Vedere, discernere, comunicare

Sono le parole che papa Leone ha pronunciato all’incontro con la stampa del 12 maggio scorso, in perfetta continuità con il messaggio lasciato da papa Francesco.

Quasi in contemporanea è uscito un rapporto dell’Ong Amref, «L’Africa mediata 2025», che sottolinea la grande marginalità dell’Africa nel nostro mondo comunicativo. Una marginalità che rasenta l’indifferenza ed è anche condita di stereotipi negativi soprattutto a livello di percezione e, quindi, di azione. Un paradigma, questo, applicabile anche all’informazione che riguarda tanti altri Paesi del mondo, i quali fanno notizia solo quando coinvolgono i nostri interessi o quelli dei potenti di turno.

Tutto questo non fa che confermare il disagio crescente che sento di fronte al modo con cui giornali e televisioni ci stanno informando. Basta calcolare i minuti e le pagine divorati in questi ultimi mesi da certi avvenimenti che prendono tutto. Ci vuole poco a realizzare che il primo quarto del tempo di un noto Tg è dedicato a un’informazione politica sbilanciata in favore di chi è al potere, un altro quarto alle notizie e gossip del giorno, che siano l’elezione di Trump, la malattia di papa Francesco o il totopapa nel tempo del conclave, seguiti poi da un terzo quarto dedicato a poche notizie nazionali e internazionali con ovvia centratura su Ucraina e Palestina, e un ultimo quarto dedicato un po’ allo sport e poi tanto, tantissimo spazio allo spettacolo, dove la notizia diventa spesso pubblicità.

Per parlare del Myanmar ci vuole un terribile terremoto (che merita al massimo due giorni). Eritrea, Sudan, Paesi del Sahel, Libia e altri Paesi affacciati al Mediterraneo, appaiono solo quando l’ennesimo naufragio con decine di morti scalfisce il muro del pregiudizio che fa percepire tutti i migranti (compresi i bambini) come invasori illegali e pericolosi delinquenti dai quali bisogna «difendere la patria».

Per parlare poi della Chiesa, serve la notizia di qualche scandalo clericale, eccezione fatta per la malattia di papa Francesco e l’elezione di papa Leone.
Ma è, questa, vera informazione? Pensiamo a quella marea che sono i social media dove è spesso difficile distinguere il vero dal falso, dove ci illudiamo di poter partecipare, pur rimanendo spettatori dipendenti (dagli algoritmi), acritici e incantati, e dove, soprattutto, rimangono invischiati giovani e giovanissimi.

Non entro nel campo dell’Ia (Intelligenza artificiale), una realtà affascinante e con enormi potenzialità, ma anche con gravi rischi, spesso usata in cerca di risposte sicure che indeboliscono il libero uso del nostro senso critico e, tra l’altro, monopolizzata dai grandi gruppi di potere economico e informatico per aumentare i loro profitti.

Oggi più che mai è necessario che ciascuno usi la propria coscienza e la propria testa, magari in dialogo con lo Spirito che ci guida nel discernimento. Oggi più che mai c’è bisogno di persone che lavorino nella comunicazione ascoltando e rilanciando la voce dei deboli che non hanno voce, invece delle urla di chi ha già megafoni enormi a disposizione.

Come dice papa Leone, «Una comunicazione disarmata e disarmante ci permette di condividere uno sguardo diverso sul mondo e di agire in modo coerente con la nostra dignità umana».

Gigi Anataloni
direttore responsabile MC




«Non cedere alla logica della paura»

«Non venga mai meno il principio di umanità come cardine del nostro agire quotidiano», ci dice papa Francesco nel messaggio «Urbi et orbi» della domenica di Pasqua. L’ultimo suo messaggio, il testamento spirituale. E continua: «Davanti alla crudeltà dei conflitti che coinvolgono civili inermi, attaccano scuole e ospedali e operatori umanitari, non possiamo permetterci di dimenticare che non vengono colpiti bersagli, ma persone con un’anima e una dignità».

Un chiaro appello a «restare umani» in un tempo, il nostro, scosso di guerre e persecuzioni.

E nelle sue ultime parole all’umanità, papa Francesco cita quasi tutte le guerre e le zone in conflitto: l’Ucraina, la Terra Santa (parla di Israele e Palestina), il Libano, la Siria e lo Yemen. Ma anche l’Armenia e l’Azerbaigian, il popolo birmano. Poi, pone un’enfasi speciale sull’Africa: «Cristo Risorto, nostra speranza, conceda pace e conforto alle popolazioni africane vittime di violenze e conflitti, soprattutto nella Repubblica democratica del Congo, in Sudan, in Sud Sudan e sostenga quanti soffrono a causa delle tensioni nel Sahel, nel Corno d’Africa e nella Regione dei Grandi laghi, come pure i cristiani che in molti luoghi non possono professare liberamente la loro fede».

Perché, continua papa Francesco con un passaggio che deve fare riflettere: «Nessuna pace e possibile laddove non c’è libertà religiosa o dove non c’è libertà di pensiero e di parola e il rispetto delle opinioni altrui». In quanti Paesi del mondo, magari non in conflitto aperto, queste libertà e diritti sono negati?

Il Papa sembra tirare le orecchie a molti dei nostri governanti, ma anche a settori industriali: «Nessuna pace è possibile senza un vero disarmo! L’esigenza che ogni popolo ha di provvedere alla propria difesa non può trasformarsi in una corsa generale al riarmo», tendenza quest’ultima in atto, a partire dalla «civilissima» Europa.

Papa Francesco nel suo ultimo messaggio ha, come sempre, un approccio propositivo, e fa un richiamo, a quanti (pochi) hanno nelle loro mani il benessere, e sovente la vita, di moltitudini: «Faccio appello a tutti quanti nel mondo hanno responsabilità politiche a non cedere alla logica della paura che chiude, ma a usare le risorse a disposizione per aiutare i bisognosi, combattere la fame e favorire iniziative che promuovono lo sviluppo. Sono queste le “armi” della pace: quelle che costruiscono il futuro, invece di seminare morte!». È un’indicazione pratica che, se rispettata, ridurrebbe la conflittualità sull’intero pianeta.

Vogliamo ricordare papa Francesco come un sassolino lanciato in uno stagno: le onde generate si propagano da un punto in tutte le direzioni, andando molto lontano e durando a lungo nel tempo. Dobbiamo continuare a mettere in atto le sue indicazioni, ovunque.

Riportiamo qui, il ricordo a caldo del cardinale Giorgio Marengo, che ha avuto occasione di conoscere bene papa Francesco e di accoglierlo in una periferia del mondo, la Mongolia, e dal quale ci sentiamo rappresentati.

«Ci vorrà del tempo per capire fino in fondo la portata del pontificato di papa Francesco. Quello che mi sento di dire adesso è che vedevo incarnata in lui una profonda paternità, che ho sperimentato personalmente in varie occasioni. Mi sentivo attratto dalla sua libertà interiore e dal suo ascolto delle mozioni interiori dello Spirito Santo.

Per noi Missionari e Missionarie della Consolata – prosegue il cardinale Marengo -, papa Francesco è il Pontefice che ha canonizzato il nostro santo Fondatore e che ha dato un impulso missionario grandissimo alla vita e alle scelte della Chiesa. Con il suo magistero e con il suo esempio ha riportato la missione evangelizzatrice della Chiesa al centro della vita reale delle comunità».

Mentre scriviamo, il collegio cardinalizio elegge come successore di papa Francesco
il cardinale Robert Francis Prevost, che diventa papa Leone XIV. Un Papa nato negli Stati Uniti e missionario in Perù. L’incipit del suo discorso inaugurale al mondo è «La pace sia con voi!».

Marco Bello




Donare la vita


Su un numero di MC dei primi anni Cinquanta trovo un grido di dolore per la scarsità delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Uno dei nodi è il basso numero di missionari nel mondo, circa 15mila, rispetto agli oltre 300mila preti diocesani. C’è anche un altro grido di allarme: anche i sacerdoti diocesani sono scarsi in Italia perché, in quegli anni, c’è «solo» un sacerdote ogni 800 persone. Non viene detto qual è l’età media.

Quel grido di dolore di tanti anni fa mi colpisce e mi provoca a riflettere sull’oggi, stimolato anche dalla Giornata mondiale delle vocazioni che celebriamo l’11 maggio con il tema: «Pellegrini di speranza: dono della vita».

Oggi, in Italia, il rapporto è di un sacerdote (età media sopra i 60 anni) ogni duemila persone, mentre l’accorpamento di più parrocchie procede veloce. Non sono migliori le statistiche negli altri paesi europei e americani, mentre invece in Africa, e anche in Asia, c’è un fiorire di vocazioni alla vita consacrata.

Cosa pensare poi del fatto che anche nel nostro istituto, pur ricco di nuovi membri africani, non ci sia neppure un aspirante missionario italiano, e che gli italiani siano oramai scesi di numero a poco più di 160 (eravamo 994 nel 52), sempre più anziani?

È solo una crisi di vocazioni sacerdotali e religiose, o è un sintomo di un disagio più globale della nostra Chiesa e della società? Cosa sta succedendo?

Un missionario non è il venditore di un prodotto di successo, un influencer da milioni di like, un assicuratore, uno che ha tutte le risposte. Neppure sceglie un istituto o una congregazione per garantirsi sicurezza.

In una società come la nostra, dove tutto – moda, pubblicità, comunicazione, stili di vita – vuole portarci a centrarci sul nostro ego; dove l’io ha cancellato il noi; dove quello che conta è avere tutto adesso; dove sei bombardato da cose da fare, sentire, vedere e avere perché altrimenti non sei nessuno; dove non si vuole che la gente pensi, ma che si adegui al pensiero in voga, una proposta come quella di diventare servi per l’annuncio della bella notizia del Vangelo diventa ingombrante e, certo, non appetibile. E questo non solo per le persone consacrate, ma per ogni cristiano che è chiamato a essere missionario in virtù del battesimo.

Eppure, parlare di vocazione è davvero una notizia di vita, liberazione, fraternità e bellezza.

Dire che ciascuno di noi «è una vocazione» ci ricorda, anzitutto, chi siamo veramente: persone chiamate a vivere con amore e intelligenza le nostre relazioni fondamentali: con noi stessi, con gli altri, con il creato e con Dio. Coscienti che Dio ci ha fatti a sua immagine e somiglianza e ci ha voluti liberi, creativi, responsabili e non robot perfettamente programmati, delle super intelligenze artificiali che eseguono i suoi ordini.

Per questo vivere la vocazione è un cammino di speranza e un cammino inedito: scopriamo ogni giorno che è solo donando che si riceve e che la vera felicità è far felici gli altri. Come ha fatto Gesù, che è diventato nostro servo per farci scoprire le dimensioni più autentiche della nostra umanità come liberi figli e figlie di Dio Padre: non di un «patriarca», ma di un «papà» che è misericordia, che ama come una mamma ama il bambino che è nella sua pancia.

Allora rispondere alla vocazione, vivere da vero cristiano o diventare sacerdote, missionario, persona consacrata, significa anche scuotersi di dosso l’intontimento e la schiavitù. È reagire all’appiattimento generale, alla rassegnazione, al vivere senza sogni e prospettive, al dominio della logica economica e consumista che divide il mondo in dominatori e dominati, ricchi e poveri, padroni e servi.

In questo contesto, tre parole riacquistano un significato profondo e rivoluzionario.

Castità: non semplice purezza sessuale, ma modo nuovo di relazionarsi con se stessi e gli altri nell’amore, nella libertà, nel rispetto più profondo, senza diventare padroni di nessuno e neppure schiavi di alcuno o di qualcosa. È relazione nuova e sana, libera e liberante.

Povertà: è vivere coscienti che non siamo i padroni del mondo ma solo amministratori, giardinieri, che lavorano insieme per il bene di ciascuno, soprattutto dei più poveri e indifesi. È relazione nuova con i beni di questo mondo, da persone libere, perché noi siamo molto più di quello che abbiamo.

Obbedienza: è fare una scelta che ti fa diventare libero servo degli altri perché sei cosciente che l’unico valore, per cui vale la pena dare tutto per costruire un mondo bello, è l’Amore come l’ha vissuto lo stesso Gesù Cristo che ha obbedito al Padre suo fino a donare la sua vita per noi. È relazione sana con Dio, e quindi con se stessi, senza esaltarsi e neppure sottovalutarsi.

Gigi Anataloni

Ordinazione diaconale di Gabriel Kwedho, SebastienNtoto Ntoto, Matthew Kirema e Joseph Mwaniki per le mani di Mons Virgilio Pante, vescovo di Maralal, il 30/09/2011 a Torino santuario Allamano. – AfMC / Gigi Anataloni

Gruppo sacerdoti novelli ordinati da mons Carlo Re il 20/06/1948: Benozzo Giuseppe, Balest Settimo, Chiuch Enrico, Zabotti Giovanni, Bona Candido, Barbanti Luigi, Ferraroni Livio, Mellino Francesco, Kaltenhauser Bruno, Sevéga Spirito, Lorenzini Livio, Berghi Giovanni – AfMC




Superiore Generale: “Cristo ha vinto la morte e ci ricorda che la speranza è viva”

Testo da consolata.org


Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, affinché abbondiate nella speranza per la potenza dello Spirito Santo” (Rm 15,13).

“Rallegriamoci ed esultiamo perché ‘Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!’ (1Cor 5,7-8). Sostenuto da questa certezza, mentre viviamo l’anno dedicato al nostro santo patrono, San Giuseppe Allamano e celebriamo il giubileo della speranza, desidero rivolgere a tutti voi l’augurio che la risurrezione di Cristo possa ravvivare la speranza, ne esprima tutte le sue potenzialità per la nostra missione di consolazione”.

Queste le parole del Superiore Generale, padre James Bhola Lengarin, IMC, all’inizio del suo Messaggio di Pasqua 2025 inviato a tutti i missionari, missionarie e laici della Consolata, parenti, amici e benefattori.

Il Padre Generale prosegue: “Lasciamoci avvolgere dal dinamismo della Pasqua, sperimentando la misericordia di Dio e la forza della risurrezione di Gesù che riempirà di gioia i nostri cuori così da poterla condividere con gli altri”.

La stessa riflessione è rafforzata in un video realizzato dall’Ufficio per la Comunicazione.

“La speranza radicata nella Pasqua del Signore va testimoniata nella missione attraverso gesti che comunicano la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte, che trasformano la “Consolazione” in semi di speranza per ogni persona, nessuno escluso, perché tutti hanno il diritto di sperare in una vita migliore”, afferma padre James Lengarin.

Di seguito il testo integrale del Messaggio di Pasqua del Superiore Generale

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Guerre finanziate, guerre dimenticate


Lo scorso febbraio anche Bukavu, capitale del Sud Kivu, in Congo Rd, è caduta in mano ai ribelli dell’M23. Centinaia di migliaia sono gli sfollati che cercano riparo a Bujumbura, la capitale del Burundi. La milizia, armata ed equipaggiata con attrezzatura moderna, affiancata dall’esercito ruandese, il Rwanda defence force (Rdf), sta continuando la sua «conquista» verso Sud.

Il piccolo Rwanda (di superficie poco superiore alla Sicilia), di fatto, sta sfruttando le risorse minerarie dell’Est del Congo almeno dal 1996. È diventato un grande esportatore di stagno, tungsteno, tantalio, oro (chiamati oggi «minerali strategici»), senza però averne un grammo nel proprio sottosuolo. Ne abbiamo scritto su MC in questi anni.

Allora perché negli ultimi mesi il Rwanda ha deciso di invadere anche le due grandi città del vicino Paese sovrano, Goma e, appunto, Bukavu?

L’M23 già nel 2012 aveva occupato Goma per diverse settimane, ma la pressione di alcuni Paesi occidentali, che avevano minacciato il Rwanda di tagliargli i finanziamenti, era bastata a fare ritirare ribelli.

Dal 2021, quando l’M23 ha ripreso le attività, non ha fatto che appropriasi con la forza di siti minerari, dal Nord al Sud Kivu, terrorizzando la popolazione che fugge ingrossando i campi profughi. Intanto, l’esercito del Congo non riesce a opporre resistenza.

Oggi sembra che Paul Kagame, il «presidente-uomo solo al comando» dal 1994 del Rwanda, abbia deciso di tentare lo stesso colpo che fece nel 1996 con un altro gruppo ribelle da lui pilotato, l’Afdl (Allenaza delle forze democratiche per la liberazione del Congo), ovvero di riprendere il controllo de facto del Congo o di parte di esso.

Il Rwanda ha ricevuto ingenti finanziamenti dall’Occidente negli ultimi trent’anni. Ad esempio, la cifra media annuale tra il 2020 e il 2021 è stata di 1,24 miliardi di dollari. Intanto la spesa militare è cresciuta da 40 milioni di dollari nel 2005 a 180 nel 2021. L’Rdf è un esercito grande rispetto alle dimensioni del Paese, molto ben addestrato e moderno.

In particolare, è stato finanziato per operazioni di peacekeeping in diversi Paesi africani. Dal 2017, i militari ruandesi sono presenti nel Nord Mozambico in un’operazione contro i gruppi islamisti che imperversano nella regione di Cabo Delgado.

Sono documentati i 40 milioni di dollari che l’Unione europea ha dato al regime ruandese (sotto spinta francese) per proteggere i pozzi petroliferi della Total, tra il 2022 e il 2024. Sono inoltre documentati (da esperti delle Nazioni Unite), la coincidenza in alcuni casi di truppe e comandi tra le Rdf presenti in Mozambico e quelle in Congo.

Il 13 febbraio scorso, il Parlamento europeo ha chiesto alla Commissione europea di congelare gli aiuti budgetari al Rwanda e di sospendere l’accordo sui minerali strategici, stipulato nel febbraio 2024 (MC aprile 2024), finché i militari ruandesi saranno impegnati in Congo. Altre sanzioni Ue sarebbero pronte, su iniziativa di Belgio e Francia. Mentre anche Londra ha annunciato la sospensione degli aiuti finanziari.

Allargando l’orizzonte, noto che le importanti guerre in Ucraina e in Medio Oriente si prendono tutta l’audience nei media italiani. Altri conflitti, che magari influiscono meno sulla vita dei cittadini, semplicemente scompaiono. Sto pensando a quello in Sudan, guerra civile ma con caratteristiche regionali e globali, di cui parliamo nelle pagine di questo numero. Penso al Sahel (Mali, Niger, Burkina Faso), la cui popolazione è presa tra gruppi armati islamisti e governi golpisti dei militari. In un’area in cui passa una delle maggiori rotte della migrazione tra l’Africa e l’Europa. Paesi che si sono alleati con la Russia, mettendo nelle mani di Putin il «rubinetto» di questo flusso. Penso ad Haiti, Paese diventato invivibile perché controllato da bande armate criminali. Le cause sono storiche e precise, documentate e sempre occidentali.

E penso alla guerra civile in Myanmar, che ha compiuto quattro anni, e della quale parliamo anche sul nostro sito.

Aspettiamo dunque che il Rwanda, con uno degli eserciti più forti d’Africa, finanziato dagli occidentali, conquisti il Burundi (che è già allarmato) e magari arrivi a Kinshasa?

Marco Bello, direttore editoriale

 




Un povero che ha arricchito molti


Nel marzo 2007 ero in Kenya, a Nairobi. Da lì, poco tempo prima, dopo 43 lunghi anni di servizio, era partito per rientrare in Italia un missionario settantasettenne. Scrissi allora un editoriale per la rivista che curavo laggiù, The Seed (Il seme). Il titolo era «Gone poor, having made rich many…» (Partito povero, dopo aver reso ricchi molti). Il missionario in questione era padre Giuseppe Quattrocchio. Un gran lavoratore, un prolifico scrittore, un affascinante cantastorie che aveva dovuto ritirarsi dal lavoro in missione nel Meru per una lesione alla spina dorsale. Era arrivato a Nairobi nel 1973. Da lì aveva servito in maniera incredibile tutte le missioni del Kenya trovando per loro ogni cosa di cui avessero bisogno, dalle puntine da disegno ai pezzi di ricambio di qualsiasi macchinario, dalle medicine agli articoli religiosi. Dal suo botteghino per gli amici e visitatori delle missioni, aveva promosso una bellissima iniziativa per far conoscere il Kenya con le sue serie di diapositive e libretti sui vari gruppi etnici, tradotti in diverse lingue e diffusi in tutti i luoghi turistici del Paese.

Padre Giuseppe, missionario che nel suo servizio aveva maneggiato fior di milioni per il bene di tanti (educazione, salute e sviluppo), era rientrato in Italia con un vecchio vestito, regalo di qualche benefattore, e una grossa valigia strapiena di oggetti di artigianato locale da regalare in Italia ai suoi molti amici, assieme a pochi oggetti personali. Lui che aveva cambiato la vita di tante persone, partiva più leggero di quando era arrivato, lasciando tutto quello che aveva, anche la sua inseparabile bicicletta Graziella con la quale era conosciutissimo in tutta Nairobi. Aveva dato tutto.

In quel testo ricordavo anche i nomi di diversi altri missionari che avevano fatto come lui ed erano rientrati in Italia per i loro ultimi giorni andando via poveri, dopo aver reso ricchi tanti.

Padre Giuseppe. Quattrocchio il 16 febbraio 2022, alla festa di San Giuseppe Allamano

Lo scorso 22 gennaio quello stesso padre Giuseppe ci ha lasciato alla vigilia del suo 95° compleanno. È tornato a casa, quella del Padre, dove è arrivato ricco di tutto l’amore che ha vissuto avendo dato tutto con passione, gioia, competenza e umiltà. Al suo funerale, celebrato nel giorno di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, ho ricordato che è stato anche un fior di giornalista  e che questa rivista, per la quale aveva lavorato dal 1954 fino alla sua partenza per il Kenya a fine 1963, a lui deve molto.

E anche stavolta, per il suo ultimo viaggio, è partito dopo aver dato tutto portando con sé solo il suo grande amore per la Missione. Mi fa specie ricordare lui, e insieme anche tanti altri missionari e missionarie che hanno dato la vita, in questi tempi nei quali chi fa notizia è quel gruppo elitario di miliardari che pensano di essere i padroni del mondo. Questi, per diventare sempre più ricchi, sfruttano senza ritegno le persone e le risorse del pianeta, manipolano l’informazione, fomentano guerre, chiudono gli occhi davanti ai poveri, ai migranti e agli schiavizzati e si fanno belli come salvatori della patria.

La testimonianza di uomini come padre Giuseppe è una realtà bellissima, carica di speranza. Con la loro vita diventano contestazione di un mondo disumano e ci dimostrano come il «dare tutto», come ha fatto Gesù, è l’unica via per costruire vera umanità.

 





Pellegrini di Speranza


«La speranza non delude» è il titolo della bolla di indizione del Giubileo 2025, segnato da due ricorrenze molto significative, anche per la missione: i 1.700 anni del Concilio di Nicea, che ci ricordano l’importanza della prassi sinodale per «custodire l’unità del popolo di Dio e l’annuncio fedele del Vangelo»; e, «per una provvidenziale circostanza» (n.17), la celebrazione insieme – cristiani d’Oriente e d’Occidente – della Pasqua, che avverrà proprio quest’anno, il 20 aprile.

La prima ricorrenza è importante soprattutto perché ci fa presente – di fronte ai ripetuti tradimenti dello stile evangelico – la necessaria continua conversione dei missionari al principio cristologico della
missione, senza il quale non c’è evangelizzazione. Detto altrimenti, i missionari sono «segni di speranza» solo se rimangono ancorati allo stile umile e povero della missione di Cristo, come ribadisce a più riprese il Concilio (cfr. LG 8; AG 5).

La seconda ricorrenza è eloquente soprattutto perché ci invita a ridurre l’ambivalenza della prassi missionaria, presente anche nelle pagine più belle della missione. Basti pensare al pregiudizio anti-ecumenico e antireligioso che fino al Vaticano II condannava le altre Chiese e religioni ai margini della storia della salvezza, senza alcuna possibilità di collaborazione per il bene dell’umanità.

D’accordo con Spes non confundit, «La speranza non delude» (Rm 5,5), anche il Giubileo 2025 si connette con la categoria del pellegrinaggio: «Il pellegrinaggio esprime un elemento fondamentale di ogni evento giubilare. Mettersi in cammino è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita» (n. 5). Solo dei missionari «pellegrini», viandanti, capaci di staccarsi dalla propria cultura, dalla propria patria, dalla propria famiglia, saranno in grado di avventurarsi nell’affascinante e rischioso viaggio alla scoperta di mondi sconosciuti già abitati dalla speranza, grazie all’azione e alla presenza dello Spirito, che precede l’arrivo e la presenza della Chiesa.

Basti pensare al ruolo del primo grande «movimento missionario», quello monastico, dal secolo V al XII. Spinti dal desiderio di santificarsi secondo la tipica forma del «martirio bianco» (l’ascetismo), i monaci – come nel caso più celebre dell’irlandese san Colombano e dei suoi discepoli – abbandonavano il loro monastero e andavano di luogo in luogo ad annunciare la parola di Dio, «pellegrini per amore di Cristo», senza farvi più ritorno, come in un volontario esilio. Questo movimento missionario, come pellegrinaggio per amore di Dio e di Cristo, fu per molti aspetti fortemente innovativo sia per la santificazione personale, sia per l’evangelizzazione dell’Europa.

Ma la particolarità di quest’anno giubilare consiste nel porre «segni di speranza», capaci di renderla reale, evidente, tangibile, non solo a livello personale, ma anche sociale; non solo in una parte del mondo, ma a livello globale. Nella selezione dei segni, la bolla di indizione invita anzitutto a «porre attenzione al tanto bene che è nel mondo per non cadere nella tentazione di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza» (n. 7).  I segni dei tempi, oltre a esprimere l’anelito di tanta parte dell’umanità, chiedono di essere trasformati in «segni di speranza». Come? Per esempio, osando la pace in tempo di guerra; non perdendo il desiderio di trasmettere la vita in mezzo all’inverno demografico; privilegiando la giustizia riparativa rispetto a quella punitiva per i detenuti.

Meritano attenzione – per la sintonia con Lev 25,8-17 – soprattutto l’appello a costituire, con il denaro speso per le armi, un fondo mondiale per eliminare la fame e l’accorato invito a condonare il debito dei Paesi che non possono più ripagarlo: «Se veramente vogliamo preparare nel mondo la via della pace, impegniamoci a rimediare alle cause remote delle ingiustizie, ripianiamo i debiti iniqui e insolvibili, saziamo gli affamati» (n. 16). Davvero la speranza non delude, ma ricolma i nostri cuori missionari.

FESMI, Federazione stampa missionaria italiana

 




Quando «piccolo» è grande


Sorino, chi è costui? Come don Abbondio con Carneade, forse ci facciamo questa domanda, visto che oggi il suo nome è sulla bocca di tutti dopo che Giuseppe Allamano è stato riconosciuto santo per aver guarito proprio lui.
Ma al tempo del miracolo, trent’anni fa, Sorino era per noi un signor nessuno. Uno Yanomami inesistente, uno dei tanti indigeni dell’Amazzonia che l’anagrafe del suo Paese ignorava (e continua a ignorare). Un signor nessuno, che però è diventato segno di vita e speranza per tutti gli ultimi della terra.

Come lui, anche quel bambino nato 2030 anni fa in una stalla di Betlemme era nessuno. Amato, però, curato e protetto dai suoi genitori e accolto dai marginali della storia, i pastori. Era un bambino inerme, Gesù. Eppure da subito ha dato fastidio ai potenti del tempo che hanno cercato di eliminarlo.

Quel nessuno, finito in croce come uno schiavo, è oggi Luce del mondo, Parola di vita, Via alla più vera e autentica umanità, quella a misura di Dio.

Sorino era un nessuno per il mondo, ma un unico per Dio il quale, complice Giuseppe Allamano, lo ha fatto rinascere alla vita dopo un terribile incontro con un giaguaro nel fitto della foresta amazzonica, lontano dagli occhi di tutti.

Là il Signore ha voluto porre un segno della santità di Giuseppe Allamano, per confermare ancora una volta il senso più vero del suo sogno missionario: un miracolo in favore di un nessuno e un non cristiano per ricordare che la Buona Notizia trova la sua realizzazione nei più poveri, umili e dimenticati della terra. È là, nella piccolezza e nel nascondimento, che nasce il mondo nuovo, non nei palazzi degli Erode di ieri e di sempre e neppure nei templi (stadi, arene, platee social) dei nuovi idoli di oggi.

Il piccolo seme del futuro cresce in mezzo agli ultimi della terra. Come un tempo la più radicale rivoluzione è iniziata con un bambino figlio di umili lavoratori di un villaggio di periferia, che da adulto è stato ucciso come uno schiavo su una croce piantata fuori dalle mura della città, così ora la guarigione di Sorino ci ricorda che la vera luce per il mondo continua a germinare nella piccolezza e nelle periferie.

I piccoli e i «nessuno» del mondo diventano maestri di vita, come la bimba di nove anni che si carica sulle spalle la sorellina di cinque ferita dalle bombe a Gaza per portarla all’ospedale.

Dio ha sempre avuto un occhio speciale per i nessuno di questo mondo. Grazie a essi ha scritto la storia della nostra salvezza. Basta ricordare Noè, Abramo, Giuseppe, Davide, Geremia, Ester, e tanti altri fino a Maria e Giuseppe, Giovanni Battista, gli apostoli, e fino a noi.

Mi colpisce la bellezza della logica del nascondimento e della piccolezza che unisce la nascita di Gesù e il miracolo accordato a Sorino.
È una potente contestazione dell’apparire, dell’ostentazione, del protagonismo, della voglia di imporsi e dominare che ha contagiato il nostro mondo. È l’antidoto alla tentazione di richiudersi in se stessi, di difendere i propri confini, di vedersi al centro di tutto. È un invito a guardare oltre, ad aprirsi alla sorpresa, a superare le paure dell’altro.

Sorino, una volta guarito, è diventato, insieme a sua moglie, «casa di accoglienza» per tanti bambini orfani, spesso resi tali da malattie e uccisioni provocate dall’invasione dei territori indigeni da parte di chi vuole rapinarne le risorse. Una risposta di squisito amore ai bisogni del suo popolo.

Il bambino di Betlemme ha portato nel mondo una nuova proposta di vita che insegna agli uomini a scoprirsi veri fratelli e sorelle, tutti figli e figlie dello stesso Padre.

San Giuseppe Allamano ha mandato nel mondo i suoi missionari e missionarie per continuare questa rivoluzione, per rendere reale il sogno di Dio di un’umanità che viva nella pace e nell’amore qui e ora, nell’attesa della grande festa di famiglia che ci aspetta in cielo, la sua casa.

Una rivoluzione senza armi e violenze, nella quale «il bene è fatto bene» a favore di tutti da persone che «prima sono sante e poi missionarie».

 




Senza confini


Nel settembre scorso i missionari della Consolata hanno festeggiato i primi dieci anni di presenza a Taiwan, in particolare nella diocesi di Hsinchu. Il vescovo John Baptist Lee ha celebrato una messa molto partecipata nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù a Hsinchu (vedi pag. 5). Oggi l’istituto è presente con sette missionari di cinque diverse nazionalità (Kenya, Tanzania, Corea del Sud, Brasile e Argentina) e ha la gestione di tre parrocchie nella stessa diocesi, oltre a Hsinchu, animata dal 2017, anche Xinpu e Xinfong.

Un primo decimo anniversario, che pare poca cosa, ma rivela una presenza discreta, continua e con prospettive di crescita.

Ho avuto la possibilità di partecipare all’evento al Sacro Cuore e di visitare le altre due parrocchie. Ho potuto vedere e ascoltare persone impegnate nella vita della comunità, ma anche molto accoglienti verso chi viene da fuori. Peter e sua moglie Jennifer, Carmen, Lucia, Cathy, solo per citarne alcune, senza volere fare torto alle altre.

Taiwan, ufficialmente Repubblica di Cina, viene più volte citata anche sui nostri media come centro di tensioni tra la Repubblica popolare di Cina (la Cina comunista continentale) e gli Stati Uniti. Ma è ben più di questo. Vorrei dare qualche elemento della società nella quale stanno operando i missionari da dieci anni.

Si tratta di una società moderna, anzi una società che definirei «tecnologica», dove cioè la tecnologia ha un peso rilevante. Con le relative problematiche: secolarizzazione, i giovani in particolare sentono poco il richiamo della spiritualità di tipo convenzionale, quindi delle religioni, la bassa crescita demografica e l’alto livello di invecchiamento della popolazione che comporta le criticità conosciute anche da noi, le migrazioni da paesi vicini più poveri (in particolare da Filippine, Vietnam, Indonesia, Thailandia).

A Taiwan, inoltre, la Chiesa cattolica è una minoranza tra le minoranze, interessando l’1,3% della popolazione (i fedeli sono circa 300mila su 23 milioni di taiwanesi).

Il vescovo di Hsinchu, monsignor Lee, mi diceva che su settanta sacerdoti della sua diocesi solo due sono originari del Paese. Gli altri sono missionari. Molti sono coreani, poi vietnamiti, filippini e, recentemente, africani. Tutto questo denota la necessità e l’urgenza della missione ad gentes.

Guardando sul planisfero le presenze dei missionari e missionarie della Consolata nel mondo, la missione a Taiwan è forse quella nella società più moderna.

Per contrasto, il mio pensiero va a un’altra missione, che ho avuto la possibilità di visitare molti anni fa. Quella di Catrimani, nello stato di Roraima in Brasile. Una presenza nel mezzo della foresta amazzonica, dove si può arrivare solo a piedi o con piccoli aerei. Un cammino, quello a fianco del popolo Yanomami, che la Consolata porta avanti oramai da 59 anni.

Se penso alla società yanomami, a lungo studiata da generazioni di missionari della Consolata, con la sua lingua (anzi, quattro), le sue credenze, la sua cultura, credo che sia quella meno tecnologica, quella che vive maggiormente in simbiosi con la natura, con la quale i missionari della Consolata si siano confrontati da decenni. In un certo senso, una struttura sociale delicata, che rischia in ogni momento di essere sopraffatta dalla società dominante, quella dei «bianchi», come dicono in Brasile, quella moderna, dico io.

Due ambienti sociali che sembrano, o forse sono, in antitesi. Due culture entrambe distanti da quelle dei missionari che le affrontano, difficili da comprendere e far proprie con un processo di inculturazione, a partire dalle lingue, dai costumi e dalla spiritualità.

Eppure due contesti nei quali i missionari della Consolata sono presenti con il loro approccio ad gentes, ma anche di promozione umana, sociale e dei diritti che da sempre li contraddistingue.

Questo mi fa credere che la missione pensata e maturata da san Giuseppe Allamano prima, e dai suoi missionari e missionarie poi, sia a tutti gli effetti universale e senza confini.





Tutti per la missione


«Per la Giornata missionaria mondiale (20 ottobre, ndr) di quest’anno ho tratto il tema dalla parabola evangelica del banchetto nuziale (cfr. Mt 22,1-14). Dopo che gli invitati hanno rifiutato l’invito, il re, protagonista del racconto, dice ai suoi servi: “Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze” (v. 9). Riflettendo su questa parola chiave, nel contesto della parabola e della vita di Gesù, possiamo mettere in luce alcuni aspetti importanti dell’evangelizzazione. Essi si rivelano particolarmente attuali per tutti noi, discepoli-missionari di Cristo, in questa fase finale del percorso sinodale che, in conformità al motto “Comunione, partecipazione, missione”, dovrà rilanciare la Chiesa verso il suo impegno prioritario, cioè l’annuncio del Vangelo nel mondo contemporaneo».

Così scrive papa Francesco nel suo messaggio per la Giornata missionaria mondiale (Gmm) 2024, sottolineando tre aspetti strettamente correlati tra loro: l’andare e invitare tutti alla festa, la festa che è espressione della vocazione alla gioia e alla fraternità, celebrata al banchetto della vita, il banchetto che deve coinvolgere tutti come protagonisti.

La Gmm di quest’anno vedrà, tra l’altro, la canonizzazione di Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, di due suore (una canadese e un italiana), di otto frati minori (sette spagnoli e uno austriaco) e tre fratelli siriani trucidati a Damasco nel 1860. Una celebrazione di universalità che ricorda come tutta la Chiesa è missionaria.

Se oggi celebriamo la Giornata missionaria mondiale, lo dobbiamo anche a GiuseppeAllamano che nel 1912 promosse una petizione prendendo spunto dal Pime (Pontificio istituto missioni estere, all’epoca Seminario lombardo per le missioni estere) che, a Milano, già dal 1910 viveva la «domenica missionaria» annuale. A quel tempo la missione era sentita come qualcosa che sottraeva persone ed energie alle Chiese locali, per cui tanti vescovi ostacolavano chi voleva partire come missionario. Per Allamano, sacerdote diocesano lungo tutto l’arco della vita, però, la missione non era qualcosa che impoveriva, ma parte fondante la Chiesa stessa, qualcosa che doveva coinvolgere ogni cristiano proprio perché battezzato. Sarebbe poi arrivato il Concilio Vaticano II con il documento Ad gentes, a ratificare questa verità.

Tornando a una sottolineatura di papa Bergoglio nel messaggio citato, si osserva che anche la Gmm si inserisce nel percorso del Sinodo. Non potrebbe che essere così. Il «rilancio» della Chiesa – della sua sorgiva e fondante vocazione a portare il Vangelo nelle strade del mondo – passa proprio attraverso il suo profilo missionario. Francesco consegna dunque alla Chiesa universale domande ineludibili: come essere Chiesa sinodale in missione? Come rinnovare l’impegno missionario di tutti? Questo «tutti» si rivela elemento centrale.

Il «cambiamento d’epoca» che stiamo vivendo, con profonde sollecitazioni antropologiche e nuove sfide per il senso religioso, richiede il coinvolgimento e la risposta – matura, generosa, gioiosa e, appunto, missionaria – di ogni cristiano, uomo o donna, per trovare modalità nuove e creative di annunciare il Vangelo all’umanità del terzo millennio.

«La missione per tutti richiede l’impegno di tutti», scrive ancora Francesco. «Occorre perciò continuare il cammino verso una Chiesa tutta sinodale-missionaria a servizio del Vangelo. La sinodalità è di per sé missionaria e, viceversa, la missione è sempre sinodale. Pertanto, una stretta cooperazione missionaria risulta oggi ancora più urgente e necessaria nella Chiesa universale come pure nelle Chiese particolari. Sulla scia del Concilio Vaticano II e dei miei predecessori, raccomando a tutte le diocesi del mondo il servizio delle Pontificie opere missionarie, che costituiscono i mezzi primari sia per infondere nei cattolici, fin dalla più tenera età, uno spirito veramente universale e missionario, sia per favorire una adeguata raccolta di sussidi a vantaggio di tutte le missioni e secondo le necessità di ciascuna». Un invito, quello del Papa, che ridà senso e coraggio e concreta prospettiva alla missione oggi.

Fesmi (Federazione stampa missionaria italiana)

 




Nessun luogo è sicuro


Quello che sta accadendo nella striscia di Gaza dal 7 ottobre 2023 è qualcosa di gravissimo e senza precedenti. Tutti dobbiamo interrogarci e tutti ne pagheremo le conseguenze. Un giornalista lo ha definito «il peggior massacro della storia moderna».

Il 19 giugno scorso è stato presentato alla 56ª sessione dell’Human rights council dell’Onu il rapporto della Commissione internazionale indipendente del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite sui Territori palestinesi occupati, Gerusalemme est e Israele. L’inchiesta, coraggiosa, dichiara (al punto 73) che «le autorità israeliane e i gruppi armati palestinesi sono responsabili di crimini di guerra e altre gravi violazioni».

«Le autorità israeliane – si legge ai punti 80 e 81 del rapporto – sono responsabili di crimini di guerra, dell’uso della fame come metodo di guerra, di uccisioni e omicidio volontario, di dirigere intenzionalmente gli attacchi contro i civili, di trasferimenti forzati, di violenza sessuale e trattamenti inumani e crudeli, di detenzione arbitraria e oltraggio verso la dignità personale». E inoltre: «Crimini contro l’umanità come sterminio, assassinii, persecuzione» ai danni della popolazione civile di Gaza.

A sua volta Israele accusa la Commissione d’inchiesta di «discriminazione sistematica anti israeliana».

L’uso dei bombardamenti con armi pesanti, anche in luoghi scelti dallo stesso esercito israeliano come zone di assembramento degli sfollati – ricordiamo, tra tutti, quello della scuola di Nuseirat dell’Unrwa (agenzia Onu per il soccorso dei profughi palestinesi), tra il 5 e il 6 giugno scorso, nel quale sono morte 45 persone di cui 14 bambini -, l’impedire i corridoi umanitari e la distribuzione del cibo, gli assalti e la distruzione degli ospedali che privano i civili malati o feriti delle cure necessarie, non vuol dire attaccare Hamas, ma tutta la popolazione civile di Gaza. E significa prenderla per fame, bombe e privazione delle cure.

Uomini, donne, bambini. Questi ultimi, sulle oltre 37mila vittime conteggiate al momento in cui scriviamo, sarebbero almeno 15mila (al 24 giugno) su una popolazione di circa due milioni di persone. Senza contare i traumi che si porteranno per tutta la vita i sopravvissuti.

L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), anch’essa parte delle Nazioni Unite, dichiara che «la situazione di fame nella striscia è catastrofica».

Se la condanna degli atti di Hamas del 7 ottobre e successivi, e il rapimento di civili israeliani, è assoluta e incondizionata, essa non giustifica il massacro in atto nella striscia. Inoltre, il governo estremista di Netanyahu sta facendo il gioco degli stessi terroristi, che usano i civili palestinesi come scudi umani e per i loro scopi politici. Il leader di Hamas, Yahya Sinwar, lo scorso giugno ha detto: «Le vittime civili? Sacrifici necessari».

L’operazione a Gaza sta facendo aumentare il sentimento anti israeliano in tutto il mondo (in America come in Europa), a tutto vantaggio degli estremisti palestinesi.

Prioritaria, inoltre, per il governo israeliano dovrebbe essere la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, ma pare che non lo sia.

Le Nazioni Unite stanno denunciando, questa volta con coraggio, gli accadimenti, attirandosi la rabbia di Israele. Pensiamo, invece, che i governi dei «grandi» della terra, a partire dagli Usa, non stiano facendo abbastanza per fermare la carneficina.

Opporsi non significa essere contro Israele e il suo diritto a esistere in pace, significa opporsi a una strage di civili comandata da ragioni politiche da un gabinetto di guerra politico. Una cieca vendetta che peserà sul mondo intero: con ondate di antisemitismo e altri innocenti nel mirino di altri estremisti.

Non è questione di essere pacifisti a oltranza, come qualcuno ci accusa di essere. È solo questione di restare umani.

Marco Bello

 

 

 




Santo (in punta di piedi)


Il 23 maggio scorso la sala stampa del Vaticano annunciava che papa Francesco aveva approvato l’avvenuto miracolo della guarigione dell’indigeno Sorino Yanomami, per intercessione di Giuseppe Allamano. Un passaggio che ha aperto le porte alla prossima canonizzazione, cioè alla proclamazione della santità del nostro fondatore (che avverrà il prossimo 20 ottobre, come deciso dal Concistoro del 1° luglio).

Questo atto del Papa è il coronamento di un lungo itinerario, durato parecchi decenni, che aveva trovato il suo culmine nella beatificazione di don Giuseppe Allamano, avvenuta il 7 ottobre 1990 in Piazza San Pietro a Roma, da parte del papa Giovanni Paolo II. Mancava ancora il riconoscimento da parte della Chiesa di un miracolo per poterlo infine proclamare «santo». Ora anche l’ultima meta è stata raggiunta.

Molte persone si interrogheranno sul perché di questo cammino durato tanti anni con la raccolta di testimonianze, documentazione, ricerca delle grazie ricevute in varie parti del mondo. Ne valeva la spesa? Altri ancora, in maniera forse più radicale, si potrebbero domandare: che bisogno ha la Chiesa di proclamare i santi? Essi hanno raggiunto felicemente il loro obiettivo e vivono nella pace del Paradiso. A questi interrogativi risponde in maniera magistrale papa Benedetto XVI che, dopo aver presentato parecchi profili di santi, il 13 aprile 2011, ha affermato: «Nelle udienze generali di questi ultimi due anni ci hanno accompagnato le figure di tanti santi e sante: abbiamo imparato a conoscerli più da vicino e a capire che tutta la storia della Chiesa è segnata da questi uomini e donne che con la loro fede, con la loro carità, con la loro vita sono stati dei fari per tante generazioni, e lo sono anche per noi. I santi manifestano in diversi modi la presenza potente e trasformante del Risorto; hanno lasciato che Cristo afferrasse così pienamente la loro vita da poter affermare con san Paolo “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Seguire il loro esempio, ricorrere alla loro intercessione, entrare in comunione con loro, “ci unisce a Cristo, dal quale, come dalla fonte e dal capo, promana tutta la grazia e tutta la vita dello stesso del popolo di Dio” (Lumen gentium, 50)».

La storia, quella che troviamo scritta nei libri o illustrata in opere d’arte, dà importanza a chi conta nella produzione di beni materiali o a chi rende più bello il mondo con l’arte e la poesia oppure ha aiutato a sconfiggere epidemie. Similmente avviene anche con i santi che hanno arricchito la Chiesa con i loro scritti o la loro testimonianza di vita. La loro opera è a beneficio di tutti, tutti ne godiamo. I santi – possiamo affermare – sono uno scrigno di valori che ridondano a beneficio di tutta la cristianità. Quanto povera sarebbe la Chiesa se perdesse questi legami tra i santi in cielo e noi qui in terra. Per questo motivo essa ci esorta a non lasciare perdere questa comunione tra coloro che già hanno raggiunto il cielo e noi tutti ancora pellgrini qui in terra, ma desiderosi dello stesso traguardo. La ormai prossima canonizzazione, attraverso la voce del Papa, inviterà con forza tutta la Chiesa ad affidarsi con fiducia all’intercessione di Giuseppe Allamano e soprattutto a guardare al suo esempio di vita come faro che illumina e guida il cammino dei cristiani.

Quale messaggio ci possiamo aspettare dalla proclamazione di Giuseppe Allamano «santo»? Senza dubbio che venga rivolto un richiamo forte a ogni battezzato affinché metta sempre Dio al centro della propria vita per farlo punto di riferimento in ogni sua scelta, che aborrisca ogni chiusura per sentirsi quello che tutti noi siamo: famiglia di Dio, solidale e fraterna, aperta e attenta ai segni dei tempi.

Sono sicuro che quando papa Francesco proclamerà l’Allamano santo non mancherà di far riecheggiare ancora una volta uno dei suoi richiami più frequenti affinché la Chiesa sappia imitare i santi come il nostro fondatore per sentirsi «in uscita», aperta al mondo intero e nella predilezione per l’umanità più povera.

La Chiesa in uscita è quella che «sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva» (Evangelii gaudium 24).