Pandemia rimossa
Il Covid, cinque anni fa, è stato qualcosa di impensato. La paura della perdita, della morte, del vuoto, e il lutto non elaborato della nostra impotenza, sono diventati paranoia. Si è insediata nelle nostre comunità una rabbia diffusa ed esplosiva contro tutti e tutto. Per questo, ancora oggi, è necessario parlarne.
Nel 2020 scoppiò la pandemia. Il trauma fu potente, poiché il diffondersi dell’invisibile virus killer rappresentò nel mondo un fatto impensabile.
Ci chiesero di rimanere confinati a casa. Chiusero uffici e scuole, servizi e attività produttive, non volarono più gli aerei e si svuotarono le stazioni ferroviarie.
Le chiese chiusero i portoni d’ingresso. I morti non trovarono più riti accompagnatori.
Tutto doveva rimanere immobile, nella speranza di impedire al virus di girare e attaccare i polmoni degli esseri umani.
Ma il blocco sconvolse le vite di tutti. I bambini non poterono tornare tra i banchi di scuola, i lavoratori si destreggiarono come poterono tra lavoro a distanza o ozio forzato, la sanità implose sotto l’urto di una malattia sconosciuta che pietrificava i polmoni e toglieva l’aria.
Imparammo a non uscire, ad abbandonare abitudini certe, evitammo ogni tipo di incontro.
Poi arrivarono i vaccini, ci furono aperture per brevi uscite dalle prigioni casalinghe. Infine, fu estate e sperammo che tutto fosse finito. Liberi e liberati dall’incubo di morire per contagio.
Il virus, però, tornò a minacciarci. Quando eravamo pronti a dimenticare, il trauma si ripresentò colorato da zone rosse, gialle, bianche, e ci impose nuovi confinamenti.
Gli affetti vissero un ulteriore urto. I piccoli non poterono vedere i loro amici, gli allievi rinunciarono al cicaleccio in cortile, i nonni non abbracciarono i nipotini, perché i piccoli erano considerati untori, gli ospedali lasciarono fuori della porta i visitatori, le case di riposo rimasero chiuse, inaccessibili, mentre i nostri anziani, malati e fragili, morivano di solitudine.
Fu un’epoca di affetti recisi. Fu un trauma ripetuto. Un dolore che spezzava il cuore, un sentimento di mancanza incolmabile.
Cercammo di supplire con la rete internet e, dovendo rinunciare al calore di un abbraccio, al piacere di una carezza, al conforto di un bacio, passammo a vederci in videoconferenza sui monitor: unica àncora di salvezza.

Lutto, paranoia, violenza
Nel 2021, come accade per ogni tragedia, si voleva dimenticare e lasciarsi tutto alle spalle.
A inizio 2022, poi, scoppiò il conflitto in Ucraina. Venti di guerra soffiarono appena fuori i nostri confini geografici, ma anche nella quotidianità di ciascuno.
La violenza s’insinuò dentro alla comunità, crebbe, avanzò inesorabile perché impensata.
La paura della perdita, della morte, del vuoto, divenne mancata elaborazione del lutto condiviso da tutta l’umanità.
E il lutto che ci aveva fatti sentire impotenti divenne paranoia che alimentò la violenza.
E di questo incremento della violenza siamo ancora oggi testimoni: bambini e ragazzi si autolesionano, si è abbassata l’età dei suicidi, c’è aggressività nelle scuole, si è insediata nelle nostre comunità una rabbia diffusa ed esplosiva contro tutti e tutto.
Riparare il trauma
Sapevo che non sarebbe stato un bene cancellare il ricordo di quanto stava avvenendo. Bisognava parlarne, soprattutto per non creare un vuoto di significati nelle menti dei più piccoli.
Iniziai una ricerca a livello nazionale. Fondai tredici gruppi lungo la Penisola, dal Friuli Venezia Giulia alla Calabria, dalle Marche al Piemonte, dal Veneto alla Puglia, per incontrare adulti impegnati a riparare il trauma della pandemia nei più piccoli.
Si trattava di incontrarsi per otto volte, per due ore intorno alle frasi raccolte nel libro «Parola di bambino, il mondo visto con i suoi occhi», che attraversa la filosofia degli stati d’animo nell’infanzia.
Cercammo di far parlare le persone sui vissuti che transitavano nella relazione tra adulto e bambino in quei mesi.
L’incertezza, predominava, e creava paura. Un piccolo gruppo di professionisti della salute mentale provò a fermarla facendo riflettere le persone.
Ogni gruppo era coordinato da un esperto. Il compito dato agli adulti partecipanti era di osservare i bambini con uno sguardo attento ai cambiamenti avvenuti: nei figli, negli alunni o piccoli pazienti nei lockdown.
Il gruppo dei coordinatori era poi supervisionato da me per condividere non solo le difficoltà tecniche, gli imprevisti e inciampi, ma anche i vissuti che via via emergevano nelle persone. Questi furono un iniziale diniego, seguito poi da una valanga di dolore. I professionisti stessi, che si credevano immuni dal trauma, poterono riconoscere il proprio vissuto doloroso.
C’era grande opposizione a far luce su tanto dolore, ma sapevo che era necessario farlo per la salute mentale della popolazione. Sapevo che un trauma rimosso crea un buco nella vita psichica e che, nel tempo, forma un abisso, non solo incolmabile, ma addirittura non rappresentabile.

Dal diniego al riconoscimento
Capii ben presto che investire sul senso dell’evento pandemico era un problema per tutti. Un dato chiaro fu che non c’era differenza tra le diverse persone: psicoterapeuti, pedagogisti o cittadini qualsiasi. Il pensiero comune negava che si stesse delineando una vera emergenza sociale e sanitaria.
Capimmo che affrontare i vissuti relazionali dei lockdown era un salto emotivo che non tutti riuscivano a compiere. Che fossero genitori, educatori, insegnanti, operatori sociali o professionisti della salute mentale.
Accettai, quindi, il fatto che diversi esperti chiamati come coordinatori e diversi potenziali partecipanti ai gruppi avessero rifiutato di aderire, e lo considerai come il primo dato della ricerca. Le persone lo dicevano chiaramente: «Non abbiamo voglia di parlare di Covid-19».
Continuammo comunque con chi ci stava, e arrivammo nel 2022 a pubblicare il testo che raccoglie la metodologia, i percorsi e gli esiti della raccolta dei sentimenti che avevano animato i vincoli tra grandi e piccoli dall’inizio della pandemia in poi.
Il testo, «Ridisegnare la bussola educativa. Gli effetti del trauma pandemico nei bambini e nei ragazzi», uscì nell’ottobre 2022.
Da lì in poi cominciammo a portarlo dove ci chiamavano.
Sono stata in tutte le città dove i gruppi si erano realizzati. Ma siamo state invitate anche in altri luoghi dove via via si sentiva la necessità di parlare degli effetti della pandemia sui bambini.
Dopo le presentazioni, di solito, seguiva un «silenzio parlante». La prima volta, alla presenza di diversi coordinatori dei gruppi, ero a Mestre. Sentii la forza di quel silenzio. Chiesi: «E voi come avete passato quel periodo?». E, a partire dalle parole del testo, che davano una rappresentazione forte dei vissuti della vita familiare, scolastica, condominiale, lavorativa, di adulti e bambini, emergevano forti e chiari i ricordi.
Le persone passavano dalla superficie «Io l’ho vissuto bene, mio figlio non ne ha risentito, è stato un periodo bellissimo, io mi sono riposata», a emozioni dimenticate e inabissate.
La platea della presentazione del libro diveniva un gruppo, contenitore che permetteva di far emergere paure, sofferenze, dolori, preoccupazioni, angosce.
Questo spazio di dialogo con il pubblico in gruppi allargati mi è parso allora l’ultimo anello del percorso che stavamo compiendo grazie alla ricerca sugli effetti della pandemia nei grandi e nei piccoli.
La sequenza pareva sempre la stessa: diniego, piccoli riconoscimenti, esplosione di storie di dolore e paura.
Il trauma era ancora elaborabile, rappresentabile, narrabile. Dicibile, soprattutto in un gruppo coordinato che permettesse l’emergere del latente e desse parola ai sentimenti, alle emozioni e ai vissuti.
Il gruppo, attraverso la circolarità delle relazioni, in tempi anche brevi, dava parola a paure, rabbie, dolori, angosce. Su tutte dominava il tema della morte.
Dalla negazione del trauma siamo passati alla raccolta dei racconti emotivamente condivisi.
I sintomi, purtroppo, oggi sono più visibili di allora e, quindi, via via, in questi anni, troviamo meno resistenze a parlare degli effetti della pandemia nei vincoli che uniscono le generazioni.
Se all’inizio del percorso pensavamo che ritrovarsi in un gruppo coordinato potesse essere un’opportunità per rielaborare il dolore della discontinuità, della perdita e dello smarrimento emotivo, oggi ne siamo certi.
E la banalità della frase: «Andrà tutto bene» è divenuta serio impegno ad affrontare il tema del trauma.
Paola Scalari
psicoterapeuta, psicosocioanalista, supervisore e formatore
www.paolascalari.eu

Emozioni e vissuti
Nel testo «Ridisegnare la bussola educativa» sono raccolte tutte le frasi più significative emerse nelle duecento ore di incontri dei tredici gruppi partecipanti alla ricerca. Riporto qui qualche piccola storia raccontata durante la presentazione del libro in diverse città. Per mostrare come ovunque siamo andati abbiamo ascoltato dolore, paura, disorientamento. Attraverso la connessione con il mondo interno, si può dare parola e voce a ciò che si sta cercando di cancellare per non soffrire. Ognuna di queste piccole storie è definibile come un emergere del rimosso collettivo.

Padova. Fabrizio, assistente sociale racconta la sua paura di morire nel maggio del 2020. Ricoverato. Intubato. Affannato. Solo. Isolato dalla famiglia. Spaventato che si ammalassero anche i due figli e la moglie. I pensieri di morte furono atroci. La paura di lasciarli soli. L’angoscia di non poterli vedere, salutare un’ultima volta. E intanto il respiro diventava sempre più difficile. Fabrizio tra i singhiozzi afferma: «Una videochiamata per dirsi addio è troppo poco».
Trieste. Prima a voce spenta, poi sempre più decisa, suor Anna racconta la sua esperienza ospedaliera in isolamento. Il suo affidarsi a Dio e aggrapparsi alla vita attraverso i disegni che i bambini le facevano pervenire. Dice: «Fu la loro presenza a darmi la forza per lottare contro il virus». E aggiunge: «Ma ho visto la morte da vicino e mi ha fatto paura».
Venezia. Mara, madre di una ragazzina di quindici anni, dice che, durante le diverse fasi della pandemia, le era parso fosse filato tutto liscio. Oggi, però, si è resa conto che, poco a poco, sua figlia si è ritirata dalla vita sociale. Ricorda che nel marzo 2020 Susanna, allora dodicenne, stava ore davanti al monitor per seguire le lezioni, chiacchierare con le amiche, giocare con i compagni. Poi, dai brevi rientri a scuola, attesi e desiderati, usciva infelice. Lì dentro si stava divisi, separati, lontani. Guai ad avvicinarsi, a scambiarsi una penna, una bottiglietta d’acqua. Tutti intoccabili. Finestre aperte per far girare l’aria, anche con il gelo di febbraio che raggelava il corpo dove abitava un’anima già congelata. E così Susanna cominciò a dire che non voleva andare a scuola fino ad arrivare all’attuale ritiro sociale. «Ora – dice la mamma – non esce nemmeno con gli amici. Sono disperata perché non so come aiutarla».
Belluno. Una simpatica signora dal corpo robusto e con occhi vispi chiede la parola. Ci porta ai primi mesi del lockdown. Lei, cassiera in un supermercato, va ogni giorno a lavorare, mentre marito e figli rimangono chiusi in casa. Esce e può contagiarsi e contagiare i suoi cari. Paure e sensi di colpa la attanagliano. Quando arriva a casa si spoglia degli abiti lasciati in uno scatolone fuori casa, si fionda sotto la doccia e fa grande uso di sapone e disinfettante. E poi nessun abbraccio. Notti insonni sul divano.
Il racconto si ferma qui. Ma, tra i presenti, qualcuno osa dire: «Mi sento in colpa per aver frequentato più volte al giorno il supermercato in quei mesi. Non avevo mai pensato alla paura di commesse e cassiere. Scusami».
Alessandria. Vanda, una non più giovane insegnante, racconta la sua relazione con la classe. Ansia a ogni collegamento. Senso di inutilità. Rabbia, perché si sente raggirata dai ragazzini che chiudono la telecamera. Impotente. Senza strumenti per insegnare, si inquieta al punto di decidere che non si collegherà più. I compiti li mette in internet e li restituisce via chat. Oggi si chiede se avrebbe potuto farsi aiutare. Ed è inferocita per la solitudine che ha vissuto.
A queste sue affermazioni la mamma di un piccolo alunno racconta la sua rabbia per il menefreghismo degli insegnanti che hanno preteso l’impossibile dai loro figli, ma anche dai genitori. Gli animi si accendono. I genitori denunciano le disattenzioni dei docenti. Questi elencano i limiti che sono stati loro imposti.

Vediamo in diretta come la rabbia abbia imperversato in quel periodo, aumentando le contrapposizioni e la violenza relazionale: risultato del senso di abbandono che ha ferito tutti in quei giorni.
Cosenza. Fuori piove a dirotto. Pamela arriva prima di tutti. Si siede in prima fila. Parliamo del libro. Lei si rannicchia nella sedia e i suoi occhi sono pieni di lacrime. La invito a parlare. «Se non ci fosse stato il gruppo – dice – non ce l’avrei fatta da sola». Racconta del marito malato e poi morto nella solitudine dell’ospedale. Morto da solo dopo anni di vita insieme. Senza una mano da stringere, un conforto. Senza il suo amore ad accompagnarlo.
A quel punto tutti piangiamo. Le compagne del suo gruppo le si avvicinano e l’abbracciano. Corpi che s’incontrano dopo tanto digiuno. Corpi che nel contatto, pelle con pelle, risanano mancanze indescrivibili. Pamela commossa sussurra: «Vi devo la vita».
Parma. I genitori di Gianni, un mio caro allievo psicoterapeuta, piangono silenziosamente. Mi chiedo cosa stia passando nella loro mente. Li guardo e ci capiamo. Senza parole. L’angoscia della morte e del destino dell’umanità risuona dentro di noi.
L’invito è a non dimenticare, a chiedere ai ragazzi come sono stati e come hanno vissuto quegli anni. A non rimuovere cosa abbiamo vissuto noi adulti e come abbiamo interagito con i più giovani. Loro, vedendoci spaventati, hanno fatto finta di stare bene. Ora hanno bisogno di parlare.
P.S.