Domenica 19 ottobre, Giornata missionaria mondiale, papa Leone VIX ha canonizzato, tra gli altri, san Peter To Rot, il primo santo della Papua Nuova Guinea. MC aveva pubblicato la sua storia, che vi riproponiamo qui.
La redazione
Pulire secondo natura
Ogni giorno usiamo decine di prodotti, spesso non sostenibili per ambiente e persone. Tra questi ci sono i detergenti. Anche quelli naturali, a volte, contengono materie prime di Paesi lontani e sfruttati. Alcune persone si sono messe in gioco per produrre alternative.
«L’uomo non è un’eccezione nella natura», scrive Pëtr Kropotkin, geografo, biologo e anarchico russo, nato nel 1842 e morto nel 1921, dopo aver studiato le strategie di mutuo aiuto in diverse specie di animali nel mondo: «È anch’egli soggetto al grande principio del mutuo appoggio, che garantisce le migliori possibilità di sopravvivenza a quelli che meglio si aiutano l’un l’altro nella lotta per la vita».
Dopo più di cento anni dalla sua morte, vogliamo riprendere la sua riflessione e ampliarla. Consideriamo, infatti, valida la prospettiva della collaborazione non solo all’interno di una stessa specie, in particolare tra gli esseri umani, ma anche tra una specie e le altre, e con la natura.
Come ha raccontato la mostra d’arte «Mutual Aid. Arte in collaborazione con la natura», ispirata al pensiero di Kropotkin, tenutasi al Castello di Rivoli (To) tra ottobre 2024 e marzo 2025: «Simbiotica, empatica, collaborativa, questa prospettiva propone una modalità di essere al mondo che oggi giorno è diventata a dir poco pressante».
«Officina Naturae»
Se proviamo a cercare tracce di questo approccio collaborativo tra gli umani e con la natura nell’ambito del consumo critico, troviamo molti esempi, in molti campi. Dall’agricoltura, alla produzione di energia, dalle forme di condivisione di risorse e spazi, all’autoproduzione di beni.
Una delle realtà che sono cresciute di pari passo e in reciproco appoggio con i Gruppi di acquisto solidale (Gas), è quella di alcune aziende che si occupano di prodotti per la pulizia.
È noto, infatti, che i prodotti industriali per la detergenza contengono normalmente ingredienti inquinanti. Alcuni si sono domandati come arginare il problema e hanno messo in commercio prodotti biodegradabili.
«Officina Naturae» è una di queste realtà: nata da alcuni membri del Gas di Rimini che si domandavano come lavare e pulire in modo efficace con prodotti al 100% di origine vegetale.
Non trovando una risposta intorno a loro, Silvia Carlini e Pierluca Urbinati nel 2004 hanno messo in gioco le loro competenze per fondare un laboratorio.
L’avvio è stato pionieristico: le taniche dei primi detersivi sostavano accatastate in un garage prima di venire distribuite ai Gas. Con il tempo, grazie al rapporto con la rete dei Gas, e tramite una lunga serie di incontri e laboratori, la società è cresciuta. Oggi vi lavorano dodici persone.
I prodotti di Officina Naturae vengono realizzati con una forte attenzione all’ambiente, che si manifesta in primo luogo nella scelta delle materie prime, tutte di origine vegetale, e quindi velocemente biodegradabili.
Tra gli ingredienti utilizzati, Officina Naturae prevede molti prodotti locali, come la mela cotogna biologica e il fico d’India selvatico usati per il balsamo per labbra e la linea per bambini «Biricco».
Una grande attenzione è dedicata anche al packaging, tramite l’utilizzo di bioplastiche, plastiche riciclate post consumo, o azzerando l’utilizzo della plastica nei prodotti «plastic free», come in quelli della linea di cosmetici solidi (shampoo, bagnoschiuma, deodorante, detergente viso) e il «Piatti Solido Solara».
Officina Naturae diffonde anche ricette per l’autoproduzione dei detersivi, a partire da alcuni ingredienti di base come l’acido citrico o il percarbonato di sodio.
Per queste attenzioni ha ottenuto diversi premi.
Il rapporto con i Gas e, in generale, con i consumatori consapevoli, è stato molto importante agli inizi, e lo è tutt’ora: i numerosi incontri e le altre forme di interazione con le persone costituiscono un canale continuo di verifica e aggiornamento.
«Tea Natura»
Con un percorso per certi aspetti simile, a marzo 2003 è nata ad Ancona «Tea Natura».
Dopo le fatiche iniziali, oggi Tea Natura è una società benefit che sostiene diversi progetti ambientali e sociali, ed è attenta al benessere dei suoi dieci lavoratori.
Produce diverse linee di prodotti, anche solidi, per la cosmesi e la detergenza, e incensi naturali.
I prodotti per la cosmesi contengono ingredienti di origine vegetale o minerale, evitando i derivati del petrolio, i conservanti di sintesi, i profumi chimici e i prodotti di derivazione animale.
Anche Tea Natura è cresciuta grazie a uno stretto legame con i Gas. Oggi circa il 50% del suo fatturato proviene dalla vendita diretta ai consumatori singoli o ai Gruppi di acquisto, e il restante 50% dalla distribuzione tramite i negozi. La società gestisce anche un mercatino settimanale nel quartiere degli Archi ad Ancona.
Una decina di anni fa, durante un incontro di Piero Manzotti, fondatore di Tea Natura, con il Gas di Forlì, una donna gli ha posto una domanda: cosa fare dell’olio di frittura esausto? A partire da quella domanda, Piero si è impegnato a capire se fosse stato possibile utilizzarlo per i detersivi.
Dopo diverse prove, nel 2018 è arrivato alla fiera «Fa’ la cosa giusta!» di Milano con alcuni campioncini di «Ri-Detersivo» da distribuire ai visitatori perché lo provassero.
Nonostante il processo per ottenere detersivo da oli esausti sia complesso, i consumatori hanno chiesto a Piero Manzotti di continuare. E così, oggi, il Ri-Detersivo è utilizzabile per i piatti, il bucato a mano e in lavatrice.
Un prodotto ottenuto da oli esausti comporta diversi vantaggi per l’ambiente: in primo luogo evita l’uso di oli di palma e di cocco provenienti da Paesi lontani come Malaysia o Indonesia, olii che sono normalmente alla base dei detergenti ecologici nonostante abbiano un grande impatto sulla deforestazione. In secondo luogo, evita i trasporti via nave di materie prime, e consente di uscire dal mercato internazionale della borsa degli oli vegetali, la quale ignora le esigenze dei piccoli produttori. In terzo luogo, evita lo sversamento dell’olio esausto nell’ambiente. Esso è reso completamente biodegradabile attraverso la saponificazione. Quarto: grazie al riuso dell’olio, diminuisce l’area di terreno coltivato necessaria per la produzione.
Inoltre, il confezionamento prevede taniche molto leggere da 5 litri, bottiglie ottenute con circa il 50% di plastica riciclata, e sono allo studio detersivi concentrati per ridurre al minimo l’impatto dei trasporti e degli imballaggi.
Non solo pane
I consumatori critici e i Gas cercano di rivedere la loro spesa, i prodotti e i servizi che utilizzano tutti i giorni.
Non parliamo quindi solo di alimenti, ma di molto altro, affrontando, quando necessario, anche filiere complesse come quelle della cosmetica e dei detersivi.
L’attenzione di questi consumatori, singoli o in gruppo, consente alle imprese che ne condividono i valori, di nascere, crescere e innovare per rispondere, insieme, alle esigenze dei diversi soggetti coinvolti: i lavoratori, i cittadini consumatori, le comunità locali e l’ambiente.
Queste aziende hanno dei canali specifici per la vendita diretta ai consumatori o ai Gas, che, come abbiamo visto, costituiscono una parte importante della loro storia. È possibile acquistare i prodotti dai loro siti, organizzandosi nei Gas, o tramite le botteghe del commercio equo o altri negozi.
Ma se si presenta l’occasione, incontrare i produttori è il modo migliore per capire cosa sta dietro a un prodotto. Le diverse fiere dedicate all’economia solidale e agli stili di vita sono un’ottima occasione di incontro e approfondimento per condurre sempre di più una vita pulita in collaborazione con la natura.
cooperativa sociale che produce detersivi ecologici impiegando lavoratori svantaggiati e detenuti a Villalagarina (Tn). (aperegina.myshopify.com).
Felici da Matti:
cooperativa sociale di tipo B per la creazione di posti di lavoro e l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati a Roccella Jonica (Rc). Produce saponi e detersivi ricavati da olio esausto.(www.felicidamatti.it);
Hierba Buena:
lavorazione artigianale, materie prime vegetali e confezioni riciclabili a Veduggio con Colzano (Mb). (www.hierbabuena.it)
Italia. Per Gaza e contro il genocidio
Lunedì 22 settembre molte città italiane hanno ospitato le manifestazioni per Gaza e contro il genocidio. L’adesione dei cittadini è stata massiccia, segno che la guerra d’Israele contro i palestinesi ha risvegliato le coscienze.
Non ovunque le cose sono filate lisce, a Milano soprattutto. Qui gruppi di infiltrati (non si sa quanto autonomi e quanto inviati da qualcuno) hanno pensato di farsi notare con la violenza e la distruzione. Di questo hanno subito approfittato diversi media (per esempio, alcuni telegiornali e, soprattutto, i quotidiani La Verità, Libero, il Giornale, il Tempo, il Secolo d’Italia), interessati a svilire il messaggio e la portata delle manifestazioni.
Alcuni quotidiani italiani hanno scelto di dare molto rilievo ad alcuni scontri piuttosto che alle manifestazioni e al messaggio per Gaza e contro il genocidio. In questo screenshot le prime pagine di tre quotidiani di martedì 23 settembre 2025.
Fatta questa doverosa premessa, tra le iniziative messe in campo segnaliamo quelle della rete «Preti contro il genocidio». Qui sotto il comunicato stampa rilasciato dagli organizzatori.
«A Roma, un gruppo di 100 sacerdoti provenienti da diverse regioni italiane e da vari Paesi si è riunito per un momento di preghiera e di testimonianza pubblica in favore della giustizia e della pace in Palestina. Ribadendo la condanna delle violenze del 7 ottobre, hanno ripetuto le parole di papa Leone “non c’è futuro basato sulla violenza, sull’esilio forzato, sulla vendetta” (21.9.25) e hanno pregato Dio perché si fermino i crimini contro la popolazione palestinese e ogni massacro di innocenti nel mondo. Inoltre, hanno denunciato il massacro della popolazione civile palestinese e la distruzione del territorio della striscia di Gaza che, secondo la stragrande maggioranza degli organismi internazionali e delle organizzazioni non governative, si qualifica come un crimine di genocidio.
L’iniziativa è stata organizzata dalla neonata rete “Preti contro il genocidio” – che ha raccolto oltre 1.600 firme per una dichiarazione condivisa. I firmatari provengono da 50 paesi e 5 continenti, sono eremiti, sacerdoti diocesani e religiosi, vescovi e cardinali.
L’evento si è svolto simbolicamente nel giorno in cui la questione palestinese è stata discussa alle Nazioni Unite e alla vigilia dell’Assemblea Generale. La celebrazione nella chiesa di Sant’Andrea al Quirinale, animata in cinque lingue (italiano, inglese, francese, spagnolo e arabo), è stata accompagnata dalla musica dell’organista Stefano Vasselli, direttore musicale della Chiesa di San Paolo entro le Mura e dal rinomato tenore Carlo Putelli.
Dopo la liturgia, i partecipanti hanno dato vita a una processione portando i disegni dell’artista Gianluca Costantini, dal titolo “Christ Died in Gaza”, che richiamano le parole del Vangelo di Matteo sul giudizio finale: “Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere…”.
La marcia ha previsto alcune soste nei luoghi significativi della città, durante le quali sono state lette poesie da autori Palestinesi e innalzate preghiere per le vittime della violenza e per un futuro di riconciliazione, pace e giustizia.
I sacerdoti e vescovi presenti con questo appuntamento hanno voluto “iniziare processi più che possedere spazi” (papa Francesco, in Evangeli Gaudium 223) e sollecitare nella comunità civile ed ecclesiale una coraggiosa riflessione circa il genocidio palestinese. Ora è tempo di continuare l’opera coinvolgendo laici e laiche, religiosi e religiose, uomini e donne poiché l’obiettivo non era quello di creare un gruppo clericale ma di “mescolarsi e far lievitare -come dice Gesù nel Vangelo – tutta la pasta” per difendere e diffondere i valori della pace e della giustizia.
Al termine della manifestazione hanno invitato tutti a rinnovare l’adesione a quelle associazioni e realtà ecclesiali “impegnate nella solidarietà con la popolazione della Striscia di Gaza” di cui papa Leone ha apprezzato l’iniziativa (Angelus 21.9.25), tra le quali Pax Christi che sabato 29 novembre organizzerà a Padova la giornata di solidarietà con il popolo palestinese indetta dalle Nazioni Unite fin dal 1977».
La città è stata fondata ancor prima dell’anno mille, quando in questa regione nacque la Rus di Kiev, popolazione che darà poi origine alla futura Russia e a tutti gli stati a lei collegati. La data del 988 segna l’inizio delle cristianità con il battesimo di San Vladimiro ricordato da una statua posta in un bellissimo parco nel centro della città da cui si possono ammirare squarci suggestivi (foto di apertura).
Il monastero Lavra a Kiev fondato nel 1051 (foto Luca Bovio)
Fin dall’inizio il patriarcato di riferimento, a differenza della vicina Polonia, fu Costantinopoli. Dopo lo scisma del 1054 tra Chiese ortodosse e Chiesa cattolica, il destino di questa Chiesa si legò sempre più all’oriente. In città sono presenti diverse cattedrali legate a diverse chiese. La più antica, Lavra, appartiene alla Chiesa ortodossa ucraina legata al patriarcato di Mosca, il monastero di San Michele è sede della di questa Chiesa. Qui sulle mura esterne ci sono le fotografie dei soldati caduti (video qui sotto).
Monastero di sant’Andrea a Kiev (foto Luca Bovio)
Il monastero di S. Andrea è legato al patriarcato di Costantinopoli (foto a sinistra). Tra queste c’è anche il monastero di Santa Sofia molto utilizzato per le cerimonie ufficiali civili.La cattedrale latino cattolica dedicata a san Alessandro è vicina alla centrale piazza di Maidan (vedi video a fine testo), mentre la cattedrale dei cattolici di rito orientale è dedicata alla Risurrezione del Signore ed è posta sulla sponda est del fiume.
È difficile fare un censimento della popolazione in questo momento. A motivo della guerra, molti sono partiti, mentre altri sono arrivati dalle zone occupate. Prima del 2022, gli abitanti si aggiravo sui 3milioni.
La città, difesa dal suo patrono S. Michele Arcangelo, ha resistito all’attacco avvenuto nei primi mesi del conflitto quando i soldati russi arrivarono da Nord fino alla periferia fermandosi a Bucha, Irpin e le zone limitrofe.
Nel Paese la guerra ha subito una forte evoluzione. Oggi la tecnologia sta imponendosi sempre più. L’uso massiccio di droni e missili crea danni senza mettere a rischio la vita dei propri soldati. Il numero degli attacchi, come anche per quantità di mezzi usati, è in netta crescita. Gli allarmi suonano soprattutto di notte e possono durare delle ore. La contraerea cerca di limitare i danni, tuttavia alcuni droni e missili riescono a colpire i loro obiettivi. Non trascurabili sono anche i danni che recano le schegge, non controllabili, delle esplosioni. Un esempio lo abbiamo avuto in Nunziatura apostolica, la scorsa settimana quando sul tetto della casa tre pannelli solari sono stati danneggiati.
I numerosi canali di Telegram informano sulla situazione live degli attacchi, riuscendo a prevedere (non sempre) i quartieri e le traiettorie delle possibili esplosioni. Quando gli attacchi sono particolarmente intensi le stazioni della metropolitana si riempiono di persone, soprattutto di coloro che abitano nei numerosissimi palazzi della città che hanno altezze medie di 30 piani. Sono sempre più frequenti le notti trascorse a vicino ai binari della metro dove intere famiglie trovano riparo e portano brandine, passeggini e anche animali domestici.
Distruzioni vicino al Parco Travriirsyi a Kiev (foto Luca Bovio)
Nonostante questa difficile situazione, che oramai perdura da lungo tempo, sembri solo peggiorare, la città reagisce con una parvenza di normalità quale migliore risposta per resistere e non rassegnarsi. Dopo le notti di esplosioni, il mattino dopo tutto ricomincia. I mezzi pubblici, i negozi e le attività riprendono. Certamente il sonno perso e le paure hanno il loro il peso, soprattutto per alcune categorie di persone. Le zone colpite dalle esplosioni immediatamente vengono messe in sicurezza e in ordine in tempi brevissimi dalle squadre addette (foto sopra e video qui sotto).
Padre Luca Bovio, ImC, direttore delle Pontificie opere missionarie in Ucraina
Colpisce molto la presenza di giovani, in maggioranza donne e ragazze, che dal tardo pomeriggio iniziano a incontrarsi nei numerosi locali del centro. Anche le spiagge balneabili sul fiume nel centro della città e i laghi vicini sono pieni di bagnanti soprattutto nei fine settimana in questo tempo estivo dove le temperature invitano a fare i bagni. Sono diversi i pianoforti che si trovano nei parchi ad uso pubblico. I giovani li suonano durante le serate in un’atmosfera che contrasta con le sirene e le esplosioni.
Guerra e normalità di vita sono due aspetti che convivono in questo tempo a Kiev. Difficile fare previsioni sull’evoluzione della situazione, nei tempi e nei modi. Credo che la voglia di normalità per chi vive qui e il sostegno materiale e spirituale di chi è lontano, aiutino comunque a non cedere alla tentazione di rassegnarsi alla stanchezza e alla paura. In questo contesto muovono i primi passi della nascita delle Pontificie opere missionarie in Ucraina
Luca Bovio(da Kiev)
Nato. L’insostenibile 5%
I 32 Paesi Nato hanno deciso l’aumento della spesa militare al 5% del Pil. Mentre per la sanità l’Italia spenderà nel 2025 circa 143 miliardi e per l’istruzione 57, ben 45 miliardi di Euro andranno per difesa e sicurezza. Per la Nato, nel 2035 la spesa annua italiana dovrà essere di 145: 100 miliardi in più ogni anno. Una cifra insostenibile a meno di non aumentare tasse e debito, e di non ridurre cure mediche e scuola.
Dunque, la decisione è presa: i Paesi della Nato, «si impegnano a investire il 5% del Pil all’anno in requisiti di difesa fondamentali, nonché in spese relative alla difesa e alla sicurezza, entro il 2035», si legge nella dichiarazione finale del vertice dei trentadue Paesi membri dell’Alleanza tenutosi tra il 24 e 25 giugno all’Aja. Le minacce che giustificherebbero questa decisione sono chiaramente indicate: la Russia e il terrorismo.
Si tratta di un documento sottoscritto all’unanimità, ma molto vago e senza vincoli determinati, in modo da permettere sin da subito interpretazioni diverse: infatti Spagna e Slovacchia hanno già dichiarato che non aumenteranno le loro spese militari, altri Paesi come il Belgio hanno espresso forti dubbi, altri come l’Italia hanno già messo le mani avanti su di una interpretazione molto larga del concetto di difesa e sicurezza.
Nel testo (una paginetta) le spese che ciascun Paese membro dovrebbe sostenere, sono suddivise in due categorie: quelle per la difesa vera e propria a cui si dedicherebbe il 3,5% del Pil; quelle per infrastrutture di sicurezza, di cui nel documento si dà un generico elenco, alle quali verrebbe destinato l’1,5%. Il tutto deve essere raggiunto in 10 anni: quindi entro il 2035. Sulla prima categoria c’è un impegno dei Paesi a produrre piani annuali «credibili e progressivi», ma senza alcuna verifica, se non nel 2029.
Le conseguenze per l’Italia
Il Pil italiano del 2024 è stato pari a 2.192 miliardi di euro, le previsioni parlano di una crescita di spesa per la difesa stimata del 2,6% annuo. Nel 2025, la spesa militare farà un balzo di 9,7 miliardi rispetto al 2024, ma con un artificio contabile che permetterà di raggiungere il 2% del Pil. L’obiettivo di aumentare la spesa al 5% in dieci anni significa passare dai 45 miliardi di oggi (35 in difesa e quasi 10 in sicurezza) a ben 145 nel 2035 (oltre 100 in difesa e quasi 44 in sicurezza), con un salto di 100 miliardi.
Tutto questo porterà l’Italia a spendere in totale, nei prossimi dieci anni, quasi mille miliardi di euro in difesa e sicurezza (quasi 700 miliardi in difesa e quasi 300 in sicurezza).
Tanto per fare un raffronto, la spesa sanitaria prevista per il 2025 è di 143 miliardi, quella per l’istruzione di 57 miliardi.
Sono due sono le principali fonti di entrata per uno Stato: i tributi, il debito. Dato che nessuna delle due fonti si potrà allargare più di tanto, per raggiungere la spesa prevista dall’accordo Nato per difesa e sicurezza, bisognerà gioco forza ridurre la spesa in altri settori del bilancio dello stato: aspettiamoci, quindi, considerevoli tagli al già disastrato welfare, un salasso per le tasche dei cittadini, un debito già fuori controllo ulteriormente ingigantito.
A questo, sul profilo politico, si aggiunga il rafforzamento di un blocco militare-industriale che condizionerà le scelte pubbliche per i prossimi decenni.
Le attuali spese per gli armamenti sono insufficienti?
Come scritto più volte sulle pagine di MC (vedi ad esempio: «Spese militari nel mondo. Mai così alte», le spese militari sono in costante aumento da più di un decennio.
Diamo uno sguardo alla situazione complessiva: secondo l’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma, nel 2024 sono stati spesi 2.718 miliardi di dollari in armi a livello globale, con un aumento del 9,4% rispetto all’anno precedente, più 20% in 3 anni.
La spesa militare nell’Europa geografica, Russia inclusa, è aumentata del 17 per cento, raggiungendo i 693 miliardi di dollari, e ha contribuito in modo significativo all’aumento globale.
La spesa militare della Russia ha raggiunto una cifra stimata di 149 miliardi di dollari nel 2024, con un aumento del 38 per cento rispetto al 2023. La spesa militare aggregata degli Stati membri dell’UE ha raggiunto i 370 miliardi nel 2024, il secondo più alto dopo gli Stati Uniti. Tra i Paesi Ue, la Germania ha visto un aumento del 28 per cento, raggiungendo gli 88,5 miliardi di dollari all’anno. In tal mondo, la Germania è diventata il Paese che ha allocato più denaro per le spese militari in termini assoluti dell’Europa centrale e occidentale, il quarto al mondo. Anche Francia e Gran Bretagna hanno toccato cifre importanti.
I trentadue paesi della Nato rappresentano il 55% della spesa militare globale totale, pari a 1,5 trilioni di dollari.
Anche la Cina ha aumentato il suo budget militare per il trentatreesimo anno consecutivo, con 314 miliardi di dollari nel 2024.
Imparare dalla storia
Siamo in presenza di una folle corsa agli armamenti in tutto il pianeta, e l’Europa è già ai primi posti.
Tutto ciò non dà maggiore sicurezza, al contrario, stanno saltando tutti gli organismi internazionali preposti alla prevenzione dei conflitti, vengono stracciati i Trattati internazionali, mentre la guerra viene vista come unico metodo per risolvere i conflitti.
Non c’è nulla di più falso del motto «si vis pacem para bellum», un motto attribuito all’impero romano, una macchina da guerra che seguendo quel principio ha esteso il suo dominio in tutto il mondo allora conosciuto. Da allora tutte le volte che gli stati si sono armati, ne sono conseguite guerre.
Basterebbe rileggere la storia dei primi anni del secolo scorso, quando la corsa agli armamenti è sfociata nella Grande guerra, un conflitto che tutti volevano evitare ma che ha sconquassato il mondo con conseguenze fino ai nostri giorni.
Ma allora che fare per la pace?
Proponiamo qui un elenco non esaustivo di azioni che pensiamo siano da inserire in un progetto per la pace che l’UE dovrebbe fare proprio. Siccome, però, questa Uè non lo farà, lo faccia proprio il movimento per la pace, e lo proponga a forze politiche vecchie e nuove per riuscire a ribaltare questa deriva pericolosa verso una nuova Grande Guerra, che questa volta sarà nucleare.
• Ripristinare quel sistema di equilibrio diplomatico che ha permesso di conservare la pace anche ai tempi della guerra fredda: rafforzare l’Onu e la Csce (Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa). Anzi, lavorare per una nuova conferenza di Helsinki. • Riprendere negoziati sulla limitazione e il controllo degli armamenti, misure di rafforzamento della fiducia, diplomazia e disarmo in Europa. • Rinnovare il trattato Start sulla riduzione degli armamenti strategici, che scade nel 2026. • Creare zone libere da armi nucleari, nel Mediterraneo e in Europa. • Sostenere e aderire al trattato Onu che mette al bando le armi nucleari (Tpan). • Rafforzare la cooperazione tra Stati e tra associazioni della società civile. • Promuovere l’educazione alla pace nelle scuole e nelle comunità, insegnando i valori del rispetto, della tolleranza e della nonviolenza. • Promuovere la difesa civile non armata e nonviolenta, come alternativa alla difesa militare tradizionale. • Sostenere la ricerca e lo sviluppo di modelli di difesa basati sulla prevenzione dei conflitti, la gestione nonviolenta delle crisi e la protezione dei civili.
Viaggiare ha un forte impatto sull’ambiente e sulle persone. Per ridurne gli effetti negativi è nato il «turismo responsabile». Ad Avigliana, in provincia di Torino, ne abbiamo parlato con Alfredo Di Giovanni, della cooperativa «Viaggi solidali».
«Flow» è il film di animazione che ha vinto il premio Oscar 2025. Racconta di un gatto nero che, in uno scenario da diluvio universale in cui gli uomini sono scomparsi, impara che la collaborazione coraggiosa con gli altri animali che si ritrovano sulla stessa barca è la strada migliore per sopravvivere.
«È un’ode – scrive Paola Casella sul sito mymovies.it – alla solidarietà e alla cooperazione, necessarie per sopravvivere anche agli eventi che rischiano di annullarci per sempre».
Non è un caso se anche un altro film d’animazione, «Il robot selvaggio» (candidato allo stesso Oscar), mostri come la solidarietà – in questo caso tra specie diverse, robot compreso – sia la chiave per la sopravvivenza.
«Un concetto basilare – scrive Antonio Montefalcone su mymovies.it – per la sopravvivenza singola e collettiva, perché capace di prevalere sulle avversità, su differenze innate e sulla legge del più forte».
Queste due opere di animazione sono un segno dei nostri tempi. Proviamo paura per il passaggio d’epoca che stiamo vivendo e proviamo a rispondere cercando per la nostra vita il senso da seguire, sia come significato che come direzione.
Nel suo piccolo, in questa rubrica raccontiamo storie che mostrano come possiamo vivere meglio applicando la «legge della solidarietà». Lo facciamo con esempi che ognuno di noi, volendo, potrebbe seguire nei diversi ambiti della propria quotidianità.
Le Langhe (foto Giacomo Castagnotto)
Dal consumo critico al turismo responsabile
Il consumo critico è una delle pratiche solidali più conosciute. Nasce dal rendersi conto che i nostri acquisti e il nostro stile di vita hanno spesso degli effetti negativi sugli altri e sull’ambiente. Da questa constatazione nasce la volontà di ridurre tali effetti sviluppando, allo stesso tempo, delle alternative.
Il consumo critico si applica non solo ai prodotti che consumiamo, ma anche ai servizi che utilizziamo.
In questa prospettiva, dagli anni Novanta del secolo scorso, si è posta l’attenzione sul turismo, partendo dalla constatazione del suo forte impatto sociale e ambientale. Il turismo è la principale attività economica del globo, sposta oltre 1,4 miliardi di persone ogni anno (dato 2024), occupa milioni di lavoratori e continua a crescere. Tuttavia, nelle sue forme di massa e di lusso, esso ha spesso effetti molto negativi su ambienti, culture, società ed economie dei Paesi di destinazione, in particolare nel Sud del mondo.
In questo campo, la costruzione di risposte alternative prende il nome di «turismo responsabile». Secondo la definizione dell’associazione di settore (Aitr), questo è un «turismo attuato secondo principi di giustizia sociale ed economica e nel pieno rispetto dell’ambiente e delle culture.
Il turismo responsabile riconosce la centralità della comunità locale ospitante e il suo diritto a essere protagonista nello sviluppo turistico sostenibile e socialmente responsabile del proprio territorio. Opera favorendo la positiva interazione tra industria del turismo, comunità locali e viaggiatori».
I viaggi di turismo responsabile sono organizzati insieme alla comunità locale del Paese di destinazione, consentendo l’incontro e lo scambio tra i viaggiatori e gli ospitanti.
Perché viaggi solidali
Seguendo il filo di questi pensieri, arriviamo ad Avigliana, città medievale in Val di Susa, in provincia di Torino, una valle con una lunga tradizione di accoglienza di pellegrini, viaggiatori e migranti. Siamo vicini alla Sacra di San Michele e al Parco naturale dei laghi di Avigliana, tappa obbligatoria per molte specie di uccelli migratori.
Nella piazza centrale della cittadina, la «Casa Conte Rosso» ospita l’ostello, il ristorante «Ciclocucina» e l’operatore turistico «Viaggi solidali». Si tratta di un progetto con un forte legame con il territorio che intende contribuire allo sviluppo locale in modo collaborativo; una casa che ospita viaggiatori e progetti per chi arriva e chi parte.
Qui incontriamo Alfredo Di Giovanni, socio lavoratore della cooperativa «Viaggi solidali». Alfredo si occupa sia di dirigere l’ostello che della progettazione, organizzazione e vendita dei viaggi di turismo responsabile. Ci racconta che l’esperienza di Viaggi solidali è nata già nel 2000 dalla proposta di cinque Ong che avevano unito le forze per promuovere il turismo responsabile, a partire dal legame con progetti di sviluppo.
All’epoca, la cooperativa aveva la sede a Torino. Ora si è trasferita ad Avigliana in seguito a un bando del Comune per la gestione dell’ostello, vinto insieme a Ciclocucina.
Viaggi solidali è sì un operatore turistico ma sui generis, in quanto, seguendo i principi del turismo responsabile, propone viaggi vacanza che permettono di scoprire una destinazione e, allo stesso tempo, di alimentare l’economia locale.
Oltre alle visite turistiche, ogni viaggio facilita l’incontro con le realtà del territorio attive in progetti di varia natura: sociale, ambientale o educativa. Le guide locali, ma anche chi accompagna il viaggio, hanno un legame particolare con il territorio di destinazione.
Viaggi solidali organizza tour in tutto il mondo secondo diverse modalità. Ci sono i viaggi di gruppo a cui ogni persona interessata può aderire. Questi gruppi «a raccolta» vengono formati dai viaggiatori che si pre-iscrivono sulla base di un calendario di partenze, fino a un massimo di quattordici partecipanti.
Oltre a questi, sono disponibili i viaggi «su misura» che vengono confezionati in base alle esigenze dei viaggiatori, come ad esempio i viaggi di nozze o quelli per gruppi di amici. Infine, Viaggi solidali organizza anche viaggi di turismo scolastico.
Tra la gestione dell’ostello e l’attività di operatore turistico, nella cooperativa lavorano dieci persone. Forniscono anche un supporto tecnico ai cammini «Walden», viaggi a piedi in tutto il mondo (Italia compresa), di cui distribuiscono i pacchetti. Infine, Viaggi solidali organizza i percorsi «Migrantour», di cui questa rivista ha già parlato nel numero di ottobre 2023 .
Solidarietà concreta
Illustrando Viaggi solidali in una rubrica dedicata alla «legge della solidarietà» non possiamo non chiedere come quest’ultima si concretizzi.
Alfredo ci spiega che il primo punto è il supporto all’economia locale: i soldi spesi dai partecipanti a questi viaggi rimangano il più possibile sul territorio, al contrario di quanto succede abitualmente con il turismo globalizzato. Questo ha principalmente a che fare con il tipo di sistemazione in strutture gestite da persone del luogo, in alcuni casi in famiglia.
Ci sono poi gli incontri con i progetti sociali portati avanti da organizzazioni del territorio, progetti che vengono visitati e sostenuti anche attraverso una quota versata da ogni viaggiatore.
Nel catalogo, ogni scheda di presentazione del viaggio comprende una sezione «Plus solidale», che descrive come si concretizza la solidarietà, in modo da offrire delle possibilità in più alle persone che abitano il luogo di destinazione.
Gli incontri con le organizzazioni e i progetti del luogo sono molto vari. Per fare qualche esempio: viaggiando in Colombia, si visita e sostiene il progetto culturale «Casa B» che – attraverso l’arte, il doposcuola e altre attività – propone un risposta formativa ai problemi sociali che affrontano i ragazzi del quartiere popolare di Belén, a Bogotà. In Namibia, i viaggiatori incontrano i bambini del centro Happydu; in Giappone, i ragazzi dell’ospedale Todaiji Ryoiku Byoin; in Albania, l’incontro è con microprogetti di cooperazione per promuovere il recupero del patrimonio storico e il lavoro di piccole imprese artigiane inserite nei circuiti del turismo responsabile.
Incontro e conoscenza
L’aspetto forse più importante è che questo tipo di viaggi favorisce diverse occasioni di incontro e di conoscenza, sia con le guide che con le persone del posto.
Conoscere e accettare gli altri, nella loro diversità, è il modo migliore per affrontare insieme il viaggio che l’umanità sta compiendo. Siamo tutti sulla stessa barca, navigando verso scenari sconosciuti come «Un volo di gabbiani telecomandati», per usare le parole di Sergio Endrigo.
Nella sua canzone, portata a San Remo nel 1970, il cantautore ci invitava a percorrere insieme il viaggio verso mete sconosciute: «Dove arriverà, questo non si sa. Sarà come l’Arca di Noè, il cane, il gatto, io e te».
Andrea Saroldi
L’associazione
L’«Associazione italiana turismo responsabile» (Aitr), riferimento italiano per il settore, dal 1998 promuove la cultura, i principi e le pratiche di turismo responsabile. Sul sito, alla voce tour operators, nella sezione turismo, sono disponibili un catalogo e le schede degli operatori che organizzano viaggi secondo i criteri del turismo responsabile.
Il libro Camilla Elisabetta Ghioni, «Il bene ritrovato. Turismo responsabile e beni confiscati alla criminalità organizzata», Altreconomia editore, 2025. Attraverso storie e testimonianze dall’Italia, come quelle di Addiopizzo Travel, Libera Terra e I Viaggi del Goel, il libro racconta come il turismo responsabile possa essere uno strumento di cambiamento sociale, restituendo alla collettività i beni confiscati alle mafie e trasformandoli in risorse per lo sviluppo socioeconomico e culturale.
Il Covid, cinque anni fa, è stato qualcosa di impensato. La paura della perdita, della morte, del vuoto, e il lutto non elaborato della nostra impotenza, sono diventati paranoia. Si è insediata nelle nostre comunità una rabbia diffusa ed esplosiva contro tutti e tutto. Per questo, ancora oggi, è necessario parlarne.
Nel 2020 scoppiò la pandemia. Il trauma fu potente, poiché il diffondersi dell’invisibile virus killer rappresentò nel mondo un fatto impensabile.
Ci chiesero di rimanere confinati a casa. Chiusero uffici e scuole, servizi e attività produttive, non volarono più gli aerei e si svuotarono le stazioni ferroviarie.
Le chiese chiusero i portoni d’ingresso. I morti non trovarono più riti accompagnatori.
Tutto doveva rimanere immobile, nella speranza di impedire al virus di girare e attaccare i polmoni degli esseri umani.
Ma il blocco sconvolse le vite di tutti. I bambini non poterono tornare tra i banchi di scuola, i lavoratori si destreggiarono come poterono tra lavoro a distanza o ozio forzato, la sanità implose sotto l’urto di una malattia sconosciuta che pietrificava i polmoni e toglieva l’aria.
Imparammo a non uscire, ad abbandonare abitudini certe, evitammo ogni tipo di incontro.
Poi arrivarono i vaccini, ci furono aperture per brevi uscite dalle prigioni casalinghe. Infine, fu estate e sperammo che tutto fosse finito. Liberi e liberati dall’incubo di morire per contagio.
Il virus, però, tornò a minacciarci. Quando eravamo pronti a dimenticare, il trauma si ripresentò colorato da zone rosse, gialle, bianche, e ci impose nuovi confinamenti.
Gli affetti vissero un ulteriore urto. I piccoli non poterono vedere i loro amici, gli allievi rinunciarono al cicaleccio in cortile, i nonni non abbracciarono i nipotini, perché i piccoli erano considerati untori, gli ospedali lasciarono fuori della porta i visitatori, le case di riposo rimasero chiuse, inaccessibili, mentre i nostri anziani, malati e fragili, morivano di solitudine.
Fu un’epoca di affetti recisi. Fu un trauma ripetuto. Un dolore che spezzava il cuore, un sentimento di mancanza incolmabile.
Cercammo di supplire con la rete internet e, dovendo rinunciare al calore di un abbraccio, al piacere di una carezza, al conforto di un bacio, passammo a vederci in videoconferenza sui monitor: unica àncora di salvezza.
Foto di Nick Romanov su Unsplash
Lutto, paranoia, violenza
Nel 2021, come accade per ogni tragedia, si voleva dimenticare e lasciarsi tutto alle spalle.
A inizio 2022, poi, scoppiò il conflitto in Ucraina. Venti di guerra soffiarono appena fuori i nostri confini geografici, ma anche nella quotidianità di ciascuno.
La violenza s’insinuò dentro alla comunità, crebbe, avanzò inesorabile perché impensata.
La paura della perdita, della morte, del vuoto, divenne mancata elaborazione del lutto condiviso da tutta l’umanità.
E il lutto che ci aveva fatti sentire impotenti divenne paranoia che alimentò la violenza.
E di questo incremento della violenza siamo ancora oggi testimoni: bambini e ragazzi si autolesionano, si è abbassata l’età dei suicidi, c’è aggressività nelle scuole, si è insediata nelle nostre comunità una rabbia diffusa ed esplosiva contro tutti e tutto.
Riparare il trauma
Sapevo che non sarebbe stato un bene cancellare il ricordo di quanto stava avvenendo. Bisognava parlarne, soprattutto per non creare un vuoto di significati nelle menti dei più piccoli.
Iniziai una ricerca a livello nazionale. Fondai tredici gruppi lungo la Penisola, dal Friuli Venezia Giulia alla Calabria, dalle Marche al Piemonte, dal Veneto alla Puglia, per incontrare adulti impegnati a riparare il trauma della pandemia nei più piccoli.
Si trattava di incontrarsi per otto volte, per due ore intorno alle frasi raccolte nel libro «Parola di bambino, il mondo visto con i suoi occhi», che attraversa la filosofia degli stati d’animo nell’infanzia.
Cercammo di far parlare le persone sui vissuti che transitavano nella relazione tra adulto e bambino in quei mesi.
L’incertezza, predominava, e creava paura. Un piccolo gruppo di professionisti della salute mentale provò a fermarla facendo riflettere le persone.
Ogni gruppo era coordinato da un esperto. Il compito dato agli adulti partecipanti era di osservare i bambini con uno sguardo attento ai cambiamenti avvenuti: nei figli, negli alunni o piccoli pazienti nei lockdown.
Il gruppo dei coordinatori era poi supervisionato da me per condividere non solo le difficoltà tecniche, gli imprevisti e inciampi, ma anche i vissuti che via via emergevano nelle persone. Questi furono un iniziale diniego, seguito poi da una valanga di dolore. I professionisti stessi, che si credevano immuni dal trauma, poterono riconoscere il proprio vissuto doloroso.
C’era grande opposizione a far luce su tanto dolore, ma sapevo che era necessario farlo per la salute mentale della popolazione. Sapevo che un trauma rimosso crea un buco nella vita psichica e che, nel tempo, forma un abisso, non solo incolmabile, ma addirittura non rappresentabile.
Foto di Izzy Park su Unsplash
Dal diniego al riconoscimento
Capii ben presto che investire sul senso dell’evento pandemico era un problema per tutti. Un dato chiaro fu che non c’era differenza tra le diverse persone: psicoterapeuti, pedagogisti o cittadini qualsiasi. Il pensiero comune negava che si stesse delineando una vera emergenza sociale e sanitaria.
Capimmo che affrontare i vissuti relazionali dei lockdown era un salto emotivo che non tutti riuscivano a compiere. Che fossero genitori, educatori, insegnanti, operatori sociali o professionisti della salute mentale.
Accettai, quindi, il fatto che diversi esperti chiamati come coordinatori e diversi potenziali partecipanti ai gruppi avessero rifiutato di aderire, e lo considerai come il primo dato della ricerca. Le persone lo dicevano chiaramente: «Non abbiamo voglia di parlare di Covid-19».
Continuammo comunque con chi ci stava, e arrivammo nel 2022 a pubblicare il testo che raccoglie la metodologia, i percorsi e gli esiti della raccolta dei sentimenti che avevano animato i vincoli tra grandi e piccoli dall’inizio della pandemia in poi.
Il testo, «Ridisegnare la bussola educativa. Gli effetti del trauma pandemico nei bambini e nei ragazzi», uscì nell’ottobre 2022.
Da lì in poi cominciammo a portarlo dove ci chiamavano.
Sono stata in tutte le città dove i gruppi si erano realizzati. Ma siamo state invitate anche in altri luoghi dove via via si sentiva la necessità di parlare degli effetti della pandemia sui bambini.
Dopo le presentazioni, di solito, seguiva un «silenzio parlante». La prima volta, alla presenza di diversi coordinatori dei gruppi, ero a Mestre. Sentii la forza di quel silenzio. Chiesi: «E voi come avete passato quel periodo?». E, a partire dalle parole del testo, che davano una rappresentazione forte dei vissuti della vita familiare, scolastica, condominiale, lavorativa, di adulti e bambini, emergevano forti e chiari i ricordi.
Le persone passavano dalla superficie «Io l’ho vissuto bene, mio figlio non ne ha risentito, è stato un periodo bellissimo, io mi sono riposata», a emozioni dimenticate e inabissate.
La platea della presentazione del libro diveniva un gruppo, contenitore che permetteva di far emergere paure, sofferenze, dolori, preoccupazioni, angosce.
Questo spazio di dialogo con il pubblico in gruppi allargati mi è parso allora l’ultimo anello del percorso che stavamo compiendo grazie alla ricerca sugli effetti della pandemia nei grandi e nei piccoli.
La sequenza pareva sempre la stessa: diniego, piccoli riconoscimenti, esplosione di storie di dolore e paura.
Il trauma era ancora elaborabile, rappresentabile, narrabile. Dicibile, soprattutto in un gruppo coordinato che permettesse l’emergere del latente e desse parola ai sentimenti, alle emozioni e ai vissuti.
Il gruppo, attraverso la circolarità delle relazioni, in tempi anche brevi, dava parola a paure, rabbie, dolori, angosce. Su tutte dominava il tema della morte.
Dalla negazione del trauma siamo passati alla raccolta dei racconti emotivamente condivisi.
I sintomi, purtroppo, oggi sono più visibili di allora e, quindi, via via, in questi anni, troviamo meno resistenze a parlare degli effetti della pandemia nei vincoli che uniscono le generazioni.
Se all’inizio del percorso pensavamo che ritrovarsi in un gruppo coordinato potesse essere un’opportunità per rielaborare il dolore della discontinuità, della perdita e dello smarrimento emotivo, oggi ne siamo certi.
E la banalità della frase: «Andrà tutto bene» è divenuta serio impegno ad affrontare il tema del trauma.
Paola Scalari psicoterapeuta, psicosocioanalista, supervisore e formatore www.paolascalari.eu
Foto di Thom Masat su Unsplash
Emozioni e vissuti
Nel testo «Ridisegnare la bussola educativa» sono raccolte tutte le frasi più significative emerse nelle duecento ore di incontri dei tredici gruppi partecipanti alla ricerca. Riporto qui qualche piccola storia raccontata durante la presentazione del libro in diverse città. Per mostrare come ovunque siamo andati abbiamo ascoltato dolore, paura, disorientamento. Attraverso la connessione con il mondo interno, si può dare parola e voce a ciò che si sta cercando di cancellare per non soffrire. Ognuna di queste piccole storie è definibile come un emergere del rimosso collettivo.
Padova. Fabrizio, assistente sociale racconta la sua paura di morire nel maggio del 2020. Ricoverato. Intubato. Affannato. Solo. Isolato dalla famiglia. Spaventato che si ammalassero anche i due figli e la moglie. I pensieri di morte furono atroci. La paura di lasciarli soli. L’angoscia di non poterli vedere, salutare un’ultima volta. E intanto il respiro diventava sempre più difficile. Fabrizio tra i singhiozzi afferma: «Una videochiamata per dirsi addio è troppo poco».
Trieste. Prima a voce spenta, poi sempre più decisa, suor Anna racconta la sua esperienza ospedaliera in isolamento. Il suo affidarsi a Dio e aggrapparsi alla vita attraverso i disegni che i bambini le facevano pervenire. Dice: «Fu la loro presenza a darmi la forza per lottare contro il virus». E aggiunge: «Ma ho visto la morte da vicino e mi ha fatto paura».
Venezia. Mara, madre di una ragazzina di quindici anni, dice che, durante le diverse fasi della pandemia, le era parso fosse filato tutto liscio. Oggi, però, si è resa conto che, poco a poco, sua figlia si è ritirata dalla vita sociale. Ricorda che nel marzo 2020 Susanna, allora dodicenne, stava ore davanti al monitor per seguire le lezioni, chiacchierare con le amiche, giocare con i compagni. Poi, dai brevi rientri a scuola, attesi e desiderati, usciva infelice. Lì dentro si stava divisi, separati, lontani. Guai ad avvicinarsi, a scambiarsi una penna, una bottiglietta d’acqua. Tutti intoccabili. Finestre aperte per far girare l’aria, anche con il gelo di febbraio che raggelava il corpo dove abitava un’anima già congelata. E così Susanna cominciò a dire che non voleva andare a scuola fino ad arrivare all’attuale ritiro sociale. «Ora – dice la mamma – non esce nemmeno con gli amici. Sono disperata perché non so come aiutarla».
Belluno. Una simpatica signora dal corpo robusto e con occhi vispi chiede la parola. Ci porta ai primi mesi del lockdown. Lei, cassiera in un supermercato, va ogni giorno a lavorare, mentre marito e figli rimangono chiusi in casa. Esce e può contagiarsi e contagiare i suoi cari. Paure e sensi di colpa la attanagliano. Quando arriva a casa si spoglia degli abiti lasciati in uno scatolone fuori casa, si fionda sotto la doccia e fa grande uso di sapone e disinfettante. E poi nessun abbraccio. Notti insonni sul divano.
Il racconto si ferma qui. Ma, tra i presenti, qualcuno osa dire: «Mi sento in colpa per aver frequentato più volte al giorno il supermercato in quei mesi. Non avevo mai pensato alla paura di commesse e cassiere. Scusami».
Alessandria. Vanda, una non più giovane insegnante, racconta la sua relazione con la classe. Ansia a ogni collegamento. Senso di inutilità. Rabbia, perché si sente raggirata dai ragazzini che chiudono la telecamera. Impotente. Senza strumenti per insegnare, si inquieta al punto di decidere che non si collegherà più. I compiti li mette in internet e li restituisce via chat. Oggi si chiede se avrebbe potuto farsi aiutare. Ed è inferocita per la solitudine che ha vissuto.
A queste sue affermazioni la mamma di un piccolo alunno racconta la sua rabbia per il menefreghismo degli insegnanti che hanno preteso l’impossibile dai loro figli, ma anche dai genitori. Gli animi si accendono. I genitori denunciano le disattenzioni dei docenti. Questi elencano i limiti che sono stati loro imposti.
Vediamo in diretta come la rabbia abbia imperversato in quel periodo, aumentando le contrapposizioni e la violenza relazionale: risultato del senso di abbandono che ha ferito tutti in quei giorni.
Cosenza. Fuori piove a dirotto. Pamela arriva prima di tutti. Si siede in prima fila. Parliamo del libro. Lei si rannicchia nella sedia e i suoi occhi sono pieni di lacrime. La invito a parlare. «Se non ci fosse stato il gruppo – dice – non ce l’avrei fatta da sola». Racconta del marito malato e poi morto nella solitudine dell’ospedale. Morto da solo dopo anni di vita insieme. Senza una mano da stringere, un conforto. Senza il suo amore ad accompagnarlo.
A quel punto tutti piangiamo. Le compagne del suo gruppo le si avvicinano e l’abbracciano. Corpi che s’incontrano dopo tanto digiuno. Corpi che nel contatto, pelle con pelle, risanano mancanze indescrivibili. Pamela commossa sussurra: «Vi devo la vita».
Parma. I genitori di Gianni, un mio caro allievo psicoterapeuta, piangono silenziosamente. Mi chiedo cosa stia passando nella loro mente. Li guardo e ci capiamo. Senza parole. L’angoscia della morte e del destino dell’umanità risuona dentro di noi.
L’invito è a non dimenticare, a chiedere ai ragazzi come sono stati e come hanno vissuto quegli anni. A non rimuovere cosa abbiamo vissuto noi adulti e come abbiamo interagito con i più giovani. Loro, vedendoci spaventati, hanno fatto finta di stare bene. Ora hanno bisogno di parlare.
P.S.
Il Papa missionario
Un missionario, che diventa Papa, è un’esperienza inedita per la Chiesa cattolica. Ed è una gioia particolare per noi, che raccontiamo la Chiesa e il mondo a partire dagli occhi di chi – come Robert Francis Prevost – ha accolto come ragione di vita la chiamata a far sì che la parola di Gesù possa raggiungere anche la periferia più dimenticata del mondo di oggi.
«Dobbiamo cercare insieme come essere una Chiesa missionaria, una Chiesa che costruisce i ponti, il dialogo, sempre aperta a ricevere, come questa piazza con le braccia aperte», ha detto papa Leone XIV fin dal suo primo discorso dalla loggia della basilica di San Pietro. Chiedendo a ciascuno di farsi a sua volta «ponte» dell’amore di Dio verso tutti.
Il Papa missionario è una sfida particolare per noi missionari. E nella nostra Italia, forse, oggi lo è ancora di più che in altre regioni del mondo. Ci ricorda l’urgenza della missione, proprio mentre rischiavamo di abituarci all’idea che partire per terre lontane sia una vocazione ormai del passato. Ci dice la necessità di non rinchiudersi nel nostro fortino, ma di continuare a guardare lontano, «ad gentes», per aprire davvero le nostre comunità al respiro del mondo.
Come in tanti hanno sottolineato, il conclave che ha eletto Leone XIV è stato quello più universale nella storia della Chiesa: grazie alle scelte profetiche di papa Francesco, ben 71 Paesi erano rappresentati tra i cardinali elettori presenti nella Cappella Sistina. C’erano pastori di piccolissime comunità cattoliche che vivono in città e regioni su cui non si accendono mai i riflettori del mondo. Ebbene: proprio questo Collegio cardinalizio così particolare, con un voto rapido e pare anche molto ampio, ha scelto Leone XIV. Lo ha fatto certamente per le sue doti umane. Ma lo ha votato ben consapevole di scegliere un missionario. Oltre che un uomo a cui affidare il ministero del successore di Pietro, questo conclave ha indicato una strada per raccogliere quell’invito che tanto volte papa Francesco in questi anni ci ha rivolto chiamandoci ad essere Chiesa «in uscita».
Dalla missione – parola chiave anche del percorso sinodale – ci chiedono dunque di ripartire il Papa e la Chiesa intera. Dall’uomo che in Perù a cavallo raggiungeva le comunità sulle montagne più lontane, e che insieme oggi ci indica anche le frontiere più nuove. Come quando motivando il nome prescelto ha tracciato il parallelo tra la prima rivoluzione industriale affrontata da Leone XIII con la Rerum Novarum e le sfide che lo sviluppo dell’intelligenza artificiale pone oggi alla dignità umana, alla giustizia e al lavoro. Perché anche l’economia che uccide e la sete di pace in un mondo dilaniato dai conflitti, oggi, sono terra di missione.
Del missionario Prevost diventato il Papa colpisce in particolare un tratto. Chiunque lo abbia conosciuto da vicino non ha gesti eclatanti da raccontare, ma ripete una qualità: è un uomo che sa ascoltare. Non è il missionario che ha vissuto le avventure più eroiche, non è quello che ha alzato di più la voce, non è quello che ha costruito più scuole o dispensari. Ma ha lasciato il segno aprendo il cuore e la mente a chi incontrava. Perché così davvero, come ha detto nella prima messa con i cardinali nella Cappella Sistina, anche chi ha autorità «sparisce affinché rimanga Cristo». Oggi lui è Pietro. E anche noi missionari – in Italia e in ogni angolo del mondo – vogliamo ricominciare da qui.
Dossier
Giappone. Tradizione e cambiamento di Piergiorgio Pescali
Articoli
10 KOSOVO
Lo specchio appannato di Valentina Tamborra 15 VATICANO
Il diplomatico dei papi di Giovanni G. Demaria 19 MYANMAR
Il Paese dimezzato di Paolo Affatato 24 EGITTO
Le storia sfrattata di Donatella Murè 47 MOZAMBICO
Un salone di bellezza di Marco Bello 54 ITALIA-BRASILE
Un viaggio indimenticabile di Elio Operti
Amico
Vedere venire il bene a cura di Luca Lorusso
Vivi, ama, sogna, credi e spera sempre
Nei miei bellissimi anni di permanenza a Roma, a causa della mia collaborazione presso l’allora congregazione di Propaganda Fide, prima con il cardinale Filoni e successivamente con il cardinale Tagle mi è stata data l’opportunità di incontrare papa Francesco e di vivere da vicino il magistero del suo pontificato.
In lui ho trovato un padre che ha sempre attentamente ascoltato, risposto, ricordato e mai si è eretto a giudice. Lo ricordo come una persona sorridente, semplice, spontanea, talvolta impulsiva, di grande concretezza e determinazione, ma contemporaneamente di grande spiritualità: la predicazione del Vangelo la stella a cui tendere sempre. Un Vangelo predicato e vissuto con gioia: la gioia della Parola.
In uno dei primi incontri avuti con lui, a santa Marta, si interessò e mi chiese notizie del mio Paese, la cosa mi stupì, non sapendo che stava già progettando una visita in Mozambico che avvenne nel settembre del 2019. Ho un ricordo vivissimo di quel viaggio in quanto ero anche io sul posto.
Con sommo mio stupore mi riconobbe, mi rivolse parole di affetto e mi assicurò che avremo avuto occasione di parlare con più tranquillità cosa che effettivamente avvenne in un’altra occasione a casa Santa Marta.
Nel viaggio in Mozambico il Santo Padre esortò alla pace e alla concordia in un paese dilaniato da una lunga guerra di liberazione, esortò i giovani all’educazione sportiva: sport ed educazione devono essere sempre congiunti nella vita.
Lo ricordo come un missionario con l’odore delle pecore appassionato per l’evangelizzazione. Infatti, il fatto di mettere il dicastero per l’Evangelizzazione nel primo posto, e farne un dicastero presieduto direttamente da lui, a me come missionario, e ora vescovo, ricorda che la prima missione della Chiesa è l’evangelizzazione.
Uomo determinato che seppe mettere tutto al servizio del l’evangelizzazione orientata con il lemma: «la Chiesa in uscita»!
Un grande padre che ha saputo orientare la Chiesa a camminare insieme come figli dello stesso Padre.
Nel settembre del 2023 ha voluto nominarmi vescovo ausiliario del mio paese, mentre il nostro ultimo incontro è avvenuto il 21 settembre del 2024 in occasione di una riunione sinodale dove ho avuto il grande onore di rivolgergli un saluto e un ringraziamento da parte di tutti i padri convenuti.
Ritengo che il suo pontificato sia stato innovativo e mi auguro che il nuovo pontefice possa portare a termine quanto lui ha avviato.
Il pontificato di Francesco è stato un insegnamento profondo che mi ha molto segnato e mi accompagnerà nel mio servizio pastorale per la Chiesa e per le sue pecore. Nei miei momenti di stanchezza ricorderò la sua forza anche nel periodo della malattia, il suo buon umore sempre rafforzato dalla preghiera giornaliera di Tommaso Moro «Dammi o Signore, il senso dell’umorismo, concedimi la grazia di comprendere uno scherzo, affinché conosca nella vita un po’ di gioia e possa farne parte anche ad altri».
Il popolo e il clero del Mozambico hanno ricordato Francesco con una veglia di preghiera alla presenza di molte centinaia di persone.
Osório Citora AFONSO, vescovo ausiliario di Maputo, Mozambico