Giustizia e mentalità nuova

 

A metà aprile sono scappato per un
paio di giorni dalla città, questo luogo in cui per vedere il cielo devo
guardare in su. Ho fatto un bagno di primavera. Brevissimo. Poi l’inverno è
tornato di prepotenza: i migranti annegati, il terremoto in Nepal, la morte
improvvisa di un confratello, la violenta manifestazione a Milano, l’aumento
della disoccupazione, la gravissima situazione della Grecia, le vuote promesse
dei politici, il rapporto Caritas sullo sfruttamento e il traffico di persone
nel Sud-Est asiatico, il massacro degli Yazidi, le tensioni in Burundi e anche
le piccole grandi notizie di malattie, speranze deluse, mancanza di lavoro, di
fame che mi arrivano alla spicciolata da tante persone che ho amato in Kenya…
Sono quasi quarant’anni che faccio questo mestiere, dovrei essere abituato alle
cattive notizie. Ma non ci riesco. E soprattutto non riesco ad abituarmi alle
sparate di quelli che colgono al volo occasioni di forte emotività per fare
proposte miracoliste di soluzione ai problemi del mondo. Proposte accattivanti,
magari anche esplosive, che, se guardate con occhio critico, non vanno oltre il
solito buonismo.

Anche il grande avvenimento dell’Expo
rischia di titillare l’orgoglio buonista senza affrontare le cause vere di
un’ingiustizia che penalizza gran parte dell’umanità. Il tema «Nutrire il
pianeta, energia per la vita», è di grande attualità. «Purché non resti solo un
“tema”, purché sia sempre accompagnato dalla coscienza dei “volti”: i volti di
milioni di persone che oggi hanno fame, che oggi non mangeranno in modo degno
di un essere umano», ha detto papa Francesco all’inaugurazione, nella quale i
bambini, modificando l’Inno di Mameli, hanno cantato di essere «pronti alla
vita». Ha poi continuato: «Vorrei che ogni persona – a partire da oggi -, ogni
persona che passerà a visitare l’Expo di Milano, attraversando quei
meravigliosi padiglioni, possa percepire la presenza di quei volti. Una
presenza nascosta, ma che in realtà dev’essere la vera protagonista
dell’evento: i volti degli uomini e delle donne che hanno fame, e che si
ammalano, e persino muoiono, per un’alimentazione troppo carente o nociva.
[…] Anche la Expo, per certi aspetti, fa parte [… del] “paradosso
dell’abbondanza”, se obbedisce alla cultura dello spreco, dello scarto, e non
contribuisce a un modello di sviluppo equo e sostenibile. Dunque, facciamo in
modo che questa Expo sia occasione di un cambiamento di mentalità, per smettere di
pensare che le nostre azioni quotidiane – a ogni grado di responsabilità – non
abbiano un impatto sulla vita di chi, vicino o lontano, soffre la fame».

Cambiamento di mentalità. Ecco le
parole chiave. L’aumento degli aiuti e della cooperazione internazionale
(arrivando finalmente allo 0,7% del Pil), una riedizione del Mare Nostrum,
un’accoglienza più responsabile e condivisa possono aiutare a non far finire in
tragedia quello che è già un dramma. Ma non bastano. Occorre un grandissimo
cambiamento di mentalità che investa la politica, l’economia e le relazioni
inteazionali. La politica deve riappropriarsi dell’economia e non esserle
suddita. I paesi da cui fuggono i migranti hanno bisogno di pace, giustizia e
lavoro. Giustizia soprattutto: nelle retribuzioni di chi lavora (persone, non
schiavi); nel commercio delle materie prime e dei prodotti agricoli (non
rapina, desertificazione, inquinamento, land grabbing e monocolture);
nel movimento delle persone (no alla tratta, al traffico dei minori, al turismo
sessuale). E ancora: eliminare il commercio delle armi, le guerre per procura,
la corruzione dei politici, e riscrivere i trattati di «libero» scambio. La
lista di ciò che si deve fare per evitare il disastro dell’umanità è lunga.
Troppo ambiziosa per un semplice editoriale e oltre la capacità della singola
persona. Ma non si può stare con le mani in mano, aspettando che siano gli
altri a cambiare mentalità.

Informazione, formazione e azione sono le altre parole chiave per
cambiare. Informarsi criticamente, senza accontentarsi di slogan ed emozioni.
Approfondire le conoscenze, studiare, capire. E cambiare il nostro modo di fare
la spesa, di utilizzare le risorse, di relazionarci con gli altri, di
partecipare alla vita politica, di vivere l’ambiente.

Toiamo a sognare allora e a fare sognare, non da soli, ma insieme. E
torniamo ad agire, cominciando dal nostro «piccolo»: «Se molti uomini di poco
conto – come ha scritto anche Giorgio Torelli -, in molti posti di poco conto,
facessero cose di poco conto, allora il mondo potrebbe cambiare».

Gigi Anataloni




Martiri: Il Sale non ha perso sapore

 

In questi primi giorni di aprile tutto
e tutti parlano del massacro dei cristiani nel mondo. Pur con mille distinguo.
L’eccidio di Garissa, in Kenya, sembra aver fatto traboccare il vaso. Perfino
papa Francesco ha ripetutamente richiamato le nazioni con toni più duri del
solito. Due pesi e due misure: è l’accusa più comune soprattutto ai governi
occidentali. Grande partecipazione e mobilitazione per i tristi fatti di
Parigi, indifferenza e silenzio invece per le vittime di Garissa, Damasco,
Lahore, Mogadiscio, Bangui, Iraq, Nigeria. … Non voglio perdermi nei meandri
di una casistica infinita.

Due fatti mi hanno colpito in modo particolare: la coincidenza
(voluta?) con la Pasqua e con il centenario del «Grande Male», cioè la mattanza
di oltre un milione di Armeni cristiani in Turchia che ha visto il suo picco a
partire dal 24 aprile 1915.

È verissimo ciò da più parti
viene ribadito con insistenza, non è in atto una guerra di religione, non è
Islam contro Cristianesimo. Le cause di tutto questo vanno ricercate
nell’arbitraria divisione del mondo dopo la prima guerra mondiale, nella
tutt’altro che santa alleanza tra il capitale petrolifero e la casa di Saud,
nella grande bugia interventista a difesa della democrazia, nell’asservimento
della politica al neo liberismo sovranazionale, nell’impoverimento e
schiavizzazione progressiva della maggior parte della popolazione mondiale,
nella corsa agli armamenti e dominio delle lobbies economiche,
nell’ignoranza in cui gran parte dell’umanità è ancora mantenuta, privata anche
di servizi necessari come l’istruzione e la salute, e nell’impotenza delle
istituzioni sovranazionali. Ma è pur vero che il Cristianesimo è diventato il
capro espiatorio di colpe che non sono sue. Poi sul terreno, per i giovani di
Garissa o la gente della Nigeria o della Siria o dell’Iraq, questo poco
importa. Vittime due volte: dell’ingiusto sistema sociale ed economico mondiale
e del fanatismo dei puri che, nuovi veri idolatri, si sono costruiti un dio a
propria immagine e somiglianza.

«Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi», ha detto Gesù (Gv
15,20). L’abbiamo ben visto proprio durante il tempo di preparazione alla Pasqua.
Gesù è stato fatto fuori perché ha presentato un Dio diverso da quello
incasellato negli schemi ufficiali di chi gestiva il potere, un Dio impossibile
da piegare alla loro visione del mondo che professa il Dio della vendetta,
dell’elezione, della potenza, della distruzione dei nemici, del premio ai puri
ed eletti. Forse per alcuni sarà eccessivo scrivere che non c’è differenza tra
l’atteggiamento autogiustificatorio dei farisei e loro accoliti e quello dei
fanatici dello stato islamico. Come non è troppo dire che erano della stessa
pasta i rivoluzionari del Terrore francese, i bolscevichi anticapitalisti della
rivoluzione russa, i Kemalisti turchi intenti al riscatto di una nazione
umiliata, le brigate inteazionali e i franchisti della guerra civile
spagnola, i nazisti di Hitler, i fascisti, i maoisti, i talebani e troppi altri
che sono sicuri di essere gli unici nel giusto.

Gesù è stato ucciso perché
rappresentava la libertà di Dio, un Dio signore dell’uomo e non strumento nelle
mani degli uomini. Un Dio che preferisce i deboli, i peccatori, gli esclusi,
gli scarti, gli orfani e le vedove. Un Dio che apprezza di più un bicchiere
d’acqua dato per amore che i grandi templi luccicanti d’oro. Un Dio che si fa
servo, anzi schiavo. Un Dio che allarga i recinti, che esce incontro, che va a
cercare chi è fuori, diverso, escluso, impuro. Un Dio mite e paziente, che è
perdono, che è inclusivo non esclusivo. Il Dio amore che chiede di amare come
lui ci ha amato, di perdonare i nemici, di fare il bene a coloro che ci odiano,
di essere misericordiosi a misura della sua misericordia. Gesù ha mostrato un
mondo diverso, a misura di Dio.

Di questo Dio sono testimoni i giovani cristiani di Garissa, i caldei
della Siria e dell’Iraq, i copti dell’Egitto, le ragazze rapite della Nigeria,
le Asha Bibi del Pakistan, le Leonella e Annalena della Somalia, gli Oscar
Romero dell’America Latina, i Bakanja del Congo. …

«Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno» (Mt 5,11). Non
c’è da aver paura se oggi le persecuzioni si intensificano. È segno che i Cristiani nel mondo sono
ancora testimoni del vero Dio di Gesù Cristo. Sarebbe molto più preoccupante se
tutti li applaudissero. Forse sarebbe un sintomo che il sale ha perso sapore.

Gigi Anataloni




Luce nelle tenebre

 

Ricordo una veglia pasquale di tanti
anni fa, 1991, a Maralal: ci fu un black out totale proprio pochi minuti
prima dell’inizio. Buio completo. Alla luce di candele quella è stata una delle
veglie più suggestive che abbia mai celebrato. Un ricordo tira l’altro.
Febbraio 1983, prima domenica di quaresima. Accompagno il compianto padre Oscar
Goapper a celebrare il primo passo dell’iniziazione cristiana dei catecumeni in
un villaggio di Neisu, dove allora stava sorgendo la missione che oggi vanta il
miglior ospedale dell’Alto Huele, Nord-Est del Congo RD, allora Zaire. È buio
presto all’equatore, uniche luci, le stelle. La celebrazione comincia attorno
al fuoco e poi, pian piano, come per magia, la notte si illumina: una, dieci,
centinaia di candele si accendono. Salgo su un termitaio per essere sopra
quelle piccole luci che danzano nella notte. Stelle cadute dal cielo, gocce di
gioia e pace, isola di luce nell’oscurità della foresta. Ma too al ricordo di
Maralal. Dal fuoco nuovo viene acceso il cero pasquale. Entrare in chiesa al
buio non è un problema per la maggior parte dei presenti, abituati a vivere
senza elettricità. Entra la Luce, «Mwanga wa Kristu!» (la luce di Cristo) canto.
Piccola luce di un cero, ma grande luce di Cristo, che tutti illumina.

Il cero pasquale, icona di Cristo, icona della missione della Chiesa.
Mi affascina che in questo nostro tempo di lampade sempre più potenti, di luci
che illuminano a giorno, si continui a usare questo segno debole che è il cero
pasquale. Una luce piccola e fragile che però ha dentro una forza dirompente:
condivisa, può illuminare il mondo e incendiare la terra. Per vederla devi
essere al buio. Per lasciarti illuminare devi avvicinarti. Per sentirne il
calore devi ridurre le distanze. Per accenderti devi lasciarti toccare. E
toccato ti infiammi. Infiammato, ti consumi. Consumandoti, doni luce, accendi
speranze, scacci il buio e le sue paure, fai vedere il bello, comunichi gioia.

Ma sembra che oggi si abbia paura a
guardare questa luce che ti fa vedere dentro, che ti obbliga a incontrare te
stesso e gli altri. Altre luci ammaliano, attirano e accecano. Denaro,
divertimento, sesso, droga, potere. Luci che falsano i colori e rendono normale,
accettabile, giustificato quello che non lo è: dalla corruzione al rave,
dal sesso a tredici anni alla volgarità esibita in Tv, dalla coda per uno smartphone alla protesta contro i
rifugiati, dall’evasione alla satira senza rispetto per niente e nessuno,
dall’aborto all’eutanasia, dall’indottrinamento gender allo sfruttamento
dei precari e stranieri sottopagati e schiavizzati, … Anche il fanatismo
ideologico alla maniera dell’Isis è una delle luci che accecano tanti. Dico
fanatismo ideologico e non religioso, perché il dio dell’Isis non è Dio, ma un
mostro, una aberrazione dell’orgoglio umano che si è costruito un dio a misura
della sua superbia. Una luce violenta che esplode ogni tanto lungo la storia
dell’umanità, con nomi diversi, ma sempre gli stessi frutti di morte e
distruzione.

Niente di nuovo in quanto sto scrivendo. Ma è anche vero che noi
abbiamo la memoria corta e abbiamo bisogno di rinfrescarci le idee. Quante
volte abbiamo sentito nella nostra vita il racconto della passione, morte e
risurrezione di Gesù? Eppure ogni anno abbiamo bisogno di ridircelo, non solo
per ricordare ma per rivivere. Per rispondere alla domanda «C’eri tu alla croce
di Gesù?», «Sì, ci sono, oggi!». «Ci sono» alla sua morte e alla sua
resurrezione, perché oggi la sua morte e resurrezione danno senso alla mia
vita. E quello che «vedo e tocco» oggi dell’amore di Dio per me, lo testimonio,
lo canto, lo vivo. La luce debole del cero pasquale mi ricorda questo, fa
riconoscere dentro di me che l’amore di Dio in Gesù non è qualcosa del passato,
ma è un fatto che mi riguarda adesso, ogni adesso. E accendendo la mia candela
da quel cero, ne condivido sì la fragilità e debolezza, ma nello stesso tempo
ne moltiplico la forza. Quello che ho veduto, quello che ho ascoltato, quello
che ho toccato, quello che ho sperimentato come amore gratuito e liberante,
questo oggi annuncio e testimonio. E la tenebra è meno oscura, grazie alle
innumerevoli piccole luci che si sono lasciate toccare dalla Luce di Cristo e
come Lui si lasciano consumare per amore.

Buona Pasqua.

Gigi Anataloni




Quaresima (in)differente?

Nel messaggio di Quaresima, papa
Francesco, con la sua usuale franchezza, ci invita a confrontarci con una
malattia che ci sta distruggendo dal di dentro e sta alterando i nostri
rapporti con noi stessi, con gli altri e con Dio: l’indifferenza. «Succede che
quando noi stiamo bene e ci sentiamo comodi, certamente ci dimentichiamo degli
altri (cosa che Dio Padre non fa mai), non ci interessano i loro problemi, le
loro sofferenze e le ingiustizie che subiscono… allora il nostro cuore cade
nell’indifferenza: mentre io sto relativamente bene e comodo, mi dimentico di
quelli che non stanno bene. Questa attitudine egoistica, di indifferenza, ha
preso oggi una dimensione mondiale, a tal punto che possiamo parlare di una
globalizzazione dell’indifferenza. Si tratta di un disagio che, come cristiani,
dobbiamo affrontare», scrive papa Francesco.

L’indifferenza è micidiale: non fa vedere, non fa sentire e non fa parlare.
Rinchiude ciascuno nel proprio mondo e il resto non esiste più. Più facile
ignorare che lottare contro il male. L’altro, il diverso da me, ciò che è fuori
dai miei interessi, non mi riguarda. Che pianga o rida, sia libero o schiavo,
sano o malato: se non esiste, perché preoccuparmi?

Il mio cellulare costa milioni di morti in Congo? I miei vestiti sono
confezionati da schiavi? Le mie patatine sono cotte in olio ricavato da palmeti
che distruggono le foreste? Il contadino che coltiva i miei fiori preferiti
lavora senza protezioni e ha un salario da fame? La benzina per la mia auto
finanzia il fondamentalismo islamico? La famiglia è attaccata da tutte le parti
nel nome della non discriminazione, dei diritti, del gender? L’aborto, che è
omicidio, è presentato come un diritto che esalta la dignità della donna?

Non mi riguarda; non ci posso far nulla; così è la vita; il mondo
cambia, bisogna adeguarsi.

«L’indifferenza verso il prossimo e verso Dio è una reale tentazione
anche per noi cristiani», ricorda il papa. Da qui la sua proposta di reagire a
tutti i livelli: di Chiesa, di comunità locale e di persona.

Non voglio ripetere qui quello che il
pontefice scrive molto meglio di me. Mi permetto solo di condividere due
considerazioni che faccio anzitutto per me stesso. Per vincere la battaglia
contro l’indifferenza occorrono conversione e resistenza. Conversione
come confronto continuo della propria mentalità con i parametri del Vangelo, resistenza
come capacità di impegno quotidiano fatto di proposte e scelte controcorrente,
non omologate e non scontate.

«Convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15), sono le prime parole
di Gesù nel Vangelo di Marco, un invito a modellare il nostro modo di essere su
di Lui, secondo le sue priorità, il suo stile, il suo modo di «uscire» verso le
persone. Conversione è allora rivoluzione. Infatti anche solo la pratica
dei tre punti focali del Padre nostro (1. Dio al centro / la sua volontà;
2. uso «povero/sobrio» dei beni di questo mondo / pane di ogni giorno; 3. amore
per gli altri / perdono; gli stessi punti richiamati nella liturgia del
Mercoledì delle Ceneri: preghiera, digiuno, elemosina) manda a ko
l’egocentrismo, l’accumulo di risorse e il consumismo che ci paiono normali e
necessari, e l’orgoglio e la litigiosità senza fine di cui sono ammalate le
nostre relazioni. E così, sono scalzate le radici stesse dell’indifferenza. La
conversione obbliga a creare relazioni, a uscire da sé, a incontrare le
persone, a pensare, sognare e agire con gli altri: l’altro diventa parte della
propria vita e la propria di quella dell’altro. Il riferimento non è più l’io,
ma il noi, non il mio, ma il nostro.

E resistenza. Per non lasciarsi scoraggiare, per non soccombere
al suadente grigiore della normalità, che in teoria lascia liberi di fare tutto
quello che si vuole purché si continui a consumare sempre di più per mantenere
un sistema che arricchisce pochi alle spese di miliardi di «schiavi felici».
Resistere è prendere coscienza, interessarsi, approfondire ed essere testimoni.
Resistere è prendere posizione per la verità, la luce, il bello,
l’autenticamente umano e quindi autenticamente divino. Con tre armi «pesanti»:
fede, amore e speranza, come dice san Paolo in 1Tess 5,8.

Non diciamo che siamo immuni all’indifferenza. La lotta è appena
cominciata. Per questo preghiamo Cristo in questa Quaresima insieme a papa
Francesco: «“Rendi il nostro cuore simile al tuo”. Allora avremo un cuore forte
e misericordioso, vigile e generoso, che non si lascia chiudere in se stesso e
non cade nella vertigine della globalizzazione dell’indifferenza».

Gigi Anataloni




Africa, terra di martiri

’8 ottobre 1964, cinquanta anni fa, papa Paolo VI dichiarava santi
i 22 martiri d’Uganda, uccisi tra il 1885 e il 1887 per ordine di re Mwanga II,
e scriveva: «Questi Martiri Africani aggiungono all’albo dei vittoriosi, qual è
il Martirologio, una pagina tragica e magnifica, veramente degna di aggiungersi
a quelle meravigliose dell’Africa antica, che noi modei, uomini di poca fede,
pensavamo non potessero avere degno seguito mai più. […] Questi Martiri
Africani aprono una nuova epoca; oh! non vogliamo pensare di persecuzioni e di
contrasti religiosi, ma di rigenerazione cristiana e civile. L’Africa, bagnata
dal sangue di questi Martiri, primi dell’èra nuova (oh, Dio voglia che siano
gli ultimi, tanto il loro olocausto è grande e prezioso!), risorge libera e
redenta».

Erano gli anni Sessanta, tempi di grande ottimismo. L’Africa si era
appena affacciata all’indipendenza. E quel «Dio voglia che siano gli ultimi» esprimeva
una grande speranza di pace, dialogo, tolleranza e libertà, non solo per i
cristiani, ma per ogni uomo.

Cinquant’anni dopo, quel grido, rimasto purtroppo inascoltato, risuona
ancora con forza. L’Africa di oggi è terra di martiri. Dall’Egitto alla Libia,
dalla Somalia al Centrafrica, dalla Nigeria al Kenya, dal Sudan alla Sierra
Leone, dal Rwanda alla Rd Congo (e l’elenco non è completo), migliaia di
cristiani testimoniano, a prezzo della vita, la loro fede nel Dio
misericordioso e Padre di tutti, rivelato dall’incarnazione, passione, morte e
risurrezione di Gesù, il Cristo. Ogni tanto qualche nome attira l’attenzione
dei media, come quello di Meriam, la madre sudanese che speriamo libera nel
momento in cui voi leggete queste righe, o quelli dei due missionari rapiti e
liberati in Cameroon. La maggior parte, centinaia (forse addirittura migliaia)
di cristiani spariscono nell’anonimato dei massacri di massa o
dell’indifferenza generalizzata.

Per anni l’Africa è stata timida a
parlare dei suoi martiri. Chi ha mai sentito parlare dei 149 «martiri di
Mombasa», uccisi nel 1631? Chi ha mai considerato come martiri gli innumerevoli
cristiani uccisi nei secoli in Egitto o quelli rapiti, venduti e schiavizzati
in Etiopia? E le vittime dei Simba (1964) in Congo? I 70 martiri Kikuyu uccisi
dai Mau Mau tra il 1951 e il 1954? E i martiri di Guiua in Mozambico (uccisi
tra il 1975 e il 1992)? E oggi? Ogni giorno sentiamo di violenze sui cristiani.
Il martirologio della grande Chiesa d’Africa continua ad arricchirsi di
splendide stelle. «Il sangue dei martiri è seme di Cristiani», diceva
Tertulliano (Cartagine, 155 ca. – 230). Paolo VI si augurava un’Africa risorta,
libera e redenta. Un auspicio che si scontra ancora oggi con una dura realtà di
violenza, sfruttamento, ingiustizie e guerre. Che il sangue di tanti uomini e
donne pacifici, nonviolenti, inermi e innamorati di Dio, sia davvero fecondo di
pace, giustizia e armonia per tutta l’Africa.

P.S. Mentre pubblichiamo sul web questa pagina, Meriam è stata liberata dalla prigione in cui era, ma si trova ancora confinata nell’ambasciata americana di Khartoum.

Gigi Anataloni




Un sogno da bambini

Ho visto una recita. Una storia di
Natale, interpretata da bambini di un asilo multietnico.
C’è Giuseppe, il falegname che mette tutto il suo impegno a martellare un
chiodo ostinato a non entrare. Un Giuseppe pieno di attenzioni, con un bastone
in mano, troppo lungo per lui, alla guida di un asino bambino, troppo piccolo
per portare qualcuno. Giuseppe accompagna la moglie incinta tra il rifiuto
gridato degli osti e lo sguardo cipiglioso di soldatini altrimenti sorridenti
nelle loro scintillanti uniformi.

Maria è una bambina bellissima, piena di dignità, cosciente del suo
ruolo nei bei vestiti di seta e con il velo azzurro splendente. Certo, Maria
deve essere bellissima.

In un angolo, attorno a un fuoco di carta rossa, fanno finta di
dormire i pastori e anche gli agnelli bambino, mentre entrano gli angeli,
saltellanti come passeri, le alucce posticce, per annunciare loro la nascita
del piccolo Gesù a Betlemme.

E subito Gesù entra in scena, correndo leggero nella sua bella
tunichetta di seta bianca e con una corona dorata sul capo. Un Gesù un po’
birichino, che sorride a tutti mentre affettuosamente gratta le orecchie della
pecora bambino che ha abbandonato il suo capo su di lui.

Di colpo la musica cambia. Arrivano tre carovane: una dall’Africa, una
dall’Asia, una dall’Europa. Tre re e la loro scorta. Bambini d’ogni popolo e
nazione portano doni al piccolo Gesù. Offrono frutta, dolci, cibo, tamburi e
musica e tanti sorrisi di innocenza.

E accade il miracolo. Gli osti aprono il cuore. I soldati depongono le
armi. I pastori offrono la loro buona volontà. I re s’inginocchiano davanti a
un bambino, re del mondo, in un pellegrinaggio di pace. Sono davvero di paesi,
razze e lingue diversi, uniti da un unico cuore, semplice, giornioso e innocente.
Bambini capaci di rendere vero un sogno d’amore.

Era solo una recita di Natale, solo un teatrino dei piccoli.
Ho desiderato fosse il teatro dei grandi.
Ho sperato fosse la storia di oggi.
Ho sognato tanto che gli adulti diventino di nuovo bambini.
Buon Natale!

In cauda venenum.
Il 23 ottobre scorso, su La Stampa a pag. 22, un articolo a tutta pagina
conclude così: «In Africa oggi non c’è bisogno di missionari ma di giustizia
sociale». Tale frase ha fatto saltare la mosca al naso a un vecchio missionario
che mi ha segnalato la perla. Ho cercato l’articolo, l’ho letto e l’ho trovato
buono. Quasi tutto, eccetto il finale. Che l’Africa abbia bisogno di giustizia
sociale è verissimo, ma affermare – anche solo implicitamente – che i
missionari sono l’opposto di essa, è una grande ingiustizia e un’offesa
gratuita. Da molto tempo ormai i missionari sono tutt’altro dal buonismo
consolatore che insega alla gente a sopportare anche le violenze più grandi con
rassegnazione. Anzi, questo l’hanno fatto solo nella letteratura faziosa di un
certo laicismo di moda. Ché? I missionari si farebbero ammazzare in nome di una
carità pelosa? «L’impegno per l’Africa non va visto come carità pelosa:
si tratta di semplice restituzione», è scritto nella penultima frase
dell’articolo. L’ultima è quella già citata. In cauda venenum. Così
dicevano gli antichi, «il veleno (è) nella coda».

Dispiace che per promuovere le proprie iniziative qualcuno ceda alla
tentazione di denigrare quelle degli altri. Se scegliere di vivere in mezzo ai
più poveri del mondo condividendo con loro l’insicurezza, i pericoli, le
malattie, il cibo e anche il cimitero è carità pelosa, lo lascio giudicare a
voi.

Benvengano imprenditori, finanzieri, industriali e politici che si
impegnano in Africa coscienti di dover «restituire» a un continente derubato da
tempi immemorabili (Indiani, Arabi, Egiziani e Romani derubavano il Continente
nero ben prima di Cristo!). Sarebbe solo giustizia. Per questo non c’è bisogno
di opporre giustizia e missionari. Anzi, forse sarebbe il caso di andare a
leggere quanto i missionari, da un paio di secoli in qua, hanno scritto e
continuano a scrivere sulla dignità dell’Africa, i diritti dei popoli,
l’esigenza di giustizia e il dovere di riparazione.

Ancora Buon Natale a tutti voi e grazie di cuore
per il vostro affetto e sostegno alle nostre missioni.

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Gigi Anataloni




Dalla Consolata al mondo

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Questa frase è stata molto usata per spiegare la vocazione dei missionari e missionarie della Consolata, il cui Dna viene dal cuore della Madonna, patrona di Torino, sì, ma madre dell’umanità. Va ricordato che il quadro torinese, nascosta sotto la coice, porta la scritta «Sa Maria de Pplo de Urbe», Santa Maria del popolo dell’Urbe, perché copia di quello venerato nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma, a sua volta copia di un’altra icona attribuita addirittura a San Luca. I torinesi fecero presto sparire quel «de Urbe», e nel 1714, trecento anni fa, acclamarono Maria Consolatrice come patrona del «popolo di Torino», e cominciarono a chiamarla «Consolà», complice l’affettuosa familiarità del dialetto che aborre nomi lunghi. La Consolata, che non si lascia ingabbiare o privatizzare da nessuno, non volle restare proprietà dei torinesi, e a fine Ottocento cominciò a viaggiare oltre oceano con i molti emigranti piemontesi diretti in Argentina. Ma l’universalizzazione ebbe il suo momento forte quando la Consolata stessa - lo testimonia il beato Allamano - «forzò» la mano al suo «tesoriere» a fondare un istituto, anzi due, totalmente dedicati all’evangelizzazione dei popoli. Da quel giorno la Consolata è diventata irrevocabilmente cittadina del mondo.

La parabola della Madre di Dio venerata sotto il nome di Consolata offre spunti forti al nostro essere cristiani oggi. Certo, Maria, la madre di Gesù, è cittadina del mondo anche senza essere «la Consolata». Però quel nome «Consolata» ha in sè una intrinseca forza missionaria. La Madre di Dio è anima della missione  fin dal giorno di Pentecoste e non può essere consolata se non da chi diventa «consolatore»: costruendo la famiglia di Gesù, «fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri», la pace dove c’è guerra, la gioia dove c’è paura, libertà e amore là dove c’è sfruttamento e schiavitù, amore dove c’è abbandono e odio. Lei è davvero Consolata solo quando i fratelli e le sorelle di suo Figlio vivono davvero la loro vocazione di essere «famigliari di Dio e cittadini del cielo». Osservando il mondo in cui viviamo, scorrendo le statistiche circa le vocazioni missionarie, vedendo le nostre chiese sempre più vuote, sperimentando il materialismo più dilagante, viene anche da chiedersi se la Consolata si sia stufata di Torino e dell’Italia; se come ha lasciato Roma tanto tempo fa per incontrare persone nuove altrove, così anche oggi non sia alla ricerca di «consolatori» in altre parti del mondo, pronta a mostrarci grosse sorprese... A meno che non ci svegliamo, qui nella nostra bella Italia drogata dal benessere, e torniamo a guardare a Colui che lo sguardo e la mano della Consolata continuano ad indicarci. Ci vuole poco, lasciamoci aiutare da lei.

Gigi Anataloni




Una bussola per L’Europa 

Questo editoriale è sottoscritto dalle testate missionarie italiane
aderenti alla Fesmi (Federazione della
Stampa Missionaria Italiana
) tra cui anche Missioni Consolata.

Oggi la percentuale degli europei che
non hanno fiducia nel parlamento comunitario supera di 8 punti quella di coloro
che invece ne hanno. Solo qualche anno fa gli estimatori erano oltre il 30% in
più dei detrattori. Ancora più accentuata è la perdita di fiducia nei confronti
della Commissione, del Consiglio e soprattutto della Banca centrale.

Eppure a Bruxelles si decidono le sorti di mezzo miliardo di cittadini
di 28 paesi. Scegliere una lista e individuare un candidato da votare, quindi,
non possono essere atti stanchi e inconsapevoli.

Il voto del prossimo 25 maggio è lo strumento – l’unico – in nostro
possesso per indicare un nuovo percorso, per incamminarci sulla strada di
un’altra Europa: quella dell’eguaglianza, dei beni comuni, dell’accoglienza,
della pace.

Per questo, come riviste missionarie, riteniamo
che i rappresentanti eletti a Strasburgo e Bruxelles debbano avere a cuore
almeno cinque grandi tematiche: gli Epa (Accordi di partenariato economico);
la pace e il commercio delle armi; l’emigrazione e l’immigrazione; la
cooperazione internazionale e il volontariato; la libertà religiosa.

1. Con gli Accordi di
partenariato economico
, l’Ue chiede ai paesi Acp (Africa, Caribi, Pacifico)
di eliminare le barriere protezionistiche in nome del libero scambio. Le
nazioni africane, togliendo i dazi e aprendosi alla concorrenza, permettono
all’agricoltura europea, che vende i suoi prodotti a basso costo perché
sostenuta da denaro pubblico, di invadere i loro mercati, con conseguenze
potenzialmente drammatiche. Sono pertanto accordi da rivedere.

2. Per uscire dalla crisi,
Bruxelles vuole sostenere lo sviluppo delle capacità militari continentali, con
l’obiettivo di fare dell’industria armiera un volano economico. Una
scelta intollerabile per chi ricerca le vie del dialogo e del disarmo per
risolvere situazioni di tensione e ostilità. Ci vuole un nuovo modello di
difesa che trasformi l’Europa in una potenza di pace, a cominciare dalla
costituzione dei Corpi Civili di Pace europei, come forza d’intervento tesa
alla prevenzione e ricomposizione nonviolenta dei conflitti. I casi della Siria
e dell’Ucraina sono un monito per tutti.

3. Sui temi dell’immigrazione,
è urgente una riforma del regolamento di Dublino: introdotto nel 2003 per
chiarire le competenze dei singoli stati sulle domande di asilo politico, si è
rivelato uno strumento inadeguato e in contrasto con il principio di protezione
dei rifugiati. Più in generale, l’Europa deve dimostrare che quello
dell’accoglienza è tra i suoi principi fondativi.

4. A ciò contribuirebbe
l’omogeneizzazione delle legislazioni nazionali in tema di cooperazione.
L’Europa, tramite i suoi paesi, è il primo donatore per l’Africa. Ma spesso le
sue azioni sono dispersive, non legate a un progetto comune, e quindi poco
efficaci. La cooperazione deve diventare lo strumento principe per una politica
di pace che voglia garantire la convivenza e il benessere, nel rispetto dei
diritti fondamentali di tutti i cittadini e valorizzando il contributo gratuito
e volontario della società civile.

5. Infine, c’è il tema della libertà
religiosa
: parrebbe un diritto garantito e tutelato nel Vecchio Continente.
Invece ha bisogno di un buon restauro perché l’Europa non è immune da casi di
violazione della libertà di credo, di attacchi a membri delle minoranze
religiose sulla base delle loro convinzioni, e di discriminazioni per motivi
religiosi. La stessa attenzione che chiediamo alle istituzioni europee nei
confronti dei paesi non europei, la chiediamo anche nei confronti dei paesi
membri dell’Ue.

I candidati parlamentari attraverso i loro
programmi che manifestino sensibilità su questi temi, i cittadini attraverso la
scelta di tali candidati, possono far imboccare all’Ue la strada del
cambiamento.

Federazione Stampa Missionaria Italiana


Vedi anche

ecco alcune delle riviste che hanno già pubblicato questo editoriale:

Su la rivista Nigrizia

Su la rivista Popoli

Sulla rivista Africa

Su la rivista Andare alle Genti

Fesmi




Consumarsi fino all’ultimo 

«Famiglie». Questa è l’ultima parola
che ha scritto. Poi basta. Non aveva più niente da dare. Consumata fino all’ultimo.
Prima in Africa e poi in Italia, ha registrato pensieri, conferenze, prediche,
interventi, emozioni, critiche e arrabbiature, pensieri santi e programmi di
lavoro, numeri e parole. In quest’epoca digitale non capita spesso di assistere
a una fine così, dopo chilometri di parole scritte fino all’esaurimento totale.
La fine della mia penna biro. Gli ultimi giorni di carnevale, vigilia di
quaresima.

Quaresima, il tempo che si conclude con un
soffio: «Tutto è compiuto»! (Gv 19,30). Consummatum est! Le ultime
parole di Uno che ha dato tutto per amore. Non vogliatemene se oso mettere
vicini una vecchia biro e il Figlio di Dio in croce. Ma mi sento in buona
compagnia. «Io non sono che una piccola matita nelle mani di Dio», aveva
scritto Madre Teresa. La fine della mia penna, che ha servito fino all’ultimo,
mi ha un po’ emozionato e fatto pensare.

• All’Allamano, il beato che noi vorremmo presto
santo – come non lo fosse già -, che nel suo testamento ha scritto ai
missionari e alle missionarie: «Per voi ho dato tutto: impegno, salute, denaro,
vita. Spero, morendo di diventare vostro protettore in Cielo».

• Al mio compagno di noviziato, amico e fratello
in Italia e in Kenya, padre Giuseppe Ettorri, consumato dalla malattia a
sessant’anni, il 23 febbraio di quattro anni fa. Il tutto era esploso solo
pochi giorni prima, proprio il 16, giorno anniversario della morte del beato
Allamano.

• A suor Paolita, di cui a metà gennaio di
quest’anno ho benedetto il funerale, mia immancabile compagna di banco durante
la preghiera del mattino nella chiesa del beato Allamano, che è andata in cielo
a «esultare di gioia indicibile e gloriosa» avendo conseguito la Meta di tutta
una vita di fede e dedizione (cfr. 1 Pt 1,8-9 e Eb 12,2).

• A padre Giorda, di cui scriviamo questo mese, ripartito per il
Tanzania alla bella età di 87 anni, con in cuore un motto: «Punda afe, mizigo
afike!» (muoia l’asino, [purché] il carico [la Buona Notizia di Gesù] arrivi».

Pensieri arruffati. Molti i volti che
si affollano nel cuore. Persone che non hanno ancora finito di consumare il
loro inchiostro e persone che hanno dato tutto raggiungendo la Meta dopo una
corsa gagliarda, guardando in avanti. Questi ultimi mi ispirano una gioia
profonda perché sono giunti là dove avevano tanto desiderato arrivare, liberandosi
nel lungo viaggio di tutto il superfluo per acquistare il solo Tesoro (cfr. Mc
10, 21) per cui vale spendere la vita. Persone che nel loro cammino hanno
irradiato speranza, comunicato serenità, condiviso amore. Non «facce da
quaresima», ma piccole umili luci della Pasqua.

La Pasqua, memoriale dell’avvenimento centrale della nostra fede senza
il quale il Cristianesimo sarebbe solo una religione come tante, è ormai
imminente. Guardiamo a Colui che ha vinto la morte e il male consumandosi sino
all’ultimo per far trionfare la vita e l’amore. Ricarichiamoci di luce per
continuare a tracciare segni – seppur piccoli – di speranza, di coraggio, di
gratuità, di gioia e di frateità in un mondo avvolto dall’oscurità della
disperazione, della violenza, del sopruso e dell’avidità. Buona Pasqua.

Gigi Anataloni




Acqua, Pane & Olio

Quaresima. Con marzo entriamo ancora una volta in un tempo
speciale di grazia che ci offre l’opportunità di riflettere, approfondire e
cambiare in meglio la nostra vita di fede. è
un pellegrinaggio di quaranta giorni per il quale non sono necessarie molte
cose. Anzi, più il bagaglio è ridotto ai minimi termini, più il viaggio è
spedito. Cosa mettere allora nello zaino per questi quaranta giorni? Mi
permetto di suggerire tre cose: acqua, olio e pane.

Acqua. Nasciamo nell’acqua,
viviamo d’acqua, siamo fatti d’acqua. Il vino è giornioso, il vino fa festa, ma
senza vino si vive, senz’acqua no. Allora in questo tempo via il vino, le
bibite, gli aperitivi, i succhi e tutte quelle altre cose inventate per far
bene prima di tutto a chi le produce. Toiamo all’acqua, alle «chiare,
fresche, dolci acque», alla «sor’Acqua, la quale è multo utile et humile et
pretiosa et casta». No, non l’acqua della pubblicità. Piuttosto quella del
digiuno, della sobrietà ed essenzialità. Viviamo giorni in cui molti digiunano
non per scelta ma per necessità. Quello non è digiuno, è povertà. Occorre fare
del digiuno una scelta, non un’imposizione. Una scelta di libertà dal
consumismo, dallo spreco, dall’accumulo di cose inutili. Un impegno di
giustizia: sprecare, usare male dei beni di questo mondo, accumulare più del
necessario, vivere sopra le proprie possibilità, è un grande atto di
ingiustizia verso i poveri, gli sfrutatti e gli schiavizzati del mondo.

Pane. Quante volte ho desiderato il nostro buon pane quando ero in Kenya:
profumato, saporito, nutriente. Non c’è biscotto o torta che tenga di fronte al
buon pane fresco di foo. Ma non è questo il pane da mettere nel nostro zaino
per il viaggio quaresimale. è piuttosto
il pane della Parola e dell’Eucarestia, il pane della preghiera come incontro
giornioso col Padre. Il pane che ci rende commensali di Dio e ci fa riconosecre
la presenza di Gesù in mezzo a noi, il vero pane spezzato che nutre la nostra
vita. Mangiare la Parola: dare tempo all’ascolto, alla meditazione, al
silenzio.
Siamo circondati di parole, fino alla nausea: voci, rumori, musica, sussurri e
provocazioni, immagini e suoni, una cacofonia incessante. Non hai né spazio né
tempo per pensare, capire, interiorizzare. Un bombardamento. Per questo diventa
essenziale lo slow-food servito nella preghiera, nel silenzio,
nell’adorazione, nella celebrazione dell’Eucarestia. Occorre sbocconcellare il
Pane della Vita per non correre il rischio di essere come i discepoli che sulla
barca nella tempesta «non avevano ancora capito il fatto dei pani» (Mc 6,52;
8,17-18).

Olio. Di oliva naturalmente. Quello biblico, quello che anche Gesù
conosceva e usava. L’olio dà sapore al cibo, bellezza alle donne e forza agli
atleti. L’olio è consacrazione per i preti, segno dello Spirito per i
battezzati e balsamo per le piaghe dei feriti. Si consuma nelle lampade per
dare luce nella notte e cacciare oscurità e paure. L’olio è segno della carità
e dell’amore vigilante. Carità che è condivisione ed elemosina (cioè «atto di pietas»,
amore concreto per l’altro fondato sull’imitazione e restituzione dell’amore di
Dio), gratuità e dono, accoglienza e perdono, impegno e giustizia. E tanto di
più, perché la misura dell’amore si trova solo in Dio.

Non c’è niente di nuovo in quanto vi ho scritto.
La liturgia ci ricorda questa trilogia (preghiera, elemosina e digiuno) fin dal
primo giorno di Quaresima con la lettura di Matteo 6. A tutti un buon cammino
quaresimale. Viaggiamo leggeri, portiamo l’essenziale.

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Gigi Anataloni