Kosovo. Lo specchio appannato


Serbi e albanesi si fronteggiano nel Nord del Kosovo. Un conflitto complicato e di difficile soluzione. Nel monastero ortodosso di Dečani, l’abate padre Sava Janjić predica la riconciliazione.

È il 6 gennaio, vigilia del Natale ortodosso. Mi sono appena lasciata alle spalle Mitrovica, una città che incarna le frustrazioni delle comunità serba e albanese nel Kosovo contemporaneo. Spesso teatro di fiammate di violenza, espressione del conflitto latente, la città è divisa in due comuni: Mitrovica Nord, a maggioranza serba, e Mitrovica Sud, a maggioranza albanese. Questa divisione, simbolica e reale, rappresenta le tensioni che affliggono l’intera regione. Per la comunità albanese, Mitrovica è il segno visibile della mancata attuazione delle sue aspirazioni di indipendenza, mentre per i serbi costituisce un bastione di resistenza. Ancora oggi, il ponte tra Mitrovica Nord e Mitrovica Sud è presidiato dalla Kosovo force (Kfor), forza militare internazionale a guida Nato con la partecipazione dei carabinieri italiani.

La mia destinazione è il monastero Visoki Dečani, dodici chilometri a Sud della città di Peja (in albanese, Pèc). Il distretto di Peja, istituito dall’Onu nel 1999, si è dichiarato unilateralmente Repubblica indipendente, secessionista della Serbia, per la quale è una provincia autonoma. Lungo la strada, sventolano bandiere rosse dell’Uck (Esercito di liberazione del Kosovo), e ci si imbatte spesso in blindati della Kfor. Per raggiungere il monastero, la più grande chiesa medievale del Kosovo, nonché simbolo della Chiesa ortodossa serba, è necessario addentrarsi fra le montagne.

Da qualche giorno nevica fitto e i boschi sono ricoperti da una soffice coltre bianca. Tutto intorno è silenzio e pace. Eppure, proprio questo luogo è stato uno dei simboli del conflitto: tra il febbraio 1998 e il giugno del 1999, il paese è stato attraversato da un’ondata di odio e violenza di cui ancora oggi sono visibili gli strascichi.

Attorno alla tavola, i monaci si apprestano a consumare il pranzo natalizio. Foto Valentina Tamborra.

L’arrivo al monastero

Dopo una curva, ecco apparire i primi cartelli militari: divieto di accesso, vietato fotografare, vietato riprendere, vietato varcare alcune sbarre che sembrano bloccare l’ingresso non a luoghi abitati, ma al bosco.

Filo spinato circonda questo monastero fondato nel 1327 da Stefano Dečanski, re serbo dal quale prende il nome. È qui che vive padre Sava Janjić, archimandrita, abate del monastero. Il mio obiettivo è incontrarlo per un’intervista, cosa non semplice, a maggior ragione alla vigilia di Natale. Varcato il cancello di accesso, Visoki Dečani si staglia meraviglioso e imponente contro le montagne.

Alla sua destra, dodici abeti piantati in cerchio rappresentano i dodici apostoli. Anche qui regna il silenzio. Di tanto in tanto si vede un militare o un monaco attraversare il grande piazzale antistante la chiesa e scomparire dietro una delle porte in legno che conducono alle celle. All’interno della chiesa sono conservati grandi e importanti affreschi ortodossi che, nonostante i ripetuti attacchi, non sono andati distrutti.

È un novizio a fornirmi l’occasione per poter chiedere udienza a padre Sava. Uscita dalla chiesa, infatti, vengo invitata a bere un caffè nell’area ristoro. Qui incontro due militari italiani che, per ragioni di sicurezza, desiderano rimanere anonimi. Sono loro a fare da portavoce, dopo aver dato loro i miei documenti e le mie generalità. Ottengo così un appuntamento per l’indomani, dopo la messa di Natale.

Il giorno seguente torno a ripercorrere la strada fra le montagne. Mi accorgo che non sono moltissimi i fedeli che hanno sfidato la neve. La cerimonia natalizia dura due ore e più ed è intensa e commovente: partecipano, oltre ai militari e ai pochi fedeli serbi, due suore dell’ordine di Madre Teresa di Calcutta che deve al Kosovo i suoi natali.

Padre Sava è alto, imponente: la lunga barba gli incornicia il volto severo. Non comprendo le parole, ma vengo invitata a avvicinarmi, a partecipare da vicino a questa funzione che riunisce persone così distanti fra loro. Alla fine della celebrazione, anch’io ricevo la benedizione.

La strada che conduce al monastero: la zona è sotto protezione della Kfor. Foto Valentina Tamborra.

Con la mente e il cuore

La conversazione con padre Sava non inizia dal conflitto dei Balcani, bensì da un pensiero che appartiene alla cultura greca, quello della «metanoia».

Il termine significa «cambiamento di mente» e rappresenta un invito a una trasformazione interiore profonda. Per padre Sava, questo concetto va oltre il semplice pentimento. Implica un vero e proprio rinnovamento del cuore e della mente: «Metanoia è un processo attivo di purificazione del cuore, un modo di vedere il mondo e le persone in una luce nuova», afferma.

Nelle sue riflessioni, padre Sava sottolinea che la metanoia è essenziale per superare l’odio e la divisione. In un contesto come quello del Kosovo, dove le tensioni etniche sono palpabili, egli crede che la vera trasformazione possa avvenire solo attraverso un cambiamento della propria prospettiva e un impegno a vivere secondo valori di amore e comprensione. Padre Sava utilizza la metanoia come strumento di riconciliazione. L’abate invita le persone a guardare oltre le loro differenze e a riconoscere l’umanità comune.

«L’odio è un sintomo di disordine interiore», afferma, e il suo superamento richiede un profondo lavoro spirituale. La speranza di padre Sava è che le nuove generazioni possano abbracciare questo messaggio, superando le divisioni etniche e costruendo ponti di dialogo.

In un mondo dove il nazionalismo e le tensioni identitarie sono in aumento, la visione di padre Sava è un richiamo alla pace. Propone modelli di convivenza pacifica, come quello dell’Alto Adige, dove diverse comunità coesistono rispettando le proprie identità. «La metanoia può guidarci verso una società inclusiva, dove ogni voce è ascoltata», sostiene.

L’abate del monastero di Visoki Dečani, padre Sava Janjić. Foto Valentina Tamborra.

La deriva dell’odio

Quest’uomo, nato a Dubrovnik, è stato segretario del vescovo della diocesi dal 1997 al 2002, con speciali responsabilità per le relazioni pubbliche e con i media. Dal giugno 1999 al 2001 ha vissuto presso il monastero di Gračanica per obbedienza al vescovo della diocesi. In seguito, è tornato al monastero di Dečani e ha assunto regolari incarichi monastici.

Durante la guerra ha dato asilo ad albanesi e serbi, occupandosi dei feriti e dei morti con la medesima cura e umanità: «Non c’è distinzione agli occhi di Dio». Eppure, nonostante la fede profonda, anche padre Sava ha avuto e ha paura. Ci tiene a raccontarlo mentre intorno a noi i monaci e i pochi ospiti ascoltano rapiti le sue parole.

Ascoltare padre Sava è d’ispirazione per chiunque, credente o meno che sia. Quando parliamo della paura, egli ci tiene a specificare che il suo timore non è legato alla sofferenza fisica o alla morte. Non ripercorre con la memoria i rischi corsi in passato e neppure si proietta su ciò che potrebbe accadere a lui e agli altri monaci, bensì il suo pensiero è rivolto alla possibile deriva spirituale derivante dall’odio. Padre Sava, infatti, ha assistito all’orrore, alla violenza cieca, ad atti tanto efferati da poter corrompere il cuore di chiunque. Ed è questo che teme: la perdita di lucidità. «Immagina il cuore come uno specchio lucente: riflette l’immagine di Dio. Questo specchio può essere appannato dall’odio e dalla paura, ma non distrutto. Dobbiamo applicare la metanoia, il cambiamento di prospettiva, per far sì che questo specchio torni lucido e pulito e capace di ricordarci che siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio. Dobbiamo aprirci alla sua presenza anche quando ci appare lontana, è questa la vera fede».

Un momento della celebrazione del Natale ortodosso nella chiesa del monastero. Foto Valentina Tamborra.

La cecità dei governi

Quando parliamo dell’attuale situazione politica, padre Sava ha una visione molto chiara: è infatti convinto che difficilmente il governo serbo possa riconoscere l’indipendenza del Paese e che continuerà a considerarla illegale. In ogni caso, prima di parlare di qualsiasi forma di riconoscimento, il governo serbo vuole che venga stabilita un’associazione dei comuni a maggioranza serba, come concordato fra Belgrado e Pristina nel 2013 e successivamente confermato nel 2015. L’accordo, però, non è mai stato rispettato.

Ad oggi, la Serbia considera inaccettabile la condizione posta dalle autorità kosovare di riconoscere prima il Kosovo e poi discutere di una qualche forma di protezione per i serbi. Questa condi-

zione è percepita da Belgrado come una sorta di ricatto.

Secondo padre Sava, in Serbia il livello di sostegno per l’indipendenza del Kosovo è pari a zero, e persino il sostegno all’Unione europea è diminuito, e questo è diretta conseguenza del comportamento delle autorità kosovare e della mancanza di un approccio bilanciato da parte di alcuni rappresentanti europei.

Foto Valentina Tamborra.

La Chiesa serba in Kosovo

Padre Sava Janjić descrive la Chiesa ortodossa serba in Kosovo come una parte fondamentale del tessuto della società locale: le chiese, infatti, costituiscono un elemento importante dove si intrecciano le tradizioni del popolo serbo, ma anche quelle di altre comunità che, infatti, hanno sempre rispettato questi luoghi, come dimostra la sopravvivenza del monastero di Dečani per 700 anni.

L’ortodossia, del resto, ha radici profonde in Kosovo: i serbi qui hanno vissuto per secoli, lasciando numerose tracce come chiese, monasteri e cimiteri.

Nonostante periodi difficili, la Chiesa ha beneficiato della protezione di diverse forze nel corso della storia, come l’esercito turco all’inizio del XX secolo, l’esercito italiano durante la Seconda guerra mondiale e, successivamente, la Kfor.

Il diritto delle altre comunità non serbo ortodosse di vivere in Kosovo non è messo in discussione per padre Sava e, men che meno, quello di mantenere le proprie tradizioni, ma è necessario insistere sul rispetto reciproco. Il Kosovo, dunque, non dovrebbe essere inteso come uno stato etnico albanese, ma come un luogo dove tutti si sentano sicuri. Tuttavia, la tendenza attuale pare opposta, costituendo una fonte pericolosa di instabilità per la regione e per l’Europa.

Padre Sava sottolinea le sfide attuali per la comunità serba, aggravate dal ritiro dei rappresentanti serbi dalle istituzioni kosovare. Questo ha portato a una situazione di instabilità e all’ascesa di figure albanesi che non rappresentano la maggioranza della popolazione e il cui comportamento è percepito dai serbi locali come repressivo e provocatorio. Mantenere il sistema educativo e sanitario serbo è cruciale per preservare l’identità e lo stile di vita della comunità serba (lo scorso 15 gennaio in varie località del Paese il governo kosovaro ha chiuso decine di istituzioni serbe, tra cui alcune «amministrazioni parallele», ndr).

Il mancato riconoscimento dell’accordo del 2013/2015 sull’istituzione dell’associazione dei comuni a maggioranza serba è un serio problema che ha portato a un’empasse con le autorità kosovare che ora richiedono il riconoscimento del Kosovo da parte della Serbia come precondizione per ulteriori discussioni.

Infatti, nonostante i serbi in Kosovo abbiano la cittadinanza e rispettino le leggi, non si sentono trattati in modo paritario dalle attuali autorità kosovare, caratterizzate da un forte nazionalismo etnico.

Il dialogo con padre Sava è chiaramente improntato a una ferma condanna per ogni forma di violenza. Sottolinea come la Chiesa sia impegnata nella ricerca di soluzioni pacifiche e nel dialogo. Ricorda che, durante il periodo di Slobodan Milošević, lui stesso e il vescovo precedente si erano schierati contro le violazioni dei diritti umani degli albanesi, pur mettendo in guardia anche contro il loro nazionalismo.

Viene impartita la benedizione a una giovane fedele. Foto Valentina Tamborra.

I pericoli dei nazionalismi

Prima di recarci a pranzo, padre Sava ci tiene a lasciarmi con una riflessione sulle nuove generazioni.

La sua speranza è che superino le mentalità tribali e settarie, vivendo in armonia al di là delle differenze etniche e religiose. Oggi come oggi però, dice, il nazionalismo balcanico è in crescita e non solo in Kosovo ma anche in Serbia, Croazia e in generale ovunque nei Balcani.

Anche sul primo ministro del Kosovo (Albin Kurti, il cui partito nazionalista – «Vetevendosje» – ha vinto le elezioni del 9 febbraio 2025, ndr), padre Sava ha opinioni chiare: a suo dire, rappresenta il nazionalismo etnico albanese e il suo comportamento è autocratico. Il timore è che si voglia creare una «Grande Albania» andando così di fatto a peggiorare la condizione della minoranza serba in Kosovo e a inasprire i rapporti con la Serbia.

L’intervista viene conclusa dall’arrivo di un novizio: è pronto il pranzo.

Ci spostiamo in un’ala del monastero normalmente chiusa al pubblico. Sotto volte affrescate, sono apparecchiati tre lunghi tavoli in legno. I monaci, guidati da padre Sava, iniziano a cantare. È una preghiera dalla quale, pur non comprendendo le parole, arrivano forti suggestioni. Qui, fra le montagne, è possibile sentirsi accolti, essere «in pace», uniti oltre le provenienze, la lingua, la religione.

Un carico di doni

Quando lascio il monastero, il silenzio del paesaggio circostante è interrotto solo dal suono delle campane. Ripenso al messaggio di padre Sava che trascende le sue parole. È un richiamo a tutti noi, un invito a intraprendere un cammino di metanoia, a trasformare il nostro cuore e la nostra mente. Le sue parole ci portano a immaginare un futuro dove le generazioni di oggi e domani possano vivere senza il peso delle divisioni etniche, dove l’amore e la comprensione possano sostituire l’odio e la paura. Tentare di guardare ogni persona non attraverso il filtro delle differenze, ma attraverso la lente della dignità e dell’umanità condivisa. La sfida che padre Sava ci pone è semplice: possiamo scegliere di essere portatori di pace, di diventare architetti di un dialogo autentico e costruttivo. Con il cuore aperto e la mente pronta a cambiare, possiamo costruire insieme un futuro migliore, un Kosovo e un mondo in cui la speranza trionfi sull’odio. E così, come il monastero che resiste nel tempo, anche noi possiamo diventare simboli di resilienza e amore, pronti a scrivere una nuova storia di unità e riconciliazione.

Valentina Tamborra

Il monastero ortodosso di Visoki Dečani con in primo piano la chiesa. Foto. Valentina Tamborra

 




Il ritorno del guardiano invisibile dell’ecosistema sardo


Le ali del grifone Gli ecosistemi sono equilibri delicati. La scomparsa di una specie può avere gravi conseguenze. In Sardegna, grazie all’impegno di alcuni e a fondi europei, si è scongiurato il peggio. E il grande rapace sta ripopolando i suoi habitat.

La Sardegna, un’isola di rara bellezza, conosciuta principalmente per le sue spiagge dorate e il mare cristallino, conserva al proprio interno, nel cuore, un tesoro inestimabile: il grifone (Gyps fulvus). Questo maestoso rapace vive da sempre fra vette rocciose e paesaggi mozzafiato nella zona del bosano (provincia di Oristano).

Simbolo di forza e libertà, riveste un ruolo cruciale nell’equilibrio ecologico dell’isola, eppure ha rischiato l’estinzione a causa di minacce che hanno messo a dura prova la sua sopravvivenza.

Il grifone, considerato il «guardiano invisibile» dell’ecosistema, svolge una funzione essenziale nella decomposizione e nel riciclo delle carcasse animali. Questi imponenti avvoltoi, con un’apertura alare che può raggiungere i due metri e mezzo, rappresentano gli «spazzini aviari» dell’isola, contribuendo in modo significativo alla rimozione dei rifiuti organici e alla regolazione delle malattie. Il loro instancabile lavoro di smaltimento delle carcasse consente il ritorno dei nutrienti al suolo, alimentando così il ciclo vitale dell’ecosistema.

Nonostante il ruolo cruciale dei grifoni, la loro popolazione in Sardegna era drammaticamente diminuita, arrivando a contare solo 100-120 individui e 35 coppie territoriali. Le principali minacce erano legate alla scarsa disponibilità alimentare, all’uso di bocconi avvelenati e al disturbo antropico nei siti di nidificazione. Spesso, infatti, barche e gommoni cercavano di avvicinarsi il più possibile ai nidi pur di ottenere una foto o comunque avvistare un esemplare.

Il disturbo provocato portava i grifoni alla fuga e i giovani, non ancora abili nel volo, spesso finivano in mare, annegando.

Il ritorno

Fortunatamente, grazie al progetto Life under griffon wings, finanziato dall’Unione europea e coordinato dall’Agenzia regionale Forestas (struttura tecnica operativa nel settore forestale e ambientale), la specie ha iniziato a tornare a volare nei cieli sardi.

Un elemento chiave di questo programma di conservazione è stata l’introduzione innovativa dei «carnai aziendali».

Ci conduce a visitarli, il dottor Dionigi Secci, che si occupa del progetto europeo sin dai suoi esordi.

I carnai aziendali sono veri e propri punti di alimentazione per i grifoni e vengono gestiti direttamente dagli allevatori locali. Questi luoghi nei quali le carcasse di ovini e bovini vengono lasciate a disposizione dei grifoni affinché se ne possano nutrire, hanno rappresentato una soluzione sostenibile e di successo per garantire loro una fonte di cibo sicura e costante. Anziché dover provvedere al sotterramento delle carcasse o alla bruciatura, gli allevatori le collocano in questi speciali recinti, permettendo così ai rapaci di nutrirsi in modo controllato e senza rischio di avvelenamento. Si tratta di un progetto virtuoso poiché unisce il recupero di un animale in via di estinzione al controllo delle carni che vengono portate in tavola: affinché si possa continuare a smaltire le carcasse facendone cibo per i rapaci, infatti, l’allevatore è tenuto a garantire una giusta alimentazione agli animali allevati e dimostrare di non aver utilizzato farmaci o sostanze che possano essere dannosi per l’uomo e, di conseguenza, anche per i grifoni.

«I carnai aziendali hanno trasformato un costo di gestione per gli imprenditori in una risorsa preziosa per la conservazione della biodiversità», spiega il dottor Marco Muzzeddu, veterinario presso il Centro di allevamento e recupero della fauna selvatica di Bonassai (Sassari). «Grazie a questa rete di alimentazione sicura, abbiamo assistito a un incredibile aumento della popolazione di grifoni, che è passata da 100-120 individui a circa 230-250 in pochi anni».

Il dottor Muzzeddu è fra i maggiori esperti di fauna selvatica e all’interno del Centro faunistico di Bonassai si occupa anche del recupero di volatili come aquile reali, gufi, occhioni oltre a svolgere attività di divulgazione. Spesso, infatti, il Centro accoglie scolaresche e visitatori interessati al dialogo e all’approfondimento circa la tematica della sostenibilità ambientale.

Direttore sanitario della struttura, Muzzeddu si occupa – oltre che della salvaguardia dei grifoni e di animali in via di estinzione – di chirurgia sulla fauna selvatica terrestre e marina.

È famoso il suo intervento chirurgico su un leone arrivato a Sassari insieme ad artisti circensi. Interventi in barca, in elicottero, salvataggi e recupero di animali in luoghi impervi sono la quotidianità per questo medico veterinario che è diventato un punto di riferimento fondamentale.

Ripopolare e proteggere

Oltre all’implementazione dei carnai, il progetto Life under griffon wings ha adottato altre misure fondamentali, come il rilascio di 63 giovani grifoni provenienti da centri di recupero in Spagna e dall’Amsterdam royal zoo, il potenziamento del Centro faunistico di Bonassai e l’istituzione di un nucleo cinofilo antiveleno composto da agenti del Corpo forestale e cani addestrati, per contrastare l’uso di bocconi avvelenati.

Inoltre, sono stati realizzati sentieri e capanni di osservazione per mitigare il disturbo antropico nelle aree di nidificazione, e sono stati predisposti codici etici per la fotografia naturalistica e l’escursionismo.

Nonostante i notevoli successi, la strada per la salvaguardia a lungo termine del grifone in Sardegna non è ancora del tutto spianata. L’areale di questa specie rimane ristretto al settore nordoccidentale dell’isola, rendendola vulnerabile a minacce come le collisioni con infrastrutture energetiche (pale eoliche) e il saturnismo, una malattia causata dall’intossicazione da piombo. Per affrontare queste sfide, è stato avviato il nuovo progetto Life safe for vultures, che mira a espandere l’habitat del grifone e a mitigare ulteriormente le minacce.

La storia del ritorno del grifone in Sardegna è un esempio di come la collaborazione tra istituzioni, esperti e comunità locali possa portare a risultati tangibili nella tutela della biodiversità. Questo maestoso rapace, simbolo di libertà e forza, è tornato a volare nei cieli sardi, un segnale di speranza per l’intero ecosistema dell’isola. La sua salvaguardia rappresenta una sfida cruciale, non solo per la Sardegna, ma per l’intero Mediterraneo, e il delicato equilibrio tra l’uomo e la natura.

I rischi delle pale

Se in passato, il saturnismo è stato uno dei principali elementi che hanno messo a rischio il grifone, oggi se n’è aggiunto un altro legato all’energia sostenibile.

In Sardegna, infatti, l’installazione di impianti eolici è diventata un tema centrale nel dibattito politico e sociale. Le pale eoliche, che possono raggiungere fino a 120 metri di altezza, sono percepite da molti come una minaccia al paesaggio dell’isola. La preoccupazione principale dei residenti è che la Sardegna, famosa per la sua bellezza naturale, si trasformi in un’area industriale dedicata alla produzione di energia, con impatti estetici e ambientali significativi.

Dal punto di vista energetico, la Sardegna ha un potenziale notevole per la produzione di energia eolica. Tuttavia, le proposte di installazione di oltre 800 nuovi impianti hanno sollevato forti opposizioni. Gli attivisti sostengono che gran parte dell’energia prodotta non sarà destinata al consumo locale, ma esportata verso il Nord Italia, senza apportare benefici diretti alle comunità sarde. Inoltre, si teme che i profitti non vengano equamente redistribuiti tra la popolazione locale.

Le preoccupazioni riguardano il rischio per la biodiversità, in particolare per l’avifauna che spesso si scontra con le pale eoliche rimanendo uccisa sul colpo, e l’uso di terreni agricoli per l’installazione di pannelli fotovoltaici. Molti cittadini chiedono un approccio più sostenibile e democratico nella pianificazione energetica, auspicando che la Regione stabilisca chiaramente le necessità locali e il ruolo delle rinnovabili nel contesto sardo.

Nonostante queste critiche, esperti del settore sottolineano che l’energia eolica è una componente essenziale per la transizione ecologica, necessaria per ridurre la dipendenza dai combustibili fossili. La sfida rimane quella di trovare un equilibrio tra sviluppo sostenibile e tutela del patrimonio naturale, coinvolgendo le comunità locali nel processo decisionale.

«Senza il rispetto per ogni forma di vita, l’essere umano è destinato a scomparire. Mi batto affinché le persone capiscano che abitare degnamente il mondo significa contribuire a garantirne l’equilibrio. Un atto di gentilezza verso un essere sofferente è un atto di umanità che innesca un circolo virtuoso. Non siamo i padroni di questo mondo, ci è solo stato dato in prestito. Altri verranno dopo di noi e abbiamo il dovere di lasciare ciò che ci è stato donato nelle migliori condizioni possibili», conclude il dottor Muzzeddu.

Valentina Tamborra




Bosnia. Memorie della guerra


È stata l’ultima guerra in Europa del XX secolo. Con episodi di genocidio. Il conflitto degli anni 90 in ex Jugoslavia pare lontano. Ma i popoli che ne sono stati coinvolti hanno costruito i loro memoriali. La nostra collaboratrice li ha visitati.

«Sarajevo ha due parvenze e due volti: uno oscuro e severo, l’altro luminoso e amabile». Così il premio Nobel Ivo Andrić descriveva nel racconto «Uno sguardo su Sarajevo» la capitale della Bosnia-Erzegovina.

Esistono luoghi nel mondo che portano impressi i segni di ciò che è stato. Segni non cancellabili o che, più semplicemente, non si vogliono cancellare.

Questo è sicuramente il caso della città di Sarajevo. Per abbracciare tutta con un solo sguardo basta salire in cima al Trebević, il monte che la sovrasta. Pochi minuti dal centro città alla cima della montagna. Giunti al belvedere si può comprendere come questo luogo, nascosto fra i monti, fosse un luogo perfetto per un assedio: nessuna via di scampo, se non i boschi attorno all’abitato, che ancora oggi rappresentano un rischio. Non tutte le mine antiuomo, infatti, sono state rimosse.

L’assedio di Sarajevo, da parte delle forze serbe, durò dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996. È stato il più lungo della storia bellica del XX secolo.

Sarajevo, ponte tra oriente e occidente, era una città nella quale le culture cristiana, musulmana ed ebrea si amalgamavano in un mix pacifico. Un mix che i sarajevesi, abituati alla convivenza, vedevano come normale. Una realtà scomparsa negli anni Novanta, quando il feroce assedio delle forze serbe pose fine alla pace.

Memorie

Oggi camminando per le vie di questa vivace città (con circa 320mila abitanti, ndr) non si può fare a meno di notare come, a fianco di locali alla moda e negozi scintillanti, i palazzi presentino ancora i segni della guerra.

Segni che nessuno vuole cancellare a imperitura memoria di un passato di sangue, e che anzi, vengono esaltati così da renderli più evidenti, come fossero monumenti.

Sui marciapiedi, sulle mura, è facile vedere le cosiddette «rose di Sarajevo», (in bosniaco sarajevske ruže). Si tratta di simboli commemorativi realizzati riempiendo di resina rossa i fori dei proiettili di mortaio che, durante l’assedio, hanno colpito la città.

Ancora oggi all’interno di Markale, il mercato all’aperto tristemente noto per due attentati nei quali persero la vita più di cento persone, si può vedere a terra l’enorme foro di un colpo di mortaio, al cui interno si scorge ancora una parte dell’ordigno. I bordi frastagliati del foro sono dipinti di rosso, come le rose di Sarajevo.

Se il museo dei Crimini contro l’umanità, presente in questa città e a Mostar, è una visita doverosa, altrettanto potente e commovente è la galleria fotografica «Galerija 11/07/95».

Si tratta della prima galleria d’arte in Bosnia-Erzegovina dedicata alla memoria delle 8.372 persone che persero la vita nel genocidio di Srebrenica. Aperta simbolicamente il 12 luglio 2012, un giorno dopo l’anniversario della strage, contiene un’esposizione permanente di ciò che è rimasto. Immagini dal campo dei sopravvissuti, ritratti di famiglia, ritrovamenti di ossa nelle fosse comuni, foto di graffiti offensivi e scritte dei Caschi blu dell’Onu sulle mura del complesso della «Forza di protezione delle Nazioni Unite». Il tutto per ricordare come un monito quello che fu e che si spera non debba accadere di nuovo.

Autori dell’esposizione sono il Centro memoriale di Srebrenica-Potocari, l’Associazione movimento delle madri delle enclavi di Srebrenica e di Zepa, l’Istituto per le persone disperse della Bosnia Erzegovina, l’Iniziativa dei giovani per i diritti umani Yihr/Fama, il Cinema for peace foundation, il Video archivio del genocidio, il Genocide film library Bosnia-Herzegovina e il fotografo Tarik Samarah.

Poco fuori dalla città, vicino all’aeroporto, si trova il cosiddetto «Tunnel della speranza»: costruito dagli assediati bosniaci a partire dal gennaio del 1993 per collegare la città a un’area del territorio bosniaco molto più estesa passando al di sotto dell’area neutrale dell’aeroporto istituita dalle Nazioni Unite.

La galleria permise ai bosniaci di oltrepassare l’embargo internazionale di armi e di fornire ai combattenti le armi necessarie, oltre a far arrivare cibo e medicinali a chi era bloccato nella città sotto assedio. Con i suoi ottocento metri di lunghezza e solo 1,60 di altezza, il tunnel rappresentò per molti l’unica via di salvezza.

Oggi è possibile visitarne una parte: percorrendone circa venti metri, si può avere un’idea di cosa voleva dire avere come unica via di fuga un luogo tanto angusto.

Il Ponte vecchio (Stari most) di Mostar, ricostruito. Bosnia. Foto Valentina Tamborra

Srebrenica

Uno dei più terribili eccidi dai tempi dell’Olocausto avviene nella piccola cittadina di Srebrenica, lungo la valle del fiume Drin, le cui acque segnano il confine tra la Bosnia e la Serbia.

È l’11 luglio del 1995: le truppe serbo bosniache del generale Ratko Mladić – soprannominato in seguito «il boia di Srebrenica» – invadono la città, dichiarata «zona protetta» nel 1993, e uccidono più di 8mila persone del gruppo etnico bosgnacco (bosniaci musulmani). La popolazione della piccola enclave in territorio bosniaco viene decimata. Un detto locale recita: «Chi è sopravvissuto non può avere sentimenti in corpo».

Oggi arrivare a Srebrenica da Sarajevo significa compiere un viaggio in una memoria viva: a gestire e fare da guida al Memoriale, ci sono alcuni dei sopravvissuti al genocidio.

I locali di quella che un tempo era la base dei Caschi blu delle Nazioni Unite sono oggi sede di un museo che porta il visitatore all’interno di quello che fu uno dei più grandi fallimenti della comunità internazionale.

Alle pareti, fotografie e installazioni video raccontano l’inazione dei Caschi blu dovuta al fatto che le risoluzioni Onu, votate sino a quel momento, non davano ai militari i mezzi e il benestare per agire. I Caschi blu assistettero impotenti alla cattura, attorno al compound, di circa duemila uomini tra i 12 e i 70 anni che vennero destinati all’esecuzione. Donne, anziani e bambini, in tutto circa ventimila, furono deportati e subirono stupri e violenze.

Ancora oggi molti sono i corpi non ritrovati e si procede alla ricerca e alla successiva verifica tramite esame del Dna. Il cimitero che fronteggia l’ex base delle Nazioni Unite sembra estendersi all’infinito: file e file di lapidi bianche in marmo, le più vecchie, interrotte da quelle più nuove, verdi, di legno.

Una distesa di morti che finalmente hanno un nome, un luogo dove piangerli. L’11 luglio di ogni anno una lunga processione parte da Sarajevo per raggiungere Srebrenica: si seppellisce ciò che è stato ritrovato negli ultimi dodici mesi – siano poche povere ossa o i resti di abiti o oggetti personali -, si dà loro degna sepoltura affinché ancora una volta resti viva la memoria di ciò che è stato.

Sarajevo, le rose, ovvero dipinti nati dai danneggiamenti delle bombe. Foto Valentina Tamborra

Dove il tempo si è fermato

Se si vuole avere un’idea dello straordinario paesaggio che circonda Sarajevo e se si vogliono «dimenticare» per un attimo i segni della guerra, è d’obbligo una visita a Lukomir. Si tratta dell’unico villaggio non toccato dalla guerra dei Balcani. Si trova a 110 km da Sarajevo e a 1.469 metri sul livello del mare, vicino al monte più alto del paese, il Bjelašnica. Affascinante ma insignificante da un punto di vista strategico, è riuscito a non veder sconvolta la propria esistenza e ancora oggi ospita quella che è una delle ultime comunità di pastori musulmani.

Il paesaggio è straordinario: un canyon profondo quasi 800 metri fa da sfondo a un villaggio che sembra fermo nel tempo. Casupole a pianta quadrata sormontate da tetti aguzzi, Lukomir è uno dei villaggi d’Europa ininterrottamente abitati da più anni.

Fra i viottoli di sassi e terra, vivono circa sessanta persone che si prendono cura dei propri animali, per lo più pecore e galline, difendendoli dagli attacchi dei lupi che da queste parti sono tutt’altro che rari. Raggiungere Lukomir comunque, è possibile solo per circa tre o quattro mesi l’anno. Durante il lungo inverno, infatti, la strada che conduce a questo luogo remoto rimane chiusa per neve.

Il Ponte vecchio, Stari most, di Mostar, bombardato nel novembre 1993 e sostituito da una passerella. Qui nell’agosto 1994. Foto Marco Bello

Lo Stari moste il cimitero violato

Il ponte di Mostar è forse uno dei simboli più dolorosi e vivi nella memoria di chi ha vissuto o visto – anche solo dal soggiorno di casa propria seduto davanti alla tv – la guerra dei Balcani. È il 9 novembre del 1993 quando, sotto i colpi dell’artiglieria croato-bosniaca, crolla lo Stari most, il Ponte vecchio di Mostar, un gioiello architettonico ottomano – oggi riconosciuto come patrimonio Unesco – che unisce le due rive del fiume Neretva.

Oggi ricostruito, fa da sfondo al paesaggio da cartolina che Mostar offre a chi vi arriva per la prima volta.

Eppure basta guardarsi intorno, parlare con gli abitanti, soffermarsi nelle vie periferiche della cittadina, per ritrovare, come a Sarajevo, colpi di proiettile sulle mura delle abitazioni o segni di mortaio a terra.

Oggi a preservare la memoria di ciò che è stato, esistono dei «free walking tours», nei quali guide locali raccontano la città e ciò che ha subito.

La ferma volontà di non dimenticare è una legge non scritta in Bosnia-Erzegovina dove persino nella periferia di Mostar le vecchie case abbandonate e disastrate sono diventate monumenti alla memoria.

Opere d’arte, installazioni permanenti – come quella che rappresenta un bimbo che si dondola su un’altalena appesa a un vecchio palazzo crivellato dai colpi dei proiettili -, riportano costantemente alla memoria ciò che è stato.

Purtroppo, però, nonostante gli sforzi e il continuo parlare di pace e di convivenza fra culture, il seme della violenza non è ancora stato estirpato e ne è triste prova il cimitero partigiano che sorge alle porte di Mostar. Creato dall’architetto belgradese Bogdan Bogdanovic, il monumento eretto per accogliere le spoglie degli antifascisti jugoslavi morti durante la Seconda guerra mondiale, è oggi un cumulo di macerie. Nel giugno del 2022 infatti, le oltre 600 steli dell’opera monumentale sono state fatte a pezzi.

Molte le manifestazioni antifasciste che si sono mosse in difesa di questo luogo. Le accuse che vengono rivolte alla politica locale sono quelle di aver lavorato negli anni alla riabilitazione di episodi e personaggi storici del periodo fascista. Forte la denuncia dell’attivista Samir Beharic: «Generazioni di giovani croati sono state cresciute in un ambiente dove i collaboratori nazisti venivano onorati, in alcune parti di Mostar, le strade sono dedicate ai responsabili dei massacri contro gli ebrei bosniaci».

Ciò che rimane di un viaggio in Bosnia-Erzegovina oggi, è l’impressione di un paese ferito ma dignitoso e fiero della propria resistenza. Un paese che, pur guardando avanti, non vuole lasciarsi alle spalle il passato e resta deciso a fare del dolore memoria viva e potente.

Valentina Tamborra

Sarajevo, Bosnia. Musici in un locale notturno. Foto Valentina Tamborra.

 




A riflettori spenti


Pierpaolo Mittica è un fotogiornalista conosciuto a livello internazionale. Il centro del suo lavoro è il racconto della vita di chi ha subito guerre o catastrofi. Ciò che accade alle persone quando l’attenzione dell’informazione cala. In Bosnia come in Ucraina.

Fotografo umanista: Pierpaolo Mittica, classe 1971, non potrebbe essere definito diversamente. Conosciuto e premiato a livello internazionale, le sue fotografie sono state esposte in Europa, Stati Uniti e Cina e pubblicate dai più importanti periodici in Italia e all’estero1.

I suoi documentari trasmessi da Prime video, Al Jazeera e Discovery Channel, solo per citare alcune delle piattaforme più note.

Eppure, il successo non ha scalfito l’umanità e l’attenzione che Pierpaolo dedica a ogni storia.

Lo intervisto poco dopo il suo rientro dall’Ucraina dove si è recato a distanza di diversi mesi dallo scoppio della guerra. Ha aspettato ad andarci, perché quello che interessa a lui non sono sangue e pallottole, ma ciò che resta, le piccole storie dimenticate dai grandi media.

Polaroid e Neorealismo

Ha solo dodici anni Pierpaolo quando lo zio, Alfredo Fasan, fotografo professionista, gli regala una Polaroid e lo inizia ai segreti della camera oscura. Subito capisce che la narrazione attraverso le immagini è qualcosa di potente, e se ne innamora.

A diciotto anni si reca a Spilimbergo e fa da assistente a Giuliano Borghesan, uno dei maestri della fotografia italiana che negli anni Cinquanta scrisse con la luce pagine memorabili del Neorealismo in Friuli.

Pierpaolo che spazia dal ritratto alla fotografia di viaggio, sempre mantenendo alta l’attenzione sulle persone.

Sono le persone, infatti, le loro storie, la loro cultura, ad attrarre lo sguardo del giovane fotografo, specialmente le vite dimenticate, quelle ai margini.

La Bosnia: ciò che resta

È il 1998 quando Pierpaolo decide di documentare le conseguenze della guerra dei Balcani.

Il fotografo parte per Sarajevo perché gli sembra impossibile che il conflitto, così vicino a casa sua, sia già dimenticato.

Va in Bosnia con due idee molto chiare sul suo lavoro: la prima è che la guerra guerreggiata non fa per lui. Non vuole raccontare il sangue, il dolore dei soldati feriti, il lutto per i compagni morti, lo strazio delle armi e della violenza.

In fondo, un soldato che muore sul campo fa il proprio lavoro, come un giornalista di guerra, un umanitario, o qualsiasi figura legata allo sporco affare che sono i conflitti in armi.

La seconda idea chiara, forse ancora più importante, è quella di voler raccontare chi è sopravvissuto e deve sopravvivere in un paese dove non ci sono più Stato, leggi, rispetto per la vita.

Pierpaolo vuole raccogliere ciò che resta quando si è perso tutto, le piccole storie, quelle che si tende a dimenticare o a nascondere. E racconterà l’alienazione delle persone di fronte al loro presente, al futuro, e rispetto al loro passato. E la coscienza sporca dell’Europa che ha permesso per troppi anni genocidi e pulizie etniche.

India in bianco e nero

Dopo la guerra dei Balcani, Pierpaolo, spinto dalla voglia di incontrare un luogo dell’anima, decide di partire per l’India.

Il Paese lo colpisce più forte del previsto, nel bene e nel male. Si rende presto conto che l’impatto emotivo non è mai calcolabile, esistono cose, infatti, che non si possono capire senza viverle in prima persona.

Racconta Varanasi e le città legate a culti spirituali profondi, le tradizioni, le baraccopoli, le fogne a cielo aperto, gli odori terribili che si mescolano agli incensi votivi. L’olfatto, in India, viene temprato per sempre. E poi la vista: caos, disordine, densità di persone, cose e colori. E suoni ovunque.

I sensi vengono coinvolti totalmente, e Pierpaolo comprende che l’unico modo per non farsi distrarre da tutta quella realtà è l’uso del bianco e nero. Eliminando una parte di sollecitazioni, può toccare l’anima di quel mondo straordinario.

Chernobyl: il veleno invisibile

È nel 2002 che il lavoro di Pierpaolo incontra una realtà che non abbandonerà mai: quella di Chernobyl e dell’Ucraina.

Non è per lui una realtà sconosciuta, ma l’incontra in modo particolare durante una cena con amici, dove conosce Ivana Rizzo, presidente di un’associazione che aiuta i bambini vittime dell’esplosione della centrale nucleare avvenuta nel 1986: i piccoli vengono portati in Italia durante le vacanze perché possano allontanarsi per un periodo dalle zone contaminate.

Pierpaolo ascolta Ivana parlare di villaggi contaminati ma ancora abitati, sia in Bielorussia che in Ucraina, e di una seconda zona di esclusione oltre i 30 km di raggio attorno alla centrale. Decide così di partire per vedere con i propri occhi. Ben presto comprende che quel poco che sapeva era solo la punta di un iceberg sporco e profondissimo.

Le zone contaminate, infatti, sono abitate, e i cittadini non sanno nulla dell’effetto delle radiazioni a lungo termine.

Il popolo si fida del governo e così coltiva, alleva, utilizza terre che provocano effetti disastrosi sulla salute: infarti del miocardio, malformazioni, tumori.

Il 70% dei bambini nati dopo l’esplosione della centrale è destinato a morire fra i trenta e i quarant’anni.

Pierpaolo si concentra sulle zone di esclusione. Va a Radinka, un villaggio situato a 300 metri oltre il margine della zona di esclusione di Chernobyl, nell’oblast’ di Kiev, a 50 km dal confine con la Bielorussia. Incontra lo scienziato bielorusso Yuriy Bandazhevsky che da anni studia le conseguenze della contaminazione sui bambini residenti a Radinka e nella provincia di Ivankov e combatte, per far conoscere la verità, contro le autorità locali, internazionali e la lobby atomica.

Oggi l’80% degli oltre 3.700 bambini esaminati residenti in quelle terre ha turbe del ritmo cardiaco in relazione diretta con la quantità di cesio incorporata. Inoltre, il 30% presenta una contaminazione interna da cesio 137 sopra i 50 Bq/kg (Becquerel al chilogrammo), livello che provoca diverse patologie.

Da questo progetto lungo di versi anni, deriverà un altro lavoro del fotografo su Kiev, città che al tempo dell’incidente nucleare aveva ospitato molti sfollati dalla zona coinvolta.

Ucraina: seconda famiglia

È il 24 febbraio del 2022: la Russia invade l’Ucraina alle 4 del mattino. Pierpaolo vorrebbe partire subito, ma non è possibile: Chernobyl è occupata dai russi e, anche quando viene liberata, i permessi per entrare e documentarla non arrivano.

Lui non vuole raccontare i soldati, l’occupazione, le morti: ancora una volta il suo sguardo è rivolto al popolo che subisce le conseguenze della guerra.

Questa volta però, a differenza della Bosnia, per Pierpaolo la storia si svolge nella sua seconda casa. Le persone con cui ha condiviso anni di lavoro per raccontare disastri, censure, dolore, dimenticanza, ora sono di nuovo in pericolo.

I permessi arrivano nel novembre 2022, e il fotografo parte con Alessandro Tesei, il videomaker con cui lavora da anni.

L’idea è di arrivare a Kiev e poi spostarsi, permessi permettendo, a Chernobyl. Ma subito i due si rendono conto che Kiev, come le cittadine limitrofe, racconta storie che non trovano voce e ascolto.

L’inverno è freddo, si arriva a meno venti gradi, e le persone si preparano ad affrontarlo senza elettricità e riscaldamento, avvolti dalla neve e dalla paura.

Pierpaolo si muove, dunque, raccontando le persone che provano a sopravvivere. Si fa strada tra le case e i palazzi divelti dalle bombe, ascolta e racconta le vite quotidiane senza cercare la foto d’effetto. Allo stesso tempo vuole comprendere le reali motivazioni dell’attacco russo: pensa che la Nato e il sentirsi minacciati siano una scusa di Putin per prendersi territori che offrono molte opportunità. Da anni infatti, Russia e Cina si contendono l’Africa, e uno sbocco sul mare rende questo continente più raggiungibile. Accesso al mare e accesso alla quinta riserva di gas più grande al mondo, quella del Donbass, sono motivazioni più che valide, più della minaccia della Nato.

Il timore di Pierpaolo, oggi, è che la guerra si incancrenisca, continuando a fare vittime fra una popolazione già allo stremo.

Il senso del fotogiornalismo

Passione, amore, empatia, modestia: per fare il lavoro più bello del mondo non c’è la ricetta perfetta, ma questi quattro elementi non devono mancare.

Pierpaolo parla dei sacrifici necessari per raccontare le vite degli altri, ma anche della bellezza delle esperienze che si fanno.

Accanto ai progetti raccontati finora, dal 2002 Pierpaolo ne porta avanti un altro intitolato Living Toxic, un lavoro a lungo termine che si propone di raccontare tutti i tipi di inquinamento che stanno mettendo in pericolo l’ambiente. Da Chernobyl a Fukushima, dall’incidente nucleare di Mayak fino all’estrazione di carbone in Cina. Sempre con l’obiettivo di sensibilizzare e far comprendere con un linguaggio semplice ciò che rischiamo di perdere, perché, come dice il fotografo, «stiamo distruggendo la nostra casa, esserne consapevoli è il primo passo per attuare un cambiamento».

Valentina Tamborra

Note

1- Tra le testate che hanno pubblicato foto di Pierpaolo Mittica: l’Espresso, la Repubblica, il Corriere della Sera, Days Japan International, Asahi Shinbum, The Telegraph, The Guardian, Sueddeutsche Zeitung, Der Spiegel, De Zeit, Wired USA, Asian Geo, China Newsweek, National Geographic.