Creare ponti


A fine aprile sui giornali si è scritto del fatto che nelle nostre città la gente si ignora. Notava Alberto Mattioli: «Come vicino di casa potreste avere chiunque: una delizia del genere umano che firma per le vostre raccomandate e vi offre i biscottini cucinati da lui quanto un terrorista dell’Isis che nei ritagli di tempo fabbrica una bomba atomica in cantina. Il problema è che difficilmente lo saprete. Pare infatti che una delle attività più praticate nei condomìni sia quella di evitare i condòmini. Secondo un’indagine on line […] il 61% degli italiani vede con fastidio chi gli vive accanto. Anzi, si sforza proprio di non vederlo. Non potendo eliminarlo, cerca almeno di evitarlo. Siamo passati dal “condominio famiglia” pieno di poveri ma belli dei film Anni Cinquanta al “condominio asociale” di oggi, dove si conosce a malapena il nome di chi vive dall’altra parte della parete e in ogni caso non si ha alcuna voglia di approfondire la conoscenza» (La Stampa, 26/04/2016).

Nello stesso tempo, circolava già il messaggio di papa Francesco per la cinquantesima «giornata mondiale delle comunicazioni sociali» (8 maggio): «L’amore, per sua natura, è comunicazione, conduce ad aprirsi e a non isolarsi. E se il nostro cuore e i nostri gesti sono animati dalla carità, dall’amore divino, la nostra comunicazione sarà portatrice della forza di Dio.

Siamo chiamati a comunicare da figli di Dio con tutti, senza esclusione. […] La comunicazione ha il potere di creare ponti, di favorire l’incontro e l’inclusione, arricchendo così la società. Com’è bello vedere persone impegnate a scegliere con cura parole e gesti per superare le incomprensioni, guarire la memoria ferita e costruire pace e armonia. Le parole possono gettare ponti tra le persone, le famiglie, i gruppi sociali, i popoli. E questo sia nell’ambiente fisico sia in quello digitale. […] La parola del cristiano, si propone di far crescere la comunione e, anche quando deve condannare con fermezza il male, cerca di non spezzare mai la relazione e la comunicazione».

L’indagine commentata dai giornali, che dava i condòmini milanesi tra i più asociali (69%) seguiti dai torinesi (68%), è specchio di una realtà preoccupante, soprattutto nelle città. È un modo di vita che peggiora in parallelo con la scristianizzazione della nostra società, la quale tende a ridurre tutti a essere individui (uomini centrati sul proprio io) e non favorisce l’essere persone (uomini in relazione). Ne soffre la famiglia, privata degli spazi, costretta in alloggi troppo piccoli e in condomìni allergici ai bambini, e dei tempi di incontro, rubati da un sovraccarico di lavoro e da mille «indispensabili» impegni. Ne soffrono le relazioni tutte, meno «faccia a faccia» e sempre più affidate a supporti digitali. Ne soffre il senso di appartenenza a una comunità e a un luogo reale, con la conseguenza di vantare un sacco di diritti per sé senza assumersi i necessari doveri verso gli altri. Ne soffre anche l’ambiente, violentato da una cementificazione aggressiva, dall’abuso di pesticidi, dall’inquinamento e dall’abbandono. Diventa perfino difficile la vita nelle parrocchie, dove solo alcuni piccoli gruppi riescono a creare relazioni profonde, mentre molti cristiani, pur vivendo nello stesso palazzo e frequentando la stessa chiesa, non si conoscono e si ignorano, nonostante le abitudinarie strette di mano al segno della pace.

Le parole di papa Francesco mostrano invece l’alternativa possibile, che già molti vivono, la vera rivoluzione quotidiana operata da chi crede in Gesù di Nazareth: costruire ponti e abbattere le barriere, creare comunione e fiducia, aprire canali di comunicazione e spazi di incontro. È un’operazione di resistenza, è l’ostinarsi a vedere nell’altro un dono, un arricchimento, un fratello o una sorella. È credere a tutti i costi che non siamo fatti per l’indifferenza, per la guerra, per la paura, ma per la pace e la frateità, per un mondo in cui ognuno si senta accolto e si trovi a suo agio. Dove ogni persona sia trattata con rispetto e dignità e nessuno sia escluso o scartato.

Certamente un’operazione non facile, visto che viviamo in un sistema che crede più nell’accumulare e vendere armi e nell’erigere barriere che nel costruire ponti, ma possibile se ci lasciamo guidare dall’esempio di Gesù che è venuto non per dominare ma per servire, non per escludere ma per accogliere, non per attendere chi vuole andare da lui ma per uscire in cerca di chi è lontano.

Possono sembrare parole retoriche in questi tempi di accese discussioni sull’accoglienza, sulla crisi dell’Unione europea, sul moltiplicarsi di barriere, sull’efficacia o sull’effetto droga della comunicazione digitale, e così via. È vero: non bastano le pie esortazioni, occorre agire. Papa Francesco lo fa e i suoi gesti parlano per lui. Migliaia di missionari e di volontari lo fanno. Lo fanno anche i bambini, almeno quelli non ancora «educati» dai genitori, che sanno dare un sorriso anche agli estranei. Facciamolo anche noi. Diventiamo un po’ bambini.




Schiavi nella paura, liberi nel timore


Stiamo certamente vivendo tempi difficili. Non occorre essere dei maghi per saperlo. E non è una crisi come le tante che abbiamo già vissuto o a cui abbiamo assistito da spettatori nel non lontano passato. La crisi è in casa nostra. Sta sconvolgendo il nostro modo di vivere, le nostre sicurezze, i valori in cui crediamo, le nostre relazioni, il nostro modo di essere, qui in casa nostra. E non solo siamo messi in pericolo nel presente, ma siamo derubati del nostro futuro.

E abbiamo paura.

Non è nuova la paura. È compagna del nostro modo di vivere ormai da molto tempo, anche se fino a oggi avevamo imparato a conviverci senza neanche rendercene conto. È cresciuta pian piano insieme al nostro benessere in contemporanea con l’accorciarsi delle distanze che i nostri bambini possono percorrere senza essere accompagnati. Si è insinuata nelle pieghe della nostra esistenza con l’aumentare dell’ansia e dello stress e la scomparsa del sorriso dalle nostre facce. È aumentata insieme al nostro ego gonfiato da tanti diritti, difesi con sempre maggior bellicosità, mentre calava la tolleranza verso gli altri, soprattutto la fiducia in chi lavora al nostro servizio: medici, insegnati, preti … Sembra svanire tutte le volte che aggiungiamo un amico digitale nei social, ma poi si riaffaccia quando ci rendiamo conto della nostra solitudine priva di amici veri.

E c’è chi ci guadagna sulla nostra paura. Politici l’alimentano ad arte per una manciata di voti. Datori di lavoro la usano per sfruttarci e ricattarci. Avvocati guazzano nella nostra litigiosità. Costruttori trasformano le nostre case in prigioni. Maghi, astrologi, guru di vario tipo, profeti e veggenti, esorcisti e guaritori, apocalittici e imbroglioni, lobbisti e burocrati, costruttori d’armi ed esperti di sicurezza, case farmaceutiche e salutisti, assicuratori ed estetisti, la tengono ben viva per non perdere un’inesauribile fonte di ricchezza.

Come se non bastassero i guai che abbiamo già, ecco migranti, profughi e rifugiati che, ci dicono, ci rubano il lavoro, portano malattie, si prendono tutti i privilegi ignorando i doveri, mangiano le risorse pubbliche che dovrebbero invece andare ai cittadini, sono ladri e delinquenti cacciati dai loro paesi che così hanno svuotato le prigioni, sono vivaio e nascondiglio di terroristi. Ed ecco il terrorismo, l’incubo dei nostri giorni, che ti fa sentire davvero nudo e indifeso.

È il trionfo della paura che ci toglie libertà, gioia, fiducia, speranza, futuro.

Rassegnati al peggio, dunque?

Timore. È una parola abusata perché abbinata a paura, come se fossero madre e figlio. La sua accezione negativa è di sicuro la più popolare. Eppure il timore può essere tutt’altro rispetto alla paura, anzi, ne diventa il miglior antidoto. Un antidoto garantito dallo Spirito Santo, garantito da Colui che lo dona. Mentre la paura nasce dallo scontro con l’orribile, il terrificante e l’oscuro, il timore è risposta al bello, al grande, all’incommensurabile e «abbagliante». La paura vive di sudditanza e dominio, il timore cresce nel rispetto, costruisce relazioni, aumenta fiducia e responsabilità. Il timore sgonfia chi è troppo pieno di sé, rafforza l’autostima di chi non si considera abbastanza, fa vedere chi ci sta attorno come dei compagni di viaggio invece che come nemici e rivali.

Il timore si nutre di rispetto e meraviglia, come quando uno ha in mano un oggetto prezioso e delicato, come un padre che prende in braccio suo figlio appena nato, come il contemplare il cielo stellato dalla cima di un monte nel silenzio della notte. Allora il timore diventa contemplazione, la contemplazione ricerca, la ricerca conoscenza, la conoscenza sapienza, la sapienza relazione, la relazione incontro, l’incontro dono … E trovi la tua dimensione vera, senza superbia, autosufficienza e arroganza, in una realtà di relazioni libere e liberanti, in cui gli altri ti completano e sono da te arricchiti.

E il timore caccia la paura, perché al centro del timore c’è Dio, la meraviglia delle meraviglie, l’amore che sorprende, il paradigma e modello delle nostre relazioni. «Perfetti come il Padre è perfetto; misericordiosi come Dio è misericordioso». «Ama Dio e il tuo prossimo perché Dio ti ha amato per primo». E chi ama il prossimo ama Dio, e timora di Dio, si comporta da Dio. Una prospettiva così grande da indurre timore. Eppure un timore così forte da farti «alzare lo sguardo» e camminare in avanti, non da solo, ma insieme agli altri, nell’esodo della vita.

Buona Pentecoste.




Grandioso


Su Facebook ho trovato una storia scritta da una brillante giovane avvocata africana. L’ho tradotta liberamente dall’inglese, eccetto il nome del protagonista che è in italiano anche nell’originale.
«C’era una volta un uomo chiamato Grandioso. Era un ladro, di quelli d’alto bordo. Eppure tantissimi, affascinati dalla sua grande ricchezza, lo amavano e ne tessevano lodi sperticate. Grandioso era generoso con la sua “corte” e, furbescamente, condivideva il suo bottino con i più fedeli tra i suoi ammiratori diventati guardiani del suo tesoro. Non discriminava Grandioso. Derubava grandi e piccoli, uomini e donne, ricchi e poveri, senza guardare né religione né appartenenza etnica. Era imparziale. Rubava a tutti e faceva sparire i pochi che osavano opporsi al suo strapotere.

2016_04 MC Hqsm_Pagina_03Più rubava, più lo applaudivano. Più lo celebravano, più gli offrivano occasioni di rubare. Certo, perfino lui si meravigliava della stupidità dei tanti che lo ammiravano anche quando, apertamente, svuotava le loro tasche. E nessuno osava alzare un dito contro di lui. Così continuava a rubare senza freni. Era davvero il “ladro” per eccellenza.

Tutti contenti, dunque? Non tutti. Ogni volta che lui si arricchiva rubando, i figli e le figlie dei suoi fan accumulavano un debito, perché ricadeva su di loro il dovere di risarcire i derubati. Così ogni bambino di quel paese veniva al mondo già indebitato. E non finiva mai. Appena un debito era ripagato, Grandioso rubava ancora di più …».

La storia finiva così, in sospeso, rimandando a una seconda puntata. Fin troppo facile vedervici l’allusione a tanti capi di stato africani, da Mugabe a Museveni, da Kabila e Nkurunziza – per fare solo pochi nomi – che «per il bene della nazione» perpetuano se stessi accumulando immense ricchezze di cui rendono partecipi solo una stretta cerchia di cortigiani privilegiati, mentre la maggioranza della popolazione vive sotto la soglia della povertà.

Non facciamo fatica nemmeno a riconoscervi i «nostri» grandiosi, nascosti sotto i volti noti della politica e anche dei carrieristi del mondo ecclesiale o tra i corrotti e i corruttori di ogni tipo che infestano il nostro paese. Grandiosi con i soldi degli altri, sempre pronti a cavalcare l’onda per una manciata di voti, maestri di trasformismo e manipolatori di opinione. L’abbiamo visto nei fiumi di parole per la legge Cirinnà, nell’ambiguità su Siria, Libia e migranti, nell’affare degli F-35, nei trucchi delle primarie, nei giochi di potere per Roma, nei fallimenti delle banche, nella gestione dei grandi temi che ci agitano come famiglia, eutanasia, coppie dello stesso sesso, utero in affitto e adozioni.

Il nostro patriottismo è gratificato quando vediamo italiani nelle classifiche dei più ricchi del mondo di Forbes e Fortune, ma ci dimentichiamo facilmente che quando la ricchezza è troppa, difficilmente si coniuga con l’onestà ed è spesso accumulata a prezzo di lacrime e sangue, quelli della gente comune, i nostri e quelli di tanti altri poveri sfruttati nel mondo. I Grandioso non ci sono solo in Africa.

Penso invece a un altro grande, Grandioso davvero. Uno che per pagare le tasse si è affidato alla fortuna di una moneta trovata nella bocca di un pesce. Un tale che non si è lasciato abbagliare dal tintinnare delle monete d’oro o d’argento dei ricconi e ha saputo invece vedere i centesimi donati da una povera vedova. Un uomo autentico che ha scelto di vivere da povero per essere libero, pur di non diventare schiavo di ricchezze accumulate sul dolore degli altri. Uno che è finito in croce e ha rivelato tutta la sua grandezza proprio quando i suoi uccisori pensavano di averlo spogliato di ogni dignità. Un grande che il nostro collaboratore don Mario Bandera chiamerebbe certo il «Perdente per eccellenza»: Gesù di Nazareth, figlio di Dio, figlio di Maria, figlio dell’uomo e prototipo di ogni uomo vero.

Un uomo che ha rovesciato i paradigmi del nostro pensare: il primo diventa l’ultimo, il servo è più grande del padrone, l’amore vince l’odio, il perdono è più forte della vendetta, il donare arricchisce e l’accumulare impoverisce e schiavizza, i bambini sono maestri di sapienza, i peccatori e le prostitute vengono prima dei ricchi e dei titolati, la misericordia è la più alta forma di giustizia, il timore di Dio è base della «Politica» e fonte di onestà, trasparenza, responsabilità civile…

Abbiamo appena celebrato la memoria della Pasqua del Signore, l’avvenimento centrale e discriminante della nostra vita cristiana. Viviamolo sul serio perché non resti una bella recita o uno spettacolo a lieto fine. Prendiamo coraggio, resistiamo all’appiattimento dell’indifferenza e dell’abitudine e poniamo concreti gesti d’amore, di gratuità e di sobrietà.




Non si eliminano così anche gli ulivi

Leggo: «“I paesi coinvolti dal virus zika devono autorizzare la contraccezione e l’aborto”. È questo l’ultimo appello sull’epidemia lanciato stavolta non dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ma direttamente dall’Onu. L’alto commissario delle Nazioni unite per i Diritti umani, Zeid Raad al-Hussein, ha fatto sapere che garantirà alle donne in questi paesi anche consulenza su salute sessuale e riproduttiva. Ma soprattutto ha rivolto un invito ai governi e parlamenti: “Le leggi e le politiche che restringono il loro accesso a questi servizi devono essere riviste con urgenza, allineandosi agli obblighi inteazionali sui diritti umani per garantire il diritto alla salute per tutti”, ha affermato al-Hussein. “Chiediamo a questi governi di cambiare tali leggi, perché come possono chiedere alle donne di evitare gravidanze?”, ha aggiunto Cecile Pouilly, portavoce dell’alto commissario» (da repubblica.it, 05/02/2016). Parole pesanti queste, come la morte.

Scusate, ma quando leggo notizie come quella sopra riportata mi viene da chiedermi quale concezione abbiano i burocrati dell’Onu della persona umana. Non vedo molta differenza ideologica tra queste sentenze che escono dal Palazzo di Vetro e quelle che piovono da Bruxelles a proposito degli ulivi pugliesi infettati di Xylella. Gli ulivi si tagliano, i feti si eliminano, tutto nel nome della salute e della sicurezza. Gli ulivi stanno lì dove sono stati piantati 10, 100, 1000 anni fa. Il parassita li attacca e loro non possono neppure scuotere i rami per resistere. Ma la persona umana?

Si dice che non si può «chiedere alle donne di evitare gravidanze». Allora via tutti gli ostacoli e i limiti a «anticoncezionali e aborto», per garantire il «diritto alla salute per tutti». Per tutti, eccetto i nuovi figli e figlie in attesa di nascere. Ma rischiano di nascere malati! E poveri. Allora, per sicurezza, uccidiamoli prima. E per evitare problemi di coscienza, cambiamo le leggi cosicché quella che in realtà è un’operazione di eugenetica diventa un’operazione umanitaria.

Non intendo entrare nel merito della vexata quaestio dei contraccettivi, e neppure mettere in discussione il dovere delle istituzioni nazionali e inteazionali di proteggere la salute di tutti. Neppure mi sogno di sottovalutare il dramma vissuto da migliaia di famiglie nelle regioni colpite dal virus, famiglie, tra l’altro, che già vivono in situazioni di gravissima povertà. Mi voglio limitare a condividere con voi il profondo disagio che provo di fronte alla deriva molto materialista della nostra società. Mi preoccupa un mondo nel quale si ha paura ad accogliere alcune migliaia di bambini probabilmente malati perché, in fondo, non si pensa in termini di sofferenza (per loro e le loro famiglie), ma piuttosto in termini di spesa e guadagno e non si ha nessuna intenzione di investire per migliorare l’habitat degradato in cui nascono. Quello stesso mondo non esita a sganciare migliaia di bombe in Siria e spende miliardi in armamenti, ha i fondi per nuovi stadi e le Olimpiadi, ma non trova i soldi per chi fugge da guerre e miseria, per risanare le periferie urbane e costruire nuove scuole, e non osa credere nella gratuità dell’amore, come quello di genitori disposti ad accogliere e amare un figlio anche malato. Ricordo una giovane famiglia che si rifiutò di permettere ai medici di interrompere l’alimentazione del loro bimbo prematuro per accelerae la morte inevitabile. Visse solo 22 giorni quel piccolo. Ebbe un nome e una storia. Oggi, andando al cimitero, quei genitori possono dire «ti abbiamo tanto amato», senza portare il peso di un «ti abbiamo ucciso».

È proprio la capacità di amare gratis, anche contro il buonsenso, che ci caratterizza ed è una delle dimensioni più belle e sorprendenti del nostro essere uomini. Più bazzico il Vangelo, più rimango affascinato dalla fiducia che Dio ha nell’uomo: una fiducia tale da credere che l’uomo sia capace di comportarsi da Dio, di essere perfetto come Dio è perfetto, di essere misericordioso come Dio è misericordioso, capace della stessa gratuità di Dio.

Il problema è che siamo noi uomini a non credere negli uomini. Si parla tanto di umanità, di «diritti umani». Ci si riempie la bocca di libertà, sicurezza, diritti. Ma chi ha una concezione più alta dell’uomo? Chi promette sicurezza e salute eliminando dolore e sensi di colpa? O chi crede nella capacità di gratuità, d’amore, di dono di sé, di sacrificio e di pensare «noi» e non solo «io»?

Amo gli ulivi e ho perplessità sulle soluzioni drastiche usate per «difenderli», ma gli uomini sono ben più degli ulivi. Sono capaci di amare, e questo è il più grande antidoto alla malattia e alla morte.




Vinci l’indifferenza e conquista la pace

 

Questo è il titolo del Messaggio per la 49ª Giornata Mondiale della Pace, la terza di papa Francesco. «L’indifferenza nei confronti delle piaghe del nostro tempo è una delle cause principali della mancanza di pace nel mondo. L’indifferenza oggi è spesso legata a diverse forme di individualismo che producono isolamento, ignoranza, egoismo e, dunque, disimpegno. L’au-mento delle informazioni non significa di per sé aumento di attenzione ai problemi, se non è accompagnato da una apertura delle coscienze in senso solidale; e a tal fine è indispensabile il contributo che possono dare, oltre alle famiglie, gli insegnanti, tutti i formatori, gli operatori culturali e dei me- dia, gli intellettuali e gli artisti. L’indifferenza si può vincere solo affrontando insieme questa sfida». Così «Avvenire» presentava il messaggio lo scorso agosto. Mentre scrivo, il testo ufficiale non è ancora stato rilasciato, in forte ritardo sulla data tradizionale della festa dell’Immacolata. Perdonate allora qualche mia considerazione a braccio.

Puntando il dito contro l’indifferenza, papa Francesco mette a nudo uno degli atteggiamenti più tipici di questo nostro mondo. Tutto (governi, istituzioni, banche, pubblicità, apps, sistemi operativi…) ci dice: «Goditi la vita, non preoccuparti, divertiti, rilassati, mangia e dormi. Ai problemi? ci pensiamo noi». Chi siano poi questi «noi», è impossibile definirlo. Non credo nelle teorie complottiste, in una mente oscura che vuole dominare il mondo, ma certamente ci siamo costruiti un sistema che toglie ogni responsabilità personale e culla nell’indifferenza, mentre ali- menta disastri geopolitici, ambientali e sociali che sembrano sfuggire a ogni controllo. Basta ricorda- re quel mostro che è l’Isis. Quel che conta è che si continui a comperare auto (forza trainante della ri- presa!), a consumare sempre di più e a rincorrere gadgets raffinati (computer, cellulari, internet) che danno la sensazione di controllare il mondo, ma in realtà riducono ognuno a essere un sorvegliato speciale 24 ore su 24.

L’indifferenza riduce la visuale, impedisce di vedere al di là di quello che è «mio»: pensiero, coscienza, interesse. Nel mentre, oltre la «mia» linea di visione, si consuma la «terza guerra mondiale» con i suoi milioni di rifugiati, le antiche foreste – polmoni del mondo – scompaiono per mano di eserciti di schiavi che trasformano la terra in una groviera a caccia di oro, coltan e altri minerali, e i nuovi latifondi espandono le monocolture espropriando e affamando innumerevoli piccoli contadini.

Ma non è solo l’ambiente a pagare il prezzo di questo modo insensato di vivere e gestire il mondo. Depressione, solitudine, mancanza di speranza, aumento delle differenze sociali, megalopoli invivibili, perdita del senso di appartenenza a una comunità, delegittimazione della famiglia e logica dello «scarto» (bambini/aborti e anziani/eutanasia), relativismo, ne sono alcuni degli effetti collaterali.

Papa Francesco, in linea con il Vangelo, non accetta questa logica. La vera pace non si costruisce sull’indifferenza e neppure sul privilegio di pochi. Lo aveva detto con forza, benché con parole diverse, anche a Torino, nell’incontro con i giovani, quando ha citato Pier Giorgio Frassati: «Se volete far qualcosa di buono nella vita, vivete, non vivacchiate. Vivete!». Vivere è andare «controcorrente rispetto a quella cultura, a quel modo di vivere. La realtà, vivere la realtà. E se questa realtà è vetro e non diamante, io cerco la realtà controcorrente e faccio la mia realtà, ma una cosa che sia servizio per gli altri». «Non comprate sporcizie che dicono essere diamanti». «Fare cose controcorrente. […] Fare cose costruttive, anche se piccole, ma che ci riuniscano, che uniscano tra noi, con i nostri ideali: questo è il migliore antidoto contro questa sfiducia nella vita, contro questa cultura che ti offre soltanto il piacere: passarsela bene, avere soldi e non pensare ad altre cose». In quell’occasione il papa aveva anche ricordato che c’è un antidoto contro l’indifferenza, contro «l’andare in pensione a vent’anni». «Quello che fa sì che un giovane non vada in pensione è la voglia di amare». Un amore che «è concreto», non romantico, ed è «dialogo e comunione: (un amore che) si comunica», che è «molto rispettoso» e «non usa le persone» perché «l’amore è casto» e «si sacrifica per gli altri».

Che questo amore concreto, dialogante, rispettoso e capace di sacrificarsi per gli altri, sia l’anima di questo 2016 che stiamo cominciando, per vincere la paura e alimentare la speranza.




Natale e concilio

2015_12 MC Pagina_03Il Natale di quest’anno accade in un contesto tutto particolare, da un lato c’è il Giubileo della Misericordia, un’occasione per tutti di sperimentare l’amore personale, incondizionato e rigenerante di Dio, dall’altro c’è il circo mediatico che si nutre di notizie, di scandali che coinvolgono persone di Chiesa, di Vatileaks, di gossip e speculazioni su papa Francesco e di molto altro. Non entro nel merito delle varie notizie, spesso purtroppo vere anche se esagerate e fuori contesto; non mi interessa conoscere i particolari. Vorrei solo cercare di capire il senso di quanto sta succedendo. E forse il Natale, quello vero, mi aiuta a farlo.

La storia di cui facciamo memoria è, di per sé, un’anti-storia: quella del figlio di un povero senza terra – immagino Giuseppe dire a Maria (come fece mio padre con mia madre): «Ho solo queste braccia e il bene che ti voglio» – che, appena nato, viene rifiutato dai potenti ed esaltato dagli umili. Partorito durante un viaggio, in una casa non sua, subito cercato per essere ucciso e reso profugo, va poi a vivere nel villaggio più umile e nascosto di tutto Israele, Nazareth. Altro che Messia glorioso e vittorioso, atteso e temuto, altro che «Signore dei Signori, re della terra». La storia del Natale è piuttosto quella di un signor nessuno, ultimo degli ultimi, come cercheranno di dimostrare i suoi uccisori, esponenti di una strana alleanza politico-religiosa, facendogli subire il supplizio riservato agli schiavi-cose con l’inchiodarlo alla croce.

L’evento ricordato a Natale è stato l’inizio di una storia che continua ancora oggi: la contrapposizione tra la logica di Dio e quella degli uomini. L’azione di Dio è libera, gratuita, nascosta, periferica, rispettosa, inclusiva; quella degli uomini, anche di «religione», cerca invece successo, approvazione, potenza, visibilità, centralità, onori e ricchezze. L’uomo vuole impadronirsi di Dio per usarlo per i suoi scopi; invece Dio si offre alla libertà dell’uomo in maniere sempre nuove e non convenzionali.

Cinquant’anni fa il Concilio Vaticano II iniziava un faticoso cammino per liberare la fede dalle sovrastrutture religiose accumulate nei secoli, per restituire alla Chiesa, popolo di Dio, la missione di essere testimone non della potenza giudicante e selettiva di un Dio glorioso nei cieli, ma dell’amore di un Dio che si è fatto uomo e tutti accoglie con una preferenza spiccata per i poveri, i peccatori, gli emarginati e gli scarti, un Dio che disdegna i grandi templi e preferisce i cuori; testimone di un Dio che non parla in lingue auliche che hanno bisogno di interpreti, ma che comunica nel linguaggio comune perché tutti lo conoscano davvero come Padre misericordioso, Pastore buono che conosce ciascuno per nome, Fratello e amico che si fa pane spezzato. È stato un vento impetuoso, il Concilio, che ha disperso le nubi, aperto nuovi orizzonti, alimentato la speranza, ma ha anche creato scompiglio in chi ha visto i propri privilegi e le proprie sicurezze messi in discussione.

In questo mezzo secolo sembra però che quel vento abbia pian piano perso vigore, non solo perché noi uomini abbiamo la memoria corta e ci abituiamo a tutto, ma anche perché quelli a cui piace un Dio sonnacchioso che dall’alto dei cieli si accontenta di nuvole d’incenso, di belle chiese e di tante candele, sono corsi a chiudere porte e finestre, a tagliare ponti e innalzare barricate.

Poi è arrivato il ciclone delle dimissioni di Benedetto XVI, e il vento fresco di Francesco. «Poveri, scarti, emarginati, chiesa in uscita, chiesa ospedale, accoglienza, attenzione alla persona, povertà, trasparenza, sobrietà…»: le parole di sempre, dette in modo nuovo, sgravate dal vetusto «chiesese» dei documenti curiali, sono tornate in libertà. E non solo le parole, ma soprattutto i gesti di Francesco, spiazzano e confondono, oppure confortano e incoraggiano. La reazione dei custodi della tradizione, riluttanti alleati di terremotatori gongolanti, non si è fatta attendere, come abbiamo visto in questi ultimi mesi, prima, durante e dopo il Sinodo sulla famiglia. Il paradigma del Natale si è ripetuto.

Ma il Natale, storia di libertà e gratuità, di semplicità e incontro, non si lascia ingabbiare. Nemmeno dagli scandali che periodicamente scuotono la Chiesa. Come il primo Natale non è stato fermato dalle violenze di Erode o dall’ipocrisia dei custodi del «Tempio e della Legge», così anche il cammino iniziato anni fa dal Concilio e galvanizzato oggi dal carisma di Francesco, non sarà fermato. Anzi, come la storia sacra ci insegna, questi scandali e le sofferenze a essi legate, nelle mani di Dio stanno diventando un’occasione di grazia e rinnovamento, un pungolo a continuare il cammino per la confusione dei «beffardi» e la consolazione e dei «miti e puri di cuore».

Buon Natale. E che il 2016 sia davvero l’anno della misericordia.

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Buona lettura.




Famiglia al centro

Mentre scrivo, il Sinodo ordinario su «La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo» è appena cominciato. Al centro è la famiglia, il pilastro di ogni società, che nel nostro mondo europeo e nordamericano è messa in discussione dal modello di vita individual-consumista e che nel resto del mondo subisce invece lo stress della violenza delle guerre, della povertà, delle malattie, delle migrazioni forzate.

In questi ultimi anni la famiglia italiana ha subito un grande cambiamento: drastica riduzione del numero dei matrimoni (sia religiosi che civili), crescita delle unioni di fatto, nozze ritardate, pochi figli o nessuno e spesso in tarda età, aumento dei single per scelta o per necessità, separazioni, divorzio «breve», educazione gender, mateità surrogata… Tutto questo accompagnato da una cacofonia di attacchi alla famiglia tradizionale vista come ostacolo alla libertà, alla modeità, ai diritti individuali e alla nuova realtà di una società in continua evoluzione. Chi cerca di resistere a questa ondata è bollato come tradizionalista, antidiluviano, fondamentalista e troglodita, se non omofobo e via dicendo, con una serie colorita di epiteti vilificanti.

La crisi della famiglia è sotto gli occhi di tutti, e sembra aver creato uno strano stato di assuefazione al cambiamento, e, anzi, anche una sorta di malsana aspettativa del nuovo che ormai non sorprende più. Un nuovo visto da alcuni come dovuta evoluzione di un processo di liberazione e modeizzazione, da altri come nefasta conseguenza di un’aberrazione istituzionalizzata. Vedi l’ultimissima notizia di questi primi giorni di ottobre della cosiddetta miss transegender che vuole essere padre e madre del proprio figlio.

Quando leggerete queste righe, il Sinodo sarà già concluso e sono sicuro che quelli che si aspettavano grandi novità saranno delusi, come saranno delusi i conservatori che ritengono il diritto canonico più importante anche del Vangelo. Papa Francesco sta guidando la Chiesa a vivere la fedeltà a Cristo nell’oggi senza arroccarsi sulla «legge», difesa e sostenuta da un numero crescente di regole e commi per far fronte a tutte le possibili novità. Richiamando alla fedeltà al Vangelo, Francesco obbliga la Chiesa a vivere e sperimentare la misericordia di Dio e a rimettere la persona al centro: la persona, uomo e donna, nella sua concretezza, bellezza e forza, ma anche nella sua grande fragilità. Evita così le trappole della «casuistica». Come ha fatto Gesù con i «farisei» che gli tendevano trappole con questioni capziose come quella della moglie di sette mariti, della liceità del divorzio, dei soldi dati al tempio, della definizione del «mio prossimo», e così via. Gesù non ha aggiunto nuove regole modeizzanti. Lui è andato al nocciolo, al progetto originale di Dio: un progetto di amore nel quale l’unità e la complementarità dell’uomo maschio e femmina è fondante, perché immagine della natura di Dio stesso. Il suo discorso è stato duro, tanto da spiazzatre anche i discepoli, «meglio non sposarsi» allora (Mt 19,1-10). Ma non per questo ha ammorbidito la sua proposta: «L’uomo non divida ciò che Dio ha unito».

Alla logica del «piacere» che mette al centro l’«io», Gesù oppone la forza dell’«amore» che pone al centro il «tu» e il «noi». Alla felicità come «piacere» immediato e personale, in cui l’altro è valutato per quanto mi dà o mi soddisfa, oppone la felicità come relazione nell’armonia, nella pace e nell’unità, nella quale la felicità dell’altro diventa spazio, supporto e realizzazione della mia felicità. Una proposta non facile, ma l’unica che secondo Gesù permette davvero all’uomo di raggiungere la pienezza della sua dignità.

Perchè è allora essenziale per la Chiesa difendere la famiglia? Perché è l’immagine di Dio, è il luogo più ordinario della sua presenza. Senza la famiglia non si può capire la Trinità che è comunità di amore, non si capisce la gratuità dell’amore e la bellezza e complementarità della diversità. Senza la famiglia, generare la vita diventa un’azione industriale, il bambino si trasforma in un prodotto. Senza famiglia non si capisce la Chiesa, famiglia di Dio, comunità di fratelli e sorelle, figli e figlie dello stesso Padre, animati dallo stesso Spirito, uniti come un corpo allo stesso Cristo. Senza famiglia non si capisce cosa siano il dono e l’accoglienza, e si lascia libero campo solo a relazioni di utilità, di interesse, di dominio, di possesso. Senza famiglia non si capisce la «misericordia» che nasce dall’amore viscerale tra madre e figlio. Senza famiglia non si capisce Dio.


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Gigi Anataloni




Dalla parte dei Poveri

È il tema che la
Chiesa italiana propone per questo Ottobre missionario come risposta a papa
Francesco il quale ha ricordato ai direttori delle Pontificie Opere Missionarie
che «L’evangelizzazione, che deve raggiungere tutti, è chiamata a partire dagli
ultimi, dai poveri, da quelli che hanno le spalle piagate sotto il peso e la
fatica della vita. […] La Chiesa è il popolo delle beatitudini, la casa dei
poveri, degli afflitti, degli esclusi e dei perseguitati, di coloro che hanno
fame e sete di giustizia. A voi è chiesto di operare affinché le comunità
ecclesiali sappiano accogliere con amore preferenziale i poveri, tenendo le
porte della Chiesa aperte perché tutti vi possano entrare e trovare rifugio» (Ai
direttori delle PP.OO.MM.
, 9 maggio 2014).

Essere dalla parte dei poveri è nel Dna della Chiesa fin dalle sue
origini, anche se spesso uomini di Chiesa hanno tradito questo ideale. È un
impegno che nei secoli ha generato miriadi di attività e per il quale centinaia
e centinaia di santi hanno dato la vita, non ultima la nostra beata Irene. Ma
dove c’è «il grano» trovi sempre anche «la zizzania». Già san Giacomo se la
prendeva con i cristiani che davano i primi posti ai ricchi impomatati e
cacciavano in un angolo i poveri puzzolenti (Gc 2,1-4). E se fosse tra noi
oggi, cosa direbbe a noi cristiani del «bel paese»?

Nella nostra bella Italia ci sono due facce della stessa medaglia: da
una parte una generosità incredibile ed eroica, dall’altra una durezza di cuore
da vergognarsi. L’Italia che amo ha un cuore grande che batte in milioni di
volontari, negli angeli del fango, in chi è impegnato in migliaia di onlus, in
chi sostiene l’adozione a distanza, nei gruppi missionari, nei benefattori e
amici di missionari e volontari, nei laici impegnati, in chi lotta per la pace
e la giustizia e sfida la mafia e la camorra, in chi accoglie rifugiati,
fuggitivi e migranti senza se e senza ma… L’altra faccia ha il volto dello
sfruttamento della prostituzione dove mafia e camorra e cartelli di trafficanti
di uomini prosperano al servizio dei gusti perversi di clienti insospettabili;
delle industrie agroalimentari a caccia di tutto quello che costa meno anche
sapendo di sfruttare migliaia di lavoratori schiavizzati da caporalati
criminali e mafiosi; dei politici che cavalcano e alimentano le paure della
gente con l’occhio ai sondaggi e poi non fanno il loro dovere al servizio del
bene comune persi come sono nelle loro diatribe, ripicche, ricatti; dei giornalisti
che provano un godimento morboso nello scrivere di «invasioni, masse,
conquiste, furti, violenze, contagi e contaminazioni», dimenticando che paesi
molto più poveri del nostro hanno accolto centinaia di migliaia di fuggitivi,
rifugiati e migranti senza fare tutte le storie che facciamo noi che pure
abbiamo tantissimi alloggi sfitti, interi paesi disabitati e abbandonati e un
gran numero di posti lavoro nell’agricoltura, nei servizi e nell’artigianato
rifiutati dai più; dei super cristiani che nella difesa della purezza della
religione vogliono insegnare il mestiere al papa che si permette di mettere in
discussione il loro perbenismo affumicato d’incenso ed esteriorità.

I lettori di
questa rivista senza pretese sanno bene che stare dalla parte dei poveri fa
bene allo spirito e alla società, e non amano gli slogan, il vociare per
sentirsi e farsi sentire. Essere amici dei missionari significa condividee la
scelta preferenziale per i poveri ovunque essi siano. E non solo con un aiuto
economico, ma soprattutto con uno stile di vita che parte dal cuore. Solo
qualche settimana fa, era il 30 agosto, il Vangelo ci ha ricordato che
l’inquinamento delle persone viene dal di dentro. Gesù ha elencato 12 fattori
di inquinamento, tra cui avidità, inganno, malvagità e superbia. L’avidità, che
san Paolo definisce come idolatria, fa perdere il baricentro: non si pensa più
secondo il progetto d’amore di Dio, ma si diventa schiavi del denaro, del
potere, delle cose, del proprio piccolo mondo. Guai a chi lo tocca. La malvagità
ha molte forme, una è particolarmente pericolosa: il godimento nel diffondere
informazioni sbagliate e diffamanti sugli altri. La superbia o arroganza mette
il «sé» al centro e rifiuta ogni confronto e dialogo. L’inganno, tra le sue
molte facce, fa passare per vero quello che è spudoratamente falso.

Bisogna reagire a questo inquinamento, che è come una polvere sottile
che ci penetra e ci corrompe. La cura è quella indicata dal papa: rimanere
accoglienti verso i poveri, i migranti, i rifugiati, i disperati, i senza
lavoro, chiunque sia nel bisogno, senza distinguo. Stare dalla parte dei poveri
ci aiuta a rimanere umani, a mantenere il cuore limpido, ad avere le mani
libere per accogliere, abbracciare, accarezzare, consolare, aiutare e ricevere.

Stare dalla parte dei poveri fa bene a noi, fa bene alla Chiesa, fa
bene alla società.

Gigi Anataloni




Solo per amore

Il vescovo di Orano (Algeria), il domenicano Pierre
Claverie, dopo il massacro dei sette monaci trappisti di Nôtre Dame
de l’Atlas
, avvenuto quaranta giorni prima di essere a sua
volta assassinato il 1° agosto 1996, rispondendo indirettamente a quanti gli
domandavano perché lui e molti altri cristiani avessero deciso di rimanere
nella tormentata terra di Algeria, in un’omelia tenuta il 23 giugno 1996 a
Prouilhe (Francia), dove si era recato per un viaggio, così diceva: «Dopo
l’inizio del dramma algerino mi è stato chiesto più di una volta: “Ma cosa ci
fate voi laggiù, in Algeria? Perché rimanete in quel paese? Ma scuotete
finalmente la polvere dai vostri calzari, e tornatevene a casa”. A casa […] ma
dov’è davvero la nostra casa? […] Noi siamo in Algeria per amore di questo
Messia crocifisso, solo e unicamente per amore suo! Non abbiamo alcun interesse
da salvare, alcuna influenza da difendere, non siamo stati spinti da alcuna
perversione masochista, non abbiamo alcun potere, ma siamo laggiù come al
capezzale di un amico, di un fratello ammalato, stringendogli la mano e
asciugandogli il sudore dalla sua fronte! Solo per amore di Gesù poiché è lui
che sta soffrendo a motivo di questa violenza che non risparmia nessuno,
crocifisso nuovamente nella carne di migliaia di innocenti. Come Maria, la
Madre, e l’apostolo Giovanni, anche noi ci troviamo ai piedi della croce su cui
Gesù muore abbandonato dai suoi e scheito dalla folla. Non è forse il dovere
di ogni cristiano esser presente nei luoghi dove qualcuno viene respinto e
abbandonato? […] Dove può trovarsi la Chiesa, che è il corpo mistico di Cristo,
se non in prima linea? Io credo che muore del non essere vicina alla Croce del
suo Signore. Per quanto possa sembrare paradossale, e san Paolo lo ha
dimostrato con chiarezza, la forza, la vitalità, la speranza cristiana, la
fecondità della Chiesa vengono appunto di là, da nessun altro luogo e in nessun
altro modo. La Chiesa si inganna e inganna il mondo quando si allinea con le
altre potenze, come un’organizzazione umanitaria o come un movimento evangelico
amante della spettacolarità. In quel modo essa potrà brillare, ma non certo
bruciare del fuoco dell’amore di Dio, “forte come la morte”, come dice il
Cantico dei Cantici, perché qui si tratta davvero di amore, di amore
innanzitutto, e solo di amore, una passione di cui Gesù ci ha trasmesso il
gusto e ha tracciato il cammino. “Non c’è amore più grande di questo: dare la
vita per chi si ama!”». (Jean-Jacques Pérennès, Vescovo tra i musulmani.
Pierre Claverie, martire in Algeria
, Città Nuova, 2004).

Ho trovato questa citazione nella
lettera che il nostro superiore generale, padre Stefano Camerlengo, ha mandato
alla fine di giugno per aggioare i confratelli sulla vita dell’Istituto. Mi è
parsa troppo bella per non condividerla con voi. Sono parole che a quasi
vent’anni di distanza non hanno perso il loro valore, anzi, considerando
l’impressionante numero di martiri di questi primi anni del terzo millennio,
sono più vere che mai. A dispetto dei mille luoghi comuni che si ostinano a
etichettare la Chiesa con i suoi errori veri o presunti: crociate,
inquisizione, preti pedofili, conquista, caccia alle streghe, omofobia,
scandali finanziari, la Chiesa continua a testimoniare l’amore di Dio per gli
uomini con la forza della mitezza di migliaia e migliaia di persone che
continuano a resistere all’odio e alla violenza. Uomini e donne che rimangono
al proprio posto sfuggendo l’esposizione mediatica, che testimoniano la potenza
dell’amore nel nascondimento, nella vita di ogni giorno e nei piccoli atti di
perdono e compassione, e opponendo solidarietà all’indifferenza, vicinanza al
distacco, condivisione allo sfruttamento, relazione personale alla
massificazione indifferenziata.

Tempo fa – era il dicembre 2012 -, proprio in questa pagina, ricordavo
un «fante della missione», che non aveva certo la stoffa dell’eroe, ma era
ripartito a 72 anni verso il centro dell’Africa. Un missionario semplice che
oltre ai 33mila rosari confezionati con le sue mani, ha seminato preghiera,
amore e serenità per 42 anni in Zaire, nel frattempo diventato Congo. Fino
all’ultimo, quando debilitato da un’improvvisa malattia è stato rimpatriato
d’urgenza e, dopo una sola settimana, è andato a godere la beatitudine dei
santi, per sempre. Padre Tarcisio Crestani (7/12/1940-30/05/2015), 775°
missionario della Consolata a terminare la corsa e ricevere il premio, è
vissuto e ha concluso la sua lunga camminata nel nascondimento e lontano dalla
terra che ha tanto amato. Ma la sua umile testimonianza, preziosissima agli
occhi di Dio, ha lasciato un segno perché si è lasciato bruciare, senza
pretese, dal fuoco dell’amore di Dio, fino alla fine, rinunciando anche al
desiderio di morire là, in mezzo alla gente per cui si era speso, in quel di
Isiro, tra i bambini del Gajien. Ultima offerta di totale povertà, segno di una
vita spesa, pur con limiti e contraddizioni, «tutta per Gesù».

Gigi Anataloni




Rompere l’assedio

Il IV Convegno missionario nazionale
celebrato a Sacrofano (Roma) dal 20 al 23 novembre scorso, è stato un bell’evento,
carico di passione missionaria, di realismo e di speranza. Ne cominciamo a
parlare su queste pagine. Prendo spunto da due relazioni per queste poche righe
di inizio 2015: dalla relazione del prof. Aluisi Tosolini e quella del padre
Gustavo Gutiérrez.

Tosolini, che ha fatto la sintesi
delle risposte al questionario preparatorio, tra le molte cose, ha anche
scritto: «Leggendo i materiali pervenuti si ha spesso l’impressione che chi
scrive si percepisca sotto assedio. Mi pare che il lutto per la fine della
“civiltà cattolica” non sia stato ancora elaborato [da chi vive in Italia, ndr].
L’essere minoranza – piccolo gregge è invece percepito in modo del tutto
differente dai Fidei Donum [sacerdoti diocesani mandati in missione
dalle loro diocesi, ndr] che operano in missione: è visto come una
ricchezza ed una sfida piuttosto che come un limite o un pericolo. Da qui la
metafora della “comunità sotto assedio” e dei tre diversi comportamenti che in
teoria si possono pensare quando si è sotto assedio. Il primo è arrendersi,
o venire a patti, trattare la resa. Il secondo comportamento è resistere.
Attrezzarsi per resistere all’infinito, sviluppando tutti i vissuti tipici
della persona sotto assedio: vittimismo, chiusura, incapacità di cogliere i
nuovi contesti e le diverse occasioni di interazione con essi, dogmatismo, … Il
terzo atteggiamento è uscire, sortire dall’assedio. Aprire le porte,
eliminare le mura. Correre il rischio di camminare su spazi sconosciuti. Avere
il coraggio di affrontare nuove domande e nuove sfide. Lasciare il centro per
rischiare la vita nelle periferie».

Gutiérrez ha ricordato (la citazione
dalla registrazione è con molte parentesi, perché parlava un misto di italiano,
spagnolo, inglese e altre lingue, ndr) che c’è un miracolo nei Vangeli
che è raccontato ben cinque volte ed è comune a tutti gli evangelisti, Giovanni
compreso: la moltiplicazione dei pani. Una tale ripetizione indica che nasconde
un messaggio molto importante. «Il messaggio non (è) tanto la capacità di
moltiplicare il pane, noi non possiamo fare questo. Credo che il messaggio sia
condividere. La comunione è entrare in contatto con altre persone (anche se
avessimo delle ragioni) per dire “non posso condividere”. (Ma Gesù ha fatto)
condividere partendo da due pani e cinque pesci (che sono) niente. Noi non
dobbiamo aspettare di condividere quando abbiamo tante cose.
Essere
cristiano è condividere la gioia di essere amato da Dio, la compassione e la
simpatia (tutte e due significano “patire con”). La compassione non solo
avvicinarsi a una persona sofferente, ma anche a altre persone, è simpatia, è
parlare di frateità. Il messaggio è che (per far presente il) Regno di Dio
nella storia, (occorre) condividere». Ha poi ricordato che Giovanni ricorda che
sono avanzate dodici ceste. Un numero non certo casuale. «Perché 12 è il numero
del popolo di Dio, 12 tribù di Israele, 12 discepoli di Gesù. Mi sembra che
queste 12 dodici ceste (siano) una sfida storica ai futuri discepoli (affinché
facciano) come Gesù: condividere».

Stiamo iniziando un nuovo anno, con
tante sfide davanti a noi. L’analisi che il dottor Caselli ci fa in questo
numero evidenzia quelle italiane. Il dossier ci butta addosso quelle a livello
internazionale. C’è di che disperare. Ma il prof. Aluisi ci ricorda che
l’alternativa vera a tutti questi problemi non è arrendersi e neppure solo
resistere, occorre uscire per rompere l’assedio. E padre Gutiérrez ci indica lo
strumento che ci permette di uscire: la condivisione (che è frateità, amore e
«con-passione») e, sull’esempio di Gesù, ci incoraggia a «con-patire» anche se
non siamo nella situazione ideale, anche se abbiamo solo «cinque pani e due
pesci».

Una cosa simile propone papa Francesco che nel suo messaggio per la
giornata della pace del 1° gennaio ci invita a vivere da fratelli per
contrastare le (nuove) schiavitù. Frateità, compassione, simpatia e
condivisione: l’antidoto alla logica di morte e di ingiustizia, alla
disperazione e alla paura. Che questo 2015 sia un anno di «grazia del Signore».
Buon anno.


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Gigi Anataloni