con una certa soddisfazione. I lettori infatti ricorderanno l’iniziativa «Notizie, non gossip», che le riviste missionarie, riunite nella Fesmi, lanciarono all’inizio del 2006, chiedendo un salto di qualità nell’informazione televisiva, in modo particolare di quella offerta dal servizio pubblico, i cui costi sono pagati anche dal canone dei cittadini. Molti firmarono il nostro appello e ci scrissero messaggi di incoraggiamento.
L’appello della Fesmi e gli incontri di alcuni direttori delle testate missionarie con i vertici Rai (prima Meocci, poi Cappon) un risultato significativo l’hanno dunque sortito. A dimostrazione che un impegno corale del mondo missionario e un sano lavoro di lobby e «pressing» sono preziosi. Ma, vinto il primo round, c’è ora da continuare la partita. La soddisfazione per un traguardo raggiunto non deve abbassare il livello di guardia. L’informazione – l’abbiamo detto e lo ripetiamo – è la prima forma di solidarietà. Perciò riteniamo che ora si debba insistere per alzare ulteriormente, nel pubblico italiano, il tasso di consapevolezza delle questioni inteazionali e, specificamente, il grado di conoscenza della realtà del Sud del mondo.
A poco servirebbe una sede in Kenya (così come le altre aperte di recente in India e Turchia) se poi l’approccio alle notizie e il taglio dei servizi rimanesse quello oggi predominante, tendenzialmente sbilanciato sui fatti negativi e clamorosi (guerre, eventi disastrosi…) e poco capace di cogliere i cambiamenti positivi, le novità all’orizzonte, il vissuto della gente.

In virtù dell’apertura di nuove «finestre sul mondo», ci sentiamo di chiedere alla Rai un giornalismo che sappia far parlare le persone, che metta in luce il positivo di un continente, l’Africa, che è molto diversa da quel ricettacolo di mali e problemi che spesso viene dipinto. Crediamo che un diverso racconto dell’Africa potrebbe contribuire ad abbattere troppi stereotipi e immagini stantie che ancora si registrano sugli immigrati africani (e non solo). Potrebbe inoltre sortire influssi sorprendentemente positivi sugli africani di casa ormai in Italia, che si sentirebbero finalmente visti in una luce più veritiera.
In questo senso, diamo il benvenuto all’iniziativa «Dimmi di più» che Medici senza Frontiere ha lanciato di recente per far sì che su crisi inteazionali e guerre l’informazione non si limiti a resoconti episodici e frammentari. A nostro giudizio, occorre andare ben oltre: c’è tutto un mondo – donne e uomini che vogliono essere protagonisti del loro domani, una società civile in crescita, culture e tradizioni ricchissime – che merita d’essere raccontato. Scriveva Missione Oggi in una lettera aperta a Enzo Nucci qualche mese fa: «Con te e la Rai a Nairobi l’Africa si fa più vicina: vogliamo credere che sarai capace di raccontarci non solo gli eventi di rilievo, ma anche un nuovo stile di vita, fatto di aggregazione sociale e una gran voglia di futuro».
Insomma: diteci di più sulle guerre, ma diteci anche qualcosa che non siano solo le guerre. Soprattutto ditecelo non a notte inoltrata, in spazi che assomigliano a oasi nel deserto dei palinsesti affollati di Grandi Fratelli e di Vallettopoli. A poco servirebbe una nuova sede Rai se non si traducesse in una piccola-grande occasione per osare un nuovo stile, cambiare mentalità. In una parola: per fare cultura.
È troppo chiedere che la direzione generale della Rai mantenga la sua promessa di un monitoraggio sui Tg e la loro attenzione al Sud del mondo? È troppo ipotizzare che in un futuro non lontano i Tg ospitino spazi fissi di approfondimento su temi e questioni inteazionali, come oggi fanno per motori o enogastronomia?
Come cittadini – prima che come rappresentanti di donne e uomini impegnati in nome del Vangelo nei diversi continenti a servizio delle persone di qualsiasi etnia e religione – siamo convinte e convinti che una Rai più attenta a quanto si muove nel Sud del mondo faccia il bene dei suoi utenti e, di riflesso, contribuisca a renderli un po’ di più, giorno per giorno, «cittadini del mondo».

Federazione Stampa Missionaria Italiana




Una morte in più o tante morti in meno?

Ufficialmente è stato stroncato da un infarto fulminante, conseguenza di una polmonite che già si stava trascinando da tempo. L’aggressione subita dieci giorni prima nella missione di Manizales (Colombia), dove da anni risiedeva, aveva avuto pesanti effetti collaterali sul suo già precario stato di salute. Le botte, lo spavento, le ore passate disteso nel freddo e nell’umidità della notte, legato e imbavagliato in attesa di soccorso hanno minato le poche energie rimaste. È morto così padre Mario Bianco, missionario della Consolata novantenne, cinque decadi in Colombia, dopo una precedente esperienza in Mozambico. Uomo schivo, silenzioso, scioglieva la lingua solo quando poteva raccontare qualcuna delle sue tante avventure. Quest’ultima, purtroppo, ha avuto poco tempo per diffonderla.

La morte di padre Mario, avvenuta lo scorso 12 febbraio, ha coinciso con l’omicidio di una turista genovese assaltata a scopo di rapina mentre era in compagnia del marito, anch’egli ferito. Questa volta il fatto è avvenuto a Cartagena de las Indias, sulla costa atlantica, uno dei centri turistici più belli e frequentati del paese sudamericano. Due eventi senza nessun collegamento fra di loro se non quello di riguardare entrambi cittadini italiani. Due morti la cui causa è da ricondurre alla micro-criminalità urbana,  in cui non c’entra il conflitto armato che da decenni insanguina il paese; nonostante, va detto, il confine fra le morti a causa del conflitto e quelle dovute alla «violenza ordinaria» sia molto labile. Eppure, le fonti governative del paese continuano a parlare di drastiche diminuzioni nel numero di omicidi. Il comandante della polizia colombiana, generale Jorge Daniel Castro, ha comunicato recentemente che nel 2006 si sono verificati nel paese 17.206 omicidi, 500 in meno dell’anno precedente. Un netto calo si è registrato anche nel numero di sequestri. Il merito di ciò viene attribuito alla politica di sicurezza democratica lanciata dal presidente Uribe  e al conseguente rafforzamento della forza militare. I dubbi riguardano  la reale entità di questa diminuzione e, soprattutto, la vera ragione che l’ha prodotta.

Già nel 2005, il «Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo» (Pnud) aveva pubblicato un interessante studio sulle ragioni di questo calo, notando come a una diminuzione del tasso di omicidi nelle grandi città corrispondesse un aumento degli stessi in comuni più piccoli, meno facili da sottoporre a rilevazione statistica. Inoltre, la diminuzione si deve anche a precise strategie dei vari gruppi armati. Merita ricordare che le Auc, i gruppi paramilitari di estrema destra, in fase di trattative con il governo per la loro smobilitazione, hanno proclamato, a partire dal 2003,  vari «cessate il fuoco» che, sebbene molte volte non rispettati, hanno effettivamente portato a una diminuzione dei morti assassinati.

L’analisi del Pnud evidenzia come la decrescita degli omicidi nelle grandi città si debba soprattutto a politiche sociali di sicurezza cittadina e partecipazione democratica. Strategie di convivenza, azioni preventive concordate con i cittadini, programmi educativi nei quartieri più a rischio hanno dato molti più frutti della politica di sicurezza democratica sponsorizzata con forza dal governo. Perché non esportare questi modelli in altre zone del paese?

Avendo ereditato dal grande fratello nordamericano armi e vocabolario, Uribe si trova ora nelle condizioni di doverli usare  e continua a testa bassa nella lotta «contro il terrorismo». La parola «sociale» suona stonata ai suoi orecchi e le molte Ong (nazionali e inteazionali) che operano sul territorio sono da sempre sulla sua agenda nera. Non è esattamente questa la pista che la Colombia dovrebbe percorrere se vuole veder diminuire ulteriormente casi di morte violenta come quelli che hanno coinvolto l’incolpevole padre Mario.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




L’Abbé Pierre e altri profeti inascoltati

Lungo l’Avenida Carlos Maria Ramires, una strada che taglia in due la periferia di Montevideo, nel cuore del barrio «La Teja», là dove le case in muratura lasciano intravedere misere catapecchie di legno e lamiera, sorge la parrocchia «Sagrada Familia». Negli anni ‘70-‘80 era affidata ai missionari Fidei donum di Novara. L’edificio religioso, sorto grazie alla genialità di un architetto squattrinato e alla povertà di mezzi del quartiere, era un po’ atipico rispetto alla tradizionale architettura montevideana: pensata per avere splendide vetrate colorate, la chiesa era costretta al recupero dei più umili vetri di uso domestico. Al di là della povertà di tale struttura, la parrocchia de La Teja divenne subito il punto di riferimento per tante persone schiacciate dalla situazione politica ed economica del piccolo paese sudamericano. L’ampia piazza antistante la chiesa era il punto di partenza dei vietatissimi cortei di protesta, che, snodandosi lungo tutta l’arteria principale, arrivano al cuore della città, sfidando repressione e violenza.
Grazie anche all’opera dei preti novaresi, la parrocchia diventò in breve tempo la base per due istituzioni di risonanza mondiale, che si inserirono in maniera formidabile nel tessuto sociale di quella gente: «Paz y Justicia», fondato dal premio Nobel argentino Adolfo Pérez Esquivel, e movimento Emmaus, fondato dal compianto Abbé Pierre. In breve tempo, le due realtà raccolsero un numero sempre crescente di simpatizzanti e aderenti. Paz y Justicia, con una capillare e intensiva azione di raccordo con moltissime persone, faceva passare l’ideale di un ritorno alla democrazia attraverso la lotta non violenta: una originalità di pensiero nel contesto delle dittature latinoamericane, che portò il suo fondatore a ricevere il premio Nobel per la Pace. L’azione creata dal gruppo Emmaus trascinò un numero sempre crescente di persone a coinvolgersi sul riutilizzo di beni e strumenti da rimodeare e riattivare, al fine di elevare le condizioni di vita della gente del quartiere. Queste attività materiali si intrecciarono in maniera splendida con tutto un lavoro di impegno per il futuro e di attenzione alle persone toccate nella loro carne dalla dittatura militare; anche nei periodi più duri, nella parrocchia della Teja brillava una fiammella di speranza.

I due carismatici fondatori erano di casa alla Teja. Esquivel fece visita più volte, grazie alla vicinanza geografica con l’Argentina; mentre le visite dell’Abbé Pierre furono più centellinate. Una sera, nei lontani anni ‘70, in un freddo inverno australe, queste due figure straordinarie, impegnate  a trecentosessanta gradi per la promozione dei diritti dell’uomo, per la giustizia e la pace, credenti dalla fede cristallina, conversando con gli amici novaresi e montevideani presenti, sottolinearono come il seme della speranza, gettato anche nel solco della dittatura più nera, alla lunga porta i suoi frutti.
Non si evidenzia a sufficienza cosa ha significato non solo la figura dell’Abbé Pierre, ma anche di Perez Esquivel, dom Helder Camara e tanti altri protagonisti della missione; soprattutto non si parlerà mai abbastanza di ciò che essi hanno saputo seminare e alimentare nelle zone più depresse del terzo mondo, nei cuori delle persone che vivevano situazioni disperate. In particolare, le comunità Emmaus non si limitarono a soccorrere il ferito giacente sulla strada, come il buon samaritano della parabola, ma crearono le condizioni perché coloro che venivano a contatto con il carisma dell’Abbé Pierre e di tanti altri profeti inascoltati e osteggiati sulle frontiere missionarie, diventassero a loro volta seminatori di speranza, operatori di giustizia e costruttori di pace: un processo che ha prodotto risultati incredibili.
Aver conosciuto persone di questa statura, aver goduto della loro stima e simpatia, averli a più riprese avuti come ospiti e testimoni nelle nostre chiese ci dà una consapevolezza maggiore nel prendere la fiaccola accesa da loro, per consegnarla alle giovani generazioni. Un impegno, alla luce della recente scomparsa dell’Abbé Pierre, da onorare con quella carica d’umanità che ha saputo trasmetterci.

Di Mario Bandera

Mario Bandera