Non lasciamoci rubare la gioia

«Cari fratelli e sorelle, non
lasciamoci rubare la gioia dell’evangelizzazione! Vi invito ad immergervi nella
gioia del Vangelo, ed alimentare un amore in grado di illuminare la vostra
vocazione e missione. Vi esorto a fare memoria, come in un pellegrinaggio
interiore, del “primo amore” con cui il Signore Gesù Cristo ha riscaldato il
cuore di ciascuno, non per un sentimento di nostalgia, ma per perseverare nella
gioia. Il discepolo del Signore persevera nella gioia quando sta con Lui,
quando fa la sua volontà, quando condivide la fede, la speranza e la carità
evangelica» (Francesco, Messaggio per la Giornata Missionaria 2014; cfr.
pag. 70).

Non lasciamoci rubare la gioia! Mi ha colpito molto questo invito
pressante del Papa. Dopo la sua esortazione apostolica sulla gioia del Vangelo
(Evangelii gaudium), ecco un nuovo richiamo non solo a essere giorniosi,
ma anche a difendere la gioia, quella vera, che nasce dall’incontro autentico,
profondo, personale e condiviso con Gesù.

Degli anni vissuti in Kenya mi manca molto la giorniosa celebrazione
della fede che si esprime anche in canti e danze, a volte troppo vivaci, ma
soprattutto nello stare insieme senza guardare l’orologio e in una
partecipazione corale in cui tutti si sentono attori e non spettatori. Quante
volte invece qui in Italia capita di celebrare la messa nella noia più
assoluta, per (non «con») gente frettolosa o addirittura per «spettatori»
completamente spaesati e incapaci di contribuire, nonostante i lontani ricordi
del catechismo e un battesimo ormai rimasto solo sulla carta. Funzione, non
celebrazione e festa, specchio di una religione in cui, malgrado gli sforzi di
tanti pastori, prevalgono i riti. Le chiese, belle e restaurate ma ridotte a «beni
culturali» e attrazioni turistiche, non sono più il luogo dell’assemblea
giorniosa della famiglia di Dio che vi celebra l’esperienza del perdono,
dell’accoglienza e della pace.

Anche nel cuore di chi si dice cristiano Dio è stato messo al margine,
soppiantato da nuovi «dei» nei cui «templi» si celebrano i modei riti del
divertimento per scaricare le tensioni di una vita frustrata e per dimenticare
che si è schiavi di un sistema consumistico volto prima di tutto a svuotare gli
individui dal di dentro e a rubare loro la speranza.

Certo, la domanda di felicità è sempre
altissima. Nessuno vuole vivere per essere infelice. Ma una società come la
nostra che privilegia l’avere sull’essere, il diritto sul dovere e l’io sul
noi, non può che lasciare l’amaro in bocca, perché la felicità non si compra. I
soldi possono pagare per il divertimento, il piacere, lo sballo, la
trasgressione, il lusso, il potere. Ma la felicità si ha solo donandola,
condividendola, facendo felici gli altri. è
questo il segreto di Gesù: perdere la vita per ritrovarla, morire per vivere. è il segreto di perdonare per essere
perdonati, dell’amare perché amati.

L’appello di papa Francesco è
più attuale che mai. Non possiamo lasciarci rubare la gioia di questa via alla
felicità: più uno si lascia prendere dal Signore Gesù e dalla logica della sua
Parola, più uno sperimenta un senso di pace, di serenità, più uno diventa
positivo e tollerante verso gli altri e meno ansioso verso gli accadimenti
quotidiani: il mangiare, il vestire, l’opinione altrui, la moda, il «così fan
tutti». Più uno lascia che Gesù diventi il «suo Signore», e più è capace di
empatia, di essere partecipe di giornie e sofferenze, attento ai bisogni di
tutti. Non è un cammino facile, le resistenze sono tante, l’orgoglio è forte.
Ma più uno si lascia «evangelizzare» più la gioia cresce. Niente di miracoloso,
certo, ma uno si scopre sempre più capace di meravigliarsi, di ringraziare e di
giornire delle piccole cose, con una desiderio di bellezza (purezza, onestà,
integrità) che lo fa reagire, anche con energia, a tutto ciò che è falso,
ingiusto, corrotto, umiliante, infanga la dignità della persona e uccide la
grandezza «dell’infante» che è dentro di lui. «Non lasciarci rubare la gioia» è
quindi resistere a un sistema che ci vuole appiattire e cosificare, rubandoci i
sogni e l’innocenza, infangando l’immagine di Dio che è in noi e che Gesù
Cristo, sulla croce, ha restaurato alla sua bellezza originale. Non lasciarci
rubare la gioia significa mantenere una relazione viva con Gesù Cristo,
l’Emmanuele Dio-con-noi e in mezzo a noi, senza rassegnarsi al fatto che venga
ridotto a un mero marchio di identità culturale sulle pareti di luoghi
pubblici. Sarebbe meglio invece che fosse come il crocefisso delle vecchie
edicole delle strade e sentirneri di campagna e montagna: compagno di viaggio nel
difficile cammino della vita.

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Gigi Anataloni




Santa Audacia

«Dacci la santa audacia di cercare
nuove strade | perché giunga a tutti | il dono della bellezza che non si spegne»
(Francesco, preghiera finale dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium).

Mi piace questo invito alla «santa audacia». Ne abbiamo proprio
bisogno, perché nel vivere la nostra fede ci siamo davvero appiattiti. Chiamati
alle vette, pensiamo invece che le belle colline su cui viviamo siano anche
troppo impervie per le nostre deboli gambe.

È coraggioso che Francesco metta insieme gioia, bellezza e audacia,
tre dimensioni dell’essere cristiani che sembrano sparite dal nostro dizionario
e da tutto quello che esprime la nostra fede. Basti pensare a molte delle
chiese costruite alla fine del secolo scorso, spesso livellate da
un’architettura populista incolore che non ha più neppure l’eco della giorniosa
bellezza e dello slancio audace delle chiese gotiche. Specchio di una fede che
ha perso il sapore, che non osa più.

Ben venga allora il respiro nuovo proposto da Francesco.

Gioia «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro
che si incontrano con Gesù». Sono le prime parole della lunga esortazione.
Quante volte ci è stato detto che noi cristiani non siamo più tali perché non
abbiamo gioia, anche se diciamo di credere nella Risurrezione. Ci siamo ridotti
come i discepoli di Emmaus in fuga da Gerusalemme. Viaggiamo nella vita a capo
chino, quasi vergognandoci di quello cui crediamo, abbagliati dalle mille luci
della ribalta del mondo. «Non ci ardeva il
cuore in petto?», domandano a se stessi i discepoli dopo l’incontro con Gesù.
Il cuore  che arde, pieno di gioia:
quante volte sentiamo davvero la gioia di essere di Cristo? Quante volte questa
gioia si riversa nelle nostre relazioni, negli incontri, nel lavoro, nella
scuola, nel tempo libero?

Bellezza  Abituati a una bellezza che si ottiene tramite lunghi trattamenti
di make-up, estenuanti esercizi di fitness, diete specializzate e
ritocchi al computer, ci siamo dimenticati che bellezza è semplicità,
innocenza, purezza e soprattutto verità. Come Dio, semplicità e bellezza
assoluta: «Dio è Amore». E basta. Eppure noi stessi abbiamo opacizzato questa
bellezza con il nostro essere cristiani pieni di contraddizioni e paure, con la
nostra mediocrità e con i nostri scandali. Noti e ben pubblicizzati sono quelli
della Chiesa gerarchica, ma i cristiani ordinari sono davvero immuni dal dare
scandalo?
Aprirsi alla bellezza è accettare la sfida della verità, dell’amore e
della libertà. «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile,
onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri
pensieri» (Fil 4,8).

Audacia  È chiamata al coraggio e alla creatività, alla sobrietà generosa
(l’unica cosa che si può sprecare è l’Amore!) e all’uscire verso gli altri,
alla fiducia piena di speranza e al camminare insieme. È osare la pace. È
praticare l’accoglienza, non solo quando c’è abbondanza, ma anche quando
bisogna stringersi un po’ e si deve condividere dallo stesso magro piatto.

Audacia è il coraggio di confrontarsi con la Parola per decodificare
le menzogne sublimate a verità dagli urlatori di tuo, dai magnati rifatti e
ritoccati o dai guru della pubblicità. Audacia è il dire no alla pressione del
gruppo, della gang, della curva, degli amici, della moda, del politicamente
corretto, del sentito dire. Audacia: per reinvenatare il proprio essere
cristiani a immagine di Cristo.

Bellezza, gioia e audacia: che queste tre parole diano sapore al nostro «pellegrinare»
nel 2014.

Gigi Anataloni




A rischio di schiavitù

Schiavo: «Agg. Individuo di
condizione non libera, giuridicamente considerato come proprietà privata e
quindi privo di ogni diritto umano e completamente soggetto alla volontà e all’arbitrio
del legittimo proprietario» (Treccani.it). Cosa del passato, ci viene da
pensare! Oppure, qualcosa che sopravvive solo in alcuni luoghi arretrati e
lontani del mondo. Qui da noi? Niente schiavitù. Siamo liberi. Per questo
abbiamo la costituzione, i diritti umani, la «civiltà cristiana»…

Eppure, ascoltando quanto ha detto papa Francesco nel Molise su lavoro
e riposo domenicale e riflettendo sul significato del riposo nella Bibbia, mi
sono venuti un sacco di dubbi riguardo alla nostra presunta libertà. I conti
non tornano. Non tornano per i giovani che vivono di precariato o sono
costretti a lavori semivolontari malpagati e insicuri. Non tornano per gli
immigrati, rifiutati da tutti ma poi sfruttati in nero. Non tornano per chi è
costretto a lavorare anche la domenica o a fare tui massacranti sacrificando
la famiglia e la pratica della propria fede. Non tornano per chi si fa le
maratone di fine settimana sulle piste da sci o sulle spiagge, allo stadio o in
discoteca per incontrare altra gente e divertirsi, e si trova invece solo e
vuoto. Non tornano per chi vive in un alloggio extra blindato di 60-80 mq con
affitti esorbitanti o stra-tassato se di proprietà, dove non c’è spazio per un
figlio in più, gli amici, una festa. Non tornano quando le persone sono
giudicate in base alla moda del momento, moda che è manipolata da monopolii
mediatici, produttivi e commerciali mirati non all’utilità sociale ma al
proprio profitto.

Non tornano neppure per milioni di persone che sopravvivono in tuguri
in cui noi non metteremmo neppure le nostre galline, che, pur lavorando
quotidianamente dodici o più ore, non riescono a pagarsi due pasti decenti al
giorno, si vestono con abiti comperati al mercato dell’usato, scarpinano per
chilometri per arrivare la posto di lavoro, non hanno protezione sanitaria e
neppure i soldi per comperare libri, quadei e vestiti ai loro figli.
Sfruttati, sottopagati e ricattati: una protesta, una malattia, e sono fuori.
Ci sono altre migliaia di disperati disposti a farsi sfruttare al posto loro.

Questi conti non tornano neppure quando si guarda al moltiplicarsi di
leggi, regolamenti e cavilli, spesso imposti non dal buon senso o dal bene
comune, ma da lobbies economiche piene di soldi che sfuggono a ogni
controllo, intente a rafforzare i propri poteri e la propria influenza, o da
sistemi ideologici che per difendere le loro libertà calpestano quelle degli
altri.

Faccio fatica a vedere libertà in
tutto questo. Sembra che ci sia una logica perversa per la quale ciascuno debba
lavorare di più per guadagnare di meno e spendere di più. E guai se uno non
spende, perché è colpa sua se c’è la recessione e le fabbriche chiudono. Così
vorrebbero che tu cambiassi i vestiti a ogni stagione, lo smartphone ogni sei
mesi, la macchina ogni tre anni, la lavatrice ogni… e via discorrendo. Sei
libero, sì: di spendere, consumare, indebitarti, incollarti alla Tv, lasciarti
riempire di bla bla, crearti relazioni digitali, ammassarti in spiaggia, far la
coda in autostrada. Ma non puoi fermarti: per stare in famiglia, godere dei
figli (se ci sono), leggere, curare la tua casa, creare e far crescere
relazioni e scoprire così che fai parte di una comunità e non di un vicinato
anonimo e minaccioso. Soprattutto non hai più tempo per Dio. Sparita la
domenica (giorno del Signore), prevale il fine settimana (giorno di altri
signori: shopping, sport, sci, mare, movida…). Perché se dai tempo a Dio
rischi di cominciare a pensare e finisci per scoprirti triste, vuoto,
manipolato, ingannato e sfruttato. Se metti Dio al centro riscopri te stesso e
la tua dignità, che non può essere riempita solo dall’avere, consumare,
correre, «divertirsi», cercare sport o esperienze estreme.

Ci sono voluti millenni perché l’umanità (o parte di essa) ripudiasse
la schiavitù come sistema. Ma il dubbio che oggi esista un altro tipo di
schiavitù m ‘inquieta. Si scrive e parla tanto di diritti umani, abbiamo
centinaia di associazioni piccole e grosse che li difendono e promuovono,
eppure l’impressione è che in un mondo dove si dà sempre meno spazio a Dio
diminuiscano anche la libertà e la dignità dell’uomo. Una pagina web chiedeva «quanti
schiavi hai?». Forse oggi è tempo di domandarci anche: «Ci rendiamo conto che
rischiamo di vivere da schiavi e che la libertà va difesa sempre, per se stessi
e per ogni altra persona?».

Buona estate e ogni bene a tutti voi, lettori di MC.

Tags: schiavitù, costume

Gigi Anataloni




Piangere e «spogliarsi»

Scrivo mentre non si fa che parlare del terribile
naufragio di Lampedusa, con i pochi superstiti rei di clandestinità. Una
tragedia che ha provocato pietà e rabbia, compassione e sdegno e anche tanta
retorica. Eppure presto sarà dimenticata nella logica della
spettacolarizzazione mediatica. Chi ricorda ancora i 72 macellati nel Westgate
di Nairobi? Chi non è assuefatto al ripetersi delle bombe sui civili in Iraq? O
delle chiese bruciate in Nigeria? E degli scontri in Egitto? E in Siria? Chi fa
caso a cosa succede in Somalia, o si preoccupa della situazione in Centrafrica
o nel Nord-Est del Congo o in Libia? E quanti sono gli scomparsi dei quali non
si sa proprio niente, morti nel silenzio, nella clandestinità, nelle
reti dei trafficanti di uomini, nella follia apocalittica dei fanatici mutati
in terroristi in nome di Dio? E le vittime, gli schiavi e gli sfruttati del
perverso sistema economico in cui viviamo: giovani senza lavoro, anziani
abbandonati, esodati e licenziati, cassintegrati e senza casa, indebitati con
banche e strozzini (che è quasi lo stesso)… chi li conta più?

«Oggi sono qui con voi. Tanti di voi – ha
detto il Papa ad Assisi il 4 ottobre scorso – sono stati spogliati da questo
mondo selvaggio, che non dà lavoro, che non aiuta; a cui non importa se ci sono
bambini che muoiono di fame nel mondo; non importa se tante famiglie non hanno
da mangiare, non hanno la dignità di portare pane a casa; non importa che tanta
gente debba fuggire dalla schiavitù, dalla fame e fuggire cercando la libertà.
Con quanto dolore, tante volte, vediamo che trovano la morte, come è successo
ieri a Lampedusa: oggi è un giorno di pianto!».

Piangere! Invece prevale la tentazione di fare
la predica o di essere saccenti: «Bisogna fare così, bisogna fare cosà…». Di
fatto nessuno ha soluzioni in tasca. I problemi sono veramente complessi e
ramificati e il Male (come l’ha chiamato Domenico Quirico uscito dall’inferno
siriano) non solo penetra con i suoi tentacoli anche le istituzioni che
dovrebbero essere più integre e pure ma compromette anche la nostra capacità di
ragionare in modo obiettivo, di cercare la verità. Provaiamo solo a pensare
alla situazione dei cosiddetti «clandestini» che «vengono a invaderci», che «sono
pieni di pretese», che «conoscono solo la parola “diritti” e non quella
“doveri”», che «approfittano di noi», che «rubano il lavoro ai nostri figli»…
Da vittime sono trasformati in carnefici. Eppure chi lucra sul traffico di
uomini, fa documenti falsi, manipola le leggi, sottopaga in nero, intasca le
bustarelle o collude con le mafie, non sono certo i disperati che sbarcano a
Lampedusa ma insospettabili connazionali: funzionari, tutori dell’ordine,
avvocati, industriali, coltivatori, costruttori… In questo gioco perverso i
poveri sono usati contro i poveri, mentre molti politici cavalcano il
malcontento per una manciata di voti.

Piangere e cambiare il cuore. Piangere e spogliarci dai
pregiudizi, dall’apatia, dal pensare in piccolo, dal demonizzare le vittime. Ad
Assisi il Papa ci ha detto: «Queste cose le fa lo spirito del mondo». E ci ha
invitato a «spogliarci», sull’esempio di San Francesco. Perché «la mondanità
spirituale uccide! Uccide l’anima! Uccide le persone! Uccide la Chiesa!».
Occorre «spogliarci dello spirito del mondo, che è la lebbra, è il cancro della
società! È il cancro della rivelazione di Dio! Lo spirito del mondo è il nemico
di Gesù! Chiedo al Signore che, a tutti noi, dia questa grazia di spogliarci».

Sì, piangere i morti di tutte le Lampeduse del
mondo. Ma piangere per rinascere, spogliandoci della passività,
dell’indifferenza, dell’assuefazione, della svendita della nostra capacità
critica e, soprattutto, dell’indurimento del cuore. Per non essere solo dei «brontoloni»
inerti, ma «cristiani» cittadini d’Italia e del mondo: responsabili ed
esigenti, critici e onesti, «samaritani» e «profeti».

E ho finito per fare la predica! Scusatemi…

Gigi Anataloni




Sulle strade dell’uomo

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«Andando annunciate» (Mt 10,7) ha detto Gesù ai suoi discepoli. Due verbi essenziali e dinamici. Andare: è movimento, passaggio, esodo, direzione. Annunciare: è comunicare... anche con le parole, è testimoniare con i fatti, è realizzare con le azioni, è relazionarsi e interagire con chi si incontra, con i compagni di viaggio. Andare è spezzare la solitudine e uscire da sé; annunciare è creare comunione e relazioni nuove. Andare è sconfiggere l’intimismo, la paura degli altri, la diffidenza che fa innalzare barriere. Annunciare è costruire ponti, creare legami, abbattere i muri di silenzio e ignoranza. Andare accorcia le distanze; annunciare colora il mondo di vita.

Ricordo una storia raccolta da un missionario in terra d’Africa. La sintetizzo. Un padre manda i suoi due figli a scoprire il mondo con una raccomandazione: «Andando lasciate segni del vostro passaggio». I due partono. Il primo si affanna a marchiare tronchi e rocce, a far cumuli di pietre. Il secondo non muove un dito godendosi il paesaggio e la sera, arrivati in un villaggio, saluta, chiacchiera, beve, fa festa e conosce tutti. Così per giorni. Toati dal padre raccontano tutto, e questi si mette subito in strada per ripercorrere il cammino coi figli. Il primo lo invita a notare i suoi inconfondibili segni biasimando la pigrizia del fratello. Il pigro è accolto ogni sera con grande festa ovunque si fermino a dormire: invitato a cenare nelle famiglie con i suoi compagni, si trova anche una sposa (da cui avrà tanti bei figli «cioccolatini») con la benedizione del padre.

Lascio a voi indovinare chi ha davvero capito la raccomandazione iniziale.

Ci sono dunque due modi di «lasciare segni» viaggiando nel mondo.

C’è chi va in giro per i propri interessi e lascia segni di distruzione, indifferenza, sfruttamento e orgoglio. Questi vanno in cerca dei luoghi migliori per fare affari, dei paradisi fiscali per frodare il fisco, delle aree ricche di risorse naturali ancora intoccate, dei campi adatti per coltivazioni estensive per il biodiesel, dei paesi dove la manodopera locale si può ancora sfruttare, dei focolai di guerra per vendere sempre più armi. Purché si possano fare soldi, leciti o illeciti, si arriva ovunque: traffico di persone, prostituzione, gioco d’azzardo, sfruttamento di risorse, affossamento di rifiuti pericolosi, costruzioni di enormi bacini idroelettrici, acquisizione di grandi estensioni di terre, libere o meno... e chi più ne ha più ne metta. Anche certo turismo rientra in questa categoria: vado dove ho voglia, spendo bene i miei soldi e mi diverto, faccio esperienze uniche in «isole felici», prendo tutto quello che posso senza lasciarmi coinvolgere più di tanto dalle situazioni locali. Importante è aver belle foto da mostrare agli amici.

C’è chi invece viaggia seguendo il filo rosso dell’amore e della gratuità. Si va per conoscere e condividere, per costruire e guarire, per abbattere barriere e gettare ponti. Si va per giornire delle meraviglie che Dio opera nel cuore degli uomini, per portare amore dove c’è odio, pace dove impera la violenza. Si va per scoprire le tracce di Dio nel volto degli uomini, per rinnovare i legami profondi che uniscono tutta la famiglia umana, per condividere la buona notizia che Dio in Gesù ama gli uomini, ogni uomo, con preferenza per i piccoli, i poveri, gli oppressi.

Troppo idealista il secondo approccio? Forse. Ma certo ci sono moltissime persone nel mondo che pagano di persona per questo, senza avee un tornaconto personale. Mentre scrivo è appena stato liberato Domenico Quirico, giornalista amante della verità, dopo 150 giorni di prigionia in Siria, anche se non si sa ancora niente di padre Paolo Dall’Oglio in missione di pace e riconciliazione (vedi l’articolo a pag. 16). Papa Francesco è uno di questi viaggiatori che esce da sé, dal ruolo e dalle formalità per farsi incontro agli altri, per farsi carico dei drammi di ogni persona, per gridare che la guerra non è mai una soluzione (come sta facendo in questi giorni - speriamo ascoltato - per la Siria). E con lui tanti altri viaggiatori di pace e di amore, fanti sconosciuti e umili, missionari e volontari, religiosi e semplici cristiani, che si spendono per lasciare tracce d’amore sulle strade dell’uomo: segni indelebili nel cuore di ciascuno. Lo possiamo essere anche noi, io e te.


Gigi Anataloni




Attaccati alla stessa corda

Era il 1992, vent’anni fa, a febbraio. I miei ultimi mesi a Maralal, Kenya. La siccità imperava.
Tutti ne soffrivano. In missione, mettendo insieme tutte le nostre risorse, avevamo
aperto un rubinetto per la gente. La coda cominciava alle quattro del mattino. Si dava acqua
fino alle sette di sera, quando era già buio pesto. A ognuno un bidoncino da 20 litri.
Venivano i bambini, marinando scuola. C’erano le donne/mamme, contente di non dover far chilometri
e trovare acqua pulita. C’erano i poverissimi e i benestanti del paese, accomunati da un
problema che rendeva tutti uguali. Anche se chi poteva, negozianti soprattutto, pagava dei giovanotti,
altrimenti sfaccendati, per l’incombenza. I miei ragazzotti dell’Azione Cattolica distribuivano
l’acqua e tenevano la disciplina. I litigi erano frequenti. I bambini si perdevano a giocare, le
donne si imponevano sui bambini, i giovanotti a cottimo scavalcavano tutti per guadagnare di più.
Neanche le bacchettate distribuite generosamente dai miei «ascari» riuscivano a mantenere
l’ordine. E si sprecava un sacco d’acqua. Provammo così con i tappi delle bottigliette. Ne raccogliemmo
un bel po’ e li numerammo con dei punzoni. Entro sera non ce n’era più uno in giro: i
bambini li avevano presi tutti per giocare. In magazzino c’era un rotolo di spago. Infilammo allora
lo spago nei manici dei bidoncini per bloccarli in una fila ordinata. L’ultimo arrivato andava in
coda, infilava il suo bidone e attendeva tranquillo il suo tuo e, se bambino, poteva anche perdersi
a giocare. Funzionò per alcune ore. Poi lo spago si bagnò, si sfilacciò e si spezzò. Fioccarono
bacchettate. Inutili. Occorreva una soluzione radicale. Comprammo allora una lunga corda di
nailon, robusta, resistente all’acqua, difficile da tagliare senza farsi notare. Finalmente si formò
una lunga coda ben ordinata, senza litigi, immune da bullismo, da distrazioni, da petulanza. Tutti
uguali, bambini e adulti, ricchi e poveri a condividere quel bene così prezioso ed essenziale.
Si potesse trovare una corda così per affrontare insieme la gestione di questo nostro mondo!
Era lo scorso agosto, quando è stato dato l’allarme che avevamo già consumato la nostra
razione annuale di risorse e che stavamo già consumando la quota dell’anno prossimo.
Ci è anche stato detto che quell’«avevamo» non include tutti gli abitanti della terra in
maniera uguale. C’è un 20% di mangioni che consumano l’ 80% del tutto, ed è indifferente, se
non arrabbiato, al fatto che l’altro 80% voglia una fetta più grande della torta o addirittura parti
uguali. Si inquina il mondo, e gli inquinatori pensano di risolvere il problema comperando le
quote verdi di chi (per ora) non inquina. C’è un bisogno vorace di energia per il dio «auto» e tutte
le altre comodità della vita, Inteet compreso. Allora si fanno le «operazioni di pace» che lasciano
lutti e rimpinguano i fabbricanti d’armi, e si affamano quelli che son già poveri per prendee
le terre e produrre il cosiddetto biofuel, che di bio (vita) ha ben poco perché sta causando
la morte per fame (quella vera) di milioni di persone. Una parte del mondo consuma troppo. Invece
di dire: «Condividiamo in giustizia ed equità», dice «siamo troppi» e vuol risolvere il problema
impedendo la crescita di chi già consuma poco attraverso controllo delle nascite, aborti facili,
sterilizzazioni forzate. Certo, questo non viene detto così brutalmente, ma presentato con belle
parole che confondono anche gli onesti. Non dimenticherò mai quelle due consonanti, «T.L.»,
scritte nell’angolo in basso a destra di un foglio di quaderno che doveva essere la cartella clinica
di una giovane madre keniota a cui avevano legato le tube (T.L.= tube ligation) senza neanche
informarla, solo perché ragazza madre, disoccupata, analfabeta e al terzo figlio.
Niente di nuovo in quanto scrivo e non ci stancheremo mai di scrivere su questa rivista. Un
approccio troppo sociologico? Dipende dai punti di vista. Un tempo la Chiesa è stata accusata
di aver benedetto la colonizzazione del mondo. Tacere oggi sulle ipocrisie di un
benessere (di pochi) costruito sulla pelle dei più poveri (molti), è rendersi complici di un
sistema schiavista e ingiusto che di cristiano non ha niente. Questo nostro mondo non si salva
con delle «arche» per pochi, ma con una cordata dove tutti fanno la propria parte.

                                                                                                                              Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Una voce in meno

L’editoriale di ottobre della
rivista «Popoli», dopo un caldo saluto a lettori e lettrici, recitava: «Vi
comunico la sofferta decisione di interrompere, con il numero di dicembre 2014,
la pubblicazione». Probabilmente, a voi, amici lettori di Missioni Consolata,
questa comunicazione dice poco. Io, invece, non ho potuto fare a meno di
piangere, poche, sentite lacrime, per una notizia che mi ha dato tristezza. Una
tristezza ampiamente condivisa dagli amici e colleghi di tutta la stampa
missionaria.

«Popoli» è la rivista missionaria dei Gesuiti italiani. Fondata nel
1915 col nome di «Le Missioni della Compagnia di Gesù», diventata «Popoli e
Missioni» nel 1970 e poi «Popoli» a fine anni Ottanta. A dicembre conclude 100
anni di servizio alla missione. Nata durante la prima guerra mondiale, muore
mentre è in corso quella che il papa chiama la «terza guerra mondiale». E muore
per fallimento economico, strozzata dai debiti. Sanissima quanto a idee,
progetti e visione, «Popoli» è vittima però più della crisi «missionaria» del
nostro paese che della crisi economica.

Non è di conforto il fatto che non sia l’unica vittima nel settore
della stampa missionaria e che negli altri paesi europei sia ancora peggio. «Ad
Gentes» dell’Editrice Missionaria Italiana ha chiuso in questo 2014, «Afriche»
della Società Missioni Africane nel 2010, il nostro «Amico» nel 2010, altre
hanno ridotto il numero delle pagine o la periodicità, altre ancora si sono
fuse tra loro. Le riviste missionarie ancora in circolazione, nonostante il
grande sforzo di rinnovamento e di riqualificazione a servizio del Vangelo e
dei poveri, non scoppiano di salute, condividendo in pieno tutte le difficoltà
dell’editoria italiana, religiosa e non.

Con gli altri amici della stampa missionaria italiana (che non è poi
solo stampa, ma è web, e video, e tanto altro) ci chiediamo se la chiusura di «Popoli»,
al di là delle ragioni oggettive portate dagli editori, non sia un sintomo di
una situazione ben più complessa. Ogni anno vediamo drammaticamente invecchiare
e diminuire di numero i missionari italiani «a vita» (17 mila negli anni
Ottanta, poche migliaia già oggi e in continuo calo), chiudere comunità,
rarefarsi le partenze non compensate dal pur crescente numero di missionari
laici. Allo stesso tempo si chiudono o si accorpano parrocchie, si vendono
chiese, per la preoccupante diminuzione del numero dei sacerdoti.

è questo solo un momento di purificazione? O la fiaccola della missione è stata tolta ai cristiani italiani
per essere affidata ad altri? è
la missione che non interessa più o non ci sono più neppure i cristiani che
possano appassionarsi ad essa? Oppure è la missione che è talmente cambiata da non avere più bisogno di missionari e
tantomeno delle loro delle riviste?

Le riviste missionarie raccontano della bellezza della missione,
della dedizione di tanti missionari, del sogno di un mondo più fraterno, di una
Chiesa viva che cresce nelle periferie del mondo, dello Spirito che suscita
nuovi evangelizzatori da ogni angolo della terra. Pur nella loro povertà e
debolezza (evidente nel confronto con gli altri media!), sono testimonianza di
speranza e di un mondo più fraterno. Non hanno più nulla da dire? Quello che
scrivono non interessa più a nessuno? O non c’è più nessuno che creda nel
mandato di annunciare il Vangelo fino ai confini del mondo?

Sempre il mio vizio di far domande! Anche perché non ho risposte
chiare in una situazione così fluida come quella che stiamo vivendo. Certamente
gli interessi degli italiani sono cambiati in questi anni. E l’annuncio del
Vangelo non è in cima alle loro preoccupazioni. La nostra società è sempre meno
cristiana nonostante il numero sempre alto dei battezzati. I cristiani
praticanti costituiscono ormai una minoranza e sembra che la maggior parte dei
giovani non si identifichi più con la Chiesa. Questi sono dati di fatto,
confermati da abbondanti statistiche.

In un simile contesto la chiusura di una o più riviste missionarie non
cambia molto le cose. Però fa riflettere: quale sarà la prossima? Noi intanto
andiamo avanti con serenità nel nostro servizio, cercando in tutti i modi di «far
bene il bene», fino in fondo. Abbiamo (noi missionari) una convinzione
profonda: «Siamo semplicemente dei servi» (Lc 17,10). Il vero missionario è lo
Spirito di Dio. Anche se una voce si spegne qua o là, Lui farà «parlare anche
le pietre» (cfr. Lc 14,40). E non ditemi, come fa il mio correttore di bozze,
che queste ultime sono solo parole di consolazione messe lì per non chiudere
l’editoriale con troppa tristezza. Ogni bene a voi.

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Buona lettura!

Gigi Anataloni




Globalizzazione dell’”I care”

Abbiamo
appena dato l’addio al nostro fratello padre Benedetto Bellesi
, un
missionario generoso che ha dedicato ben 27 anni della sua vita a
questa rivista. Gioalista e fotoreporter, ha girato in lungo e in
largo tutte le missioni della Consolata per offrire ai lettori di MC
una documentazione di prima mano, onesta e verificata, sul vissuto
della missione. Formato come insegnante di lettere, con un buon dono
per le lingue – maneggiava oltre che un perfetto italiano e un buon
latino e greco, anche un inglese fluente con francese, portoghese,
spagnolo e zulu – e una grande passione per la Bibbia, padre
Benedetto ha sempre curato i suoi articoli nel dettaglio per rispetto
all’intelligenza e al cuore dei lettori. Non credo si sia mai
identificato con le parole di Elbert Hubbard: «Il lavoro del
giornalista consiste soprattutto nel separare il grano dalla pula. E,
naturalmente, nel provvedere che la pula sia stampata». No, lui
raccontava del grano, anche a costo di non essere alla moda. Perché
era prima di tutto un missionario, servitore della verità. Servire
la verità era per lui servire il Signore nascosto negli ultimi, nei
poveri, nei diseredati della terra.

Penso
a questo mentre cerco di rendermi conto di cosa significherà fare la
rivista senza di lui.
Una rivista che non vuole giocare sul
pietismo, che non cerca di manovrare le emozioni, che desidera
evitare i luoghi comuni e ama e rispetta le persone e i popoli di cui
scrive, come ama e rispetta i suoi lettori. Padre Benedetto ha
dedicato il meglio di sé per un sogno di frateità, di pace e di
giustizia, raccontando in maniera pacata e documentata di persone e
fatti che non fanno breccia in un mondo di comunicazione rapida, che
brucia le notizie, che rende la realtà finzione e la finzione stile
di vita, che rende spettacolo le tragedie ed eventi mondiali le
vanità e le cose fatue, fino all’intontimento delle coscienze e
all’indifferenza totale per tutto quello che non tocca il «mio»
benessere immediato.

A
proposito di indifferenza
, ho sotto gli occhi il testo dell’omelia
di papa Francesco a
Lampedusa (8 luglio 2013). «Chi è il
responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti
noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri,
non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: “Dov’è il sangue
del tuo fratello che grida fino a me?”. Oggi nessuno nel mondo si
sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della
responsabilità fratea; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita
del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù
nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto
sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo
per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci
tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che
ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida
degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non
sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta
all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione
dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo
caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati
alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non
è affare nostro! Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La
globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”,
responsabili senza
nome e senza volto».

«Voce
contro la globalizzazione dell’indifferenza»: oso applicare questa
espressione alla nostra rivista e alle altre riviste missionarie –
con cui stiamo condividendo tempi difficili -. Siamo una piccola
realtà, non abbiamo la forza dei grandi network, ma per
quanto riguarda l’amore alla verità e la passione per i
«senzavoce», non siamo secondi a nessuno. Neppure per quel che
riguarda il rispetto dei nostri lettori e del loro impegno per un
mondo più giusto, fraterno, bello e giornioso. Padre Benedetto ha
speso gran parte della sua vita in favore della «globalizzazione
dell’I care», quel «m’interessa, mi sento responsabile e
me ne occupo» che è l’unica forza che può cambiare il mondo.
Buona estate.

Gigi Anataloni




Amore contro paura

 

«Sono andato a Baragoi a supervisionare un bacino
artificiale che stiamo costruendo. Appena arrivato mi hanno
detto che giù nella
Suguta Valley c’era un ragazzo ferito da razziatori Pokot. Era là, in quelle condizioni, già da quattro giorni.
Ho deciso d’impulso di andare a prenderlo e portarlo all’ospedale di Wamba. La gamba

puzzava terribilmente, vermi bianchi uscivano dalla
ferita da arma da fuoco. Il ragazzo
non mangiava da quattro giorni, io non ho mangiato per due, ma ora è salvo».

Queste parole sono il semplice commento alla foto stomachevole di una gamba ferita simile alle tante immagini che ci stiamo abituando a vedere nei reportages dalla
guerra di Tripoli
che Evans ha messo sulla
sua pagina di facebook in agosto. Quello che un tempo era un chierichetto e appassionato giocatore di calcio nell’oratorio della missione, lavora ora come coordinatore
dei progetti di sviluppo della
diocesi di Maralal. Là, a Baragoi (Samburu County,
Kenya), ha fatto quel
che il cuore gli diceva, senza
ascoltare la paura e calcolare il rischio.

Ho
pensato a lui cominciando a scrivere questo editoriale d’ottobre, il mese missionario per eccellenza, perché mi ha ricordato una cosa importante: il bisogno di vincere le nostre paure con
un po’ di amore, gratuito e perché no? anche
un po’ incosciente.

Stiamo vivendo un tempo di grazia unico e irrepetibile che sfida a fondo la fede di chi si fregia di
un nome grande: cristiani, cioè di Cristo. È un tempo di grandi trasformazioni e problemi, con-
fusioni e potenzialità, segnali
di morte e luci di vita, grandi libertà
contrastate da emergenti
fondamentalismi e particolarismi, globalizzazione e violazioni della
privacy, ingiustizie impuni- te e violenze dilaganti insieme
al progresso inarrestabile della scienza,
comunicazione capilla- re e manipolazione dell’informazione. Di fronte a tutto questo il grande rischio
è la paura: paura
della mancanza di futuro, paura che gli altri
mi tolgano spazio vitale, lavoro e risorse, paura dei
guai, paura dei vicini,
paura degli stranieri, paura della
futilità dell’impegno
perché «tanto non
cambia mai nulla» e «chi paga sono sempre i soliti onesti e chi ingrassa sono sempre i furbi»,
una paura che immobilizza perché ci fa sentire impotenti di fronte a problemi troppo grandi.

 

 

Antidoto alla paura è l’amore. Vince contro l’inazione e la rassegnazione, perché è ottimista,
non guarda all’enormità dei problemi, sa che è importante fare qualcosa per chi è nel
bisogno, anche fosse una persona sola.
L’amore non calcola costi, rischi e guadagni
prima di incominciare; gli studi di fattibilità li fa dopo aver iniziato. Non aspetta la Tv per f
ar spettacolo. È così incosciente da assumersi responsabilità e prendere iniziative senza aspettare gli ordini,
senza curarsi della
pubblica opinione. Questo amore nella
Chiesa diventa
missione: andare verso chi ha bisogno, fino agli estremi confini,
per far scoprire il vero volto dellAmore, Gesù Cristo.

«La missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, nuovo entusiasmo
e nuove motivazioni.
La fede si rafforza donandola!». Sono parole di Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris Missio.
Papa Benedetto XVI le ripropone nel messaggio
per la Gioata Mis- sionaria Mondiale che celebriamo il prossimo 23 ottobre (vedi
pp. 74-75).

Attraverso questa missione-amore «il cristiano diventa costruttore della
comunione, della
pa- ce, della
solidarietà che Cristo ci ha donat senza
trascurare «la promozione
umana, la giustizia, la liberazione da ogni forma di oppresione»
e la Chiesa «si prende a cuore della vita umana a
senso pieno» in un mondo
dove ancora troppi non conoscono il Signore Gesù e dove anche quelli che lo conoscono, lo hanno
dimenticato e non si riconoscono più nella
comunità che è la Chiesa.

Forse abbiamo proprio bisogno
di riscoprire la gratuità
e l’incoscienza di questa missione-amore per vincere le nostre paure, reagire alla disperazione
e continuare ad annunciare la gioia
del Cristo Risorto dove viviamo e a tutto il mondo.

 di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




C’è pancia … e pancia

 

Scrivo a brevissima distanza dalla conclusione delle elezioni regionali. Non entro nel merito dell’incredibile capacità di cantar vittoria che tutti i nostri politici hanno, ma non posso
tacere davanti a soluzioni «ruspanti» e alla disgustosa manipolazione della verità, complice tanta stampa che invece di essere la coscienza della politica, ne è la serva. Certamente il dramma dei migranti e la crescente presenza di «stranieri», nella situazione di grave crisi economica e di disoccupazione in cui ci troviamo, tocca corde molto sensibili e può far scattare reazioni nervose,
arrabbiate e anche irrazionali. Ma che dei politici senza senso della storia cavalchino «la pancia» della gente per raccogliere più voti, dimenticandosi delle proprie responsabilità e del significato vero della parola politica, è perlomeno triste. Contesto loro la mancanza di «senso della Storia», quella con la «S» maiuscola, quella che mostra come il popolo (o popoli?) italiano sia frutto di innumerevoli migrazioni. E il pio Enea da Troia non è stato neppure il primo dei migranti che hanno fatto grande l’Italia. Essa ci insegna anche che siamo stati migranti per necessità fino a meno di un secolo fa (e lo siamo ancora oggi), in cerca di un futuro migliore contribuendo con qualche decina di milioni di «stranieri» alla prosperità di Europa, America e Australia. Abbiamo
provato anche ad allargarci in Africa, e in alcuni posti abbiamo pure fatto delle cose belle, ma ci hanno sbattuti fuori perché volevamo starci da padroni… La Storia poi documenta che il dramma dell’Africa, il macello in Siria, il caos decennale dell’Iraq e Afghanistan – tra le cause prime delle presenti ondate migratorie – non sono nati per caso, per autocombustione. I nostri governi e il nostro sistema economico hanno delle precise responsabilità.
Se poi la Storia si alleasse con la sociologia, ci farebbe capire come ci sia un legame indissolubile di causa ed effetto tra il nostro stile di vita e il bisogno sempre crescente di forza lavoro a basso costo di migranti/schiavi/sfruttati. Le scienze economiche, poi, ci spiegherebbero come il capitalismo liberista sia ormai fuori dal controllo della politica e dei governi nazionali e come usi senza pietà sia noi, popoli del «ricco» mondo occidentale, che quelli poveri e impoveriti del Sud, e non solo ci usi, ma ci metta gli uni contro gli altri in una guerra tra sfruttati in cui solo pochi guadagnano.

Scrivere questo non significa che non si debbano mettere in atto le dovute azioni della giustizia nei confronti di stranieri che rubano,
imbrogliano, sono organizzati in mafie per controllare prostituzione, droga, gioco d’azzardo e traffico di persone, vandalizzano proprietà private o pubbliche, o importunano, anche con violenza, gli anziani davanti alle chiese. Né legittima chi tra i forestieri pensa di essere al di fuori o al di sopra di ogni legge e senza responsabilità sociali. E neppure l’inerzia e/o corruzione di certe autorità pubbliche o di chi specula sul business dei migranti e dei rom.

Queste sono cose che un cristiano dovrebbe sapere per non lasciarsi ingannare dal «panciaruspismo» di chi, imitando nefasti predecessori illustri, invece di affrontare le cause dei problemi, va a caccia di colpevoli. Nerone docet. I cristiani non dovrebbero mai dimenticarlo. Come non dovrebbero mai dimenticare queste parole: «Amate dunque il forestiero, poiché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto» (Esodo 10,19; cfr 23,9; Deut 24,19-22; ecc.). Da sempre i forestieri, migranti o stranieri hanno sofferto per mano degli stanziali, di chi si ritiene padrone di una certa terra. Da sempre sono stati visti come una minaccia. Non si spiegherebbe altrimenti l’insistenza della Bibbia nel mettere forestieri, orfani e vedove sullo stesso livello, come le categorie di persone più indifese e violentate e, quindi, le più amate da Dio che si identifica con loro fino al punto di mettere la loro protezione e difesa addirittura al di sopra del culto.

Due principi forti devono essere nel Dna del Cristiano: su questa terra siamo tutti forestieri e nomadi e ogni uomo è figlio o figlia, fratello o sorella nella grande famiglia di Dio. Se dimentichiamo questo mettiamo in gioco il nostro stesso essere uomini. «Pensare con la pancia» non è fare di tutto perché la propria pancia sia piena e mettere se stessi e i propri interessi al centro. Piuttosto è pensare come una madre che porta il figlio nel suo grembo: il biblico «sentire con le viscere» o avere misericordia. Misericordia: è il vedere/conoscere/agire alla maniera di Dio. Misericordia: l’esaltazione dell’io che si realizza nel noi. Misericordia: l’uomo che si comporta da Dio. A partire
dalla «pancia».

Gigi Anataloni