Di viaggi e incontri… e anche di cresima e cani

Siamo un po’
tutti nomadi nel cuore. Emancipati dal vincolo dell’agricoltura di sussistenza
che ci legava indissolubilmente alla terra, abbiamo riscoperto quello spirito
nomade che fa parte del nostro Dna ancestrale. Che siano le uscite del fine
settimana, le vacanze estive o quelle invernali, sentiamo il bisogno di
muoverci, di uscire, di conoscere, di vedere: sempre più in là, sempre più
oltre. Per tantissimi invece muoversi non è una scelta, ma una necessità:
emigrare o morire. Interi popoli si muovono ancora oggi per questo. Per noi
Italiani è la fuga dei cervelli. Ma questo è vero non solo per noi: quanti
immigrati approdati sulle nostre coste hanno titoli universitari che non
possono investire nei loro paesi!

C’è invece chi si muove
per piacere e conoscenza. Un paio di secoli fa solo i ricchi potevano
permettersi il lusso di grandi viaggi, di esplorazioni avventurose. La gente
normale vi partecipava leggendone i libri. Così gli africani hanno conosciuto i
primi bianchi: esploratori, gente che andava in giro apparentemente senza una
meta precisa, wazungu appunto (quelli che vanno in giro), come dicono in
kiswahili, la lingua franca dell’Africa dell’Est. Oggi invece è turismo di
massa. Con un aereo si arriva agli antipodi in poche ore. Il mondo è alla
portata di tanti.

Quale incredibile
occasione di incontro, confronto e conoscenza, di creare nuove relazioni, di
aprire i propri orizzonti, di amare la mirabile varietà di facce della razza
umana, di incontrare persone vere. Eppure… quante occasioni perdute, quanta
superficialità, quanta fretta, quanti abusi e incomprensioni. Ci si incontra e
non ci si conosce; non ci si conosce e non ci si capisce; non ci si capisce e
non ci si ama. Dopo il viaggio restano i soliti stereotipi e le foto da
mostrare agli amici: io nel villaggio, io col leone, io col vestito afro, io
con le treccine a foggia indigena, io al mercato. Gli amici si annoiano e non è
cambiato niente.

Diventassero i nostri
viaggi occasione per conoscerci di più, quanti pregiudizi potrebbero cadere. Si
avrebbe il piacere di scoprire che siamo tutti «uomini» e non bestie strane o
alieni, nemici o minacce. Smetteremmo forse di parlare per slogan: «Gli
africani sono tutti…, gli albanesi, i romeni, i napoletani, i romani…». Gli
africani? Quali africani? Quelli del Marocco o del Sudafrica? I pastori Maasai
o gli agricoltori Kikuyu? I Pigmei dell’Ituri o i Boscimani del Botswana? Noi
stessi non amiamo essere classificati con generalizzazioni, soprattutto se
negative. Non vale lo stesso per gli altri? Verrà il giorno in cui parlando dei
nostri vicini potremo dire «il mio amico Li», invece de «i cinesi»; «il signor
Ali» invece de «i marocchini», «la mia vicina Klodiana» invece de «gli Albanesi»?
Sì, può venire. Basterebbe cominciare da cose semplici: farci un amico nuovo
ogni volta che andiamo in un posto nuovo e scambiarci qualche buona ricetta;
imparare una breve preghiera in lingua locale e magari andare a messa insieme
nella parrocchia del posto; conoscere un po’ della storia e cultura. Forse
basterebbero solo fantasia e cuore.

 —————–

Stavo
scrivendo queste poche righe, quando una suora è arrivata trafelata con un
bigliettino in mano: «In occasione della mia S. Cresima ho voluto fare un gesto
di amore donando al posto della bomboniera, pappa e cure ai miei amici a 4
zampe». «Non ho dormito tutta la notte», mi ha detto. «Come è possibile dopo
cinque anni di catechesi? Cosa hanno capito? E siamo in un quartiere dove oltre
un terzo della popolazione è a rischio di sfratto, ma con tantissimi cani e ben
curati. Abbiamo parlato con loro di servizio, di carità, di accoglienza, di
condivisione. E mi fanno la “cresima per i cani”! Devi scrivere qualcosa».

Cara sorella, che scrivo?
Lo sa che non è politicamente corretto dire che prima vengono le persone e poi
i cani e che se i cani stanno male è perché gli uomini stanno peggio. Forse
potrei solo constatare che è meno impegnativo risolvere i problemi dei cani che
quelli degli uomini.

Papa Francesco ha detto (il
5/6/2013
) che c’è bisogno di una ecologia umana, perché «la persona umana è
oggi in pericolo, … sacrificata agli idoli del profitto e del consumo: è la “cultura
dello scarto”». Così continuiamo a scrivere che non si tratta di fare una
scelta tra gli uomini e i cani, ma di amare «e l’uomo e il cane»!

Gigi Anataloni




GRAZIE

È una parola che da sola vale più di mille altre
scribacchiate a fatica. «Grazie» riassume tutto quest’anno vissuto insieme, e
anche il dono del Natale che ci prepariamo a rivivere e il nuovo anno che
aspettiamo tra timori e speranze. «Grazie». Una parola a volte così difficile
da dire. Perché detta col cuore richiede il rifiuto del «tutto (mi) è dovuto e
garantito» e l’apertura giorniosa al dono e alla gratuità. Allora…

Grazie per padre
Benedetto Bellesi che è arrivato alla méta del suo lungo cammino e per gli
altri 17 missionari e altrettante missionarie della nostra famiglia che negli
ultimi dieci mesi (gennaio – ottobre) sono stati accolti al Grande Banchetto di
tutti i popoli.

Grazie per tutti i missionari: preti, fratelli, suore e
laici, che in umiltà e fedeltà si mescolano come lievito nella pasta
dell’umanità per far emergere i segni del Regno. 

 Grazie a voi lettori,
parenti, amici e benefattori, sostenitori, membri di Onlus e Ong amiche, perché
anche in questo anno difficile ci siete stati molto vicini nonostante gli
obiettivi problemi economici, sociali e politici che tutti stiamo vivendo.
Grazie perché insieme a noi credete ancora che è possibile un mondo di condivisione,
di rispetto, di riconciliazione e pace, un mondo più giusto dove la vita sia
accolta, amata e rispettata, dove i popoli – nella loro diversità – possano
cantare insieme la meravigliosa sinfonia dell’amore di Dio che è Padre di tutti
e ha cura di tutti e di ognuno.

Grazie per il dono del Natale che ci offre la possibilità di
riscoprire il volto umano dell’amore divino. Un avvenimento che non solo ci
parla dell’amore «senza se e senza ma» di Dio, ma ci stimola ad «amare da Dio»
gratuitamente e liberamente, accogliendo coloro con cui Gesù stesso si è più
identificato: «poveri, orfani, vedove e stranieri».

Grazie anche per questi tempi difficili, per questa crisi
che ci offre un’occasione insperata – anche se dura – per ripensare il nostro
stile di vita. Non per tornare alla povertà di una volta, ma per recuperare
quei valori di umanità che abbiamo buttato via assieme alla povertà: sobrietà,
condivisione, semplicità, risparmio, tempo per stare insieme e far famiglia,
valorizzazione di risorse locali, cura dell’ambiente…

Grazie per il nuovo anno che viene, un nuovo dono della
pazienza di Dio, amante della vita, che non si è ancora stancato di noi e ci dà
altro tempo per crescere, capire e tornare a lui tornando agli altri,
raccogliendo soprattutto la sfida della giustizia e della pace, del perdono e
della riconciliazione nel mondo.

Da tutti i missionari e le missionarie della Consolata:
grazie a voi. Non vi mandiamo regali, non vi promettiamo favori. Vi assicuriamo
solo il nostro impegno a essere quello che il nostro Fondatore, il beato
Giuseppe Allamano, voleva che noi fossimo: dei canali di amore verso i più
poveri, più lontani, oppressi e dimenticati, e delle conche, non pozzanghere,
ma laghi, dove l’amore di Dio possa riversarsi in abbondanza per tutti. Pregate
per noi. Mentre chiediamo con insistenza il riconoscimento della santità del
beato Allamano, vorremmo davvero prima di tutto imitarlo nell’amore per Dio e
il prossimo.

Buon Natale e auguri per un 2014 benedetto.

Gigi Anataloni




Cultura di morte

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Qualche tempo fa il telegiornale ha presentato l’ultima tendenza in fatto di sballo giovanile: «L’alcolizzazione degli occhi». Non so se si chiami così. Lo sballo è assicurato con un processo molto semplice: ti anneghi gli occhi con un bagno di liquore forte. Il dolore è lancinante e il risultato tremendo. Risultati aggiuntivi: congiuntiviti, problemi oculari vari, danneggiamento della cornea, e via dicendo. Nonostante l’ovvia pericolosità dell’operazione, gli adepti aumentano ogni giorno, anche grazie ai folli video su youtube e ai post sui social network.

In testa mi si sono accavallate allora tante altre immagini: donne vittime della violenza e disagio maschile; ragazzi giovanissimi già alcolizzati; donne schiavizzate costrette a vendersi lungo le strade o nei bordelli più o meno clandestini; tatuaggi a gogo, piercing estremi e mode dark; giochi sempre più rischiosi, legittimati come nuovi sport; armi in regalo a bimbi piccolissimi; bambini nel ventre di miniere o incatenati a telai invece di essere sui banchi di scuola; contadini cacciati dalle loro terre accaparrate da multinazionali o altre nazioni; lavoratori lasciati a casa; fabbriche chiuse; giovani sfruttati; giochi di borsa che dissanguano nazioni... una lunghissima lista di morte con cui tutti abbiamo a che fare ogni giorno, olocausto al dio denaro, ricchezza e potere, l’antico Mammona che non demorde mai. Un dio che ha niente da spartire con il Dio di Gesù Cristo fatto di misericordia, giustizia e pace, paladino di uguaglianza, accoglienza e rispetto per ogni uomo e tenerezza soprattutto per i più piccoli e poveri.

La lista, forzatamente parziale, ben evidenzia come questa cultura di morte abbia molte facce e si adatti alla persone più diverse. Sta cambiando le nostre leggi, trasformando le tradizioni, rivoluzionando la cultura, delegittimando la pietà, la compassione, la sofferenza, l’onesto lavoro, la cultura della solidarietà, la tolleranza e l’accoglienza dell’«altro». Rende normale quello che era considerato «non normale» dalla stragrande maggioranza delle persone e dei popoli. Proclama la libertà di pensiero, ma è intollerante con chi non la pensa alla stessa maniera, soprattutto in termini di vita, famiglia e sessualità. Appiattisce tutto e tutti e rende il «tutti fanno così» la suprema regola di vita. Si alimenta di slogan e spot, trasforma le tragedie in spettacolo e lo spettacolo in realtà. Viaggia a suon di sondaggi e si adatta al mutare delle emozioni. Si alimenta dei riti di fine settimana - mare, montagna, centri commerciali, avvenimenti sportivi - che massificano l’individuo e rendono noiose le vere celebrazioni, come la messa domenicale e il pranzo in famiglia, che invece costruiscono comunità e offrono spazi di ascolto e interiorizzazione.

Mi rendo conto che ci vorrebbe molto più delle frasi provocatorie di un editoriale per decodificare l’enorme montagna di falsità che ci circonda e vuole rendere superfluo ogni riferimento a Dio, privata l’esperienza spirituale e folcloristica la religione. Una piccolezza mi ha fatto pensare molto: la notte di Pasqua, nel buio della chiesa, il cero pasquale era ben visibile a tutti, mentre di giorno, alla luce del sole, quella fiammella era quasi invisibile. Mi sono chiesto perché mai la Chiesa abbia affidato a un simbolo così debole una valenza così forte: quella di rappresentare la dirompente vittoria della Vita sulla morte, della Luce sulle tenebre, del perdono sulla vendetta.

Ho pensato che l’annuncio del Vangelo non si impone mai col rigore delle leggi, il potere suasivo della pubblicità, la forza delle armi, la seduzione del denaro, l’ebbrezza del potere, la fragorosità del tuono. è invece una piccola luce, invisibile nell’abbagliante mare dell’esteriorità, ma chiarissima nel silenzio dell’ascolto interiore, nell’amore fatto servizio, nella fedeltà senza ricompense, nella gratuità del volontariato, nel «bene fatto bene e senza rumore». Un annuncio affidato alla fragilità di uomini che credono e, pur nella loro debolezza, rendono credibile il Vangelo nel quotidiano. Scriveva Rosario Levantino, citato da Don Ciotti su La Stampa del 9/5/2013: «Non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo credibili».

E' questo il segreto della Missione: uomini e donne credenti che danno «ragione della speranza» (Luce) che è in loro pagando di persona sia ai «confini del mondo» che nell’anonimato del vissuto quotidiano, «interferendo» («il parlar chiaro che è contrario all’ipocrisia», dice Don Ciotti) nella cultura di morte con scelte di vita e gratuità.

Gigi Anataloni




Forte Tenerezza

Nell’editoriale dello scorso mese esprimevo l’aspettativa
che lo Spirito Santo ci sorprendesse con un papa inedito, secondo il cuore di
Cristo. Lo Spirito ci ha ascoltati. Anzi, ha aggiunto sorpresa a sorpresa: ci
ha dato il papa della tenerezza. E questo è davvero una specie di nemesi
storica. Papa Francesco viene da un continente dove il Vangelo, soprattutto nei
primi secoli, è stato imposto più con la forza delle armi che con la
testimonianza dell’amore e ora, proprio quel continente dona alla Chiesa
universale un testimone della tenerezza di Dio. Mi sembra bellissimo.

Voglia di tenerezza. Era il titolo di un film del 1983 di J. L. Brooks.
Abbiamo tutti bisogno di tenerezza e misericordia. Questo papa ci sta facendo
capire la bellezza e la forza della tenerezza di Dio: un padre che sente
come una madre (vedi la parabola del «padre misericordioso» in Luca). E questo
mi riporta alla mente ricordi lontani. Forse maggio 1955. Ho appena quattro
anni. Mio padre è in ospedale da mesi. Una sera ritorno a casa dall’asilo. La
strada in salita è inondata dal sole al tramonto. All’improvviso dal grande
portone della cascina mezzadrile esce un uomo, nera siluette nel sole
accecante. è lui! Corro,
lasciando indietro i cuginetti. «Ubà!» (babbo). E sono nelle sue braccia. Gioia
indicibile. Il ricordo di una tenerezza che non mi lascia più. Spalle forti da
contadino, braccia muscolose come un pugile, mani callose che potevano
immobilizzare un toro per le coa ma si rifiutavano di dare una pur dovuta
sculacciata per timore di far troppo male. La forza e la tenerezza di un padre.

Papa Francesco con le
sue parole e la sua gestualità riporta la tenerezza nel cuore della missione
della Chiesa. La gioia raggiante sul volto di un ragazzo disabile offerto
all’abbraccio del papa in Piazza san Pietro parla della tenerezza di Dio mille
volte di più di tanti dotti documenti o liturgie sontuose. E davvero il mondo
di oggi ha tanta «voglia di tenerezza», tenerezza che è mettere al centro la
persona, è offrire attenzione all’altro, aiuto al povero, accoglienza allo
straniero, servizio all’ammalato, accompagnamento nel recupero al carcerato,
compagnia e aiuto all’anziano, protezione al bambino e molto altro, senza
limiti alla fantasia e alla creatività.

Papa Francesco sta aiutando tutta la Chiesa a ricuperare
questa dimensione divina dell’amore, infangata dalle tristi storie di pedofilia
che hanno offuscato quelle di dedizione e servizio di milioni di cristiani e
tantissimi sacerdoti, religiosi e missionari. La tenerezza di Madre Teresa, di
Giovanni XXIII, di Padre Pio, di Annalena Tonelli e di tantissimi altri, donne
e uomini, che hanno anche pagato con la vita il loro amore per gli altri, ha
aiutato un gran numero di persone a scoprire il vero amore di Dio, tenero e
forte, misericordioso ed esigente.

In questi anni si è prodotto
molto nel nostro mondo cristiano: documenti profondi, catechismi rinnovati,
traduzioni nuovissime della Bibbia, splendide riviste, pagine web, produzioni
cinematografiche e televisive; tutto materiale di altissima qualità. Con un
difetto forse: si è puntato troppo alla mente e poco al cuore. La gestualità
inedita e informale di papa Francesco riporta al centro il cuore e la persona.
La Chiesa missionaria sa bene quanto questo sia importante. è la testimonianza dell’amore vissuto
che conquista i cuori. Predicazione, catechesi e liturgia vengono dopo. Questo è
vero negli angoli più remoti del mondo come nelle parrocchie della nostra
Italia, dove la carenza cronica di preti rischia di ridurre gli stessi a
diventare funzionari del sacro e non a essere pastori che abbiano addosso
l’odore delle pecore.

Negli anni Sessanta
alcune delle mie sorelle lavoravano come «serve» in città. Toando a casa per
le feste o le ferie, si lamentavano con nostro padre perché puzzava di stalla,
dove conosceva ogni mucca per nome e loro conoscevano lui, anche da distante,
tanto che bastava il suono dei suoi passi per farle quietare. Oggi, invece,
nelle stalle ci sono troppe mucche, ognuna è un numero controllato a distanza,
schedato in un computer, e il «pastore» fa la doccia e non puzza più di vacca.
Almeno, così è nel nostro mondo. Ma là, alla «fine del mondo», da dove viene
papa Francesco, non è così. Il «pastore» conosce ancora le sue mucche/pecore
per nome, ne condivide l’odore, ne conosce i bisogni, le guida ancora nella ricerca
di pascoli erbosi e di acque fresche.

Grazie papa Francesco
per aver riportato la tenerezza di Dio al centro della vita e della missione
della Chiesa.

Gigi Anataloni




L’Attesa

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Aspettare. I primi giorni di marzo in cui scrivo sono i giorni dell’attesa: l’attesa di un nuovo papa, l’attesa del nuovo governo, l’attesa che in Kenya le elezioni si concludano senza un nuovo bagno di sangue. Ero ancora là, a fine 2007, quando in poche ore il paese fu travolto da un’ondata di violenza politica organizzata senza precedenti. Le notti illuminate dai bagliori rossastri dei roghi degli slum di Kibera, i bruschi risvegli ai colpi di arma da fuoco, gli incendi di chiese, le informazioni convulse, l’odio che come peste stava contagiando tutti, preti compresi, e insieme le scarne notizie di speranza, la resistenza dei pacifici, la solidarietà discreta di chi dava rifugio e salvezza a vicini di tribù «nemiche», e l’incessante preghiera di tantissimi, come quelli che si trovavano nella cappella dell’adorazione del Santuario della Consolata a Nairobi che mai chiuse le sue porte, anche nelle notti di grande paura… E le lacrime per le persone amate, di ogni tribù, coinvolte nella furia degli eventi. E l’impotenza di fronte a tanta pazzia. Sono ricordi che non mi lasciano. Come il grido-promessa: «Mai più!».

Attendiamo. Anche se vorrei poter scrivere subito che in Italia abbiamo un nuovo governo di persone che non fanno giochi di potere, ma davvero si curano del bene comune e della pace. E che lo Spirito Santo si è preso gioco delle mille elucubrazioni dei media e ci ha dato un papa a sorpresa, uno secondo il cuore di Cristo. E, infine, che in Kenya la gente ha dato una lezione di democrazia e partecipazione ai suoi politici arroganti e maneggioni e ha fatto una scelta di pace e stabilità.

L’attesa è speranza. L’attesa è fiducia nella parte migliore di ogni uomo. E allora il grido-promessa di cinque anni fa, «Mai più!», oggi diventa una preghiera. Mai più politici corrotti e corruttori. Mai più prelati che ragionano in termini di potere e di carriera. Mai più violenza per sopraffare gli altri, per vincere ad ogni costo, per imporre le proprie idee, per difendere i propri interessi. Mai più la vergogna di essere lo zimbello del mondo (basta provare a vivere all’estero per un po’!) perché italiano. Mai più una politica miope che costruisce barriere, che prende e non dà, che ragiona in termini di forza e armi invece che di giustizia, corresponsabilità e pace.

Se non credessimo in un mondo diverso, se non avessimo fiducia nell’uomo, in ogni uomo, se non amassimo questa nostra terra e gli italiani, con i quali in tutti questi anni abbiamo fatto e vissuto cose meravigliose e condiviso un grande cammino, dovremmo chiudere immediatamente questa rivista, che invece è una voce di speranza, di utopia, di universalità.

Non so quali saranno le sorprese del primo aprile, primo giorno di vita ufficiale di questo numero della rivista che è nelle vostre mani. Sarà il primo giorno dopo Pasqua, la festa di cui ogni nostra speranza e ogni nostra attesa si alimentano. Noi siamo fiduciosi e scommettiamo sul futuro. Per questo continuiamo questa pubblicazione con passione e cura, rinnoviamo il nostro sito e investiamo nell’ambizioso progetto dello sfogliabile MC che radicandosi nel passato alimenta il futuro (il progetto cioè di mettere in rete tutte le annate della rivista in pdf da sfogliare, ricercare, scaricare, stampare e molto di più).

Qualcuno la chiama pazzia: scommettere sulla carta e investire sul web. Sì, proprio una scommessa, anche con quelli che ritenendo la rivista cartacea causa di degradazione dell’ambiente e fonte di inquinamento, preferirebbero che noi sparissimo dalla circolazione. Scommessa con chi riceve la rivista (magari ereditata dalla nonna) e la butta automaticamente nel cestino senza nemmeno aprirla. Scommessa con i figli e i nipoti di tanti nostri amici e benefattori che ritengono un passatempo inutile e alienante quello che invece ha riempito il cuore dei loro cari. Scommessa con chi crede che il mondo sia fatto solo di Nord e non si accorge che il Nord non ha senso senza le splendide albe dell’Est, il calore del Sud e gli infuocati tramonti dell’Ovest. Scommessa che facciamo insieme a chi usa la rete non solo per divertirsi o vivere l’illusione di amicizie, ma soprattutto per trovare informazione sostanziosa, documentata, vissuta, libera e aperta a nuovi orizzonti di frateità e impegno.

Non ci aspettiamo miracoli. Per questo viviamo un’attesa operosa, dando ragione della nostra Speranza.

Gigi Anataloni




BENEFICENZA E CARITÀ

Incontrare dei missionari (rari, per grazia di Dio) che, pur avendo
dedicato la loro vita all’Africa fino alla consumazione di tutte le loro forze,
rivelano atteggiamenti di profondo razzismo verso gli africani, mi ha sempre
causato un disagio profondo fin dai tempi in cui ero un giovane studente di
teologia. Non è certo la norma, e non voglio né giudicare né scandalizzare
alcuno, ma proprio non sono mai riuscito a capire come un missionario possa
fare tanto del bene agli altri senza amarli, mantenendo anzi atteggiamenti di
superiorità e quasi di disprezzo. Per «amare gli altri» intendo qui accettarli
e trattarli come uguali a sé, avee stima per quel che sono, credere in loro,
rispettarli anche nella loro diversità.

Il caso di quei
missionari è emblematico. Succede infatti, e più spesso di quanto immaginiamo,
che si aiutino gli altri e si faccia beneficenza e volontariato anche a prezzo
di indicibili sacrifici personali, ma senza mai far scattare quell’extra che è
unico del cristiano: l’accettazione totale dell’altro come fratello o sorella,
anzi di più, come Cristo stesso che mi visita. Finché l’altro rimane “inferiore”
a me, tutto va bene. Non faccio esempi, perché farli è fin troppo facile ma
potrebbe essere fuorviante.

Il dramma, anche di tanti
cristiani, è quello di fare delle opere di bene per obbligo o per abitudine,
come l’elemosina in chiesa. Oppure per commozione. Non c’è niente che faccia
aprire le borse come l’immagine di un bimbo che soffre. Guardate negli occhi la
bimba della copertina, col suo abitino bello arrivato da chissà dove attraverso
il mercato dei vestiti usati, e il fagottino del fratellino addormentato (o
malato) in braccio. Bisogna far qualcosa! …

E qualcosa si fa, anche
tanto. Il volontariato e la solidarietà sono due grandi elementi di speranza in
questa nostra Italia. Però poi si continua a mantenere un atteggiamento
razzista verso gli extracomunitari, a essere pieni di pregiudizi verso quelli
del Sud, a sostenere amministrazioni che discriminano i rom, a votare per un
partito xenofobo, a sostenere l’aborto e il controllo (anzi, più politicamente
corretto, la «pianificazione») delle nascite, ad avere un atteggiamento irresponsabile
verso l’ambiente, e amenità simili… E tutto sembra perfettamente normale.

Ma per un cristiano questo normale non è. Per lui, umanitarismo,
solidarietà, beneficenza, elemosina, volontariato, e quanto altro si voglia
includere, hanno la loro sintesi e radice nella parola chiave «carità», che a
sua volta si coniuga con giustizia e frateità. Invece succede che, come dice
Benedetto XVI nel messaggio per la Quaresima 2013, talvolta «si tende a
circoscrivere il termine “carità” alla solidarietà o al semplice aiuto
umanitario». è lo svilimento – da
noi stessi inconsciamente favorito – di una Parola che invece ha una portata
rivoluzionaria. Ci si accontenta del «fare la carità», invece di vivere nella
Carità, con la Carità e per la Carità, imitando, cioè, Gesù stesso.

Ma la Carità, continua il
messaggio, è «un processo che rimane continuamente in cammino: l’amore non è
mai “concluso” e completato. Da [esso] deriva per tutti i cristiani […] la
necessità della fede, di quell’incontro con Dio in Cristo che susciti in loro
l’amore e apra il loro animo all’altro, così che per loro l’amore del prossimo
non sia più un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una
conseguenza derivante dalla loro fede che diventa operante nell’amore. Il
cristiano è una persona conquistata dall’amore di Cristo e perciò, mosso da
questo amore – caritas Christi urget nos (2 Cor 5,14) -, è aperto in
modo profondo e concreto all’amore per il prossimo». «Tutto parte dall’umile
accoglienza della fede (il sapersi amati da Dio), ma deve giungere alla verità
della carità (il saper amare Dio e il prossimo), che rimane per sempre, come compimento
di tutte le virtù (cfr 1 Cor 13,13)». «Carissimi
fratelli e sorelle – conclude il Papa -, in questo tempo di Quaresima, in cui
ci prepariamo a celebrare l’evento della Croce e della Risurrezione, nel quale
l’Amore di Dio ha redento il mondo e illuminato la storia, auguro a tutti voi
di vivere questo tempo prezioso ravvivando la fede in Gesù Cristo, per entrare
nel suo stesso circuito di amore verso il Padre e verso ogni fratello e sorella
che incontriamo nella nostra vita».

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Gigi Anataloni




COSTRUTTORI DI PACE

Mi sarebbe tanto piaciuto poter cominciare questa pagina con una bella citazione del messaggio del Papa per la Giornata Mondiale della Pace 2013 (che viene ben ricordato in Amico), ma non è stato possibile perché il testo ufficiale viene pubblicato mentre noi siamo già in stampa. Questo però non impedisce di parlare di pace. Anzi, se ne deve parlare, scrivere, discutere e si deve agire sempre più, senza aspettare la benedizione dei discorsi ufficiali.
I costruttori di pace hanno la vita dura. Lo scoraggiamento è sempre alle porte, perché sembra che la natura umana voglia la pace solo a parole, mentre nei fatti investe più facilmente le sue energie nella «guerra». Ho visto lo sconforto e la delusione sulla faccia e nel cuore del vescovo di Maralal, mons. Virgilio Pante, lo scorso novembre. Se c’è una persona che ha investito tutte le sue energie per la pace è proprio lui (vedi MC 12/2012, p. 67). Da quando è vescovo, in undici anni, ha sempre lavorato, dialogato, viaggiato, sudato, danzato, bevuto tè a fiumi, mangiato carne attorno al fuoco durante incontri interminabili con anziani e giovani, ha pregato, celebrato, implorato, è stato pellegrino e nomade, è sceso nelle valli e salito sulle cime dei monti… per far crescere la pace nella sua martoriata diocesi dove, dal 1996, sembrano inutili tutti gli sforzi. Era il 13 novembre, quando una notizia, che ha appena sfiorato i nostri media, l’ha raggiunto a Torino dove si trovava per motivi di salute: ancora morti a Baragoi, oltre 40 soldati uccisi in un’imboscata dai razziatori di bestiame nella Suguta Valley, la caldissima e inospitale valle della morte. Quello di monsignore era lo stesso scoraggiamento che ha fatto rimanere senza parole i missionari che lavorano in quell’area e il cornordinatore dei programmi di riconciliazione e pace della diocesi: anni di lavoro paziente andati in fumo per un’operazione di polizia istigata da politicanti arrivisti e male organizzata da comandanti incompetenti. Il tutto ufficialmente per recuperare 480 vacche rubate dagli «altri». Non è stata la paura a zittire i missionari, ma la durezza dei cuori e l’assurdità dei giochi di potere che usano la gente spietatamente mimetizzando il tutto dietro belle parole. Risultati ottenuti: oltre 60 morti, villaggi abbandonati, fame e insicurezza, decadenza di strutture sociali e statali, aumento dell’odio tra le comunità, gente in fuga a riempire le già congestionate periferie di Maralal e Isiolo, rifugi insicuri di tanti disperati.

Occorre ricominciare da capo. Come deve ricominciare, dopo un ennesimo disastroso flash flood, quell’altro grande costruttore di pace che è fratel Argese, l’uomo che per garantire quel bene indispensabile che è l’acqua, a ottant’anni, continua a lottare con pazienza e tenacia contro avversità naturali e avidità e imbrogli umani (vedi pag. 29).
Tentati dallo scoraggiamento, ma senza mollare mai. Uomini e donne che in ogni parte del mondo sono segno, strumento e fermento di pace. Uomini e donne che, innamorati di Cristo, lo amano nei più abbandonati, schiavizzati e oppressi del mondo, siano essi i pigmei a rischio sfratto per la semplice colpa di trovarsi su terre ricchissime di minerali pregiati, o gli indios difensori di un modo di vivere alternativo, oppure le minoranze etniche e religiose schiacciate dai fondamentalismi e dai giochi di potere dei grandi; si tratti di bambini condannati a non nascere, di donne vittime della tratta per l’insaziabile mercato del sesso o di disperati che emigrano per ragioni politiche ed economiche, o di chiunque intralci progetti megaeconomici: città turistiche, dighe, centrali, agribusiness e bioenergia, fabbriche sottocosto che dir si voglia. Sono questi uomini e donne che non cercano premi e riconoscimenti, ma che aborriscono la logica degli F-35, il proliferare delle armi, il ricatto dei mercanti di morte, i tagli che si accaniscono su chi ha già meno del necessario, la crescita economica che moltiplica gli sfruttati, l’uso diseguale delle risorse.
Uomini e donne che sanno guardare avanti, con un’inguaribile fiducia nell’uomo, proprio perché hanno fede nel crocefisso e risorto Signore della Pace. Imitandolo, con la loro testimonianza, annunciano: «Stiamo in piedi, alziamo la testa, perché la nostra liberazione è vicina» (cf. Lc 21,28). Beati voi quando vi perseguiteranno.

Gigi Anataloni




E dagli alla Chiesa

Ai lettori

Scrivo queste righe ai primi di giugno, mentre il terremoto in Emilia e dintorni ancora impazza occupando il primo posto nei notiziari e pagine di giornale, tra molta verità e tanta esagerazione. Su La Stampa ho letto (finalmente) l’invito di un giornalista, Michele Brambilla, ad attenersi ai fatti e alla verità. «Basta esagerazioni. Atteniamoci ai fatti. Sono già abbastanza gravi che non c’è bisogno di metterci il carico». Voi mi state leggendo circa un mese dopo. Per allora (lo spero proprio!) la grande voglia di vivere della gente delle zone del terremoto, tra cui abbiamo tantissimi affezionati amici, benefattori e sostenitori delle nostre missioni, avrà avuto la meglio sulla paura e i tremori della terra. Allora, forse, le notizie non saranno più sul disastro ma sulla ricostruzione e la grande dignità e voglia di riscatto di questi nostri fratelli e sorelle. Forse i media avranno perso interesse per le case crollate, i monumenti polverizzati, le formaggerie sventrate e si saranno già buttati su qualche altra voluttuosa notizia.
Intanto, come da copione, un’altra notizia fa da spalla a quella del terremoto: la saga-thriller degli scandali del Vaticano o della Chiesa, dove sulla base di poca verità, il gossip si spreca e si lancia verso vette insuperabili di speculazioni gratuite.
Qui abuso della vostra pazienza per dire che sono stufo della grossolanità dell’informazione che passa in questi giorni, dell’identificazione del Vaticano con la Chiesa (quella con la «C» maiuscola), del tirare ad indovinare informazioni che non ci sono, del vedere il complotto a tutti i costi, del far passare come legittima informazione un libraccio di documenti – di dubbio interesse pubblico – ottenuti in maniera fraudolenta violando un mucchio di leggi ma soprattutto il rispetto per le persone e la giustizia. Lo scrivo: non sono un entusiasta del «sistema vaticano» che spesso mi sembra così distante dalla vita reale della Chiesa. E amo molto questo Papa. Mi guarderei bene, però, dal dire e scrivere che quel che succede in Vaticano è indice della crisi di una Chiesa corrotta e corruttrice, e dall’usare i termini Vaticano e Chiesa come sinonimi.
Grazie a Dio conosco una Chiesa che è ben diversa da quella dipinta dai giornali. L’ho incontrata a Camp Garba, il primo gennaio di quest’anno, celebrando l’eucarestia nel povero asilo di Kiwanja con tanti che avevano perso tutto a causa della violenza. La vedo nella comunità di Toribio, in Colombia, che pian piano ricostruisce la sua parrocchia devastata da una bomba che sa più di narcotraffico che di rivoluzione. È Chiesa in Asha Bibi, la semplice donna cristiana condannata a morte in Pakistan sotto la pretestuosa accusa di blasfemia. È Chiesa in don Ivan, che muore per salvare la sua bandiera, quella statua della Madonna così cara alla sua comunità parrocchiale. È negli occhi limpidi e giorniosi di Sandra che ho confessato pochi giorni fa prima della cresima. È nello sguardo di S&V mentre si dicono di sì per tutta la vita. È nella determinata serenità di Anna che, sapendo di avere pochissimo da vivere, con suo marito prepara in anticipo il suo funerale perché sia una festa e non un mortorio. È nei giovani che si sono incontrati a Madrid con Benedetto XVI e le famiglie che con lui a Milano hanno celebrato la centralità di Gesù nella famiglia di oggi. È quella che nel nord della Nigeria vive sotto le bombe e le minacce. È nel vescovo Pante che in moto percorre le piste della sua vasta diocesi portando riconciliazione tra le tribù. È la Chiesa che celebra l’eucaristia danzando dentro povere capanne di fango e paglia o sotto grandi alberi, più numerosa certamente di quella che frequenta le grandi cattedrali-museo. È la Chiesa viva, fatta di uomini e donne, pur peccatori, che vivono con semplicità e senza ostentazione in questo difficile mondo, pagando di persona, testimoni veri della risurrezione di Gesù.
È questa la Chiesa che amo, di cui il papa è pastore nel nome di Cristo. Di questa Chiesa sono orgoglioso e con questa Chiesa prego perché chi sbaglia si converta, chi comanda lo faccia come colui che serve, chi ha peccato accolga il perdono e diventi capace di ricominciare, con umiltà, anche in Vaticano. Perché quando un cristiano pecca o fa male, che sia io o uno disperso nella foresta o nei meandri dei palazzi del potere, tutti ne soffriamo, come in una famiglia.
Perché siamo Chiesa.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Cavalli, cammelli e uomini

Qualche tempo fa una notizia ha occupato gran parte di un telegiornale delle 20: alcuni cavalli
stavano morendo di fame perché il loro padrone era sull’orlo del fallimento e non ce
la faceva più a nutrirli. Il lungo servizio informava sulla salute dei cavalli, la mobilitazione
delle istituzioni, le proteste degli animalisti e la gara di generosità dei volontari per salvare
i nobili quadrupedi. Mi aspettavo due parole sulla condizione del povero contadino indebitato
e disperato… niente. Che forse valga meno dei suoi cavalli?
Come figlio di contadini e missionario tra i pastori nomadi, so bene che normalmente un pastore
(ricordate il «buon pastore» del Vangelo?) fa di tutto per evitare che le sue bestie soffrano. Piuttosto
patisce la fame lui, ma le bestie no. Ho davanti agli occhi le immagini di cammelli scheletriti
e cani pelle e ossa nelle zone aride del nord del Kenya. Quando si incontrano animali in quello
stato, bisogna aspettarsi i loro padroni in condizioni ancora peggiori!
Il primo maggio mi è arrivata dal Kenya una documentazione drammatica su Camp Garba. Ricordate
che sul numero di marzo scorso avevo scritto di quella missione e concluso che «questo
2012 sarà un anno difficilissimo con un crescendo di violenza» (MC 3/2012, p. 13)? Purtroppo ci
ho azzeccato! Agli inizi di maggio – mentre scrivo – ci sono oltre 3.000 persone rese «profughe a
casa loro» e accampate nella missione, vicino a scuole-cappelle o fuggite nella foresta. Il tutto
perché i «soliti» pastori sono arrivati con migliaia di cammelli che affamati, hanno esercitato il
loro diritto costituzionale a sfamarsi pascolando nei campicelli piantati da chi viveva sul posto
mentre i loro padroni hanno devastato scuole, vandalizzato chiesette, bruciato case, ammazzato
persone che aveano il torto di occupare quelli che sono i «pascoli ancestrali»… il tutto nell’indifferenza
delle autorità. D’altra parte – sostengono le autorità locali – la costituzione del paese garantisce
ad ogni cittadino libertà di movimento in tutta la nazione. Che la stessa costituzione garantisca
anche il diritto di residenza e proprietà a chi già vive e coltiva in un certo luogo, è un corollario
secondario. Se poi si considera che a proposito di quelle aree si parla di petrolio e di
enormi investimenti turistici, si capisce facilmente perchè i poveracci non facciano notizia, anzi,
prima si tolgono dai piedi meglio è per tutti.
Scusate il tono un po’ sarcastico, ma cosa resta da fare ai missionari che in loco vedono il loro
«gregge» disperso, ucciso, affamato e spaventato? Sono talmente presi dal dramma, dal darsi
da fare per aiutare, curare, consolare, asciugare lacrime, seppellire i morti e nutrire i vivi da
non avere neanche il tempo e la voglia di gridare e denunciare. Purtroppo i nostri tempi di
pubblicazione non ci permettono una tempestività di informazione e denuncia, ma abbiamo
cercato di supplire attraverso altri media (vedi suwww.missioniconsolataonlus.it/mco/,
www.consolata.org e sul nostro sito). Ma queste cose non è che interessino più di tanto e poi,
con tutti i problemi che ci sono …

Cavalli, cammelli e uomini. Scusate, pur con tutto l’affetto per gli animali, noi tifiamo ancora
per gli uomini. È un fatto: dove gli uomini stanno bene (inteso come pace – dentro e attorno
-, cibo, lavoro, sicurezza…), anche gli animali stanno bene. In più, come missionari
(e della Consolata), abbiamo il vizio di fare il tifo per i più disgraziati del mondo: che siano
i rifugiati di Camp Garba, gli indios di Roraima, i pigmei del Congo RD, i bambini delle Ande ecuadoriane,
i malati di … Questo è il mese della nostra fondatrice, la Madonna Consolata e Consolatrice,
che certo sapeva quel che faceva quando ha forzato la mano ai superiori e ci ha mandato a
Camp Garba. «Dio non ha mani, ha solo le tue mani. Dio non ha piedi, ha solo i tuoi piedi», dice un
canto religioso scritto con parole ispirate da Raul Foullereau. La Madonna continua a consolare
attraverso i suoi missionari, i quali alimentano la loro carità con la solidariatà fattiva di tanti che
sono capaci di aver compassione pur vivendo – forse proprio perché si vivono – tempi difficili.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




S.S.S.

AI LETTORI

Molti anni fa, prima di entrare in seminario, mi diedero un libro da leggere. S’intitolava
«I fioretti di p. Cencio». Era la biografia di p. Vincenzo Dolza, pioniere del Meru in
Kenya. Lessi e rilessi quel libro con tanta allegria e partecipazione, fin quasi a saperlo a
memoria. Ogni tanto, oggi, un ricordo riemerge. Due sono tornati con insistenza in una
notte insonne d’aprile – insonne perché ai primi di maggio riprendono le scuole in Kenya e le
scuole vogliono contanti, non promesse -: la storia dei «Canada» e dei «Canapia» e le sue
famose lettere agli amici con scritto un solo e grande «S.S.S.» e firmate «Cencio».
Avendo ricevuto una volta la visita di un cacciatore canadese di passaggio, divennero subito
amici. Questi, vedendo l’estrema povertà del padre, si offrì di aiutarlo. P. Cencio gli spiegò che
erano fatti l’uno per l’altro, perché uno proveniva dal «Can-a-dà» (colui che da, in piemontese)
e, l’altro era cittadino di «Can-a-pia» (colui che prende). Invece l’«S.S.S.» significava semplicemente
«Sono Senza Soldi»; plastica espressione per indicare il suo stato di perenne indebitato a
causa della generosità con cui si dedicava ai poveri (vedi foto p. 65, MC 12/2011). P. Cencio aveva
imparato bene dall’Allamano che il missionario deve essere un canale per quel che riguarda i
soldi e una conca nel suo rapporto con Dio. Quel vecchio libro dovrebbe far parte dei testi di
formazione nei seminari missionari e probabilmente farebbe del bene anche a molti politici
nostrani.
Non sono sicuro di aver imitato p. Cencio nell’essere una conca di santità, ma quanto all’altro
aspetto, un po’ ci ho provato. Quando sono partito per il Kenya nel 1988, non ho cercato soldi,
perché non li consideravo una priorità. Sognavo l’evangelizzazione pura: catechesi, formazione,
testimonianza, camminare con la gente, imparare da loro ed essere «povero con i poveri».
È andato tutto bene fino a quando non mi sono scontrato faccia a faccia con la povertà, anzi no,
con i poveri, quelli veri, di carne e ossa, con nome e cognome, una faccia, una storia, un odore.
Incontri fatti spesso solo di un semplice sguardo, un gesto, pochissime parole, o scontri fatti
anche di storie lunghissime che puzzavano pure d’imbroglio, forse goffo tentativo di coprire con
un po’ di orgoglio una dignità umiliata dalla miseria. Da allora sono diventato anch’io un
«canapia», non per me, non ne ho bisogno, ma per quelli che, volente o nolente, mi accompagnano
sempre – «i tuoi poveri, i tuoi bambini» -, anche quando vado a mangiare una pizza con gli amici.
Perché vi scrivo questo? Il binomio «missione=soldi per i poveri» è talmente solido nella
mente di tanti buoni cattolici da indurre gruppi missionari a definirsi tali più per quanto
raccolgono in favore del loro progetto che per come vivono la missione. Ci sono poi molti
missionari che sono diventati quasi «prigionieri» dell’aiuto ai poveri, a causa della crisi
economica, ormai mondiale, che ha impoverito i donatori, riducendone le risorse, e peggiorato
la situazione dei poveri con l’aumento dei prezzi e del costo della vita, e sta rendendo impossibile
sostenere programmi e progetti come scuole, orfanotrofi, ospedali e adozioni che esigono
continuità. L’equilibrio di un tempo è saltato e la crisi è pagata soprattutto da chi è già povero.
E il missionario si sente tra l’incudine e il martello.
La crisi di cui tutti parliamo e soffriamo evidenzia un sistema che non ha più l’uomo al centro,
ma il profitto per il profitto; un sistema che premia la speculazione (a vantaggio di pochi) e
penalizza il lavoro di chi, in fondo, è trattato peggio di uno schiavo; una monetizzazione del
tutto (anche dell’uomo), dove l’azzardo finanziario (ormai democratizzato dal «gratta e vinci»)
conta più del sudore della fronte e gli algoritmi di banche e fondi d’investimento mandano a
K.O. nazioni intere.
Che senso ha in questa situazione un missionario che scriva agli amici un «S.S.S.»? Forse è
uno che, nonostante tutto, ha ancora fiducia nell’uomo perché ha fede in Dio, il Dio fatto uomo
in Gesù Cristo. Crede ancora che nel cuore di ogni persona, anche quella in difficoltà, ci sia
una capacità di compassione e di solidarietà inesplorata e inestinguibile, una capacità d’amore
che nessuna crisi economica può uccidere, perché imparata dal Figlio di Dio, un Dio dalla
parte dei poveri.
                                                                                                                              Gigi Anataloni

Gigi Anataloni