Pandemia rimossa

Il Covid, cinque anni fa, è stato qualcosa di impensato. La paura della perdita, della morte, del vuoto, e il lutto non elaborato della nostra impotenza, sono diventati paranoia. Si è insediata nelle nostre comunità una rabbia diffusa ed esplosiva contro tutti e tutto. Per questo, ancora oggi, è necessario parlarne.

Nel 2020 scoppiò la pandemia. Il trauma fu potente, poiché il diffondersi dell’invisibile virus killer rappresentò nel mondo un fatto impensabile.

Ci chiesero di rimanere confinati a casa. Chiusero uffici e scuole, servizi e attività produttive, non volarono più gli aerei e si svuotarono le stazioni ferroviarie.

Le chiese chiusero i portoni d’ingresso. I morti non trovarono più riti accompagnatori.

Tutto doveva rimanere immobile, nella speranza di impedire al virus di girare e attaccare i polmoni degli esseri umani.

Ma il blocco sconvolse le vite di tutti. I bambini non poterono tornare tra i banchi di scuola, i lavoratori si destreggiarono come poterono tra lavoro a distanza o ozio forzato, la sanità implose sotto l’urto di una malattia sconosciuta che pietrificava i polmoni e toglieva l’aria.

Imparammo a non uscire, ad abbandonare abitudini certe, evitammo ogni tipo di incontro.

Poi arrivarono i vaccini, ci furono aperture per brevi uscite dalle prigioni casalinghe. Infine, fu estate e sperammo che tutto fosse finito. Liberi e liberati dall’incubo di morire per contagio.

Il virus, però, tornò a minacciarci. Quando eravamo pronti a dimenticare, il trauma si ripresentò colorato da zone rosse, gialle, bianche, e ci impose nuovi confinamenti.

Gli affetti vissero un ulteriore urto. I piccoli non poterono vedere i loro amici, gli allievi rinunciarono al cicaleccio in cortile, i nonni non abbracciarono i nipotini, perché i piccoli erano considerati untori, gli ospedali lasciarono fuori della porta i visitatori, le case di riposo rimasero chiuse, inaccessibili, mentre i nostri anziani, malati e fragili, morivano di solitudine.

Fu un’epoca di affetti recisi. Fu un trauma ripetuto. Un dolore che spezzava il cuore, un sentimento di mancanza incolmabile.

Cercammo di supplire con la rete internet e, dovendo rinunciare al calore di un abbraccio, al piacere di una carezza, al conforto di un bacio, passammo a vederci in videoconferenza sui monitor: unica àncora di salvezza.

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Lutto, paranoia, violenza

Nel 2021, come accade per ogni tragedia, si voleva dimenticare e lasciarsi tutto alle spalle.

A inizio 2022, poi, scoppiò il conflitto in Ucraina. Venti di guerra soffiarono appena fuori i nostri confini geografici, ma anche nella quotidianità di ciascuno.

La violenza s’insinuò dentro alla comunità, crebbe, avanzò inesorabile perché impensata.

La paura della perdita, della morte, del vuoto, divenne mancata elaborazione del lutto condiviso da tutta l’umanità.

E il lutto che ci aveva fatti sentire impotenti divenne paranoia che alimentò la violenza.

E di questo incremento della violenza siamo ancora oggi testimoni: bambini e ragazzi si autolesionano, si è abbassata l’età dei suicidi, c’è aggressività nelle scuole, si è insediata nelle nostre comunità una rabbia diffusa ed esplosiva contro tutti e tutto.

Riparare il trauma

Sapevo che non sarebbe stato un bene cancellare il ricordo di quanto stava avvenendo. Bisognava parlarne, soprattutto per non creare un vuoto di significati nelle menti dei più piccoli.

Iniziai una ricerca a livello nazionale. Fondai tredici gruppi lungo la Penisola, dal Friuli Venezia Giulia alla Calabria, dalle Marche al Piemonte, dal Veneto alla Puglia, per incontrare adulti impegnati a riparare il trauma della pandemia nei più piccoli.

Si trattava di incontrarsi per otto volte, per due ore intorno alle frasi raccolte nel libro «Parola di bambino, il mondo visto con i suoi occhi», che attraversa la filosofia degli stati d’animo nell’infanzia.

Cercammo di far parlare le persone sui vissuti che transitavano nella relazione tra adulto e bambino in quei mesi.

L’incertezza, predominava, e creava paura. Un piccolo gruppo di professionisti della salute mentale provò a fermarla facendo riflettere le persone.

Ogni gruppo era coordinato da un esperto. Il compito dato agli adulti partecipanti era di osservare i bambini con uno sguardo attento ai cambiamenti avvenuti: nei figli, negli alunni o piccoli pazienti nei lockdown. 

Il gruppo dei coordinatori era poi supervisionato da me per condividere non solo le difficoltà tecniche, gli imprevisti e inciampi, ma anche i vissuti che via via emergevano nelle persone. Questi furono un iniziale diniego, seguito poi da una valanga di dolore. I professionisti stessi, che si credevano immuni dal trauma, poterono riconoscere il proprio vissuto doloroso.

C’era grande opposizione a far luce su tanto dolore, ma sapevo che era necessario farlo per la salute mentale della popolazione. Sapevo che un trauma rimosso crea un buco nella vita psichica e che, nel tempo, forma un abisso, non solo incolmabile, ma addirittura non rappresentabile.

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Dal diniego al riconoscimento

Capii ben presto che investire sul senso dell’evento pandemico era un problema per tutti. Un dato chiaro fu che non c’era differenza tra le diverse persone: psicoterapeuti, pedagogisti o cittadini qualsiasi. Il pensiero comune negava che si stesse delineando una vera emergenza sociale e sanitaria.

Capimmo che affrontare i vissuti relazionali dei lockdown era un salto emotivo che non tutti riuscivano a compiere. Che fossero genitori, educatori, insegnanti, operatori sociali o professionisti della salute mentale.

Accettai, quindi, il fatto che diversi esperti chiamati come coordinatori e diversi potenziali partecipanti ai gruppi avessero rifiutato di aderire, e lo considerai come il primo dato della ricerca. Le persone lo dicevano chiaramente: «Non abbiamo voglia di parlare di Covid-19».

Continuammo comunque con chi ci stava, e arrivammo nel 2022 a pubblicare il testo che raccoglie la metodologia, i percorsi e gli esiti della raccolta dei sentimenti che avevano animato i vincoli tra grandi e piccoli dall’inizio della pandemia in poi.

Il testo, «Ridisegnare la bussola educativa. Gli effetti del trauma pandemico nei bambini e nei ragazzi», uscì nell’ottobre 2022.

Da lì in poi cominciammo a portarlo dove ci chiamavano.

Sono stata in tutte le città dove i gruppi si erano realizzati. Ma siamo state invitate anche in altri luoghi dove via via si sentiva la necessità di parlare degli effetti della pandemia sui bambini.

Dopo le presentazioni, di solito, seguiva un «silenzio parlante». La prima volta, alla presenza di diversi coordinatori dei gruppi, ero a Mestre. Sentii la forza di quel silenzio. Chiesi: «E voi come avete passato quel periodo?». E, a partire dalle parole del testo, che davano una rappresentazione forte dei vissuti della vita familiare, scolastica, condominiale, lavorativa, di adulti e bambini, emergevano forti e chiari i ricordi.

Le persone passavano dalla superficie «Io l’ho vissuto bene, mio figlio non ne ha risentito, è stato un periodo bellissimo, io mi sono riposata», a emozioni dimenticate e inabissate.

La platea della presentazione del libro diveniva un gruppo, contenitore che permetteva di far emergere paure, sofferenze, dolori, preoccupazioni, angosce.

Questo spazio di dialogo con il pubblico in gruppi allargati mi è parso allora l’ultimo anello del percorso che stavamo compiendo grazie alla ricerca sugli effetti della pandemia nei grandi e nei piccoli.

La sequenza pareva sempre la stessa: diniego, piccoli riconoscimenti, esplosione di storie di dolore e paura.

Il trauma era ancora elaborabile, rappresentabile, narrabile. Dicibile, soprattutto in un gruppo coordinato che permettesse l’emergere del latente e desse parola ai sentimenti, alle emozioni e ai vissuti.

Il gruppo, attraverso la circolarità delle relazioni, in tempi anche brevi, dava parola a paure, rabbie, dolori, angosce. Su tutte dominava il tema della morte.

Dalla negazione del trauma siamo passati alla raccolta dei racconti emotivamente condivisi.

I sintomi, purtroppo, oggi sono più visibili di allora e, quindi, via via, in questi anni, troviamo meno resistenze a parlare degli effetti della pandemia nei vincoli che uniscono le generazioni.

Se all’inizio del percorso pensavamo che ritrovarsi in un gruppo coordinato potesse essere un’opportunità per rielaborare il dolore della discontinuità, della perdita e dello smarrimento emotivo, oggi ne siamo certi.

E la banalità della frase: «Andrà tutto bene» è divenuta serio impegno ad affrontare il tema del trauma.

Paola Scalari
psicoterapeuta, psicosocioanalista, supervisore e formatore
www.paolascalari.eu

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Emozioni e vissuti

Nel testo «Ridisegnare la bussola educativa» sono raccolte tutte le frasi più significative emerse nelle duecento ore di incontri dei tredici gruppi partecipanti alla ricerca. Riporto qui qualche piccola storia raccontata durante la presentazione del libro in diverse città. Per mostrare come ovunque siamo andati abbiamo ascoltato dolore, paura, disorientamento. Attraverso la connessione con il mondo interno, si può dare parola e voce a ciò che si sta cercando di cancellare per non soffrire. Ognuna di queste piccole storie è definibile come un emergere del rimosso collettivo.

Padova. Fabrizio, assistente sociale racconta la sua paura di morire nel maggio del 2020. Ricoverato. Intubato. Affannato. Solo. Isolato dalla famiglia. Spaventato che si ammalassero anche i due figli e la moglie. I pensieri di morte furono atroci. La paura di lasciarli soli. L’angoscia di non poterli vedere, salutare un’ultima volta. E intanto il respiro diventava sempre più difficile. Fabrizio tra i singhiozzi afferma: «Una videochiamata per dirsi addio è troppo poco».

Trieste. Prima a voce spenta, poi sempre più decisa, suor Anna racconta la sua esperienza ospedaliera in isolamento. Il suo affidarsi a Dio e aggrapparsi alla vita attraverso i disegni che i bambini le facevano pervenire. Dice: «Fu la loro presenza a darmi la forza per lottare contro il virus». E aggiunge: «Ma ho visto la morte da vicino e mi ha fatto paura».

Venezia. Mara, madre di una ragazzina di quindici anni, dice che, durante le diverse fasi della pandemia, le era parso fosse filato tutto liscio. Oggi, però, si è resa conto che, poco a poco, sua figlia si è ritirata dalla vita sociale. Ricorda che nel marzo 2020 Susanna, allora dodicenne, stava ore davanti al monitor per seguire le lezioni, chiacchierare con le amiche, giocare con i compagni. Poi, dai brevi rientri a scuola, attesi e desiderati, usciva infelice. Lì dentro si stava divisi, separati, lontani. Guai ad avvicinarsi, a scambiarsi una penna, una bottiglietta d’acqua. Tutti intoccabili. Finestre aperte per far girare l’aria, anche con il gelo di febbraio che raggelava il corpo dove abitava un’anima già congelata. E così Susanna cominciò a dire che non voleva andare a scuola fino ad arrivare all’attuale ritiro sociale. «Ora – dice la mamma – non esce nemmeno con gli amici. Sono disperata perché non so come aiutarla».

Belluno. Una simpatica signora dal corpo robusto e con occhi vispi chiede la parola. Ci porta ai primi mesi del lockdown. Lei, cassiera in un supermercato, va ogni giorno a lavorare, mentre marito e figli rimangono chiusi in casa. Esce e può contagiarsi e contagiare i suoi cari. Paure e sensi di colpa la attanagliano. Quando arriva a casa si spoglia degli abiti lasciati in uno scatolone fuori casa, si fionda sotto la doccia e fa grande uso di sapone e disinfettante. E poi nessun abbraccio. Notti insonni sul divano.

Il racconto si ferma qui. Ma, tra i presenti, qualcuno osa dire: «Mi sento in colpa per aver frequentato più volte al giorno il supermercato in quei mesi. Non avevo mai pensato alla paura di commesse e cassiere. Scusami».

Alessandria. Vanda, una non più giovane insegnante, racconta la sua relazione con la classe. Ansia a ogni collegamento. Senso di inutilità. Rabbia, perché si sente raggirata dai ragazzini che chiudono la telecamera. Impotente. Senza strumenti per insegnare, si inquieta al punto di decidere che non si collegherà più. I compiti li mette in internet e li restituisce via chat. Oggi si chiede se avrebbe potuto farsi aiutare. Ed è inferocita per la solitudine che ha vissuto.

A queste sue affermazioni la mamma di un piccolo alunno racconta la sua rabbia per il menefreghismo degli insegnanti che hanno preteso l’impossibile dai loro figli, ma anche dai genitori. Gli animi si accendono. I genitori denunciano le disattenzioni dei docenti. Questi elencano i limiti che sono stati loro imposti.

Vediamo in diretta come la rabbia abbia imperversato in quel periodo, aumentando le contrapposizioni e la violenza relazionale: risultato del senso di abbandono che ha ferito tutti in quei giorni.

Cosenza. Fuori piove a dirotto. Pamela arriva prima di tutti. Si siede in prima fila. Parliamo del libro. Lei si rannicchia nella sedia e i suoi occhi sono pieni di lacrime. La invito a parlare. «Se non ci fosse stato il gruppo – dice – non ce l’avrei fatta da sola». Racconta del marito malato e poi morto nella solitudine dell’ospedale. Morto da solo dopo anni di vita insieme. Senza una mano da stringere, un conforto. Senza il suo amore ad accompagnarlo.

A quel punto tutti piangiamo. Le compagne del suo gruppo le si avvicinano e l’abbracciano. Corpi che s’incontrano dopo tanto digiuno. Corpi che nel contatto, pelle con pelle, risanano mancanze indescrivibili. Pamela commossa sussurra: «Vi devo la vita».

Parma. I genitori di Gianni, un mio caro allievo psicoterapeuta, piangono silenziosamente. Mi chiedo cosa stia passando nella loro mente. Li guardo e ci capiamo. Senza parole. L’angoscia della morte e del destino dell’umanità risuona dentro di noi.

L’invito è a non dimenticare, a chiedere ai ragazzi come sono stati e come hanno vissuto quegli anni. A non rimuovere cosa abbiamo vissuto noi adulti e come abbiamo interagito con i più giovani. Loro, vedendoci spaventati, hanno fatto finta di stare bene. Ora hanno bisogno di parlare.

P.S.




Il Papa missionario

Un missionario, che diventa Papa, è un’esperienza inedita per la Chiesa cattolica. Ed è una gioia particolare per noi, che raccontiamo la Chiesa e il mondo a partire dagli occhi di chi – come Robert Francis Prevost – ha accolto come ragione di vita la chiamata a far sì che la parola di Gesù possa raggiungere anche la periferia più dimenticata del mondo di oggi.

«Dobbiamo cercare insieme come essere una Chiesa missionaria, una Chiesa che costruisce i ponti, il dialogo, sempre aperta a ricevere, come questa piazza con le braccia aperte», ha detto papa Leone XIV fin dal suo primo discorso dalla loggia della basilica di San Pietro. Chiedendo a ciascuno di farsi a sua volta «ponte» dell’amore di Dio verso tutti.

Il Papa missionario è una sfida particolare per noi missionari. E nella nostra Italia, forse, oggi lo è ancora di più che in altre regioni del mondo. Ci ricorda l’urgenza della missione, proprio mentre rischiavamo di abituarci all’idea che partire per terre lontane sia una vocazione ormai del passato. Ci dice la necessità di non rinchiudersi nel nostro fortino, ma di continuare a guardare lontano, «ad gentes», per aprire davvero le nostre comunità al respiro del mondo.

Come in tanti hanno sottolineato, il conclave che ha eletto Leone XIV è stato quello più universale nella storia della Chiesa: grazie alle scelte profetiche di papa Francesco, ben 71 Paesi erano rappresentati tra i cardinali elettori presenti nella Cappella Sistina. C’erano pastori di piccolissime comunità cattoliche che vivono in città e regioni su cui non si accendono mai i riflettori del mondo. Ebbene: proprio questo Collegio cardinalizio così particolare, con un voto rapido e pare anche molto ampio, ha scelto Leone XIV. Lo ha fatto certamente per le sue doti umane. Ma lo ha votato ben consapevole di scegliere un missionario. Oltre che un uomo a cui affidare il ministero del successore di Pietro, questo conclave ha indicato una strada per raccogliere quell’invito che tanto volte papa Francesco in questi anni ci ha rivolto chiamandoci ad essere Chiesa «in uscita».

Dalla missione – parola chiave anche del percorso sinodale – ci chiedono dunque di ripartire il Papa e la Chiesa intera. Dall’uomo che in Perù a cavallo raggiungeva le comunità sulle montagne più lontane, e che insieme oggi ci indica anche le frontiere più nuove. Come quando motivando il nome prescelto ha tracciato il parallelo tra la prima rivoluzione industriale affrontata da Leone XIII con la Rerum Novarum e le sfide che lo sviluppo dell’intelligenza artificiale pone oggi alla dignità umana, alla giustizia e al lavoro. Perché anche l’economia che uccide e la sete di pace in un mondo dilaniato dai conflitti, oggi, sono terra di missione.

Del missionario Prevost diventato il Papa colpisce in particolare un tratto. Chiunque lo abbia conosciuto da vicino non ha gesti eclatanti da raccontare, ma ripete una qualità: è un uomo che sa ascoltare. Non è il missionario che ha vissuto le avventure più eroiche, non è quello che ha alzato di più la voce, non è quello che ha costruito più scuole o dispensari. Ma ha lasciato il segno aprendo il cuore e la mente a chi incontrava. Perché così davvero, come ha detto nella prima messa con i cardinali nella Cappella Sistina, anche chi ha autorità «sparisce affinché rimanga Cristo». Oggi lui è Pietro. E anche noi missionari – in Italia e in ogni angolo del mondo – vogliamo ricominciare da qui.

Federazione stampa missionaria italiana (Fesmi)




Sommario MC maggio 2025


03 AI LETTORI
Donare la vita di Gigi Anataloni
05 NOI E VOI
Lettori e Missionari in dialogo

Dossier
Giappone. Tradizione e cambiamento
di Piergiorgio Pescali

Articoli

10 KOSOVO
Lo specchio appannato di Valentina Tamborra
15 VATICANO
Il diplomatico dei papi di Giovanni G. Demaria
19 MYANMAR
Il Paese dimezzato di Paolo Affatato
24 EGITTO
Le storia sfrattata di Donatella Murè
47 MOZAMBICO
Un salone di bellezza di Marco Bello
54 ITALIA-BRASILE
Un viaggio indimenticabile di Elio Operti

Rubriche

28 IL VOLTO DEL PADRE/14
Il Signore della vita (Gv 11) di Angelo Fracchia
52 MONDO ALLAMANO/04
Le «armi dei piccoli» di Stefano Camerlengo
58 E LA CHIAMANO ECONOMIA
Rimettiamo i loro debiti di Francesco Gesualdi
61 COOPERANDO
Giustizia e pace, se non ora quando? di Chiara Giovetti
73 LIBRARSI
Il capitalismo della sorveglianza
di Rita Vittori (Centro Studi Sereno Regis)

Amico
Vedere venire il bene a cura di Luca Lorusso

 




Vivi, ama, sogna, credi e spera sempre

 

Nei miei bellissimi anni di permanenza a Roma, a causa della mia collaborazione presso l’allora congregazione di Propaganda Fide, prima con il cardinale Filoni e successivamente con il cardinale Tagle mi è stata data l’opportunità di incontrare papa Francesco e di vivere da vicino il magistero del suo pontificato.

In lui ho trovato un padre che ha sempre attentamente ascoltato, risposto, ricordato e mai si è eretto a giudice. Lo ricordo come una persona sorridente, semplice, spontanea, talvolta impulsiva, di grande concretezza e determinazione, ma contemporaneamente di grande spiritualità: la predicazione del Vangelo la stella a cui tendere sempre. Un Vangelo predicato e vissuto con gioia: la gioia della Parola.

In uno dei primi incontri avuti con lui, a santa Marta, si interessò e mi chiese notizie del mio Paese, la cosa mi stupì, non sapendo che stava già progettando una visita in Mozambico che avvenne nel settembre del 2019. Ho un ricordo vivissimo di quel viaggio in quanto ero anche io sul posto.

Con sommo mio stupore mi riconobbe, mi rivolse parole di affetto e mi assicurò che avremo avuto occasione di parlare con più tranquillità cosa che effettivamente avvenne in un’altra occasione a casa Santa Marta.

Nel viaggio in Mozambico il Santo Padre esortò alla pace e alla concordia in un paese dilaniato da una lunga guerra di liberazione, esortò i giovani all’educazione sportiva: sport ed educazione devono essere sempre congiunti nella vita.

Lo ricordo come un missionario con l’odore delle pecore appassionato per l’evangelizzazione. Infatti, il fatto di mettere il dicastero per l’Evangelizzazione nel primo posto, e farne un dicastero presieduto direttamente da lui, a me come missionario, e ora vescovo, ricorda che la prima missione della Chiesa è l’evangelizzazione.

Uomo determinato che seppe mettere tutto al servizio del l’evangelizzazione orientata con il lemma: «la Chiesa in uscita»!

Un grande padre che ha saputo orientare la Chiesa a camminare insieme come figli dello stesso Padre.

Nel settembre del 2023 ha voluto nominarmi vescovo ausiliario del mio paese, mentre il nostro ultimo incontro è avvenuto il 21 settembre del 2024 in occasione di una riunione sinodale dove ho avuto il grande onore di rivolgergli un saluto e un ringraziamento da parte di tutti i padri convenuti.

Ritengo che il suo pontificato sia stato innovativo e mi auguro che il nuovo pontefice possa portare a termine quanto lui ha avviato.

Il pontificato di Francesco è stato un insegnamento profondo che mi ha molto segnato e mi accompagnerà nel mio servizio pastorale per la Chiesa e per le sue pecore. Nei miei momenti di stanchezza ricorderò la sua forza anche nel periodo della malattia, il suo buon umore sempre rafforzato dalla preghiera giornaliera di Tommaso Moro «Dammi o Signore, il senso dell’umorismo, concedimi la grazia di comprendere uno scherzo, affinché conosca nella vita un po’ di gioia e possa farne parte anche ad altri».

Il popolo e il clero del Mozambico hanno ricordato Francesco con una veglia di preghiera alla presenza di molte centinaia di persone.

Osório Citora AFONSO, vescovo ausiliario di Maputo, Mozambico




Per il dialogo. Sempre

Ricordo e ricordiamo Papa Francesco per la sua umanità, vicino a tutti e a tutto, contro ogni cultura dello scarto, perché povero, migrante, carcerato, malato, diverso, … fiducioso nel seme di bontà presente in ogni creatura, proprio perché creatura e figlio di Dio.

Ricordo e ricordiamo Papa Francesco per la ricerca del dialogo, con tutti e tutto, contro ogni ingiustizia che porta alla guerra, mai indifferente all’altro e alla sua storia, cosciente che quello che ci salva è la fraternità, quel costruire ponti e non muri, nonostante tutte le difficoltà.

Ricordo e ricordiamo Papa Francesco non perché ci lascia un vuoto, ma proprio perché ci lascia un pieno di Vangelo vissuto e da vivere, non solo da citare.

padre Gianni Treglia, Imc




Costa d’Avorio. Francesco, artista della cura

 

Negli anni del mio servizio di responsabilità come superiore generale nell’Istituto Missioni Consolata, ho avuto più occasioni per incontrare Papa Francesco. Non solo insieme agli altri superiori in assemblee tra responsabili, ma anche in momenti personali nei quali si è toccato il cuore della Chiesa e la preoccupazione per diverse situazioni complicate che esigevano un discernimento profondo e ben accorto.

La prima cosa che sempre mi colpiva era la sua calma nell’affrontare temi scottanti e difficili. Papa Francesco non perdeva mai la sua serenità e la sua calma, insieme al suo sorriso. Rimaneva a riflettere silenzioso ma non dava mai segni di esagerata preoccupazione o di una sofferenza esasperata.

Una seconda caratteristica che mi ha sempre colpito era la sua grande umanità, come faceva anche il nostro fondatore, san Giuseppe Allamano, Papa Francesco rimaneva concentrato sulla persona che aveva davanti con le sue problematiche e le sue tematiche, sembrava che il mondo ed il tempo si fermassero per lui danti alla persona che incontrava.

Un terzo elemento caratteristico di papa Bergoglio era il suo essere fuori dagli schemi, sia nel parlare che nell’agire. Portava la sua parola, il suo modo di sentire le situazioni e gli avvenimenti, non parlava da papa ma da papà.

Come ho provato a dire nelle diverse occasioni nelle quali ho avuto la grazia d’incontrarlo, ogni volta ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte al mio fondatore. Non ho avuto la gioia di conoscerlo, ma da quello che ho sentito e letto di lui, mi sembrava «rivivere» nel nostro caro Papa Francesco.

Il ricordo più prezioso che porto nel cuore teneramente di Francesco, è quello di un Papa che ci ha insegnato, e ha insegnato al mondo, l’arte del prendersi cura. Prendersi cura degli altri, della natura, del mondo e di ogni situazione che ognuno vive nella sua storia.

Papa Francesco ha camminato nella nostra storia, scandendo i verbi della carità nella logica del Vangelo: una logica che invita a uscire da se stessi per accogliere l’altro, a riconoscere nell’umanità ferita il volto di Cristo, a trasformare ogni incontro in un’opportunità di amore autentico e gratuito.

Papa Francesco è stato samaritano nei pensieri e nei gesti. Ci ha ricordato che essere Samaritani non è un dono di santità ma un esercizio e un’azione quotidiana, un modo di anticipare il cielo sulla terra.

Grazie caro papa Francesco perché sei stato buon Samaritano in mezzo a noi e ci hai insegnato a essere poeti della carità, testimoni di speranza, artisti della cura e a continuare a far fiorire il mondo sotto il peso leggero del nostro amore.

Riposa in pace e, questa volta, prega tu per noi!

p. Stefano Camerlengo, Dianra, Costa d’Avorio, 23 aprile 2025




eSwatini. Il mio papa imprevedibile

 

Un giorno di maggio del 2013, dopo che papa Francesco era stato eletto vescovo di Roma, io, che ero vescovo in Sudafrica, ho pensato di scrivergli, raccontandogli come la sua elezione fosse stata accolta nella nostra parte del mondo.
Il nunzio apostolico mi assicurò che la lettera sarebbe arrivata a lui e non a uno dei suoi segretari. E fu proprio così. Circa un mese dopo ricevetti una sua risposta scritta a mano. Non me lo sarei mai aspettato.

Tanto meno quello che è successo dopo.

A luglio Papa Francesco si è recato a Rio de Janeiro per la Giornata mondiale della gioventù e ha chiesto di organizzare un evento speciale per chi arrivava dall’Argentina (una folla enorme, come potete immaginare!). Dato che io sono Argentino, i vescovi mi hanno invitato a unirmi a loro.
All’arrivo del papa in cattedrale, i vescovi argentini lo hanno salutato con entusiasmo (era la prima volta che lo incontravamo come Papa!). Mi sono presentato non aspettandomi che si ricordasse di me. Mi ha detto: «Hai ricevuto la mia lettera?».
È stato travolgente. In mezzo a tutto ciò che stava accadendo intorno a lui, come poteva ricordarlo?

Al di là delle sue omelie, dei suoi discorsi e dei suoi documenti, si potrebbero scrivere pagine e pagine sul fatto che facesse sentire unica ai suoi occhi ogni persona che lo incontrava.

Credo che come Sacbc (vescovi di Botswana, Eswatini e Sudafrica) non dimenticheremo mai le due visite ad limina che abbiamo avuto con lui nel 2014 e nel 2023.

Il primo non lo dimenticheremo perché, accogliendoci (in due gruppi in due giorni diversi), ha esordito: «Come si dice nel calcio, il pallone è al centro, chi lo calcia per primo? Di cosa vorresti che parlassimo?».
Era uno spazio aperto per noi per parlare con il successore di Pietro di qualsiasi argomento avessimo nel cuore. Era totalmente nuovo per noi. Ricordo infatti ancora uno dei vescovi che disse dopo l’incontro: «Ho aspettato 20 anni per un momento così».

Il secondo incontro è stato segnato dal fatto di essere stato annullato. Il Papa era in ospedale dopo aver subito un intervento chirurgico importante.

Il giorno in cui è stato dimesso, alcuni di noi si trovavano all’ingresso della sua residenza proprio nel momento in cui è stato riportato dall’ospedale. Mi ha visto e mi ha chiesto se fossimo lì per la visita ad limina e quando ci saremmo incontrati. Ho detto: «L’incontro è stato cancellato. Tu eri in ospedale ma tu sei il Papa e… sei imprevedibile!». Ha salutato gli altri vescovi e poi ha detto: «Dite ai vescovi che potremmo incontrarci dopo pranzo».
Nessuno si aspettava che un uomo di 86 anni trovasse il tempo per noi dopo un intervento chirurgico importante. Eravamo solo noi e lui, nessuna segretaria, nessun protocollo, nessuno a tradurre! Era il vescovo di Roma con i suoi fratelli vescovi nel modo più informale. Non sono stati gli argomenti di cui abbiamo parlato quel pomeriggio a rimanere nei nostri cuori, ma quello che abbiamo visto anche domenica scorsa: il suo dare tutto il suo tempo e le sue energie a tutti i costi.

Attraverso momenti come questi, attraverso le sue lettere personali, telefonate, visite… si è fatto vicino a tutti noi, ha testimoniato la cura amorevole di Dio per ogni persona, ma ha anche, silenziosamente, richiamato tutti noi a prenderci cura gli uni degli altri, ad apprezzare il dono gli uni degli altri e, a noi vescovi, ha mostrato il modo in cui siamo chiamati a prenderci cura di coloro che ci sono stati affidati.

+ José Luis Ponce de León, Imc, vescovo di eSwatini




Brasile. Francesco padre dei poveri

Il mio primo incontro con Papa Francesco è avvenuto alla Giornata mondiale della gioventù di Rio de Janeiro nel 2013. Da poco più di un anno ero stato nominato vescovo ausiliare dell’Arcidiocesi di San Salvador da Bahia, e per la prima volta partecipavo a un grande evento che mostrava il volto giovane di una Chiesa desiderosa di essere presenza nel mondo.

Ho poi avuto altre occasioni per incontrarlo e godere della sua paternità, fede e semplicità.
«Dio sempre ci sorprende», era solito dire Papa Francesco. E la Chiesa è rimasta sorpresa con l’elezione di un uomo «venuto dalla fine del mondo» che ha sempre cercato di mettere al centro della nostra attenzione tutto quello che era considerato periferico.

Cosa ci lascia in eredità Papa Francesco?

Successore dell’apostolo Pietro, ha dedicato la sua vita all’annuncio e alla testimonianza del Vangelo. Fin dall’inizio del suo pontificato, egli ha esortato la Chiesa a «uscire», impegnandosi ad annunciare la gioia del Vangelo (Evangelii gaudium), invitando ogni battezzato a partecipare attivamente alla missione evangelizzatrice.

Buon Pastore, ha camminato «davanti, in mezzo e dietro al gregge», con il popolo santo di Dio, soprattutto con i fratelli e le sorelle più poveri che vivono nelle periferie geografiche ed esistenziali.

Profeta del nostro tempo, difensore della dignità umana, ha denunciato la «cultura dell’indifferenza» verso la sofferenza delle persone più vulnerabili e scartate della società.

Ha invocato la pace in un mondo segnato dalle guerre e ha richiamato l’attenzione della società sulla necessità di prendersi cura della nostra Casa Comune.

Padre dei poveri, ha mostrato nei piccoli gesti il volto misericordioso di una Chiesa dalle porte aperte, chiamata a essere «ospedale da campo», testimone di un Dio che non si stanca mai di amare e perdonare.

Sono grato al Signore per averlo conosciuto e incontrato, per la sua testimonianza che ci invita a essere una Chiesa più vicina, più umana e più fedele al Vangelo.

+ Giovanni Crippa, Vescovo di Ilhéus, Brasile




Mozambico. Francesco, papa missionario

 

È stato con sorpresa e profonda tristezza che, la mattina del 21 aprile, alla missione di Boroma, fondata dai gesuiti alla fine del XIX secolo, ho ricevuto la notizia del ritorno di Papa Francesco alla casa del Padre.

Era un grande amico del Mozambico, Paese che ha visitato nel settembre 2019. L’ondata di affetto suscitata dalla semplice figura di Francesco ha unito tutti i mozambicani, indipendentemente dal partito politico, dall’etnia e persino dall’appartenenza religiosa. Ci ha lasciato un messaggio di pace e riconciliazione e gesti di solidarietà concreta con le vittime mozambicane dei disastri naturali e dell’insurrezione terroristica a Cabo Delgado, nel Nord del Paese.

Si è detto e si dirà molto su Papa Francesco. Per me è stato un padre e un fratello per tutti. Un Papa missionario, che mi ha ispirato molto nel mio lavoro pastorale come Vescovo di Tete, cercando di rendere questa Chiesa locale, dove i Missionari della Consolata sono arrivati 100 anni fa, una Chiesa «in uscita», con le porte aperte a tutti, una Chiesa missionaria.

Ci lascia con l’impegno di continuare a essere fedeli al Vangelo nella nostra vita quotidiana, come discepoli-missionari del Signore Gesù, che è risurrezione e vita. Speranza dell’umanità.

Sono grato a Papa Francesco per il suo esempio di vita e per le sue parole ispiratrici e trasformatrici rivolte ai fedeli e al mondo: il suo invito a vivere la fede nella gioia e nell’«uscire», senza paura di abbracciare tutti, la sua preoccupazione per i più dimenticati, i più piccoli, i più bisognosi, nella consapevolezza che siamo tutti fratelli e sorelle; e anche la sua vigorosa e instancabile denuncia di un’«economia che uccide», mettendo in pericolo il pianeta, di tanti conflitti che configurano la «terza guerra mondiale a pezzi», così come dei peccati della Chiesa stessa, abusi sessuali, abusi di potere o abusi economici.

Grazie, Francesco.
Perché, come Papa, sei sempre stato un fratello.
Perché, come gesuita, sei sempre stato un missionario.
Oggi piangiamo con te, ma soprattutto ti ringraziamo.
La tua vita è stata il Vangelo condiviso.
La tua morte, un seme di speranza.

+ Diamantino Antunes (Imc), vescovo di Tete, Mozambico – 22/04/2025




Kenya. Francesco e l’odore delle pecore

 

Ringrazio Dio di aver incontrato personalmente Papa Francesco.
È stato un grande regalo nella mia vita: un modello di umiltà e povertà francescana da imitare.
Il 16 aprile 2015, durante la visita ad limina di noi vescovi del Kenya, ho avuto la gioia di fare a Papa Francesco un regalo speciale. Gli ho detto: «Io lavoro nella diocesi di Maralal, in mezzo ai pastori e perciò ti offro, a nome loro, questa mia mitria di pelle di capra. Ora anche tu, come buon pastore, potrai avere l’odore di pecora, come sempre vai dicendo ai tuoi preti».

Prima di mettergliela sulla testa, lui stesso volle annusarla e poi commentò: «Questa non è pecora ma capra!». Gli risposi: «Sì, è vero. Vedo che te ne intendi. Ma in Kenya le pecore e le capre vanno al pascolo insieme».

Sette mesi dopo, egli fece visita in Kenya (25-27 novembre 2015), e mi fece una bella sorpresa che dimostrava il suo cuore sempre attento ai piccoli favori. Al suo arrivo, nell’aeroporto di Nairobi, sceso dall’aereo, mentre passava davanti alla fila dei vescovi, mi feci coraggio e gli chiesi: «Santità, Lei non si ricorda di me? Sono quello che Le ha regalato la mitria di pelle di capra, a Roma». «Mi ricordo, sì – rispose – e la tua mitria me la sono portata dietro da Roma e domani la vedrai sulla mia testa durante la Messa».

Il giorno dopo, all’inizio della Messa, sull’altare si girò leggermente verso di me e mi fece un sorriso come per dire: «Vedi, io mantengo le promesse». Che cuore umano e pieno di calore! Tutt’oggi tengo caro ancora due cosette: il Rosario che mi regalò, e che recito tutti i giorni, e un quadretto con la foto in cui lo abbraciai (che coraggio!).

Abbiamo un altro santo che intercede per noi. Un santo che ha baciato i piedi ai presidenti africani, supplicandoli di costruire la pace.

+ Virgilio Pante, IMC, vescovo emerito di Maralal