Cana (16) Le nozze di cana, il futuro è dietro di noi

Il racconto delle nozze di cana (16)

L’indicazione temporale che apre il racconto di Cana è preciso e delimitato: «E nel terzo giorno» (Gv 2,1). Per comprenderne la portata straordinaria è necessario percorrere il passaggio logico degli eventi e non solo cronologico. Questa indicazione di tempo, così puntuale, come abbiamo più volte osservato, è la conclusione della prima settimana di attività di Gesù, descritta nel capitolo primo e culminante nella festa nuziale di Cana e, nello stesso tempo, è un preciso riferimento alla prima settimana della creazione, con cui Dio inizia la sua attività al di fuori di sé, come è descritta nel capitolo primo del libro della Genesi. Aggiungiamo che in Gv la prima settimana di attività pubblica di Gesù è strettamente connessa anche all’ultima settimana della sua vita terrena, che culmina nella crocifissione (Gv 12,1-19,42). Abbiamo dunque tre settimane da connettere e armonizzare: quella iniziale di Gesù, quella della creazione e quella conclusiva di Gesù. È questo legame che ora ci accingiamo a esaminare e che ci impegnerà anche per la prossima puntata.

Una lettura a ritroso per scoprire Abramo
Il punto di partenza della storia di Israele non è la Genesi, ma l’Esodo. La storia del popolo scelto da Dio non inizia con la creazione, in Adamo, ma in Egitto, dove Israele è schiavo. Qui Dio interviene con Mosè attraverso una epopea di liberazione che nei secoli successivi sarà descritta in termini enfatici, facendo di questo intervento il vero «atto creativo» con cui inizia la storia della salvezza. L’esodo è il punto di partenza, storico e teologico insieme, perché segna «la genesi» di Israele, l’origine di tutto, anche di quello che «avviene prima»: i Patriarchi e la creazione stessa. Dopo l’esodo che si compie nella fantasmagorica traversata del Mare Rosso, degna di una rappresentazione cinematografica «kolossal», l’altro punto assoluto, fulcro centrale di tutta la vita sia di Israele che di ogni singolo israelita, è l’arrivo al Monte Sinai, scenario adeguato e solenne per una mirabile manifestazione, con tutti gli ingredienti della spettacolarità: vi partecipa infatti la natura tutta con tuoni, lampi, fulmini e nubi.
Qui viene consegnata la Toràh / la Legge come coscienza di identità che deve significare il senso profondo che essa esprime: il segno dell’alleanza sponsale tra Dio liberatore e Israele liberato. Da questo momento tutto acquista senso perché l’esodo e in particolare il Sinai diventano la chiave interpretativa di tutta la storia, sia quella futura (cosa ovvia), ma anche quella passata, di cui si sono perdute le tracce nella notte dei tempi, essendo sopravvissuti solo alcuni vaghi ricordi. L’epopea dell’esodo rimette tutto in movimento: il passato (chi sono i patriarchi?) e il futuro (quale terra promessa?).
Se guardiamo solo verso il passato, scopriamo che Israele ha compiuto un’opera di ricostruzione meticolosa e logica. L’esodo pone domande essenziali. Perché Dio ha liberato Israele dalla schiavitù dell’Egitto? Perché Dio ha voluto dare una Legge proprio a Israele tra tutti i popoli esistenti, anche molto più significativi? In altre parole, cosa c’era prima dell’esodo e del Sinai? Qual è il senso del presente, cioè di ciò che accade al Sinai?
La risposta è ovvia: Dio ha dato la Legge a Israele per essere fedele alla promessa che aveva fatto ad Abramo. Inizia così un processo di ricognizione storico-teologica alla ricerca dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe per scoprire le fondamenta  del proprio presente e la prospettiva del futuro. La figura del primo patriarca comincia a uscire dalla nebulosità del passato e si proietta maestosa e nobile sul futuro di Israele: egli diventa la prima pietra «angolare» che dà senso all’esodo, nello stesso momento in cui l’esodo dà un nome e un volto al patriarca fondatore. È un cammino a ritroso, alla ricerca delle proprie origini. L’esodo in sé sarebbe poca cosa se non fosse «una promessa» di un Dio, diverso da tutti gli altri «dèi» conosciuti; al contrario, esso è la conclusione del cammino di una «parola» detta nella notte dei tempi che non si è smarrita, ma è diventata un fatto: la parola di Dio ad Abramo ora «si fa carne» e diventa esodo, liberazione.

Alla ricerca di Àdam
Non basta. Cosa c’era prima di Abramo? Proiettando ancora una volta la luce dell’esodo all’indietro, come un faro che illumina il cammino, Israele scopre che prima di Abramo, c’era Adamo che diventa così la coice ancora più ampia della storia della salvezza. Dal padre di Israele al padre dell’umanità. Il processo avviene dal particolare all’universale. Riflettere sull’esodo come evento fondativo significa visitare il proprio passato per cogliere la direzione del futuro e il senso del presente. La liberazione dall’Egitto e la Toràh del Sinai non sono frutti anonimi fuori stagione, ma sono la conseguenza matura di un lungo percorso che è iniziato nella notte dei tempi, anzi nel cuore di Dio. Prima ancora di creare il mondo, Dio aveva pensato Israele come suo popolo ed è per realizzare questa «elezione» che ha creato il mondo, poi ha chiamato Abramo, Isacco e Giacobbe perché «costruissero» il popolo che Dio avrebbe convocato per mezzo di Mosè ai piedi del Sinai per consegnare la Toràh, il codice dell’alleanza da portare a tutti i popoli della terra.
Alla fine si ha questo schema teologico: Dio ha creato l’universo per collocarvi l’umanità, che a sua volta diventa la coice dove avviene la promessa ad Abramo e agli altri patriarchi che diventano così la premessa all’evento principe dell’esodo che culmina nel dono della Toràh come garanzia dell’alleanza sponsale tra Dio e il suo popolo Israele. Il passaggio logico è: Mosè, Abramo, Àdam, non viceversa. Ciò spiega perché nella coscienza di Israele, l’esodo e la creazione non sono mai separati, ma sono i due aspetti complementari dell’intervento di Dio che ha creato il cosmo, formato Àdam e l’umanità, chiamato Abramo, un politeista pagano, solo per amore di Israele, «inventato» da Dio stesso come partner sponsale a cui dona in dote la Toràh, che non è solo una «legge», ma il sigillo dell’alleanza e della prosperità nuziale. Tutta la storia, da Àdam a Mosè ha senso solo se proiettata verso lo scopo e l’obiettivo che è il monte Sinai, il monte dove «nel terzo giorno» Dio consegna se stesso nella forma di Toràh, cioè di «Parola che si fa carne» (cf Gv 1,14) al popolo che ha scelto tra tutti i popoli.

I figli garanzia dei genitori
Narra la tradizione giudaica che Dio prima di Israele interpellò tutti i popoli della terra ai quali offrì in dono la Toràh che tutti rifiutarono per un motivo o per l’altro. Quando giunse infine ad Israele, egli non volle nemmeno sapere ciò che vi era scritto perché l’accettò senza condizioni o riserve.

«Prima di donarla agli Israeliti, l’Onnipotente offrì la Toràh a ogni tribù e nazione del mondo perché nessuno potesse dire: “Se il Santo benedetto avesse voluto darcela noi l’avremmo accolta”. Si recò dai figli di Esaù e chiese: “Accettate la Toràh?” – “Che cosa vi sta scritto?”, risposero quelli. – “Non uccidere” (Es 20,13). – “E tu vorresti privarci della benedizione impartita al nostro padre Esaù, cui è stato detto: ‘vivrai della tua spada?’ (Gen 27,40). Non vogliamo la Toràh”. – Allora il Signore l’offrì alla stirpe di Lot dicendo: “Accettate la Toràh?” – “Che cosa vi sta scritto?”. – “Non commettere adulterio” (Es 20,14). – “Proprio da atti impuri siamo nati! Non vogliamo la Toràh”. Allora il Signore chiese ai figli di Ismaele: “Accettate la Toràh?” – “Che cosa vi sta scritto?”. – “Non rubare” (Es 20,15). – “Vorresti forse portarci via la benedizione impartita a nostro padre, cui fu detto: ‘La sua mano sarà contro tutti’ (Gen 16,12)? No, non vogliamo affatto la Toràh”. Così fece con tutti gli altri popoli, i quali parimenti rifiutarono quel dono dicendo: “Non possiamo rinunciare alla legge dei nostri antenati, non vogliamo la tua Toràh, dalla al tuo popolo Israele”. – Per questo Egli – benedetto sia il suo Nome – andò infine dagli Israeliti e disse: “Accettate la Toràh?” – Risposero: “Che cosa contiene?”. – “Seicentotredici precetti”. Quelli risposero a una sola voce: “Tutto quanto il Signore ha detto noi faremo e ubbidiremo”»(1).

Israele prima mette in pratica la Toràh e solo dopo se ne domanda la ragione. La risposta degli Israeliti è disarmante e totale: (ebr.) «‘asher dibèr Adonai nÈhassèh wenishmà’», che la LXX traduce con «Panta hòsa elàlesen Kýrios poiêsomen kài akousòmetha – Tutto quello che il Signore ha detto, faremo e ascolteremo». Prima si fa e poi si ascolta. È importante mettere in evidenza la risposta di Israele che non s’impegna soltanto a eseguire le parole del Signore, ma accoglie la Toràh prima ancora di conoscee «il peso». In questo atteggiamento di Israele vi è l’entusiasmo dei discepoli che sono affascinati dall’avventura e si buttano con tutta la loro generosità senza calcolare le conseguenze che è il comportamento degli innamorati. Solo in questo contesto «personale» si può spiegare il Midrash (Midrash Ct rabba 1,4; Midras Tehilliìm/Salmi a 8,76-77) che narra di Dio che dopo avere dato la Toràh a Israele resta ancora perplesso e chiede un garante supplementare. Israele risponde dando a garanzia i propri figli, cioè il suo futuro che Dio accetta come pegno:

«Fu così che il popolo portò le mogli con gli infanti al petto e quelle gravide i cui corpi l’Eteo rese trasparenti come vetro. Poi Dio si rivolse a tutti i piccoli con queste parole: “Ecco, sto per dare la Toràh ai vostri padri, siete disposti a impegnarvi perché l’osservino?”. Ed essi risposero: “Sì”… I bambini nel ventre risposero a ogni comandamento positivo con “si” e a ogni comandamento negativo con “no”. L’Eteo diede dunque la Toràh a Israele con la fideiussione dei suoi bambini; ecco perché tanti ne muoiono quando il popolo non la osserva»(2).

Dall’esodo al Sinai per giungere a Cana
Da questa prospettiva, scopriamo che l’evangelista Giovanni è intriso di questa storia, quando scrive il suo vangelo. Collocando lo sposalizio di Cana alla fine della prima settimana di attività di Gesù e all’inizio del suo ministero pubblico, automaticamente costringe ogni credente che conosce la Bibbia a leggere nel racconto un chiaro nesso tra Sinai e Genesi e, a maggior ragione ora nel Nuovo Testamento, tra Sinai, Genesi e «Principio» del «Lògos», che si rivela e si manifesta non più su una montagna del deserto, ma nel Vangelo che assume il volto e la figura di Dio stesso. Con questo racconto l’autore ci costringe a fare lo stesso cammino a ritroso che fece il popolo d’Israele quando formò il suo pensiero teologico e lo sistemò in un organico sistema di sintesi della sua fede.
Su questo rapporto tra Genesi-Esodo-Cana, l’esegeta italiano Aristide Serra, che di fatto ha dedicato l’intera sua vita al racconto delle nozze di Cana, espone una complessa ricerca documentata nel suo ultimo volume «Le nozze di Cana» (Edizioni Messaggero di Padova nel 2009), specialmente alle pp. 110-179. Serra esamina i capitoli 19-24 di Esodo, che egli definisce «come il vangelo dell’Antico Testamento», data «l’importanza sicuramente eccezionale» (p. 119), perché attinente alla rivelazione del Sinai, che ha per oggetto l’alleanza del Signore con Israele. Dall’ampia riflessione giudaica su questo evento fondativo, egli si sofferma sulla «articolazione della settimana», che ha per protagonista la consegna della Toràh e che ha attinenza con la settimana della creazione, evidenziando così un valore cosmico anche all’evento del Sinai.
In Gen 1,3-2,3 i giorni della prima settimana in assoluto, quella della creazione, si susseguono in modo monotono e lineare, scanditi dal ritornello: «E fu sera e fu mattino: giorno primo … secondo giorno … terzo giorno … quarto giorno … quinto giorno … sesto giorno (Gen 1,5.8.13.19.23.31). Nel racconto del Sinai invece si ha un ritmo diverso che esaminiamo a partire dal testo di Es 19:

«1Al terzo mese dall’uscita degli Israeliti dalla terra d’Egitto, nello stesso giorno, essi arrivarono al deserto del Sinai…
10 Il Signore disse a Mosè: “Va’ dal popolo e santificalo, oggi e domani: lavino le loro vesti 11e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai, alla vista di tutto il popolo.
16 Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore».

Su questo testo la letteratura giudaica (targumìm e testi rabbinici) fanno lunghe e minuziose dissertazioni, inquadrando la rivelazione del Sinai in schemi  cronologici di sei, di sette e anche di otto giorni (cf A. Serra, Le nozze di Cana, 97-102 che riporta anche una ampia e accurata bibliografia di testi). In base a questi calcoli il ritmo della scansione della settimana sarebbe il seguente. Il terzo mese del calendario ebraico è il mese di Siwàn (che corrisponde a maggio-giugno). A partire dall’inizio di questo mese, come descrive dettagliatamente il Targum dello pseudo Gionata(3), si contano i giorni con la seguente progressione:

1 giorno:    Gli ebrei giungono al deserto del Sinai (TJ I a Es 19,1-2).
2 giorno:    Mosè sale sul monte e scende (TJ I a Es 19,3-8).
3 giorno    Il Signore preannuncia la sua venuta a Mosè (TJ I a Es 19,9).
4 giorno:    Ordine del Signore a Mosè di purificare il popolo «oggi e domani» e di tenersi pronti per il «terzo giorno», il giorno della Teofania (TJ I a Es 19,10-15).
5 giorno:    Corrisponde al «domani» del punto precedente.
6 giorno:    Corrisponde al «terzo giorno» del punto precedente: Dio si rivela, consegna la Toràh a Mosé che fa avvicinare il popolo ai piedi del monte per consegnargli «le dieci parole» (TJ I a Es 19,16-25).

Nel racconto della Genesi, al sesto giorno è creato Àdam e Eva, cioè la prima umanità; al Sinai al «sesto giorno» che, come abbiamo visto, corrisponde al «terzo giorno», è creato Israele che acquista la identità di «sposa» e nelle nozze di Cana «al terzo giorno» Gesù manifesta la sua gloria. È evidente che in questa progressione cronologica il giorno più importante è «il terzo», il giorno in cui Dio manifesta se stesso sia al Sinai che a Cana e questo «terzo giorno» del Sinai-Cana corrisponde al «giorno sesto» della creazione dove la prima coppia prende vita e contempla in assoluto il volto del Dio creatore                       [continua – 16]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (15) Le nozze di Cana, oltre le nozze di Cana

Il racconto delle nozze di Cana (15)

Nelle puntate precedenti, iniziando il commento dell’espressione «E nel terzo giorno» mettemmo in relazione la settimana della creazione di Gen 1 e la settimana che descrive Giovanni 1, elencando i singoli giorni e gli eventi che vi accadono. Abbiamo detto che lo schema dell’una e dell’altra settimana non è cronologico, ma teologico. In altre parole, non bisogna chiedersi «che cosa è avvenuto?», ma «che cosa l’autore vuole insegnare?». La prima domanda esige una risposta puntuale dal punto di vista storico-scientifico; la seconda, invece, attende una risposta di «valore»: qual è il senso di ciò che l’autore scrive e perché scrive in questo modo? Le due settimane, infatti, sono portatrici di un contenuto che va oltre la banalità dell’accaduto cronologico.
Se non entriamo nella prospettiva globale della Scrittura come sfondo, principio e fine di ogni singolo passo, di ogni singola parola, finiremo sempre per leggere la Bibbia a spizzichi, piccoli aneddoti edificanti senza sale e senza senso, buoni solo per occupare un po’ di tempo distratto durante la celebrazione della messa.

Se va male, il celebrante usa quel testo, preso come capita, per imbastire esortazioni morali o invettive contro il mondo che nulla hanno da spartire con il testo e la rivelazione. Il sale perde il suo sapore (cf Lc 14,34-35) e la lucerna diventa opaca (cf Mt 5,15), inutile per illuminare la strada e per dare senso al percorso. Il fuoco bruciante della Parola di Dio ridotto a misero scaldino della nostra ignoranza.

Una Biblioteca per la Parola
La Bibbia non è un libro scientifico in senso tecnico, ma un libro di salvezza, in senso teologico; lo aveva capito bene Galileo Galilei, che all’inquisizione che lo condannava per le sue ipotesi «eretiche» sulla subalteità della terra nei confronti del sole, diceva: «La Bibbia non ci insegna come è fatto il cielo, ma come andare in cielo». È compito della scienza dirci «come è fatto il cielo», mentre è compito della fede che emerge dalla Scrittura, dirci «come andare in cielo». Non bisogna cercare a tutti i costi una sovrapposizione tra scienza e fede perché le due prospettive viaggiano su binari diversi e non necessariamente devono combaciare perché hanno metodi e strumenti d’indagine diversi. È importante che la fede non voglia prevaricare sulla scienza e questa su quella.
Il Concilio Vaticano II, nella costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Verbum, forse il documento più bello tra i sedici conciliari, ci sostiene e rafforza in questa convinzione e in questo metodo perché con la sua autorevolezza magisteriale ci garantisce che è così (sottolineature nostre).

«Poiché… tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre Scritture. Pertanto “tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2Tm 3,16). Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l’interprete della sacra Scrittura, per capire bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi (=autori) abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole. Per ricavare l’intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l’altro anche dei generi letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione. È necessario… che l’interprete ricerchi il senso che l’agiografo in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere e ha di fatto espresso. Per comprendere infatti in maniera esatta ciò che l’autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell’agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei rapporti umani. Perciò, dovendo la sacra Scrittura essere letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede» (Dei Verbum, nn. 11 e 12).

Cinque custodie e una biblioteca
Per capire la lunga citazione del concilio, che con questo testo ha operato una vera rivoluzione negli studi biblici, è necessario fare un passo avanti sul modo con cui noi leggiamo le sacre Scritture. Quando prendiamo in mano una Bibbia, abbiamo davanti un libro che cominciamo a sfogliare dalla prima pagina in avanti. Ben presto ci stanchiamo e lasciamo perdere perché quello che leggiamo ci sembra anacronistico, irreale, fantasioso; ma molto più spesso lasciamo perdere perché non capiamo.
Tutto ciò è inevitabile perché noi pretendiamo di leggere con le nostre categorie mentali di «oggi» un libro scritto con criteri diversi e categorie mentali che si snodano in un arco di 1.600 anni. Vi si trovano autori diversi che scrivono in tempi diversi, con linguaggi diversi e con metodi e generi letterari diversi. Se vogliamo capirci qualcosa, dobbiamo entrare «nel» mondo della Bibbia e abitarlo, imparandone i linguaggi, le trame narrative o poetiche, disceendo i diversi livelli di storicità e le tecniche di trasmissione che l’hanno portata fino a noi.
Quando prendiamo in mano la Bibbia, dobbiamo avere la consapevolezza che di fatto abbiamo davanti non «un libro», ma una intera «biblioteca» composta da 73 libri, di cui 46 dell’Antico Testamento, quasi tutti in ebraico e 27 del Nuovo Testamento, tutti in greco.
Questa «biblioteca» è complessa, con sezioni, scaffali, generi diversi e ogni volume può essere opera di un singolo, ma molto spesso è frutto dell’apporto di tanti autori, di norma anonimi, che bisogna imparare a conoscere nella loro personalità, nei luoghi di vita, nella loro storia e formazione. Per fare questo bisogna interrogare molte scienze: le lingue antiche in cui furono scritti i singoli libri, la letteratura del tempo corrispondente, se esiste, e poi la poesia, la storia, la geografia, l’archeologia, la musica, le usanze proprie non solo dell’autore di ogni libro, ma anche dei popoli vicini.
Bisogna imparare i metodi per tramandare insegnamenti e scritti e tutto ciò che in qualsiasi modo può interessare e aiutare la comprensione di un testo e di un autore. Non basta leggere la Bibbia, bisogna anche sapere «come» leggerla e da dove cominciare.
Chi legge la prima pagina della Genesi, non può limitarsi a ripetere noiosamente: «E fu sera e fu mattino: giorno primo… secondo… sesto», senza sapere che il primo racconto della creazione con cui si apre la Bibbia è quasi la «ouverture» musicale del primo libro che è «la Genesi». Esso contiene tutti i temi del libro e non è affatto noioso, ma ha un andamento liturgico, ieratico.
Su questo racconto viene proiettata la solennità liturgica del tempio di Gerusalemme su cui si misura la creazione. Il creato è il tempio in cui celebra la liturgia della vita nascente a cui le schiere celesti rispondono, come nel tempio, con il ritornello salmodiante «fu sera e fu mattino» e «Dio vide che era cosa buona». Dio è il sommo sacerdote che distende il cielo come la tenda del tempio, raccoglie le acque come quelle del catino per la purificazione, separa gli esseri viventi, come fa il sacerdote con le vittime sacrificali, benedice le creature come il sacerdote fa nel tempio con il popolo partecipante.
Il racconto della creazione è la trasposizione della liturgia del tempio a livello cosmico e universale, esattamente come fa Giovanni che proietta la nascita di Gesù di Nàzaret a livello del «Lògos» eterno che «è presso Dio». Nulla può essere di più stridente se è vera la convinzione di Natanaele: «Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?» (Gv 1,46).
Quanti lettori, a una immediata lettura, sanno che il racconto della creazione di Gen 1 è stato pensato verso il sec. VI a.C. a Babilonia, durante l’esilio, e tramandato per circa un secolo oralmente fino al 444 a.C., quando fu raccolto in un rotolo/libro? Esso è il racconto più recente, che però viene messo «in principio» proprio per la sua natura liturgico-sacerdotale, finalizzata alla difesa della settimana, culminante nel giorno di «shabàt», che è il vero obiettivo della narrazione.
Quanti lettori sanno che, al contrario, il racconto della creazione, riportato nei capitoli 2-3 di Genesi che parlano del serpente, dell’albero, di Adamo e della costola, è invece il racconto più antico, databile al sec. IX-X a.C. e posto in secondo piano perché ha una prospettiva e un andamento diversi dal primo?
Il libro della Genesi contiene dunque due racconti di «creazione», che non hanno un senso storico (nel senso moderno del termine), ma sono una proiezione della storia di Israele a livello cosmico (Gen 1) e a livello universale sul piano dell’umanità (Gen 2-3). Gli Ebrei lo indicano con la prima parola con cui inizia: «Bereshit – In principio»; la Bibbia greca detta Lxx in greco, invece, la indica con il suo contenuto: poiché tratta delle «origini» del mondo, dell’uomo e dei patriarchi, dà al racconto il titolo di «Genesi». Questo volume di 50 capitoli, a sua volta, è messo insieme ad altri 4 rotoli/libri che prendono il nome di «Pentateuco – Cinque custodie» (dal gr. penta – cinque e thêke- – custodia/fodero) cioè cinque libri.

La nuzialità oltre le apparenze
È possibile che i nostri lettori siano impazienti di arrivare alla spiegazione diretta e immediata del testo delle nozze di Cana. La loro impazienza è comprensibile perché sono stati educati a «sentire» pezzi di Bibbia, letti durante la Messa e ai quali non si presta eccessiva importanza, perché considerati «una cosa che bisogna fare», ma che forse si vorrebbe abolire perché «allunga» inutilmente la Messa.
A ciò si deve aggiungere che spesso l’omelia non aiuta, ma aggrava le cose per la sua superficialità e perché il testo biblico viene preso «a pretesto» per una predica morale, travisando così il senso del testo e la mente dell’autore che lo ha scritto. Il popolo cristiano non ha una formazione biblica, anzi ignora la Scrittura, per cui la sua religiosità è spesso acqua tiepida riscaldata che si raffredda al primo soffio di vento.
Un esempio esplicito è il racconto delle nozze di Cana. Il testo integrale è proclamato nella liturgia latina della 2a domenica del tempo ordinario dell’anno liturgico C, cioè la domenica dopo il Battesimo del Signore, che a sua volta segue immediatamente la festa dell’Epifania. La scelta della riforma di Paolo VI non è casuale, ma riprende la tradizione antica orientale, presente ancora oggi nell’Ortodossia, che in un’unica festività (Epifania) celebra quattro manifestazioni o «rivelazioni» di Gesù.
La liturgia latina ha separato i quattro momenti che sono: Natale, Epifania, Battesimo e Cana. In essi si vive una «pedagogia» salvifica e catechetica centrata sul tema dell’incarnazione, che esplode in quello centrale dell’alleanza, espressa con il tema della nuzialità.
Gli antichi, e oggi gli Ortodossi, nella festa della Epifania celebrano: la manifestazione di Gesù agli Ebrei (Natale), ai Pagani (Epifania) e all’umanità intera (Battesimo). La quarta manifestazione (Cana) è la chiave d’interpretazione per capire il senso delle prime tre: Cana non è la consacrazione delle nozze come sacramento, che è un concetto totalmente assente all’autore, ma la «ragione» per cui Dio si è manifestato agli Ebrei, ai Pagani e al mondo: stabilire l’alleanza nuova preannunciata dal Ger 31,31:

«31Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore -, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. 32Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. 33Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore -: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo».

Dire che la presenza di Gesù santifica le nozze di Cana e istituisce il sacramento del matrimonio è una mistificazione del testo, estranea al senso immediato e al contesto del racconto, che invece ha una portata profetica che abbraccia l’Antico e il Nuovo Testamento.
Il profeta Geremia, infatti, parla di «alleanza nuova» che per il secolo VII a. C., ma anche per il tempo di Gesù, è una bestemmia e una eresia perché essa è messa direttamente in contrapposizione con quella antica del Sinai a cui gli Ebrei non furono fedeli. Non solo, ma il Signore dice espressamente: «Scriverò sul loro cuore» questa alleanza. Anche un cieco vi vedrebbe immediatamente un riferimento alla Legge del Sinai, scritta «sulle pietre». Tutti questi temi si trovano nel racconto delle nozze di Cana che, pensato e scritto come commento (midràsh) dell’alleanza del Sinai, porta una novità supplementare, una grande novità: la «nuova alleanza» del profeta Geremia che Gesù «manifesta» non è un’alleanza diversa che sostituisce la prima, ma è quella stessa del Sinai che in Gesù di Nàzaret diventa «nuova ed eterna».
Abituati a «sentire» solo pezzi di Bibbia e solo nella Messa, i cattolici vivono un dramma: non hanno mai una visione d’insieme della Scrittura e nemmeno dei singoli libri o autori. Il loro approccio è occasionale, la loro formazione è episodica e agiografica (raccontini edificanti) e la loro ignoranza diventa, di occasione in occasione, permanente.
Dubitiamo che chi comunemente legge il racconto delle nozze di Cana di Gv 2 metta direttamente il testo in relazione con la settimana che l’autore descrive in Gv 1 e successivamente, attraverso questa, richiami anche la settimana per eccellenza, quella della creazione, che apre la rivelazione scritta in Gen 1, cercando e trovando un nesso logico che diventa visione di salvezza, conoscenza e contemplazione del disegno di amore sponsale che la Scrittura vuole comunicare.
Solo in questa visione d’insieme ci rende conto che lo «sposalizio» è un puro «accidente», cioè un piccolo evento banale di vita quotidiana per dire e dare un grande messaggio che travalica i tempi, all’indietro, per giungere alle origini dell’umanità, passando per il monte Sinai e, in avanti, superando ogni spazio per giungere integro fino a noi per annunciare l’unica salvezza, quella che Dio ha promesso a Israele e che ora nei tempi nuovi, realizza pienamente in Gesù Cristo, lo sposo delle nuove nozze che Dio prepara per la nuova umanità.                   [continua – 15]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (22) «Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli»

Il racconto delle Nozze di Cana (22)

Gv 2,2: «Fu chiamato/invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli»
(Eklêthē de kài ho Iēsoûs kài hoi mathētài autoû eis ton gàmon)»
Parte prima

Il versetto 2 del capitolo 2 di Gv è molto importante dal punto di vista narrativo perché si colloca sul primo livello del racconto e vuole darci una informazione decisiva, molto più importante di quella contenuta nel versetto precedente, che parla di un matrimonio dove «c’era là anche la madre»; capiremo il motivo più avanti. Il vangelo di Giovanni inizia con il grande prologo (Gv 1,1-18) in cui si descrive non la nascita carnale, come fanno i Sinottici (Mt 1-2 e Lc 1-2), ma la «preesistenza» del Lògos, considerato in se stesso, cioè nella sua eternità che però si relativizza nel mondo in cui «il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14). Poi prosegue con l’attività di Giovanni il battezzante che culmina nel battesimo nel Giordano (cf Gv 1,19-34) e prosegue con la presentazione dei discepoli di Giovanni, che sono curiosi di conoscere chi è Gesù fino al punto che alcuni lo frequentano e infine lo seguono (cf Gv 1,35-51).
Prepararsi a un ingresso
Per tutto il capitolo primo del quarto vangelo, Gesù appare nello sfondo, dapprima come invisibile nella condizione di «Lògos» e poi nella storia come figura incerta, non definita: è un assente presente. Tutto il capitolo primo, infatti, è solo una preparazione all’ingresso ufficiale di Gesù che viene a inaugurare la sua attività di rabbi itinerante, portatore di una novità e un senso nuovo. Gesù infatti entra in scena, anzi irrompe nel racconto evangelico in Gv 2,2: «Fu chiamato/invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli». Ecco il primo passo della rivelazione nuova della nuova alleanza che, a sua volta, è ancora preceduto da Gv 2,1, che ci offre due informazioni circostanziali, cioè secondarie, per predisporci più profondamente e intimamente al solenne ingresso di Gesù nella storia della salvezza.
L’autore indugia a lungo, parte da lontano, quasi avesse timore di precipitare gli eventi e rallenta la scena perché vuole mettere in contrasto due presenze e due funzioni: da una parte lo sposalizio e la madre, dall’altra il Figlio con i discepoli. Il greco usa il verbo aoristo indicativo passivo, che in italiano corrisponde al passato remoto passivo: «Fu chiamato/invitato anche Gesù». È la prima notizia importante che l’autore vuole comunicarci dall’inizio del vangelo. Qualcuno potrebbe obiettare che anche in Gv 2,1 c’è un aoristo indicativo medio che in italiano si rende sempre con il passato remoto. Anche qui il verbo dovrebbe indicare la linea principale della narrazione: «Nel terzo giorno uno sposalizio avvenne a Cana di Galilea» (Bibbia-Cei 2008: «vi fu»). L’obiettore avrebbe ragione se non fosse per il fatto che il passato remoto di Gv 2,1 non è a inizio di frase, ma in greco è collocato esattamente dopo «sei» parole e quindi perde il valore di narrativo verbo principale, cioè non si colloca nella linea primaria del racconto che avrebbe mantenuto, se fosse stato collocato all’inizio della frase. La notizia dello sposalizio pertanto è di natura secondaria e si pone sullo stesso piano di quella che descrive la presenza della madre per la quale si usa il verbo all’indicativo imperfetto: «C’era là la madre».  
L’importanza della lingua e delle parole
Dal punto di vista linguistico, il passato remoto «avvenne», posto dopo sei parole e l’imperfetto «c’era» hanno lo stesso valore temporale, perché le due notizie hanno lo scopo di preparare l’esplosione del primo verbo principale assoluto che fa entrare solennemente in scena Gesù come agente principale: «eklêthē de kài ho Iēsoûs – fu chiamato poi anche Gesù»: è questa l’affermazione solenne e principale a cui l’autore vuole arrivare. Tutto il capitolo primo è una preparazione per questo ingresso che è l’inizio formale del Nuovo Testamento. Sia l’informazione che a Cana si stava celebrando uno sposalizio sia quella che lì c’era anche la madre servono a circostanziare, a spiegare, a rendere più chiara e anche contrastante la presenza di Gesù: le due notizie sono cioè a servizio dell’irruzione di una presenza che nessuno poteva immaginare.
Poiché questo è un punto importante per capire il racconto di Cana, facciamo un esempio, forse più evidente, tratto dai primi tre versetti della Genesi con cui si apre la Bibbia. Se prendiamo le traduzioni in italiano noi leggiamo così:

«1In principio Dio creò il cielo e la terra. 2La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. 3Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu» (Gen 1,1-3).
Da questo testo così tradotto, emerge che le informazioni principali sono tre: «Dio creò il cielo e la terra»,  «Dio disse» e «la luce fu»; invece Gen 1,1-2 è solo circostanziale per spiegare le condizioni dell’intervento di Dio perché la vera notizia è «disse Dio». La traduzione ordinaria, anzi banale e letterariamente anche piatta e senza sentimento, travisa il testo ebraico e snatura anche il senso del messaggio teologico, perché l’autore sacerdotale che ci informa sulla creazione, in verità vuole mettere in evidenza e in modo forte e solenne che la creazione avviene attraverso la «Parola» e non con azioni materiali per cui è molto importante che la prima parola narrativa del testo arrivi con Gen 1,3 con l’energico e dirompente: «Disse Dio». Solo in Dio la Parola diventa Fatto e per questo al «disse Dio» corrisponde una esecuzione immediata: «E fu luce». Non è un caso che in ebraico si usa il verbo «’amàr – dire» che nella forma sostantivata «dabàr» significa tanto «detto» quanto «fatto». Per esprimere questa impostazione che solo la linguistica può mettere in evidenza, è necessario, nel rispetto del testo ebraico, tradurre in questo modo:

«1Quando “nel principio del-Dio-creò-il cielo-e-la-terra” 2e la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque, 3disse Dio: “Sia la luce!”. E la luce fu».
Il punto di partenza del racconto è Gen 1,3 e deve essere messo in evidenza perché tutto il resto, cioè le quattro informazioni che formano il contesto dei vv. 1-2, potrebbero non esserci e il racconto filerebbe lo stesso dal punto di vista della narrazione principale.
L’autore del quarto vangelo usa lo stesso sistema: prepara il terreno, narra le circostanze, espone le condizioni, crea il contesto per portarci al momento iniziale che coincide emozionalmente con il primo incontro con la persona del Signore Gesù, sulla cui identità tutto il vangelo si interroga: «Chi è Gesù?». Anticipiamo la risposta: Gesù è lo Sposo dell’alleanza nuova, perché egli giunge a Cana, terra pagana (cf Mt 4,15), per annunciare la nuova alleanza, come Israele giunse nel deserto ai piedi del Sinai per ricevere l’alleanza nelle tavole di pietra. Un grande evento sta avvenendo davanti a noi e noi abbiamo il privilegio di essere protagonisti insieme ai discepoli che sono la sorgente dei nuovi credenti.
Uno schema di linguistica testuale
Se consideriamo il testo greco dal punto di vista della linguistica testuale, cioè della narrazione come l’ha concepita l’autore e delle informazioni che intende darci, ci accorgiamo subito che la presenza della madre è una notizia complementare, secondaria, che serve come informazione di supporto per mettere in evidenza la linea principale del racconto che è scandita dai verbi al passato remoto o dal presente indicativo (spesso usato nel racconto come «presente storico», cioè al posto del passato remoto, come vedremo). Usando però il presente, l’autore rende ciò che comunica immediatamente contemporaneo al lettore che così è più coinvolto anche emotivamente. Se proviamo a sistemare in forma grafica questa struttura teologica, mettendo a sinistra la linea narrativa principale e in rientro, più a destra, le frasi secondarie con un verbo finito, abbiamo il seguente schema:

    1° livello    2° livello    3° livello     
linea principale    linea secondaria    discorso diretto (imperativo)
        «1E nel terzo giorno, quando uno sposalizio             avvenne in Cana della Galilea ed era
        la madre di Gesù là,    
2allora fu chiamato/invitato anche Gesù e i suoi discepoli allo sposalizio.    
Allo stesso modo se usiamo lo schema per l’esempio che abbiamo preso dalla Genesi, vediamo il seguente schema, che è copia perfetta di quella del vangelo:

    1° livello    2° livello    3° livello     
linea principale    linea secondaria    discorso diretto (imperativo)
        «Quando “nel principio del-Dio-creò-il     
        cielo-e-la-terra”, e la terra era informe
        e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso
        e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque,
3disse Dio:         “Sia la luce!”. E fu luce ».    

Se dallo schema di Gv 2,1-2 che abbiamo presentato, togliamo il versetto 1, il senso del racconto scorre pieno perché la notizia che interessa è che Gesù fu invitato. Per capire la portata di questo invito, al lettore si foiscono alcune notizie di corredo che servono ad ambientare l’azione e a metterla in contrasto con le altre due notizie: l’occasione di un matrimonio e la madre di Gesù che era già presente «prima» dell’arrivo di Gesù. Traduciamo il testo come abbiamo fatto per l’esempio della Genesi, al fine di fae capire i problemi di linguistica che ci permettono di cogliee il senso profondo:

«Nel terzo giorno, mentre a Cana di Galilea si celebrava uno sposalizio e c’era la madre sua, fu invitato alle nozze anche Gesù insieme ai suoi discepoli».
Discepoli, non apostoli
Tutti comprendono subito che l’intento dell’autore è mettere in contrasto e stridore le nozze già in corso e la presenza della madre da una parte con l’arrivo e la presenza di Gesù con i suoi discepoli dall’altra. Per la prima volta infatti, dal vangelo di Giovanni, veniamo a sapere che Gesù ha alcuni discepoli perché nel capitolo precedente non è detto da nessuna parte, mentre sappiamo che alcuni discepoli di Giovanni il battezzante vanno da Gesù e s’interessano alla sua vita (cf Gv 1,35-51). È interessante questa osservazione perché l’autore parla di «discepoli – mathētài» e non di «apostoli – apòstoloi», termine che per altro Gv nel vangelo non usa mai tranne una volta (cf Gv 13,16), a differenza degli altri Sinottici, specialmente Luca per il quale invece è un termine abituale (cf Lc 6,13; 9,10; 11,49; 17,5; 22,14; 24,10).
Il vocabolo «discepolo» in tutto il NT ricorre almeno 266 volte di cui 77 volte solo nel vangelo di Giovanni, cioè quasi un terzo. L’uso di questo termine è una spia che l’evangelista si colloca sul versante della storia, perché intende raccontarci non una riflessione, ma un «fatto», perché il termine «apostolo» è di uso postpasquale, mentre il discepolo è una realtà storica molto diffusa al tempo di Gesù, che pullulava di rabbi seguiti da discepoli: il termine «apostolo» pertanto appartiene alla funzione del dopo pasqua che i discepoli riceveranno dal Cristo risorto (cf Brown, Giovanni, 127).
In questo modo è evidente che il personaggio principale è Gesù e che entra per la prima volta in scena con la solennità quasi di un ingresso trionfale. La frase infatti mette bene in evidenza che sposalizio e madre sono momenti di contorno alla figura centrale di Gesù e, come vedremo fra poco, diventa il peo attorno a cui tutto ruota. È questo il punto centrale del racconto: come il Lògos ha fatto irruzione nella Storia, diventando «carne» cioè fragilità e debolezza, così ora Gesù di Nàzaret entra nella storia di Israele alla guida di un popolo rinnovato, simboleggiato dai «discepoli». In questo modo l’autore mette in evidenza per contrasto un altro fatto: la madre era già «nello» sposalizio che appartiene al tempo dell’AT.
L’arrivo di Gesù è uno spartiacque tra un «prima» e un «dopo». Ciò che è «prima» era una preparazione, perché quello che accade «dopo», cioè adesso, è una novità che dà inizio a una svolta irreversibile. La madre vive e agisce «dentro» le antiche nozze perché appartiene all’alleanza sinaitica, simbolo ed emblema di Gerusalemme, «vedova» dello sposo. Nel racconto non si fa alcun accenno a Giuseppe che probabilmente era già morto, per cui la madre è «veramente vedova», senza sposo, in attesa della redenzione del suo popolo.
Gesù è il Messia che entra nelle nozze del popolo d’Israele, le nozze dell’alleanza del Sinai che sono state tradite innumerevoli volte. Egli non appartiene a queste nozze perché «è chiamato/invitato», è solo un ospite che non viene dal passato, ma giunge dal futuro, insieme ai suoi discepoli che assumono la simbologia del nuovo popolo nuziale che si prefigura nei Gentili che lo accoglieranno, a differenza dei «suoi» che lo rifiuteranno (cf Gv 1,11), mentre Gesù viene a portare «una nuova ed eterna alleanza» (Ger 31,31) che non avrà mai fine. La madre rappresenta la sposa/popolo che ha finito il vino del patto e della speranza, vedova e con i figli lontani dal cuore della Toràh, anche se pieni di precetti e di osservanze e rituali. Gesù invece viene da un «altro mondo», il mondo del Padre che lo ha «mandato alle pecore perdute della casa di Israele» (Mt 15,24).
Bisogna stare attenti quando leggiamo la Scrittura perché in essa anche «uno iota» ha 70 significati che non devono essere lasciati cadere nella banalità o peggio nel vuoto (cf Mt 5,18). Per questo è necessario prestare attenzione anche alla collocazione delle singole parole del testo se vogliamo cogliere l’intenzione dell’autore. Quanto abbiamo espresso nello schema non è un capriccio, ma è provato da altri elementi che lo stesso autore ci suggerisce, perché per introdurre Gesù nella scena della storia della nuova alleanza non usa un verbo qualsiasi, ma lo prende in prestito dalla Bibbia greca della LXX, quando presenta Mosè che «il Signore chiamò/convocò» sul monte Sinai e che abbiamo già illustrato nella 7a puntata (MC 9/2009, p. 21) e che riprenderemo in parte per comodità.

Paolo Farinella
 (22 – continua)

Paolo Farinella




Cana (11) Un protagonista delle nozze: il vino dell’abbondanza

Il racconto delle nozze di Cana (11)

«La terra darà i suoi frutti diecimila volte tanto e in una vite saranno mille tralci e un tralcio farà mille grappoli e un grappolo farà mille acini e un acino farà un kor [1] di vino (2Baruc XXIX,3-5).
Quando Giacobbe, il patriarca padre dei dodici figli che daranno vita alle dodici tribù di Israele sta per morire, benedice Giuda con queste parole:
«Egli lega alla vite il suo asinello e a una vite scelta il figlio della sua asina, lava nel vino la sua veste e nel sangue dell’uva il suo manto; scuri ha gli occhi più del vino e bianchi i denti più del latte» (Genesi 49, 11-12).
è l’unico testo in tutta la Toràh che accenna espressamente al re Messia:
«Il targum Onqelos [dal 60 a. C. al sec. II d. C.] applica questo versetto al re Messia. La vite simboleggia Israele. Il termine il suo asinello è interpretato come “la sua città” cioè Gerusalemme. La vite è Israele di cui sta scritto: Io ti avevo piantato come vigna pregiata [Ger 2,21]. L’espressione figlio della sua asina è interpretata come: “Essi edificheranno il suo santuario”, dove il termine asina (’aton) è riferito per significato al termine “ingresso” (’iton) del tempio, che ricorre nel profeta Ezechiele (cf Ez 40,15). Il targum presenta ancora un’altra interpretazione. La vite sono i giusti. Il suo asinello sono “coloro che si occupano dello studio della Toràh”, in riferimento al testo: Voi che cavalcate asine bianche [Gdc 5,10]. L’espressione lava nel vino la sua veste significa “la sua veste sarà di porpora preziosa”, il cui colore è come quello del vino» (cf Rashì, Genesi 409-410).
Un asino, una vite, il Messia
In Is 49,12 si conclude che gli occhi sono iniettati di vino (sangue di vite): «Scuri ha gli occhi più del vino e bianchi i denti più del latte». Avere gli occhi scuri, cioè rossi di vino, nel contesto, significa essere talmente pieni dalla Toràh da essee sommersi fino agli occhi: come un recipiente pieno che straborda. In Es 20,18 si dice che il popolo vedeva i suoni con cui Dio si rivelava la montagna del Sinai. Ascoltare e vedere sono quindi sinonimi. Non basta ascoltarla con gli orecchi perché la Toràh deve anche «uscire» dagli occhi, deve riempirli, perché essa fa vedere il Signore. Occhi iniettati di vino è dunque sinonimo di conoscenza profonda della Parola del Signore. Chi vede la Toràh che ascolta ha compreso la rivelazione del Sinai.
Il tempo del Messia, prefigurato dal targum sul testo di Gen 49,10-12, sarà segnato da un’abbondanza strepitosa di vino e latte. La terra di Giuda, notoriamente abbastanza arida diventerà florida e irrigata dal vino e dal latte: una terra dove scorre «latte e miele» (Es 3,8.17, ecc.). Poiché i due versetti si riferiscono direttamente al Messia, il vino è un’allusione all’assemblea di Israele che riceve la Toràh, mentre l’asinello e il figlio d’asina sono un’allusione al Messia: «Chi vede (in sogno) un vitigno scelto, aspetti il Messia, secondo quanto fu detto: “Egli lega alla vite il suo asino ed a vitigno scelto il figlio della sua asina”» (Talmud, trattato Berakòt/Benedizioni, 57a). Gesù nel suo ingresso a Gerusalemme per andare all’appuntamento con la sua morte si presenta come il Messia della discendenza di Davide che viene a dorso non di un cavallo, simbolo di guerra e di violenza, ma di un asino, strumento di lavoro e di lavoro pesante: «Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come stà scritto: Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto su un puledro di asina» (Gv 12,14-15; cf Zc 9,9-10). Il Messia che viene a dorso di un asino è colui che porta l’unità nel popolo di Dio, ma porta anche la Toràh al compimento pieno, cioè a comprensione universale.
Il giogo della Toràh
Nella stessa benedizione di Giacobbe in Gen 49,14-15 la tribù di Ìssacar è paragonata ad un «asino robusto … ha piegato il dorso a portare la soma». Secondo la tradizione ebraica Ìssacar è la tribù che si dedica interamente allo studio della Toràh: «Egli porta su di sé il giogo della Toràh, come un asino robusto che è caricato di un fardello pesante [cf anche Midràsh Genesì Rabbà XCXC, 10] (Rashì, Genesi 411). Il vino è l’abbondanza della Toràh, mentre l’asino è colui che porta il peso della Toràh. L’asino nel giudaismo è simbolo dello studio della Toràh per la sua costanza (cocciutaggine) e fedeltà a sopportare ogni peso (e lo studio è un peso notevole). A questi testi si ispira anche Gesù quando invita i suoi ascoltatori ad imitarlo: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore … il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,29-30), come lui stesso darà l’esempio quando si carica non più del leggero peso della Parola, ma del giogo della croce che in questo contesto assume il valore di un nuovo monte Sinai da cui non scende più una Toràh scritta sulle fredde tavole di pietra, ma la persona stessa di Dio, nell’uomo e Figlio di Dio, Gesù: «Ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio … dove lo crocifissero» (Gv 19,16-18). Da questo momento non è più il vino il simbolo della nuova Toràh, ma lo Spirito del risorto che egli consegna nel momento stesso in cui si affida al Padre suo e alla sua volontà di salvezza: «E, chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30).
Inondazione di vino
In Gen 49,11 (v. sopra) l’abbondanza del vino è così grande che vi sarà bisogno di un asino per ogni vite tanto il raccolto sarà abbondante. Scrive l’apocrifo Apocalisse greca di Baruc (o 2Baruc), databile sec. I d. C.:
«La terra darà i suoi frutti diecimila volte tanto e in una vite saranno mille tralci e un tralcio farà mille grappoli e un grappolo farà mille acini e un acino farà un kor di vino. E coloro che avevano avuto fame saranno deliziati e, ancora, vedranno meraviglie ogni giorno. Venti. Infatti, usciranno da davanti a me per portare ogni mattina odore di frutti profumati e, al compimento del giorno, nubi stillanti rugiada di guarigione. E accadrà in quel tempo: scenderà nuovamente dall’alto il deposito della manna e in quegli anni ne mangeranno perché loro sono quelli che sono giunti al compimento del tempo. E accadrà dopo ciò: quando il tempo della venuta dell’Unto sarà pieno ed egli toerà nella gloria, allora tutti coloro che si erano addormentati nella speranza di lui risorgeranno. E accadrà in quel tempo: saranno aperti i depositi nei quali era custodito il numero delle anime dei giusti ed esse usciranno e la moltitudine delle anime sarà vista insieme, in un’unica assemblea di un’unica intelligenza, e le prime giorniranno e le ultime non si dorranno. Sapranno infatti che è giunto il tempo di cui è detto: è il compimento dei tempi. Le anime degli empi, invece, quando vedranno tutte queste cose, allora soprattutto si scioglieranno. Sapranno infatti che è giunto il loro supplizio ed è venuta la loro perdizione» (2Baruc XXIX,3.5-8-XXX,1-5; testo in P. Sacchi (a cura di), Apocrifi dell’Antico Testamento, I, Milano, TEA 1990, 302-203).
Lo stesso concetto è espresso dai Padri per i quali il tempo messianico sarà caratterizzato dall’immagine delle «viti che avranno ciascuna diecimila ceppi e su ogni ceppo diecimila rami e su ogni ramo diecimila tralci e su ogni tralcio diecimila grappoli e su ogni grappolo diecimila acini e ogni acino, schiacciato, darà venticinque metrète [2] di vino» (Ireneo, Contro le Eresie, 5,33,3). Un altro apocrifo del sec. II a.C., il libro di Enoch, anch’esso del genere delle apocalissi, prefigura l’era messianica come un tempo di abbondanza strepitosa che descrive come una inondazione di vino:
«E in quei giorni … si pianterà su di essa [la terra] ogni sorta di alberi piacevoli; vi si coltiveranno delle vigne, e la vigna che vi sarà piantata darà vino a sazietà; e ciascun chicco seminato in essa produrrà mille misure ciascuno, e una misura d’olivo produrrà dieci pressoi d’olio» (Enoch 10,18-19).
Il vino del riscatto
Il tema vino/vigna ha una valenza fortemente messianico-escatologico (Is 55,1; Jer 2,24; Am 9,13-15; Zc 9,17) perché la venuta del Messia è vista come una festa nuziale dove il vino abbonda in misura straripante: il profeta Amos avverte che «i monti stilleranno il vino nuovo e le colline si scioglieranno» (Am 9,13), mentre Isaia parla del tempo del Messia come di un sontuoso banchetto senza eguali, dove non mancherà certamente il vino (Is 25,6-8; cf 55,1). I monti e le colline sono una allegoria per indicare i Patriarchi e le Matriarche come leggiamo nel targum Neofiti a Dt 33,15: «[La terra] che produce buoni frutti per i meriti dei nostri padri, che somigliano ai monti, Abramo, Isacco e Giacobbe e per i meriti delle madri, che somigliano alle colline, Sara, Rebecca, Rachele e Lia». L’abbondanza del vino nell’era messianica sarà il riscatto di tutta la storia d’Israele perché alla gioia della nuova alleanza parteciperanno anche i Patriarchi e le Matriarche, cioè tutto il popolo di ieri, di oggi e anche di domani, come ci garantisce anche il targum Onqelos a Gen 29,12: «I suoi monti diventeranno rosseggianti per le sue vigne, i suoi colli distilleranno vino» (cf anche gli altri targumìm: Jerushalmì I e II e Neòphiti allo stesso versetto).
Si avrà un’abbondanza tale di vino che si offrirà gratuitamente a quanti lo vorranno: «O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte» (Is 55,1). Emerge chiaro che il vino è sempre la Toràh, la Parola di Dio per cui all’epoca del Messia l’abbondanza del vino significa l’abbondanza della Parola che non avrà più bisogno di scuole particolari perché tutti la insegneranno a tutti: «poiché da Sion uscirà la Legge e da Gerusalemme la parola del Signore» (Is 2,1-5). Giovanni esprimerà questo esito con il solenne ingresso del «Lògos» che «era dal principio» ed irrompe nella storia (cf Gv 1,1.14). Israele è simboleggiato dalla vite che Dio ha divelto dall’Egitto e trapiantato nella terra promessa (Sal 80/79,9) e per questo egli legherà i tralci, cioè tutte le componenti d’Israele tra di loro, ma legherà anche se stesso al popolo d’Israele. Il Re Messia non solo unirà le diverse anime del popolo in unico sentimento, ma sarà anche l’esegeta della Toràh che così sarà compresa e capita da tutti i popoli che formeranno la nuova umanità messianica (cf Gv 1,18). è l’era che chiude definitivamente la carestia di Am 8,11-12.
Nel segno di un sorriso
Il vino sarà così abbondante da sostituire anche l’acqua: il versetto «lava nel vino la sua veste e nel sangue dell’uva il suo manto» richiama anche il sangue del sacrificio dell’Agnello che lava le vesti di coloro che vengono dalla tribolazione: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (Ap 7,14). è un sangue che rende candida la propria identità e la propria adesione alla risurrezione di Gesù, passando attraverso la morte. Anche la comunità di Qumran prepara il banchetto per i giorni del Messia, cioè per gli ultimi giorni e si mangerà pane e mosto che saranno bevande esclusive di questo banchetto escatologico (cf 1QSa II,11-12). Allo stesso modo anche la Pasqua ebraica che anticipa quella della fine dei tempi è impeiata su quattro coppe di vino, sintesi della storia della salvezza (1a coppa: la creazione; 2a coppa: l’elezione d’Israele in Abramo; 3a coppa: l’esodo [è la coppa che Gesù prende nella sua ultima cena in Ma 14,25; Mt 26,29; Lc 22,18] e infine la 4a coppa con cui si conclude il canto dell’Halle (Sal 113/112-118/117) che altro non è se non l’eco dei cinque temi della Rivelazione: l’uscita dell’Egitto; la divisione del Mar Rosso; il dono della Toràh; la risurrezione dei morti; le tribolazioni del Messia (cf Serra, Contributi 248).
Una caratteristica del tempo messianico sarà il «sorriso» qui indicato con il bianco dei denti a motivo del molto latte bevuto. Il talmud babilonese spiega l’espressione della benedizione di Giacobbe a Giuda: «Denti bianchi da latte. Ha detto Rabbì Jeudà: È migliore colui che rende bianchi i propri denti al proprio compagno rispetto a colui che gli dà da bere del latte» (Ketubot 111b). Rendere bianchi i propri denti al compagno è espressione tipicamente orientale per dire «sorridere», cioè mostrare i denti bianchi. è più importante nella vita un sorriso che nutrirlo. Il sorriso, l’accoglienza, la disponibilità sono superiori a dare da mangiare, cioè dare cose materiali.
Questa attitudine di chi crede in Dio è bene espressa nella Mishnàh, trattato Pirqè Avot /Massime dei Padri I,15 in cui a nome di Shammài s’insegna: «Fa del tuo studio un’occupazione abituale; parla poco, ma fa molto [= fai pochi voti, ma pratica molto la carità] e accogli ogni persona con volto sereno». Quando una persona accoglie un’altra persona con un sorriso, è segno che il Messia è già arrivato.
La vite dello Sposo che è Cristo
Anche il Ct si proietta in un contesto messianico quando la sposa conduce lo sposo nella casa della madre: «Ti condurrò e ti farò entrare nella casa di mia madre e tu mi insegnerai: ti darò a bere del vino aromatico, del succo del mio melograno» che il targum commenta: «Io ti condurrò, o Re Messia, e ti farò entrare nel mio Tempio; e tu m’insegnerai a temere il Signore e a camminare nelle sue vie. Là ci nutriremo … e berremo il vino vecchio tenuto in serbo nei suoi grappoli fin dal giorno che fu creato il mondo». Il vino è creato da Dio nei giorni della creazione e conservato per il grande giorno del Messia (cf Talmud di Babilonia Berakot 34b = BSanhedrin 99a; Jlqut Chimoni a Gen 2,8). In Gv 2,10 l’arcitriclino rimprovera lo sposo con parole identiche: «Tu hai tenuto in serbo il vino buono fino ad ora».
L’apocrifo dell’AT, Apocalisse di Baruc (sec. II d.C.) presenta la vigna come «l’albero che sedusse Adamo» e che Dio maledisse, strappando la vite e annegandola nel diluvio universale. Noè però dopo il diluvio, piantò tutte le piante che trovò, compresa la vite, ma prima di piantarla memore della rovina del patriarca Adamo chiese a Dio consiglio. Dio gli suggerì di piantarla:
«Levati, Mosè, pianta la vite, poiché così dice il Signore: l’amarezza in essa verrà mutata in dolcezza, e la maledizione che è in essa diverrà benedizione; e quanto verrà tratto da lei, diverrà il sangue di Dio; e come attraverso di lei l’umanità ha attirato la dannazione, così essi attraverso Gesù Cristo, l’Emmanuele, riceveranno con essa la loro chiamata verso l’alto e il loro ingresso nel paradiso» (2Baruc 4,15).
Per rivelare al faraone la Presenza del Dio liberatore, Mosè cambia l’acqua del Nilo in sangue (Es 4,9; cfr 7,14-25), ora nel NT, il nuovo Mosè cambia l’acqua di Cana in vino, prefigura del suo sangue che sarà versato sulla croce per lavare i figli dell’antica e della nuova alleanza. L’autore del racconto non ci spiega espressamente qual è il senso del racconto, ma ci obbliga a non fermarci alla superficie e a pescare nel pozzo profondo della Parola. Una cosa però è chiara: A Cana Gesù «manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cedettero in lui» (Gv 2,11). Il senso finale del simbolismo del vino è la Parola/Lògos/Dabàr che rivela il Cristo, cioè il suo vangelo, la sua Persona come splendidamente sintetizza Sant’Agostino:
«… di quelle nozze nelle quali lo sposo è Cristo … Lo sposo delle nozze di Cana, infatti, cui fu detto: Hai conservato il buon vino fino ad ora, rappresentava la persona del Signore. Cristo, infatti, aveva conservato fino a quel momento il buon vino, cioè il suo Vangelo» (Omelia 9,2 (PL 35, 1459).
Il vino del Vangelo
Il primo segno che Gesù opera nel vangelo di Giovanni è l’abbondanza del vino e il vino è il simbolo della sua Parola rivelatrice che lo pone così sullo stesso piano del Dio del Sinai, di cui le nozze di Cana sono ripresa e rinnovamento. Come al Sinai, Dio rivelò se stesso «nel terzo giorno», così ora anche Gesù rivela se stesso «nel terzo giorno»: al Sinai Israele ricevette la Toràh, a Cana l’umanità riceve il vino bello della sua Gloria. Ora sì, possiamo anche comprendere perché Gesù dice di se stesso: «Io-Sono la vite vera» (Gv 15,1) perché con lui si riapre il tempo dell’alleanza e il vino della parola scorre abbondante e senza misura «in Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra» (At 1,8) perché ora l’umanità nuova, invitata a Cana può accostarsi al cuore di Dio per «vedere» la parola e gustare il vino nuovo banchetto finale:
«Prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per tutti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui non lo berrò di nuovo, nel regno di Dio» (Mc 14,23-25).
Il senso generale del racconto ci apre prospettive straordinarie per la fede e la testimonianza: non si tratta di un matrimonio quanto della nuova alleanza che inaugura i tempi nuovi nell’umanità di Cristo come ripresa e compimento dell’alleanza del Sinai che ora è restaurata e compiuta: la nuova umanità, noi siamo tutti invitati alle nozze di Dio con il suo popolo che ora raccoglie tutti i popoli. Il banchetto eucaristico che celebriamo nella storia è la nostra Cana dove il vino è mutato in sangue e la parola diventa il pane del corpo del Signore, i segni nuovi che ci abilitano ad andare nel mondo ed essere anche noi segni visibili di nuzialità e di gioia. Se il vino del Sinai è la Toràh e quello di Cana è la Parola, il vino per noi è il Vangelo, cioè Gesù il Cristo, la rivelazione del Padre, in forza della testimonianza di Marco: «Principio del Vangelo, cioè Gesù, cioè il Cristo, cioè il Figlio di Dio» (Mc 1,1). [continua – 11]

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (10) UN PROTAGONISTA DELLE NOZZE: IL VINO DEL MESSIA

Il racconto delle nozze di Cana (10)

«E disse: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti. In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio”» (Mc 14,24-25).
Prima di cominciare il commento del racconto di Cana versetto dopo versetto, dobbiamo incontrare e conoscere, in questa e nella prossima puntata, un protagonista indiscusso dello sposalizio di Cana che è il Vino: all’inizio della narrazione manca ed è motivo di preoccupazione e alla fine abbonda e migliora. In tutto il racconto il vino è citato 5 volte (Gv 2,3[2x].9.10 [2x], mentre, come abbiamo detto a più riprese, la sposa è nominata neppure una volta e lo sposo una volta appena, alla fine del racconto (Gv 2,9) e solo per ricevere il rimprovero del responsabile delle nozze. Tutti questi elementi sottolineano insieme che il vero protagonista dello sposalizio di Cana è lui, il Vino, che assume un ruolo determinante perché in esso si cela una concentrazione straordinaria di significati che dovremo trovare.
Un vino per tutti i popoli
La Bibbia attribuisce a Noè la piantagione della prima vigna da cui ricava il vino, fonte di allegria e di gioia (cf Gen 9,20-21). Il vino è anche una droga al centro di un incesto tra due figlie e il loro padre, Lot, che ubriacano per avere da lui una discendenza per paura di estinguersi (cf Gen 19,30-38). La Palestina, come in tutto il Medio Oriente, è un paese agricolo mediterraneo e l’uva e il vino non solo sono familiari, ma formano parte importante del nutrimento ordinario, se è vero che la terra promessa è descritta come un paese «dove scorre latte e miele» (Es 3,8.17; 13,5, ecc.) e dove abbonda il vino, segno di fertilità, di abbondanza e di gioia (cf Gen 49,11; Dt 33,28). Quando gli Ebrei arrivano ai confini di quella che da terra promessa diventerà il loro paese, Mosè manda alcuni esploratori in ricognizione ed essi ritornano con un grappolo d’uva, colto nelle vicinanze di Ebron, che portano in due (cf Nm 13,23).
Non meraviglia quindi che tanto nella letteratura che nella Scrittura il vino assuma anche un simbolismo molto forte1. Il vino nella tradizione biblica è sinonimo di gioia e di festa come si legge nel Cantico dei Cantici che tutta la tradizione giudaico-cristiana interpreta allegoricamente come il canto dell’alleanza nuziale tra Yhwh e il suo popolo. Qui troviamo anche il nesso tra il vino e le nozze perché non vi può essere allegria senza il vino che diventa anche la misura della tenerezza sponsale: «Sì, migliore del vino è il tuo amore» (Ct 1,2). In ebraico «vino» si dice «yayìn», le cui consonanti (y_y_n) corrispondono al numero 70 (10+10+50), cioè le settanta nazioni che popolano la terra, secondo la convinzione, ancora attuale al tempo di Gesù.
Il Targum mette in relazione «amore» e «vino» contrapponendoli perché il primo simboleggia Israele che Dio ama più di tutte le nazioni, simboleggiate nel secondo: «Per la grandezza del suo amore, con cui ama noi [= Israele] più che le settanta nazioni» (cf Targum a Ct 1,2) a cui fa eco il midràsh: «Il tuo amore è migliore» è Israele; «più del vino» sono le nazioni del mondo; sono le settanta nazioni del mondo. Così ti insegna che Israele è caro al Santo – benedetto Egli sia – più di tutte le nazioni» (Cantico Rabbà, I,19). Nelle nozze di Cana, donando un vino abbondante e migliore del vino precedente, Gesù offre al mondo intero una rivelazione universale per radunare tutti i popoli sotto il segno della manifestazione della «Gloria». Il vino di Cana estende ai popoli senza alcuna riserva l’alleanza del Sinai che prefigura quella che avverrà nel vino/sangue versato sulla croce: «Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34).
Il Sinai, cantina e scuola della Toràh
Nel Cantico dei Cantici il vino è citato 8 volte e sempre in un contesto erotico-amoroso che trasporta la sposa-Israele verso lo Sposo-Dio (Ct 1,2.4; 2,4; 4,10; 5,1; 7,3.10; 8,2): «Mi ha introdotto nella cella del vino e il suo vessillo su di me è amore» (Ct 2,4). La tradizione rabbinica considera il monte Sinai come la cantina, la «casa del vino» per eccellenza dove fin dalla creazione del mondo Dio ha conservato per Israele il vino buono della Toràh, come spiega dettagliatamente il midràsh:
«“Mi condusse alla casa del vino”: è il Sinai, dove è stata data la Toràh, che è paragonata al vino: “Bevete il vino che io ho preparato” [Pr 9,5]» (Midràsh Numeri Rabbà II, 3).
«Disse l’Assemblea d’Israele: Il Santo – benedetto Egli sia – mi ha condotto alla grande cantina del vino, cioè al Sinai e là mi ha dato gli ordinamenti della Legge e i precetti e le opere buone, e con grande amore li accolsi» (Midràsh Cantico Rabbà II,12).
Per questo il monte Sinai è anche una scuola dove si beve il vino della Parola: «Mosè passò quaranta giorni sul monte: e stava seduto davanti al Santo – benedetto Egli sia – come un discepolo sta seduto davanti al suo maestro» (Midràsh Pirqè/Massime di R. Eliezer XLVI; cf A. Serra, Contributi, 237-238). Al tempo di Gesù, il Targum, cioè la traduzione aramaica della Bibbia ebraica che si faceva in sinagoga per fare capire la Parola nella lingua del popolo, così commentava Ct 2,4 sopra citato:
«L’Assemblea d’Israele disse: Il Signore mi fece salire alla casa di studio della scuola del Sinai perché imparassi la Toràh dalla bocca di Mosè, il grande scriba. E l’ordinamento dei suoi precetti accolsi su di me con amore, e dissi: tutto quello che il Signore ha ordinato lo farò, e obbedirò» (Targum a Ct 2,4).
Al Targum fa eco anche il Midràsh di Cantico Rabbà 2,4,1 (150 ca. a.C.) che dice: «…R. Abba insegnava nel nome di R. Isaac. Disse l’Assemblea di Israele: “Il Santo – benedetto Egli sia – mi introdusse nella grande cantina del vino, il Sinai. E lì mi diede la Toràh che è spiegata da 49 motivi per dichiarare puro e 49 per dichiarare impuro, perché il valore numerico di “vessillo” è appunto 49». In ebraico infatti ad ogni consonante corrisponde un numero (i numeri furono inventati dagli Arabi nel sec. VIII d. C.: prima si usavano le consonanti dell’alfabeto) e in Ct 2,4 la parola «vessillo», in ebraico «wedighelò», è formata dalle consonanti «w_d_g_l_w» la cui somma numerica fa appunto 49. Il vino della Toràh è conservato da Dio ancora prima della creazione del mondo in vista della rivelazione del Sinai e dell’alleanza. Su questo punto la tradizione rabbinica è costante. Nel libro dei Proverbi, infatti, «Donna Sapienza» parla della sua «preesistenza» accanto al creatore:
«22 Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. 23 Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. 24 Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; 25 prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, 26 quando ancora non aveva fatto la terra e i campi, né le prime zolle del mondo. 27 Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, 28 quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, 29 quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, 30 io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, 31 giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo» (Pr 8,22-31).
La Mishnà si collega a questa tradizione perché tra le «dieci cose» create prima della creazione del mondo, elenca anche «la scrittura», cioè le lettere dell’alfabeto e «le Tavole della Toràh» che con quelle furono scritte. In altre parole: il vino delizioso della Toràh non è una creatura di Dio, ma è parte di Dio stesso, prima ancora che la creazione avesse inizio:
«Dieci cose furono create al crepuscolo del primo Sabato: l’apertura della terra, la bocca del pozzo, la bocca dell’asina, l’arcobaleno, la manna, la verga [di Mosè], lo shamìr, le lettere dell’alfabeto, la scrittura e le Tavole della Legge. C’è chi dice: anche gli spiriti maligni e la tomba di Mosè nostro maestro, l’ariete di Abramo nostro patriarca e c’è chi dice anche la tenaglia fatta con tenaglia» (Pirqè Avot – Massime dei Padri V, 6; cf Talmud babilonese Pesachìm/Pasque 54a; Midràsh Genesi Rabbà 1,4; Midràsh Levitico Rabbà 19,1).
Secondo il Midràsh Genesi Rabbà 1,1, la Toràh servì a Dio come «modello» per la creazione del mondo, come a dire che Dio guardava la Toràh e creava le cose. Lo stesso concetto si trova in Paolo il quale descrive Cristo come «primogenito di tutta la creazione perché in lui furono create tutte le cose … Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono» (Col 1,15-17; cf Ef 1,4;) e si trova pure in Pietro che presenta Cristo come «agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi» (1Pt 1,19-20). A questa tradizione sulla Toràh preesistente si riferisce Gesù quando prega dal Padre la «gloria», cioè la sua identità di Dio: «E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse … poiché mi hai amato prima della creazione del mondo» (Gv 17,5.24).
Il vino, la manna e il pane della Parola
Questi testi e questa tradizione sulla «preesistenza», conosciuti da Gesù e dagli apostoli, alla luce del simbolismo del vino che rappresenta la Toràh, ci dicono che l’alleanza del Sinai non è un avvenimento secondario, perché in essa si compie una attesa che era un desiderio e un progetto di Dio, ancora prima che il cosmo esistesse. La Parola di Dio (o «Donna Sapienza» secondo il libro dei Proverbi), infatti, è eterna come il pensiero stesso di Dio e il Sinai è il punto di arrivo del disegno di amore di Dio, quel disegno che Giovanni chiama «Lògos/Dabàr» (Gv 1,1) della cui «gloria manifestata» il racconto dello sposalizio di Cana fa da sfondo e da contesto al cuore della rivelazione: l’incarnazione del Lògos: «E il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14), la cui preesistenza è contenuta anche nel targum che traduceva il libro dell’esodo. Riportiamo in parallelo sinottico il testo dell’Esodo e il testo del Targum che veniva proclamato nella sinagoga per fare vedere come le idee e i pensieri detti da Gesù e riportati dal vangelo fossero materia di formazione comune:
Nel Targum «il pane che è conservato» è il pane dei comandamenti e quindi dell’alleanza cioè il pane della parola di Dio che nella e con la Toràh nutre e vivifica il popolo santo. Da ciò possiamo dedurre che il Giudaismo del sec. I fosse in attesa del tempo del Messia come un tempo in cui Dio avrebbe rinnovato anche il miracolo della manna (2Bar 29,8; Or Sib 7,148-149; Rut R. 2,14) e che l’evangelista Giovanni descrive nel mirabile capitolo 6 del suo vangelo. Il pane/manna non è un cibo per sfamare la fame, ma principalmente il cibo che nutre l’obbedienza ai comandamenti del Padre. Gesù mette al centro del suo vangelo il comandamento dell’amore, riducendo ad esso i 613 precetti della tradizione giudaica (cf Gv 12,50; 13,34; 14,15.21; 15,10.12; 1Gv 1,2.3; 2,7; 3,23; 5,2-3; cf 2Gv 5-7). Infine, la manna è la Parola di Dio che si incarna nei comandamenti che nutrono chi li vive, come insegna anche la Sapienza:
«Hai sfamato il tuo popolo con il cibo degli angeli (Lxx: anghèlōn trophên), dal cielo hai offerto loro un pane pronto senza fatica, capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto … perché i tuoi figli, che hai amato, o Signore, imparassero che non le diverse specie di frutti nutrono l’uomo, ma la tua parola tiene in vita coloro che credono in te» (Sap 16,20-21.26).
Il pane degli angeli diventa il nutrimento dei figli di Dio che sono custoditi e conservati direttamente dalla Parola che ascoltano e che praticano nei comandamenti, nel comandamento dell’amore perché «l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,3 cf Mt 4,4). Pane e vino sono alimenti della vita dell’uomo mediorientale e diventano anche «sacramenti» dell’alleanza eterna e nuova (cf Ger 31,31) che si esprime e si manifesta nella Parola di Dio consegnata da lui stesso a Mosè sul Sinai. Le nozze di Cana hanno senso dentro questo quadro di riferimento ampio e solenne perché nell’intenzione dell’autore non sono l’occasione per un miracolo da poco, ma spalancano una porta nuova sulla storia dell’Esodo che oggi noi riviviamo attraverso gli sposi assenti, il vino abbondante e «bello», nella presenza della Madre e nel gesto di Gesù perché l’Esodo è ora, è qui. Adesso. [continua – 10]

Paolo Farinella

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1 Sul tema del «vino» (o della vigna) cf J. L. Mckenzi, Dizionario Biblico, a cura di Bruno Maggioni, Cittadella Editrice, Assisi 1978, 1036-37 [vino] e 1042-44 [vite/vigna]; A. M. Gerard, Dizionario della Bibbia, voll. 1-2, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1994, vol. 2°, 1615-17 [vigna] 1617-19 [vino]; sul tema cf anche la bibliografia in A. Serra, Contributi, 227 nota 2.

Paolo Farinella




(Cana 35) E io dissi: «Chi sei, o Signore?»

«E il Signore rispose: “Io sono Gesù, che tu perseguiti”»  (At 26,15)

Gv 2,9b: «L’architriclìno… non sapeva da dove è (il vino), ma sapevano i diaconi/servitori…».

Siamo quasi alla fine del nostro lungo pranzo nuziale, durato non alcune ore come è tradizione, ma più di due anni; prima di riflettere sugli ultimi due versetti, è necessario aggiungere ancora qualche tassello alla puntata precedente e capire il pensiero dell’autore che è sfuggente come un anguilla, costringendoci a inseguirlo «dove» lui sa di volerci portare. L’obiettivo del racconto infatti non è cronachistico né agiografico.
Sarebbe ben strano se il racconto fosse agiografico, perché di Gesù nulla sappiamo se non le poche e scarne notizie essenziali, funzionali in Giovanni alla sua personalità di Figlio di Dio: sappiamo che naque a Betlemme (ma non sappiamo quando), che ebbe una madre di Nàzaret e un padre legale; che svolse la professione di falegname prima e «rabbino» nell’ultimo tratto della sua vita, ma non sappiamo se per uno o due o tre anni; sappiamo che fu molto polemico con il potere religioso, con il quale cercò di evitare lo scontro finché poté, defilandosi in località lontane dai palazzi che contavano; sappiamo che alla fine dovette accettare lo scontro frontale e non si tirò indietro, correndo il rischio della sua stessa vita senza scendere a compromessi; sappiamo che morì a causa della instabilità istituzionale che la sua esistenza e le sue parole rappresentavano per la religione formale, alleata con il potere politico per farlo fuori e riuscendoci in modo illegittimo e illegale.
Valore teologico del racconto
Il racconto e l’importanza che assume, collocato al «principio» del «libro dei segni» (Gv 2-12), hanno valore «teologico» nella prospettiva dell’intero vangelo che la tradizione attribuisce alla scuola di Giovanni. Esso serve a mostrare la personalità di Gesù e ad aiutarci a scandagliare la sua «identità». Tante volte abbiamo detto che il IV vangelo (ma anche Marco) ruota attorno alla domanda: «Chi è Gesù?». In altre parole: come «conoscere/sapere» la sua identità? «Dove» incontrare la sua straordinaria personalità? Il racconto di Cana anticipa i temi di tutto il vangelo dalla prospettiva dell’alleanza del Sinai, che l’autore non considera superata, ma la condizione per un rinnovamento radicale che passi di nuovo attraverso il tema profetico della nuzialità (cf Os 2), del ritorno di Dio in mezzo al suo popolo dopo l’esilio e l’abbondanza della vita come ritorno al giardino di Eden (cf Is 40) dopo la siccità della separazione e abbandono.
Per questo, alla fine del racconto, che termina col versetto 10, l’autore si riserva di annotare che l’architriclino, cioè il rappresentante ufficiale della religione formale, non sapeva di «dove» veniva il «vino bello», qui simbolo della presenza di Dio, visibile in Gesù. Sul «dove» ci siamo soffermati nella puntata precedente, qui vediamo in breve il senso cristologico dell’avverbio «dove – pòthen», che nel IV vangelo ricorre 13 volte, su 29 occorrenze in tutto il NT, quasi la metà, per cui si può dire che è un termine importante nella teologia giovannea. In Gv 1,48 Natanaèle chiede a Gesù: «Dove mi conosci?» e Gesù risponde: «Ti conoscevo già prima che Filippo ti chiamasse». Qui il dove per due volte si relaziona con la conoscenza per fare emergere la vera consistenza del capo del popolo (Natanaèle è membro del sinedrio) che non ha una consuetudine con «i segni dei tempi» (Sir 42,18; Mt 16,3), ma si barcamena nella banalità dell’ordinario, standosene sotto il fico. Incontrare Gesù significa scoprire il proprio dove, affinare la propria prospettiva, orientare la direzione della propria vita per riconoscere da dove egli viene e accogliere i doni che egli offre, in primo luogo la «alleanza nuova» (Ger 31,31).
Sapere da dove viene il Signore
Il primo aspetto riguarda «l’origine» di Gesù e quindi la sua relazione col Padre: gli abitanti di Gerusalemme, disorientati di fronte al comportamento dei loro capi, sono perplessi sulla persona e l’operato di Gesù, ma hanno una certezza: «Costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia» (Gv 7,27); per due volte ricorre l’avverbio «dove – pòthen». Gesù risponde loro di non illudersi, perché possono arrivare a conoscere il «luogo» della sua nascita, ma senza attitudine spirituale non potranno mai scoprire la «sua origine», quella che lo mette in relazione con «chi mi ha mandato… e voi non conoscete» (Gv 7,28). Ancora una volta il «dove» è intimamente legato alla «conoscenza», che non è cognizione di dati, ma esperienza di vita.
Da parte sua Gesù conosce il suo «dove» d’origine e anche quello del suo compimento, a differenza dei farisei che invece si ostinano nel loro limite, impedendosi da soli qualsiasi conoscenza e qualsiasi prospettiva: «So da dove sono venuto e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado» (Gv 8,14).
Gli avversari di Gesù non possono accettare di non avere sotto controllo anche Dio perché per avere il monopolio della religione devono imbrigliare Dio nei loro schemi e nei loro riti: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato» (Gv 9,16). Essi arrivano ad addomesticare alle loro mire e pensieri anche la tradizione dietro la quale si rifugiano per fuggire dalle novità di Dio: «Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia» (Gv 9,28-29).
A essi pensava il profeta nel riportare le parole del Signore: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). Solo l’esperienza salvifica (la guarigione dalla cecità) libera l’anima e il cuore da ogni condizionamento prevenuto e legge la realtà per quello che è, chiamandola per nome: «Voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi» (Gv 9,30). È la religione del dovere che si contrappone alla fede della ricerca. Scomodano anche Mosè, senza rendersi conto che se avessero ascoltato il condottiero, avrebbero fatta propria la sua preghiera e oggi la sperimenterebbero compiuta: «Mosè disse al Signore: “Il Signore, il Dio della vita di ogni essere vivente, metta a capo di questa comunità un uomo che li preceda nell’uscire e nel tornare, li faccia uscire e li faccia tornare, perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore”. Il Signore disse a Mosè: “Prenditi Giosuè, figlio di Nun, uomo in cui è lo spirito”» (Nm 27,15-18)1.
Il Profeta pari a Mosè
In ebraico il nome «Yehosuàh» nella forma lunga, oppure «Yoshuàh» nella forma corta, significa «Giosuè/ Gesù». La Bibbia greca della Lxx, traduce sempre con «Iēsoûs – Gesù». Il nome è come di solito «teofòrico» perché ha il significato di «Dio salva»2. Nel libro dei Numeri, Giosuè è successore di Mosè, ma nel libro del Deuteronomio c’è la promessa al popolo e a Mosè di suscitare un profeta «pari a» Mosè stesso, il profeta più grande di tutti i tempi: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto» (Dt 18,15).  
Ecco, il profeta di Dio è ora davanti a Israele, al popolo di Gerusalemme, ai capi, agli scribi e farisei e costoro prendono per sé il Mosè accomodato ai loro bisogni e non si rendono conto che la sua preghiera è stata esaudita nella persona di Gesù che parla «in mezzo a loro»; ma essi perduti nel deserto della loro religiosità senza Dio, non sanno «di dove sia».
Si spiega così perché non possono accogliere i doni dell’abbondanza che egli annunzia: il vino bello delle nozze dell’alleanza rinnovata (Cana in Gv 2,9), l’acqua viva della coscienza delle proprie scelte (Samaritana in Gv 4,11) e il pane che sfama (il pane/eucaristia dell’abbondanza in Gv 6,5). Essi sono ciechi pur vedendo, miscredenti pur praticando la religione, sazi di sé, nella presunzione di credersi i rappresentanti della volontà di Dio. A loro è precluso il soffio dello Spirito che «soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove (pòthen) viene né dove va» (Gv 3,8). Per cogliere lo Spirito e il suo «dove» bisogna essere disposti a staccarsi dalle proprie sicurezze per correre tra le spire del vento e lasciarsi portare in luoghi e «dove» inesplorati e forse mai sognati.
Nel IV vangelo pare che l’unico interessato a sapere il «dove» di Gesù sia l’uomo più lontano da lui, per compito e per stato: Pilato, il procuratore romano, rappresentante di quel potere antagonista con il servizio annunciato e vissuto da Gesù ed espressione di una potenza deificata, tanto che il suo imperatore è «divino» per antonomasia. Incuriosito dal mistero che circonda quell’uomo che si trova di fronte, non esita a chiedere, disarmante: «“Di dove sei tu?”. Ma Gesù non gli diede risposta» (Gv 19,9). Non è tempo di discussione tra concezioni di vita e di poteri: il dramma è agli sgoccioli e anche Pilato è nelle mani di un gioco più potente di lui, perché la sua legittima domanda è immediatamente stritolata nelle maglie dell’alleanza tra la religione e il potere, la spada e l’altare: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare!» (Gv 19,12).
Se Cesare prende il posto di Dio
Ai capi dei sacerdoti interessa non l’amicizia di Cesare né tantomeno quella di Pilato, ma che non si rompa il patto di stabilità tra il potere religioso e quello politico, pagando il prezzo della consegna di Gesù che afferma di essere «Figlio di Dio», anzi proprio per questo. Qui si svela il «dove» dei capi dei sacerdoti, cioè delle guide, coloro che si vantavano di essere discepoli di Mosè, il padre dell’esodo e il maestro del Sinai, il profeta dell’alleanza sponsale, colui che guidò il suo popolo, gli antenati dei capi di oggi, a scegliere Dio come proprio Re, trasformandolo in popolo regale (cf Es 19,6; 1Pt 2,9). Essi sono apostati perché rinnegano il Dio del Sinai e danno nome al vitello d’oro chiamandolo Cesare, il come di un imperatore qualsiasi, una caricatura di re, di norma pazzo e assassino: «Risposero i capi dei sacerdoti: “Non abbiamo altro re che Cesare”» (Gv 19,15) che è il capovolgimento della promessa unica e solenne: «Quanto ha detto il Signore, lo faremo e lo ascolteremo» (Es 24,7). È l’apostasia totale.
Solo in questa prospettiva si può capire l’economia del racconto di Cana come midràsh dell’alleanza del Sinai: Cana è l’invito, anzi l’appello alla coscienza di Israele ad abbandonare la teoria dei Cesari che hanno dominato la sua vita e il suo cuore per tornare al Dio di Abramo, al Dio di Isacco, al Dio di Giacobbe, al Dio dei Padri (cf Es 3,16), lavandosi e purificandosi non già nell’acqua delle giare che sono vuote e abbandonate, ma nel sangue, cioè nella vita di Dio stesso che non esita a darsi per amore (cf Gv 15,13). Il racconto delle nozze di Cana è un affresco mite e seducente di un Dio prossimo che viene a cercare chi si era smarrito nei patti scellerati con il potere, aderendo a una religione di comodo che fa a meno di Dio, pur servendosene peccaminosamente, perché non può vivere senza il guinzaglio del «cesare» di tuo.
Per questo l’architriclino non ha saputo o potuto riconoscere il vino bello dell’alleanza sinaitica nuova perché non aveva il collirio adatto (cf Ap 3,18) per vedere e contemplare che «lo sposo di quelle nozze (Cana) raffigurava la persona del Signore» (Sant’Agostino, In Johannis Evangelium. Tractatus cxxiv 9,2). Abbiamo qui una prova del metodo di Giovanni: il significato materiale delle singole parole o dei personaggi (la figura dello sposo, più allusa che reale) è simbolo di un altro Sposo che solo chi possiede o è posseduto dallo Spirito può cogliere e assaporare (cf 1Cor 2,11).
L’apparenza, il simbolo e la realtà
Nelle nozze degli umani, il vino buono si spreca all’inizio perché l’obiettivo è fare «bella figura» con gli ospiti e, alla fine, quando tutti sono ubriachi e nessuno è più in grado di distinguere il vino dall’acqua, si mette in tavola vino scadente; nelle nozze del Regno, al contrario, poiché si guarda all’evento in sé, quando il Messia porterà a compimento la storia e il suo senso, che oggi può apparire confuso e complicato, allora, e solo allora si gusterà il «vino bello» della comprensione di ciò che si è vissuto. Nella prospettiva del Regno non si guarda alla «figura», cioè all’apparenza, ma si è proiettati verso la dimensione escatologica, «in quel tempo» unico e assoluto, quando contempleremo la Sposa di Dio, la Gerusalemme del cielo «adoa per il suo Sposo» (Ap 21,2), pronta a riscattare il pianto di «Rachele (che) piange i suoi» (Ger 31,15; Mt 2,18), perché ora accoglie l’umanità intera invitata a prendere parte alle «nozze dell’Agnello» (Ap 19,7), sigillo definitivo e supremo dell’alleanza aperta e conclusa nel segno della Parola sul monte Sinai, quando Dio scelse Israele e Israele si consacrò al suo Signore (cf Es 19,8; 24,3.7).
Il racconto di Cana s’interrompe in modo brusco, senza conclusione, restando in sospeso, perché ogni lettore sia costretto a fermare il suo pensiero e a immaginare ciò che non è scritto, perché lo riguarda direttamente: qual è il mio posto di lettore in questo racconto? Quale personaggio descrive il mio stato d’animo, la condizione della mia fede, il mio «dove» nel cammino della mia ricerca?
In altre parole, il racconto di Cana resta «sospeso» perché aspetta la risposta all’interrogativo di fondo: a che punto sono della mia storia della salvezza? Sono seduto al banchetto delle nozze dell’Agnello o sono ancora nel giardino di Eden alla ricerca dell’albero «gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza» (Gen 3,6)? Sono schiavo in Egitto, in attesa dell’irruzione di Dio, nella quale forse non spero più? Sono forse nel deserto a rimpiangere il passato, preferendo la schiavitù alla fatica del cammino verso la libertà? Ho preferito il «dio facile», rappresentato dal vitello d’oro, o il Dio esigente della coscienza sulla cima del monte che consegna le «dieci parole» di responsabilità? Non è affatto scontato che ciascuno di noi sia nel NT, accanto a Gesù Cristo, Messia e garante. No, non è proprio scontato.
Chi è Gesù per me?
Si può essere papi, vescovi, preti, consacrati, cristiani, studiosi della Bibbia da generazioni e generazioni e si può essere benissimo fuori della stanza nuziale, senza abito della festa (cf Mt 22,10-14), lontani dall’alleanza e dal Dio dal volto umano manifestato in Gesù di Nàzaret. La domanda cruciale è solo una e non può essere posta in altro modo: «Chi è Gesù per me?».
A questa domanda si deve rispondere e non si può rimandare; non è neppure sufficiente dare risposte prefabbricate, come fanno gli apostoli che riportano le «opinioni» degli altri: Giovanni Battista, Elia, Geremia, un profeta (cf Mt 16,14) o come fa Pietro stesso che crede di risolvere tutto affidandosi all’attesa messianica: «Tu sei il Cristo!» (Mt 16,16). Anche la sua risposta, che poteva venire dallo Spirito, è invece così generica e imprecisa che Gesù si sente in dovere di snudare la superficialità e doppiezza fino a chiamarlo satana: «Satana! Tu sei a me di scandalo» (Mt 16,23).
La domanda «Chi è Gesù per me?» impone al lettore di andare oltre il racconto di Cana, di scendere tra le pieghe delle parole che lo descrivono e di immergersi nel cuore dei sentimenti nascosti nel pozzo dello spirito. È il momento supremo della coscienza, che non può ingannarsi davanti a un evento che attende solo di essere vissuto: lo Sposo è giunto, le nozze possono cominciare! Si accendano le lampade (cf Mt 25,6).
È il momento della verità senza sconto: Gesù è un sistema di conoscenze catechetiche? Una struttura di dogmi o di etica? Un marcatore di civiltà da contrapporre ad altre? La chiave di un codice di potere? Lo strumento per esigere privilegi e «valori», magari non negoziabili? Oppure è una Persona che vuole essere incontrata, accolta, amata e frequentata?
Se è una Persona, c’è spazio per i sentimenti profondi fino all’innamoramento che fa sì che «quella Persona» diventi l’asse portante, il referente, il punto di arrivo e di partenza della vita, delle scelte, degli eventi, della morale, del pensiero, della fede e della speranza: «Il Dio della mia vita» (Sir 23,4).
(35 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (25) Da madre a donna

Il racconto delle nozze di Cana (25)

«Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse:
“Ecco mia madre e i miei fratelli!”»  (Mc 3,34)

Gv 2,4a: «[E] dice a lei Gesù: “Che cosa a me e a te, o donna?”»
[(kài) lèghei ho Iesoûs: Tí emòi kaì soí, gýnai?]

Questioni letterarie
La prima parte del versetto ha fatto scrivere migliaia e migliaia di commenti di cui qui non possiamo dare ragione1. L’ultima versione della Bibbia-Cei (2008) traduce: «E Gesù le rispose: “Donna, che vuoi da me?”». La traduzione rispetta il senso, ma elimina la pregnanza misteriosa del testo, che preferiamo riportare alla lettera per sottolineare alcune osservazioni importanti, utili alla comprensione del testo nel suo complesso e nella sua interezza e anche per potere fare confronti con testi analoghi dell’Antico e del Nuovo Testamento.
Tutti sanno che la traduzione-Cei non è tra le migliori, perché i vescovi alla fedeltà letteraria del testo originario (ebraico, aramaico e greco), hanno preferito la comprensione immediata del testo proclamato nella liturgia. Possiamo dire che la Cei, consapevole che i cattolici non hanno dimestichezza con la Parola di Dio a causa di una catechesi più dottrinale che biblica, hanno voluto facilitare la comprensibilità immediata piuttosto che la problematicità del testo. Hanno operato una traduzione liturgica.
Da un punto di vista della critica del testo, rileviamo due elementi: la congiunzione d’inizio versetto messa tra parentesi quadre [«e»] è omessa dal papiro 75 (175-225) e pochi altri, mentre è riportata dal papiro 66 (200 ca.) e dal codice sinaitico (sec. IV) e da quasi tutti gli altri per cui la si mantiene, ma per prudenza si mette tra parentesi.

Nota filologica. La «e» è una congiunzione cornordinante e copulativa, cioè lega il precedente al seguente con un nesso stretto. Nel versetto precedente troviamo: «Venuto a mancare il vino, dice la madre di Gesù a lui: “Vino non hanno”» (Gv 2,3), a cui corrisponde immediatamente con la congiunzione «e» la risposta istantanea di Gesù: «[E] dice a lei Gesù…» (Gv 2,4). Senza la congiunzione «e» si avrebbe la stessa risposta, ma con meno simultaneità, quasi vi fosse un tempo intermedio di riflessione; invece non c’è respiro tra la costatazione della madre che «vino non hanno» e la risposta di disapprovazione e fastidio data da Gesù.
Qualcuno potrebbe pensare che queste osservazioni siano di «lana caprina» o «spezzare il capello in quattro», mentre per noi esprimono la necessità di non essere mai superficiali con la Parola di Dio, anche perché Gesù ci ha detto espressamente: «Finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto» (Mt 5,18). In ebraico le parole in corsivo suonano così: «Lò’ yòd echàt ‘ò qòtz echàd» che potremmo tradurre in italiano con la nota frase: «Non si cambia neppure una virgola», quando vogliamo definire l’immodificabilità di un fatto o di un documento.
Cogliamo questa osservazione di Gesù per imparare qualcosa di più della Bibbia e del suo mondo. Lo iota (gr.: iôta) è la più piccola lettera dell’alfabeto ebraico, la decima lettera, che in italiano corrisponde alla «y/i»; il termine italiano «trattino» traduce in modo comprensibile il termine greco «keràia» che significa alla lettera «corno» e a sua volta traduce l’ebraico «qòtz» che significa «spina» e corrisponde a un piccolissimo oamento che hanno molte lettere dell’alfabeto ebraico, quindi un elemento quasi insignificante. Gesù in questo modo esprime un pensiero diffuso al suo tempo. Il midràsh Genesi Rabbà afferma: «Tutto ha una fine – cielo e terra hanno una fine –, solo una cosa non ha fine. Cos’è? La Toràh» (Gen R. 10,1) a cui fanno eco Esodo Rabbà: «Nessuna lettera sarà mai abolita dalla Torah» (Es R., 6,1) e Levitico Rabbà: «Se tutte le nazioni del mondo si radunassero per eliminare una parola della Toràh, esse non sarebbero in grado di farlo» (Lv R., 19,2). Con questa espressione Gesù esprime l’intenzione che anche i segni apparentemente insignificanti hanno un senso nell’economia dell’intera Bibbia: tutto anche le «congiunzioni» hanno il loro valore e devono essere prese come Parola di Dio.

Dal passato al presente
La seconda osservazione riguarda il verbo «lèghei – dice». Essendo l’autore a parlare, dovrebbe usare il passato remoto (in greco il tempo aoristo) che è il tempo narrativo per eccellenza, invece usa quello che tecnicamente si chiama «presente storico», nel senso che, pur riferendosi a un fatto passato, usa il presente, rendendolo vivacemente attuale, quasi contemporaneo al lettore, che così è coinvolto nello sviluppo degli eventi. Il tempo passato (remoto/aoristo) lascia il lettore spettatore distaccato, mentre il presente storico lo immerge in quello che accade e da osservatore neutro lo trasforma in attore.
Sia la «madre» del versetto precedente, sia «Gesù» adesso, usano lo stesso presente storico, come se tutti e due fossero, come sono, davanti al lettore che ascolta, quasi con il desiderio di volere interloquire. Non si tratta di un fatto passato, ma di qualcosa che accade «adesso» e riguarda ciascuno di noi.
Spesso la nostra superficialità di vita e di approccio alla Parola di Dio ci fa perdere di vista le «congiun-zioni» e molti «presenti storici», isolandoci e impedendoci così di assaporare la Presenza di Dio che parla «ora» e non ieri, perché la sua Parola non è uno strumento di narrazione di fatti passati da osservare acriticamente, ma è Parola di salvezza che risuona «oggi» per noi: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,20).
Spesso ci nutriamo di parole morte perché le usiamo come proiettili per dimostrare, per separare, per colpire, finendo per rompere l’unità interiore che è la condizione essenziale della nostra vita di persone e di persone credenti.
Senza le «congiunzioni cornordinate e copulative» che la Parola di Dio ci offre, la nostra vita scorre slegata, separata, isolata. Viviamo smembrati in noi stessi, così disarticolati da arrivare all’obbrobrio di leggere la Parola in modo ovvio, accontentandoci del significato più esteriore che fa velo a quello nascosto e interiore, il significato «secondo» o altro, che, specialmente in Giovanni, è il vero senso e la vera misura.
Senza coniugare il verbo della nostra vita al «presente storico» della Scrittura, rischiamo di diventare «specialisti di Dio», addetti al sacro, tecnici della Bibbia che magari conosciamo a memoria, maneggiandola con sapere e disinvoltura, illudendoci di «conoscere» Dio, mentre in effetti siamo solo acculturati di Dio.
Se sappiamo coniugare il nostro presente storico davanti alla Shekinàh/Dimora/Presenza, possiamo aspirare a diventare «Parola incarnata», lettere viventi dell’alfabeto di Dio che attraverso di noi scrive ancora oggi la sua Bibbia e la legge al mondo in un linguaggio comprensibile perché «presente» e visibile.

Una espressione ordinaria
L’espressione, per noi enigmatica: «Che cosa a me e a te, o donna?», tecnicamente si definisce un «idioti-smo» (dal gr.: idiôttēs = particolare/privato), cioé costruzione tipica di una specifica lingua, in questo caso quella semitica; si trova anche nella letteratura greca extrabiblica, come in Euripide, Erodoto, Aristofane (sec. V a.C.), Demostene (sec. IV a.C.), Epitteto (sec. I-II d.C.)2. L’espressione evangelica «che cosa a me e a te – a tí emòi kaì sói?», tradotta in ebraico è «mah lî walàk» (aramaico: mah laî welàk). Nell’AT si trova circa 15 volte ma, a nostro avviso solo 11 casi possono essere equiparati al testo del vangelo per forma sintattica e vocabolario. Di seguito riportiamo i testi:

a) Nell’Antico Testamento:
1.    Gs 22,24: «L’abbiamo fatto perché siamo preoccupati che in avvenire i vostri figli potrebbero dire ai nostri: “Che avete in comune voi con il Signore, Dio d’Israele?” (mah lakèm weladonài ‘elohê Ysra’el?)».
2.    Gdc 11,12: «Iefte inviò messaggeri al re degli Ammoniti per dirgli: “Che cosa c’è tra me e te (mah lî walàk), perché tu venga contro di me a muover guerra nella mia terra?”».
3.    2Sam 16,10: «Il re rispose: “Che ho io in comune con voi (mah lî welakèm), figli di Seruià?”» (cf anche 2Sam 19,23 con l’identica espressione).
4.    1Re 17,18: [La vedova di Sarepta] «disse a Elia: “Che cosa c’è tra me e te (mah lî walàk), o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia colpa e per far morire mio figlio?”».
5.    2Re 3,13: «Eliseo disse al re d’Israele: “Che cosa c’è tra me e te? (mah lî walàk). Va’ dai profeti di tuo padre e dai profeti di tua madre!”».
6.    2Re 9,18: «Uno a cavallo andò loro incontro e disse: “Così dice il re: ‘Tutto bene?’”. Ieu disse: “Che c’è tra te e la pace? [cioè il «tutto bene»] (mah lek ulshalòm)”». (cf. 2Re 9,19 con la stessa identica espressione).
7.    2Cr 35,21: «Quegli [Necao, re d’Egitto] mandò messaggeri a dirgli: “Che c’è fra me e te (mah lî walak), o re di Giuda? Io non vengo oggi contro di te”».
8.    Os 14,9: «Che ho ancora in comune con gli idoli (mah lî ’ôd la’zabîm), o Èfraim?».
9.    Gl 4,4: «Anche voi, Tiro e Sidone, e voi tutte contrade della Filistea, che cosa siete per me? (mah ‘attèm lî)».

b) Nel NT l’espressione idiomatica ricorre appena 5 volte:
1.    Mc 1,24: «Un uomo posseduto da uno spirito impuro cominciò a gridare, dicendo: “Che cosa a noi e a te (tí hēmîn kài sói), Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”».
2.    Mc 5,7: «Un uomo posseduto da uno spirito impuro, urlando a gran voce, disse: “Che cosa a me e a te (tí emói kài sói), Gesù, Figlio del Dio altissimo?”».
3.    Mt 8,28-29: «Due indemoniati… si misero a gridare: “Che cosa a noi e a te (tí hēmîn kài sói), Figlio di Dio?”».
4.    Lc 4,33-34: «Un uomo che era posseduto da un demonio impuro… cominciò a gridare forte: “Che cosa a noi e a te (tí hēmîn kài sói), Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”».
5.    Lc 8,27-28: «Un uomo posseduto dai demòni … vide Gesù, gli si gettò ai piedi urlando, e disse a gran voce: “Che cosa a me e a te (tí emói kài sói), Gesù, Figlio del Dio altissimo?”» (cf. anche Mt 27,19, ma solo in senso lato).

Mancanza di vino, eccesso mariano
Abbiamo riportato tutti i testi chiari per fare vedere «visivamente» che l’espressione di Gesù a sua madre non è strana e non è oscura, come si vorrebbe far credere, ma è una espressione «tipica» del parlare del suo tempo per indicare, a seconda del contesto, disapprovazione, dissuasione, non condivisione del punto di vista, non gradimento, discontinuità tra due situazioni, disinteresse e chiusura di qualunque rapporto tra due interlocutori.
Probabilmente a complicare le cose gioca un ruolo determinante l’eccessiva devozione mariana con cui si è letto e, in certi ambienti fondamentalisti, si legge ancora il racconto delle nozze di Cana. Al di fuori del contesto ebraico, si fa fatica ad ammettere una risposta sgarbata di Gesù a sua madre che, da questo punto di vista è considerata la protagonista per eccellenza del racconto perché è lei che, apparentemente, risolve un caso di opportunità sociale: la vergogna degli interessati che non hanno calcolato il vino necessario per la festa.
Spesso è visto, errando, il racconto delle nozze di Cana come un piedistallo mariano, da cui domina la Vergine Maria che viene in soccorso dei bisogni dei suoi figli, memori delle parole sublimi di Dante nella preghiera di San Beardo nell’ultimo canto del Paradiso: «La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fïate / liberamente al dimandar precorre» (DANTE, Divina Commedia, Par., XXXIII, 15-18).
Senza nulla togliere a Maria, nel contesto delle nozze di Cana, una simile interpretazione è ben povera perché annega in un «bicchiere di vino» (è il caso di dirlo!) la prospettiva storico-salvifica di Giovanni, che guarda le nozze nella prospettiva dell’alleanza del Sinai e non alla devozione mariana, totalmente estranea all’evangelista.
Il popolo cattolico in particolare per la sua strutturale «ignoranza delle Scritture», è indotto a leggere e commentare la Bibbia con le proprie precomprensioni teologiche o peggio devozionali, per cui, nel nostro caso, la Madonna diventa la figura di primo piano nel racconto delle nozze di Cana, facendo così piazza pulita di tutti i sensi simbolici che l’autore del IV vangelo vi ha posto e ci obbliga ad indagare.
Da questa prospettiva mariana, e la catechesi spicciola vi è egregiamente riuscita, bisognava ridurre l’impatto della contrapposizione tra Gesù e sua madre, arrivando fino a dire che l’appellativo «donna» è un titolo onorifico e di rispetto, travisando così il senso anche ovvio del vangelo.
Rivolgendosi a sua madre, Gesù la chiama «donna» (nel testo greco senza articolo e senza alcuna qualifi-ca), esprimendo un passaggio epocale nella storia di Gesù. La «madre» dei versetti precedenti (cf. Gv 1,1-2) e seguenti (cf. Gv 2,12; 19,25-27) diventa ora solo «donna», creando un nuovo rapporto nella vita della madre e in quella del figlio, Gesù. Nel momento in cui Gesù entra in scena, saltano tutti i rapporti di parentela precedenti e si stabiliscono relazioni nuove per un orizzonte nuovo.
La «madre» era alle nozze in rappresentanza di Israele/sposa, e ambedue, madre e popolo, giacciono là «giare di pietra», simbolo dell’alleanza sinaitica che ora è chiamata da Gesù a salire di senso: dal vino materiale al vino messianico. «Che c’è fra te e me, donna?» sta a significare: popolo d’Israele, mia sposa e madre, non perdere tempo con le cose insignificanti, ma guarda in alto e in avanti ed entra nella nuova prospettiva del Regno di Dio.
La madre/Israele deve prendere coscienza che è arrivato il rinnovatore: «Ecco, io faccio nuove tutte le co-se» (Ap 21,5), colui che supera le cose passate e proietta verso il Regno del futuro, la nuova economia della salvezza: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa» (Is 43, 18-19).
Chiamando la madre «donna», in maniera assoluta, senza alcuna qualifica e articolo, Gesù la scaraventa dal piano affettivo/familiare a quello storico salvifico identificando in modo assoluto la madre/donna a Israele/sposa del Messia/sposo che inaugura la «nuova alleanza» preannunciata dal profeta (cf. Ger 31,31) che concluderà definitivamente nella «sua ora», l’ora della morte e risurrezione. 
(25 – continua)

di Paolo Farinella

1.    Per una bibliografia abbastanza completa cf. A. SERRA, Le nozze di Cana, 273-303, special. le note).
2.    Cf. i testi per esteso riportati da A. SERRA, Le nozze di Cana, 274-275 alle note 468-472, specie la nota 472, che riporta i testi di Epitteto, i quali per tempo e forma sintattica sono più vicini al vangelo rispetto agli altri autori che hanno espressioni simili, ma non uguali.

Paolo Farinella




(Cana 38 – ultimo) DAL MIRACOLO AL SEGNO

«Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra» (Gen 9,135)
Gv 2,11: «Mentre faceva questo principio dei segni Gesù in Cana di Galilea,
manifestò la sua gloria e credettero in lui i suoi discepoli».
(Tàutēn epòiēsen archên tôn sēmèiōn ho Iēsoûs en Kanà tês Galilàias
kài ephanèrōsen tên dòxan autoû kài epìsteusan eis autòn hoi mathētài autoû).

Ci fermiamo ancora su Gv 2,11 perché è un versetto inesauribile e pregnante. Nella puntata precedente lo abbiamo tradotto mettendo in seconda linea l’aspetto «miracolistico» (mentre faceva questo principio dei segni) e ponendo in risalto «la rivelazione» della gloria di Gesù che suscita la fede dei discepoli (cominciarono a credere in lui). Se questo, come crediamo, è il punto focale di tutto il racconto di Cana, significa che la narrazione ha come scopo e obiettivo due momenti: la manifestazione della gloria e la fede, come conseguenza della rivelazione. Di nuovo siamo proiettati nell’esodo, ai piedi del Sinai, dove il popolo per mezzo di Mosè «vide» la Gloria di Dio che suscitò la fede che si espresse nella professione: «Quanto il Signore ha detto, noi faremo e ubbidiremo» (Es 24,7).
Il Sinai è il monte principe, anzi «il principio» della rivelazione, la prima manifestazione «spettacolare» di Yhwh a cui partecipa tutta la natura con «tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno» (Es 19,16). Cana è un villaggio anonimo, dove Gesù pone «il principio» della sua personalità che si manifesta come ripresa del tema dell’alleanza che deve essere rinnovata. Sul Sinai Dio espose il suo Nome attraverso la Toràh; a Cana Gesù toglie il velo alla sua «Gloria», cioè alla sua personalità e consistenza ed esige un’adesione di fede.

Il «principio» dalla Genesi a Cana
A conclusione del racconto di Cana, quasi a darcene la chiave, Gv presenta il primo gesto pubblico di Gesù come «principio dei segni» (archên tôn sēmèiōn), cioè fondamento, radice, profondità di quanto segue. La conclusione del racconto di Cana richiama l’inizio del IV vangelo: «In principio era il Lògos» (en archêi ên ho Lògos) che a sua volta richiama il «principio» assoluto della Bibbia, la prima parola della Scrittura, in Genesi 1,1 nell’atto di Dio creatore: «Nel principio del “Dio creò il cielo e la terra”…» (ebraico: bereshìt barà ‘èlohim hashammàim we’et ha’arez; greco: en archê1 epòiēsen ho thèos ton ouranòn kài epì ghên).
Ci troviamo di fronte a tre «principi»: al fondamento della creazione, all’origine del Lògos e sua relazione col Padre, alla svolta della vita di Gesù che inaugura il Regno. Il primo «principio» genera la vita, il secondo «principio» svela la natura di Dio, il terzo rivela la persona di Gesù.
Nel primo «principio» Dio fa alleanza con il creato e il cosmo, umanità compresa; nel secondo «principio» è Dio stesso che prende dimora nella caducità creata (il Lògos carne fu fatto di Gv 1,14); il terzo «principio», di Cana, riporta il creato e l’umanità, attraverso il Lògos, all’«origine» della vita di relazione: all’alleanza garantita dalla Toràh del Sinai. Il creato fa da sfondo superbo all’azione di Dio, Israele fa da sfondo all’ingresso del Lògos nel tempo, l’anonimato di un comune sposalizio a Cana, villaggio senza storia, fa da sfondo alla rivelazione di Gesù, che inaugura, come è suo costume, la nuova logica di Dio, il quale sceglie «quello che è stolto per il mondo… quello che è debole… quello che è disprezzato… quello che è nulla» (1Cor 1,27-28).
A Cana, forse, la madre ha appreso l’esultanza dello spirito perché vi ha trovato «il principio» dell’umiltà della sua serva (Lc 1,47-48). La logica dell’incarnazione porta inevitabilmente il Figlio ad accettare radicalmente la prospettiva umana fino al punto di «svuotare se stesso» (Fil 2,7) della divinità, cioè della sua natura. Paolo infatti usa il verbo «ekènōsen» che ha il senso della privazione/mancanza/impoverimento. Nel momento in cui Gesù mette piede a Cana e dà inizio al «principio dei segni», Dio rinuncia per sempre alla sua onnipotenza per essere il Dio svuotato che può essere conosciuto solo nella rivelazione del volto del Figlio, volto umano e non più divino, volto opaco che bisogna indagare, scrutare, riconoscere e amare.

Dio è «pesante»
La «Gloria» che egli manifesta a Cana è solo un altro «principio» che si compirà alla fine del suo percorso, sulla croce, dove l’impotenza di Dio diventerà il fondamento della salvezza universale, quando Dio rinuncia per sempre a dare «spettacolo» a buon prezzo, scendendo dalla croce, per essere per sempre «uomo tra gli uomini», umano tra gli umani con la fatica di sopportare il limite, la ricerca e la morte. La «Gloria» che comincia a manifestarsi a Cana si compirà a Gerusalemme, cuore della fede e dell’alleanza di Israele che è il tempio della Città Santa.
In ebraico «Gloria» si dice «kabòd» (in greco dòxa) e l’idea originaria di fondo è «il peso», cioè la consistenza, la stabilità. Una persona è «gloriosa» se ha «peso», cioè se ha un essere consistente e solido; per questo l’orientale ama il «grasso»: la persona grassa è più pesante e ha più consistenza e quindi è più «gloriosa». La persona mingherlina è senza valore perché non ha «peso/essere», o quanto meno ne ha poco.
Gesù a Cana manifesta per la prima volta il suo «peso», cioè fa intravvedere la sua profonda personalità, che è solida e stabile perché suscita la reazione dei discepoli, che a loro volta si mettono in moto perché «cominciarono a credere».
La Gloria del Dio dell’alleanza nuova non può non manifestarsi sulla croce, quando l’ora di Gesù segna il tempo di Dio, perché «bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria» (Lc 24,26). Mosè visse per poter vedere la Gloria del Dio del Sinai: «Mostrami la tua gloria» (Es 33,18), ma dovette accontentarsi di sentire Dio di striscio, anzi per «intuizione» perché non era ancora arrivata «l’ora della croce» che è la sola che segna la Shekinàh nuova di Dio in mezzo all’umanità:

«19Rispose: “Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome, Signore, davanti a te… 20Soggiunse: “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”. 21Aggiunse il Signore: “… 22quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. 23Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere”» (Es 33,19-23).

Da Cana alla Croce, il desiderio di Mosè è compiuto perché, nel suo abitare in mezzo a noi, il Lògos si rende sperimentabile e palpabile (1Gv 1,1-4) e si offre alla nostra contemplazione: «…e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno della grazia della verità» (Gv 1,14). In altre parole, Cana è «il principio», cioè il punto fondamentale e iniziale della nuova rivelazione, che non si sostituisce a quella del Sinai, ma la riprende per portarla a compimento (Mt 5,17).
Si potrebbe dire che Cana è la chiave di lettura di tutto il vangelo e senza Cana non si può comprendere quello che segue. Tutte le parole, i discorsi, le azioni di Gesù riportate dal IV vangelo devono essere lette alla luce di quanto avviene a Cana dove Gesù apre la cantina del monte Sinai che custodisce il vino messianico e lo distribuisce a quanti sono disponibili per la purificazione e ricevere la nuova Toràh che non è più una coppia di pietre scritte, ma la persona stessa del Figlio che abolisce la distanza che impediva a Mosè di vedere la Gloria.
Ora chiunque può vedere la Gloria e misurae la consistenza e il peso, basta che «cominci a credere», cioè si apra all’incontro che segna «il principio» dell’alleanza nuova per dare inizio a un nuovo esodo che porterà non tanto a una terra da possedere, ma al Calvario, a un Dio che offre la sua vita come «principio e fondamento» del nuovo tempio di Dio: l’umanità stessa di Dio e di ogni creatura.

Il «segno» non è un miracolo
Abbiamo tante volte fatto riferimento al termine «segno», distinguendolo dal termine «miracolo» per evitare confusioni. Oggi, nonostante siamo nel terzo millennio, indugiamo facilmente al miracolistico, spesso banalizzando anche il comportamento di Dio che viviamo come proiezione del nostro agire. Per la nostra cultura, «miracolo» è qualcosa che avviene contro o almeno superando le leggi di natura e quando non abbiamo risposte immediate a situazioni o eventi, diciamo con superficialità «è un miracolo», per dire di cosa inattesa, improvvisa, impossibile.
Non solo, usiamo il «miracolo» e lo esigiamo come «prova». Per la beatificazione o la santificazione di qualcuno, si chiede «un miracolo» come prova che Dio è dalla sua parte. Se vogliamo entrare nella mente dell’autore del vangelo, dimentichiamo questo modo di ragionare «ragionieristico» che appartiene alla religione dell’efficienza e siamo disponibili a entrare nel mondo della fede che non chiede prove o miracoli da mostrare, ma cerca il Volto da contemplare.
L’autore del IV vangelo usa il termine «sēmèion» che vuol dire «segno», dove ricorre 17 volte: 8 volte nel racconto dell’evangelista che narra (Gv 2,11.23; 4,54; 6,2.14; 12,18.37: 20,30), 7 volte lo usano i Giudei per giustificarsi nella loro incredulità verso Gesù (Gv 2,18; 3,2; 6,30; 7,31; 9,16; 10,41; 11,47) e 2 volte soltanto lo usa Gesù (Gv 4,48; 6,26). Se osserviamo bene, escluso uno (Gv 20,30), tutte le altre 16 volte il termine è utilizzato solo ed esclusivamente nella prima parte del vangelo, quella che appunto viene chiamata e distinta come «Vangelo dei segni», mentre la seconda parte è detta «Vangelo dell’ora». La prima parte del vangelo è propedeutica, è introduttiva alla seconda e ci aiuta a penetrare il momento drammatico della «morte di Dio», che paradossalmente diventa la vita degli uomini: è un atto creativo del nuovo Adam ed Eva che è il Regno di Dio, la Chiesa, la nuova Umanità.
Il «segno» non è un miracolo, tanto meno un gesto con cui si vuole dimostrare qualcosa. Se Giovanni avesse voluto parlare di dimostrazione avrebbe usato un altro vocabolario, come «dýnamis – potenza» o «tèras – miracolo/prodigio», anche perché in Gv 4,48 è Gesù stesso che rimprovera questo tipo di religiosità: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete» e usa i due termini «sēmêia kài tèrata», distinguendo così le due parole anche da un punto di vista semantico.
Il «segno» è un indirizzo, un’indicazione, una direzione, un simbolo, una prospettiva, un modo di vedere e di pensare. Esso esige attenzione più che meraviglia, perché l’attenzione prestata al «segnale» deve condurre eventualmente a scelte di vita.
Se il «miracolo» ha l’obiettivo di colpire l’immaginario e lasciare storditi, per cui è indirizzato all’emotività, il «segno», al contrario, si rivolge alla coscienza e alla ragione, cioè al pensiero e quindi alla decisione.

Il segno, il segnale, la contemplazione
Il «segno di Cana» ci svela l’inganno delle apparenze: quello che sembrava non è e quello che non appariva si manifesta: lo sposo non è il malcapitato del racconto che resta senza vino, ma lo «Sposo» è Gesù, che dà inizio al tempo delle nozze dell’umanità sulla scia dell’alleanza incompiuta del monte Sinai.
Nel secondo «segno» che Gesù compie (Gv 4, 46-54) e cioè la guarigione del figlio del centurione romano «il segnale» sta nel fatto che Gesù si presenta non più come sposo, ma come il Dio creatore che dà la vita. Le nozze e il figlio del centurione sono i primi due «segni» e avvengono tutti e due «a Cana di Galilea», cioè nella regione che era considerata pagana. Un «segno» (le nozze) si compie in ambito ebraico e uno (guarigione) in ambito pagano.
Lo stesso paradigma avremo ai piedi della croce, dove «stanno» quattro donne ebree/credenti e quattro soldati romani/non credenti (Gv 19,23-25). È evidente che l’evangelista vuole mandarci «un segnale» di grande valenza: Gesù non è venuto solo per i Giudei, ma per tutti, e fin dal primo momento (Cana) nessuno ha escluso dalla sua prospettiva e dalla sua azione. Si afferma così il principio della fede universale.
«I segni» che Gesù compie hanno il compito di rivelarci le diverse angolature della complessa personalità di Gesù. Si potrebbe dire che «i segni» sono il nuovo monte Sinai che «svela» la vera natura di Gesù, il volto nuovo di Dio divenuto accessibile; per renderci più facile il cammino ci lascia indizi e segnali perché non ci smarriamo.
Un segno infatti rimanda sempre a una realtà ulteriore che non è sperimentabile e quantificabile. Nel vangelo di Giovanni sono riportati solo «sette segni», più uno verso cui convergono i primi sette, quasi a dire che essi sono sufficienti a esprimere la totalità (= il numero 7) della personalità del Signore. Basta avere la pazienza di «ascoltare» i segni e di seguie le tracce per imparare a conoscerlo.

Sette segni più uno
Il primo segno, l’acqua/vino delle nozze di Cana, è il «prototipo» di quelli che seguiranno e ci presenta Gesù come sposo nella nuova alleanza (cf Gv 3,29). Non ha ancora finito di porre «il primo segnale» del nuovo tempo nuziale, che già lo stesso Gesù sente l’esigenza di anticipare l’ultimo segno, «il segno dei segni»: la morte e risurrezione; scacciando i venditori del tempio che avevano trasformato la casa di preghiera in spelonca di latrocinio, Gesù sfida: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,18-19). Il segno/tempio di cui parla Gesù è il suo corpo, il luogo dove Dio viene annientato e dove l’umanità viene fecondata. Per questo possiamo dire che la morte e risurrezione di Gesù sono «il segno ottavo», l’ultimo, il compimento della storia della salvezza o meglio della salvezza che si è fatta storia.
Il secondo segno che svela Gesù è la guarigione del figlio del funzionario regio (Gv 4,46-54). Lo sposo ha fecondato la sposa e dona la vita al figlio che ne era privo.
Il terzo segno è la guarigione del paralitico, compiuta di sabato (Gv 5,1-9), atto sacrilego e bestemmia per la religione. È il segno che Dio si riappropria della sua prerogativa di creatore e non esita a sconfinare i limiti della religione.
Il quarto e il quinto segno sono la moltiplicazione dei pani e Gesù che cammina sulle acque (Gv 6,1-12). Il segno è duplice: per un verso Gesù si presenta come il creatore che nutre Adam e domina le acque della creazione, e dall’altra è colui che dà la nuova manna discesa dal cielo e attraversa il nuovo Mare Rosso per l’esodo verso il Regno di Dio. È per noi il segno dell’Eucaristia che è la sintesi dell’esperienza dell’esodo, ma anche l’anticipazione del Regno che viene.
Il sesto segno è la guarigione del cieco nato (Gv 9,1-41); siamo invitati a vedere in Gesù la «luce del mondo» per non fare la fine «dei suoi» che come le tenebre lo hanno rifiutato (cf Gv 1,3-5).
Il settimo segno è l’anticipo dell’ottavo: la risurrezione di Lazzaro dopo la sua putrefazione; erano infatti trascorsi quattro giorni dalla sua morte (Gv 11,17-44). È Gesù stesso che ne spiega il significato nel dialogo con Marta: «Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?» (Gv 11, 25-26).
Alla fine della prima parte del vangelo (Gv 1-12), se abbiamo seguito i «segni» senza sperperarli in miracoli e prodigi, giungiamo a scoprire che «l’uomo che si chiama Gesù» (Gv 9,11) è lo stesso che sulla croce, morendo, «chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30), riportando l’umanità «al principio» della creazione, quando Adam ed Eva offuscarono lo spirito insufflato da Dio. Ora tutto è ripristinato, lo Spirito di Gesù anima ogni Adam perché scende da quella croce sulla madre e sul discepolo, su un uomo e una donna, sui soldati romani e sugli Ebrei, sull’umanità tutta. Ora veramente la nuova storia può cominciare. 

Paolo Farinella




Cana (33): «Gustate e vedete come è buono il Signore»

Il racconto delle nozze di Cana (33)

Gv 2,8-10: 8E dice loro: «Adesso cominciate ad attingere e continuate a portae all’architriclìno.
9Come poi l’architriclìno gustò l’acqua divenuta vino – e non sapeva da dove è, ma sapevano i diaconi/servitori, loro che avevano attinto l’acqua -, l’architriclìno chiama lo sposo 10e gli dice: «Chiunque prima mette il vino “eccellente” (lett. «vino bello») e, quando sono ubriachi, il peggiore; tu hai custodito il vino “eccellente” fino ad ora».

Nella puntata precedente abbiamo volutamente omesso l’ultima parola di Gv 2,8 dove per la prima volta interviene un nuovo personaggio, fin qui assente: l’architriclino (gr.: architrìklinos) che la Bibbia Cei (2008) traduce con la circonlocuzione «colui che dirige il banchetto». Questo personaggio ritorna altre due volte nel testo greco di Gv 2,9, mentre la Bibbia-Cei (2008) ne elimina una, lasciandola sottintesa, modificando così la portata voluta dall’autore. Dice la Bibbia-Cei: «Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse».
Dice il testo greco: «Come poi l’architriclino gustò l’acqua… l’architriclino chiamò lo sposo e gli disse», ripetendo per la terza volta il riferimento esplicito al personaggio che è l’architriclino.
Più volte abbiamo detto che la traduzione Cei privilegia non l’esegesi, ma l’immediata comprensione perché la Bibbia viene «ascoltata» prevalentemente nella liturgia. Per questo motivo, sceglie una traduzione immediata, «orecchiabile» in italiano, ma in molti casi a danno della particolarità del testo e quindi, secondo noi, della sua stessa comprensione che non è quello che appare, come in questi versetti di Giovanni.
Usi per il matrimonio ebraico
La figura del personaggio «architriclino» è citata tre volte di seguito in due versetti (cf Gv 2,8-9). Sappiamo che quando Gv ripete due volte una parola o un nome vuole richiamarci ad andare oltre il testo scritto, a un senso più profondo, nascosto e impegnativo. Cerchiamo di immergerci nel profondo del pensiero dell’autore per scoprire chi è l’architriclino e quale significato abbia.
Le nozze ebraiche si svolgevano di norma in casa del padre dello sposo e duravano alcuni giorni, anche una settimana. Il matrimonio avveniva il terzo giorno, cioè il martedì, perché nel terzo giorno Dio crea due cose: le acque del mare e la terra e per due volte «vide che era cosa buona» (Gen 1,10.12): il martedì quindi è il giorno della doppia benedizione, della duplice fecondità del mare, che produce i pesci, e della terra, che produce alberi e frutti.
Un secondo motivo per cui il matrimonio si celebra il martedì (terzo giorno) consiste nel fatto che il quarto giorno, cioè il mercoledì, si riuniva il tribunale a cui si poteva presentare eventuale accusa di non-verginità della donna e dichiarare subito invalido il patto nuziale. Durante la prima notte di nozze, gli amici dello sposo vegliavano fino all’alba, quando le lenzuola sporche di sangue erano esposte con orgoglio al pubblico come prova della verginità della donna, la quale le conservava per tutta la vita.
La festa del matrimonio era complessa; svolgendosi in casa del padre dello sposo, occorreva un’organizzazione sostenuta per fare fronte all’approvvigionamento delle vettovaglie per molti ospiti e per diversi giorni. Il compito del responsabile delle nozze, che l’evangelista qui chiama «architriclino», era delicato perché doveva calibrare le necessità e fare in modo che tutti potessero mangiare, bere e divertirsi senza problema.
Gli sposi erano separati dagli invitati e stavano sotto un baldacchino: la sposa oata come una regina e lo sposo come un re, assisi sul trono regale del matrimonio, simbolo delle nozze tra Dio e Israele. Uomini e donne erano separati e stavano in spazi distinti con servizi indipendenti, per cui non si capisce come la madre e suo figlio abbiano potuto dialogare tra loro, dovendo stare in ambienti diversi e distinti, a meno che non si accetti l’ipotesi che ci troviamo di fronte a un aneddoto, cioè a un midràsh, con finalità teologiche, e quindi non di fronte ad un fatto storico.
Un personaggio nuovo e il suo simbolo
Il richiamo alla figura dell’architriclino, nominato tre volte in appena due versetti, nel contesto del racconto, indica una figura usuale nel matrimonio ebraico di famiglie abbienti che si potevano permettere un’organizzazione e una festa nuziale di grande partecipazione. In questo senso la sua presenza ci dice soltanto che le nozze erano di una famiglia benestante; la figura del responsabile delle nozze quindi, se ci trovassimo davanti alla cronaca di un fatto, avrebbe un valore narrativo senza un particolare significato: c’è un matrimonio di una famiglia benestante con molti invitati e necessita un organizzatore della festa che si protrae per giorni.
Nell’intenzione dell’autore del vangelo, però, il fatto storico cede il passo al valore simbolico, che esige da noi una particolare attenzione. Crediamo sia importante, infatti, sottolineare ancora una volta che in tutto il racconto, la sposa non è nemmeno menzionata, mentre lo sposo è citato una sola volta (cf Gv 2,9) e solo per essere rimproverato, mentre l’architriclino è nominato tre volte di seguito (cf Gv 8-9). Non può assolutamente essere una casualità. Dietro vi è una intenzione specifica, che il lettore deve scoprire su indicazione dello stesso Gv che lascia l’indizio delle tre citazioni. 
Sul valore simbolico dell’architriclino diverse sono le posizioni degli esegeti. Alcuni (Mateos-Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 143; F. Manns, L’Evangile, 103) partono dall’analisi filologica e accostano «architriclino» al sostantivo «àrchōn-capo/responsabile», che nel IV vangelo ricorre 4 volte (cf Gv 3,1; 12,31; 14,30; 16,11) e una volta in Ap 1,5, con cui si fa riferimento alle autorità giudaiche. Il riferimento dunque sarebbe a «capi dei giudei-àrchōntes» (cf Gv 3,1; 7,26.48) o anche al «sommo/i sacerdote/i-archierèus» (cf Gv 11,47.51; 18,10.13.15.16.19.22.24.26.35; 12,10; 19,15.21) a cui si collegano di solito anche i «farisei» che fanno parte dei «capi» (cf Gv 7,32.45; 11,47.57; 18,3).
In questo contesto e nell’economia del racconto, l’architriclìno rappresenterebbe i responsabili del popolo che si sono dimostrati inadatti a cogliere la novità dell’alleanza e la svolta intervenuta con l’ingresso di Gesù nelle nuove nozze rinnovate a Cana. I capi assaggiano il vino eccellente, ma non sanno di dove proviene e, fatto ancora più grave, non sanno leggere il suo significato. Essi si fermano alla banalità dell’evento come appare ai loro occhi ciechi.
Bibbia e giornale, Parola e vita
Il vino estratto dalle giare di pietra, vino «eccellente» (in greco è kalòs: «vino bello»), non è dato direttamente al popolo, ma per primo viene offerto ai capi, a coloro che hanno il compito di constare gli eventi e sancire l’intervento di Dio (cf Lc 17,14) per il semplice fatto che avevano gli strumenti adeguati per «vedere» Dio operare nella storia: essi, infatti, «ascoltano» la Parola e «verificano» i fatti, gli eventi; hanno quindi i due strumenti principi per il discernimento profetico: gli eventi della storia e i criteri della Parola o, come direbbe Karl Barth, il giornale e la Bibbia. Eppure, pur essendo così privilegiati, sono inadeguati e anche inadempienti, perché si fermano alla superficie delle cose: ai fenomeni appariscenti e non sono capaci di scendere nel pozzo profondo della realtà per incontrare le correnti della vita e le dinamiche dello Spirito. Sono talmente tronfi di se stessi e della loro funzione, anzi ubriachi del loro ruolo, che identificano il loro stesso pensiero, limitato e limitante, con la volontà di Dio.
Gli architriclini sono chiamati non a contrabbandare il loro volere con quello di Dio, ma a riconoscere il vino eccellente, portato dai diaconi e attinto alle giare della vita e delle circostanze. Dio è il miracolo permanente che sta nelle pieghe dell’ordinario più usuale e bisogna avere ascolto fine e sguardo attento per coglierlo oltre il consueto e il banale: non si valuta infatti una opinione, ma si contempla l’evento straordinario della salvezza che si fa storia. Compito dell’autorità non è comandare, ma «ascoltare» la Presenza di Dio dovunque essa si nasconda e dovunque voglia riposare.
L’architriclino del racconto, invece, si limita a osservare che vi è stata una variazione di programma, lo scambio nell’ordine della presentazione dei vini: ha assaggiato il vino eccellente, ma non ha gustato né ha assaporato la novità di quel vino, né si è chiesto come mai fosse capitato proprio lì. Per lui quel vino che pure chiama «eccellente», doveva essere servito «prima», riservando a «dopo» quello scadente. Non si è reso conto che la successione tra «prima e dopo» è saltata, perché quando Dio interviene, non è più il tempo, il «chrònos», a regolare gli eventi, ma solo e unicamente il «kairòs», cioè l’occasione propizia che porta novità e cambiamento.
Se l’architriclino rappresenta i «capi/sommi sacerdoti», egli come questi, non solo non sa riconoscere il senso del vino nuovo, ma vuole impedire che il «secondo vino», cioè Gesù, entri nell’otre del «primo vino» che è quello dell’alleanza del Sinai, perché «non [è] venuto ad abolire la Legge o i Profeti…, ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17). Per la religione ufficiale il passato è inamovibile, è sicurezza, è l’utero del caldo riposo dove ci si può crogiolare in attesa del nuovo che non arriverà mai, perché cuore, occhi e gusto sono tutti fermi e imbalsamati in un tempo addietro, senza vita e senza prospettiva: una fotocopia sbiadita di qualcosa che non saprà mai suscitare gli spasmi dell’amore che vive di attesa e di sospiri, di paura e di speranza. Bloccati nel passato, vivono del passato, fuori del presente, morti al futuro.
Oltre il passato, l’oggi
L’architriclino «e i capi del popolo sanno che Dio ha parlato a Mosè, e questo basta loro per restare suoi discepoli» (cf Eraldo Tognocchi, Le nozze di Cana, 168). Per essi è fuori di ogni logica che vi possa essere qualcuno più grande di Mosè, sebbene lo stesso profeta lo abbia previsto: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto» (Dt 18,15). Anche la Parola di Dio viene vanificata dai cultori del passato che così mettono una ipoteca sulla stessa volontà salvifica di Dio, riducendola a mero strumento di esercizio di potere: «Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione» (Mc 7,9). Gesù stesso dunque distingue tra una tradizione «vostra» e il «comandamento», perché aveva già previsto che gli uomini di chiesa avrebbero sacrificato volentieri il secondo sull’altare della presunzione della prima perché dimentica sempre che ogni tempo è tempo di Dio.
Un’altra posizione, sempre sulla linea della simbologia, è espressa dallo studioso Xavier Léon-Dufour (Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, I,308), secondo il quale, l’architriclino è una figura positiva, il cui compito è constatare che finalmente è arrivato il «vino eccellente» e le parole allo sposo, lungi dall’essere parole di rimprovero sono solo una battuta scherzosa, quasi una celia, come dire: Ah, bricconcello, hai voluto cogliere tutti di sorpresa, dando all’inizio vino scadente e portando in tavola solo alla fine vino eccellente! Ci sei riuscito, bravo! (cf Ibidem, 300). Su questo stesso versante si colloca anche Aristide Serra (Le nozze di Cana, 384-389), che riconosce il valore simbolico del personaggio, ma lo colloca sulla linea dello «stupore/sorpresa» e non già su quella dell’incapacità, che è conseguenza dell’ignoranza di quanto è accaduto: l’architriclino, «il maestro (o incaricato) di mensa, constata, si direbbe con lieta sorpresa, che il vino offerto alla fine, da lui “gustato”, è di qualità superiore, e non sembra biasimare lo sposo per questo. Semplicemente, egli “non sa da dove venga” quella sorpresa. La sua meraviglia rimane senza risposta» (Ibidem, 384). Serra poi nella nota 667 (p. 384) mette in relazione Gv 2,9-10 con Eb 6,4-5 che usano gli stessi vocaboli nello stesso senso e con lo stesso scopo:

Sia in Gv che in Eb si trovano tre pensieri espressi: il verbo gèuō-io gusto; l’aggettivo kalòs-bello/buono/ eccellente e la parola di Dio, rhêma theoû, esplicita in Eb e simboleggiata nel vino in Gv. A. Serra conclude la nota con il riferimento a 1Pt 2,3 che ricorre alla metafora del latte per indicare la stessa Parola di Dio. In conclusione lo stupore dell’architriclino non è altro che l’anticipo di tutti gli altri «stupori» che s’incontrano nel vangelo di fronte ai «segni» operati da Gesù, suscitando così la domanda sulla sua persona e sulla sua identità: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?» (Gv 6,42; cf Mt 13,54-57; Mc 4,41; 6,1-6; Lc 5,21).
Quale Dio per quale Umanità?
Le due interpretazioni simboliche non si escludono né sono alternative, semmai si integrano, perché da un lato è vero che gli «architriclini-sommi sacerdoti e capi» non sono stati all’altezza della novità che la storia portava e dall’altra è pure vero che «anche tra i capi, molti credettero in lui, ma, a causa dei farisei, non lo dichiaravano, per non essere espulsi dalla sinagoga» (Gv 12,42). Da un lato, quindi, c’è l’incapacità di cogliere la novità da parte di un’autorità, lenta per sua natura e anche paurosa di aprirsi al nuovo, che è sempre una incognita di destabilizzazione del potere acquisito, e dall’altra c’è lo stupore/meraviglia che nasce dal «gusto» di un vino mai assaggiato prima. C’è la coscienza, ma non è avvertita perché si ferma al dato e non va oltre.
Gesù non è rappresentabile con l’immagine pietistica del «sacro cuore», bonaccione e melenso con gli occhi stralunati come se fosse reduce da un party a base di cocaina o con i capelli biondi intrisi di brillantina al gel per farlo apparire più come un hippy ante litteram che come un ebreo-palestinese, assolato e olivastro. Tutto ciò serve ad alienare e a estrapolare il senso di Dio dalla realtà e trasferirsi in un limbo nebuloso di spiritualismo separato dalla vita e dalla storia, disincarnando la sua incarnazione, trasformata in un accidente di cui si sarebbe fatto volentieri a meno.
Al contrario, Gesù porta lo scisma e, dove arriva, impone una scelta e, infatti, dovunque va esercita un magistero che esige una risposta: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada» (Mt 10,45); sulla stessa linea il vangelo apocrifo di Tommaso: «Gesù disse, “Ho appiccato fuoco al mondo, e guardate, lo curo finché attecchisce… Forse la gente pensa che io sia venuto a portare la pace nel mondo. Non sanno che sono venuto a portare il conflitto nel mondo: fuoco, ferro, guerra”» (Vangelo Tommaso nn. 10 e 16).
Di conseguenza, nel popolo molti lo accolgono con entusiasmo, altri lo rifiutano con consapevolezza (cf Gv 7,43; 10,19); lo stesso avviene tra i farisei (cf Gv 9,16) e tra i soldati del tempio che arrivano a disobbedire agli ordini ricevuti perché «mai un uomo ha parlato così!» (Gv 7,46). Da qui attraverso il misterioso personaggio dell’architriclino giunge fino a noi la domanda a cui non possiamo sfuggire: chi è Gesù per me? Oggi, adesso e qui?
(33 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




(Cana 36) «A mezzanotte si alzò un grido: Ecco lo sposo!» (Mt 25,6)

«A mezzanotte si alzòun grido: Ecco lo sposo!» (Mt 25,6)


«La nuova Gerusalemme… pronta come una sposa»   (Ap 19,7 e 21,25)


Gv 2,9d-10: «L’architriclìno… chiama lo sposo 10e gli
dice: “Chiunque all’inizio/dapprima offre il vino ‘bello’/eccellente e quando
[tutti] sono ubriachi, quello scadente; tu, [invece] hai voluto conservare il
vino ‘bello’/eccellente fino ad ora”».

Siamo alle battute finali del racconto delle nozze di Cana,
che ci ha svelato una prospettiva nuova, proiettata verso il contesto della
storia già accaduta, ma che deve ancora avvenire in maniera compiuta. Giunti
alla fine prendiamo atto che, come abbiamo detto più volte, non vi è cenno alla
sposa che è la grande assente del racconto. Ma la sua assenza è ingombrante,
perché parla più ancora che se fosse presente: la finalità del racconto, nell’ottica
dell’autore, non è la cronaca di un matrimonio o la santificazione anticipata
dello sposalizio cristiano, come se Gesù stesse istituendo «il sacramento»
nuziale; al contrario, l’obiettivo specifico, che ora dovrebbe essere certo per
noi che abbiamo vissuto questo percorso insieme a tutti i personaggi del
racconto, è il rinnovo dell’alleanza del Sinai nella persona di Gesù, il vero
sposo, atteso dall’umanità.

In mezzo a voi c’è uno che non conoscete

Per la terza volta consecutiva in due versetti, l’autore
nomina l’«architriclino», il responsabile organizzativo dei rifoimenti per la
festa perché tutto si svolga senza problemi. Egli però non è riuscito a gestire
«l’evento», perché è stato travolto dalla mancanza di vino, di cui non si è
nemmeno accorto, perché ha provveduto «la madre».

Nell’ottica dell’evangelista, costui non è un organizzatore
qualsiasi; egli, al contrario, è il rappresentante ufficiale dell’«archierèus/capo
dei sacerdoti», cioè dell’autorità ufficiale d’Israele, che avrebbe dovuto garantire
la realizzazione dell’alleanza, mentre invece si è affaccendata in tutt’altro
(cf Gv 18,13). Finalmente troviamo lo «sposo», che è una figura secondaria,
quasi inutile, anzi inesistente, se non fosse per l’incidente del vino mancato,
che «l’autorità» presente interpreta in maniera banale come un errore di
organizzazione. Quando l’autorità manca di prospettiva, finisce sempre per
essere un ostacolo. Ad andare più in profondità, però, scorgiamo che
l’«architriclino», senza nemmeno rendersene conto, dice due cose importanti:

a) il vino nuovo, quello che viene dopo, è superiore a
quello che c’era prima: è eccellente;

b) manifesta la sua sorpresa per la superiorità del vino
nuovo, quasi a volere dire che in tutta la sua vita non ne aveva assaggiato uno
come questo. Nonostante questa constatazione e il suo «stupore», egli non
riesce ad andare oltre: l’espressione che rivolge allo sposo, «fino ad ora»,
lascia intendere che ci troviamo di fronte a due epoche, a due tempi, a due
mondi: il mondo «fino ad ora» e il mondo che comincia da «adesso in poi». Egli
non si rende conto della presenza di Gesù e dell’azione da lui compiuta, per
cui non si apre al fatto nuovo accaduto sotto i suoi occhi, che spacca in due
la storia e il tempo, in «prima di Cristo» e «dopo di Cristo».

Per l’autorità religiosa il «nuovo» è prigioniero del
passato, una integrazione nella continuità della tradizione per cui nulla
cambia, anche se tutto si trasforma. Oggi si direbbe «l’ermeneutica della
continuità» che spiega certamente una linea teologica o, se si vuole, anche
religiosa, nel senso di dare sicurezze e tranquillità a chi magari soffre di
cuore e non vuole scomporsi più di tanto, restando fermo al calduccio
dell’utero materno. Per questa logica, però, nulla può succedere di decisivo e
dirompente, perché tutto deve avvenire in forma programmata e lineare.

La storia, come la vita, mai è lineare, ma è sempre protesa
verso il futuro, con andamento in parte lineare, in parte storto, in parte
aggrovigliato e a volte anche senza senso. È l’esperienza che ognuno di noi fa
ogni giorno e non si capisce perché questo criterio debba valere per ciascuno
di noi e non può valere per la storia degli eventi, considerata in sé.

L’uomo religioso creò Dio sua immagine e somiglianza

Con il cambiamento dell’acqua in vino, Gesù opera una
rottura: c’è un prima e c’è un poi, esattamente come prima c’era l’acqua e dopo
c’è il vino: non si può fare finta che gli eventi debbano adattarsi a noi;
semmai siamo noi che dobbiamo entrare nel cuore degli avvenimenti per scoprire,
lì, il comandamento di Dio. Quando vogliamo interpretare i «kairòi – le
occasioni» di Dio con i nostri criteri, non dovremmo mai dimenticare il monito
di Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono
le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le
mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri»
(Is 55,8-9).

Spesso, anche noi, come l’architriclino del racconto,
vogliamo insegnare a Dio il suo mestiere e pretendiamo che agisca secondo i
nostri canoni e le nostre mentalità. La Bibbia, la Parola ci è data non per
fae una lettura spirituale, ma per imparare a conoscere la «mens» di Dio e
inserirci in essa per sposarla, condividerla e praticarla.

A volte si ha l’impressione che i credenti, e anche gli
addetti specifici alla vita religiosa, dicano di credere in «un Dio a loro
immagine e somiglianza» e non nel Dio di Gesù Cristo, il quale è venuto a
rivoluzionare ogni sistema religioso che pretende di incatenare Dio in schemi
precostituiti. Ci fermiamo, come l’architriclino, solo a un «assaggio» e non
siamo in grado di andare oltre, perché abbiamo paura di oltrepassare il confine
che ci siamo imposto. Invece di alzarsi in piedi, abbandonando la comodità
oziosa del banchetto, e chiedere ai presenti che cosa fosse quella novità,
perché sconvolgeva la «tradizione» usuale, si limita a chiamare lo sposo per
dargli un buffetto sulla guancia. Non si accorge che lo Sposo è un altro e non
si rende conto che ben altre nozze si stanno celebrando, né prende coscienza
che un tempo è finito e tutti, lui e noi, siamo entrati in un’altra dimensione.

L’autorità che avrebbe dovuto guidare il popolo in attesa
alla scoperta dei «segni dei tempi» per cogliere la Shekinàh – Dimora/Presenza
del Signore, resta seduto al suo tavolo ad assaggiare il vino, comunque arrivi,
facendo perdere anche ai presenti «la novità» della presenza eccezionale e
decisiva del Signore: «Stolti e ciechi! Voi … trasgredite il comandamento di
Dio in nome della vostra tradizione?» (Mt 23,17; 15,3).

Cana, il simbolo della nuova alleanza

Solo a questo punto, in Gv 2,10, dopo ben 10 versetti,
riusciamo a capire, come per uno squarcio, che ci troviamo di fronte a un
evento straordinario, inaspettato: lo sposo non è il pover’uomo rimproverato
dall’autorità per avere fatto male i conti, ma è un Altro, è colui che è
annunciato nella notte alle vergini sia stolte che prudenti, cioè a tutta la
comunità: «A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”»
(Mt 25,6). Egli ha in mano la chiave del Sinai, la cantina in cui è custodito
il vino del Messia e finalmente lo distribuisce all’umanità invitata a
partecipare alle nozze dell’alleanza.

Solo ora scopriamo che «Cana» è un simbolo, un richiamo
appena velato che ci rimanda a una realtà ben più significativa e corposa:
l’irruzione di Dio nella storia che ora si compie nella persona del Signore
Gesù. Per questo la «madre», in rappresentanza di Israele, può chiedere al
Figlio di dare finalmente questo vino, perché i figli da lungo tempo ne sono
privi; il suo «vino-non-hanno-più» non è la mesta constatazione di un disagio
momentaneo a un matrimonio di amici, ma l’anelito di tutte le attese e speranze
d’Israele, degnamente rappresentato dalla «madre» che funge anche da sposa,
anzi da vedova, che apre le porte di Sion ai figli lontani, invitandoli a
ritornare da ogni esilio, dolore, smarrimento e sedersi alla mensa delle nozze,
perché «è il Signore!» (Gv 21,7).

Finalmente scopriamo il ruolo dei personaggi: la «madre» è
la sposa d’Israele in attesa del suo Signore e il Figlio svolge il ruolo dello
Sposo atteso, del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, quello rivelatosi sul
monte Sinai al profeta Mosè che, nella funzione di «amico dello Sposo»,
consegnò in nome di Dio a Israele radunato intorno al monte le tavole nuziali
del patto d’amore.

Di fronte alla scoperta del vino «bello», superiore a quello
già esistente, tutto cambia e tutto acquista un senso nuovo. Possiamo con
certezza dire che tutto il racconto è un simbolo per metterci in guardia, per
dirci di fare attenzione al vero Sposo che è presente e che rischiamo di non
riconoscere se ci fermiamo alle apparenze del gusto e dell’ovvio. Ora ci appare
anche chiaro perché, immediatamente dopo il racconto del «segno di Cana»,
Giovanni il Battezzante presenta Gesù come lo Sposo (cf Gv 3,25-30), riservando
per sé la funzione tipica dell’uso giudaico di «amico dello sposo». In questo
modo vediamo Giovanni Battista come l’antitesi perfetta dell’architriclino:
questi non si accorge nemmeno dello Sposo che inaugura gli «ultimi tempi» del
compimento nel segno del vino «bello»; il Battista invece ha coscienza di
esistere solo per indicare agli altri, al mondo, chi è lo Sposo atteso,
accettando per sé la funzione di paraninfo, cioè di amico, impegnato a
preparare le nozze senza fine (cf Gv 3,39).

La sposa è chiunque crede che Gesù è il Signore

A questo punto è necessario uscire dal simbolismo per
entrare nel cuore dell’annuncio. Gesù è stato «chiamato» alle nozze, come Mosè
è stato «chiamato» in cima al monte Sinai. Gesù si presenta «per» le nozze con
i suoi discepoli. Alcuni di questi gli erano stati mandati da Giovanni il
Battista, quando nel capitolo precedente aveva indicato «l’Agnello di Dio» e
due erano voluti andare a «vedere» dove Gesù abitasse, fermandosi fino alle ore
16 (cf Gv 1,35-39), cioè l’ora in cui nel tempio di Gerusalemme, il sommo
sacerdote (archierèus) uccideva l’Agnello, versando il suo sangue come sangue
dell’alleanza tra Dio e Israele.

Se Gesù è lo Sposo e Giovanni il Battista «conduce» i
discepoli a lui, con cui poi si fermano insieme alla «madre» alle nozze, fuori
metafora, ecco la realtà: Gesù è lo Sposo e i discepoli con la madre sono la
sposa, cioè il popolo d’Israele nella nuova versione della comunità ecclesiale.
In altre parole, la madre e i discepoli sono il modello di coloro che credono,
il «segno» visibile della nuova Chiesa che riprende in mano e nella vita
l’alleanza del Sinai, affinché guidata dal nuovo Mosè, Gesù, possa
intraprendere il nuovo pellegrinaggio verso il regno.

Chiunque crede diventa la sposa. Ecco perché nel racconto
non può essere presente una sposa qualsiasi: perché sono sufficienti la madre,
gli apostoli e tutti coloro che sul loro esempio crederanno nel Figlio che apre
i tempi nuovi e i cieli nuovi dell’alleanza nuova. Questa idea si trova anche
nell’Apocalisse, che appartiene alla letteratura giovannea, ed è descritta come
sposalizio tra l’Agnello/Sposo e Gerusalemme/sposa: «Sono giunte le nozze
dell’agnello; la sua sposa è pronta… vidi la città santa, la nuova
Gerusalemme, scendere, da Dio, pronta come una sposa adoa per il suo sposo»
(Ap 19,7 e 21,2).

Dio, senza passato né tradizioni

Da un punto di vista strettamente esegetico, possiamo
rilevare che l’espressione di Gv 2,10 da noi tradotta con «chiunque», e da
altri con «tutti», alla lettera sarebbe «ogni uomo» (pâs ànthrōpos). Noi preferiamo il senso
indeterminato per due motivi: indica una consuetudine di tradizione, quindi
anonima e può coinvolgere ciascuno, cioè «chiunque»; in secondo luogo, si
determina in modo più forte il contrasto tra l’indeterminatezza della tradizione
di «chiunque» e la personalizzazione estrema del «tu» con cui l’architriclino
si rivolge allo sposino: «tu, [invece]». Ci troviamo quindi di fronte a uno
schema letterario di forte contrasto teologico: «chiunque – tu». Chiunque è il
passato, la tradizione, la consuetudine, l’usanza; potremmo dire l’abominevole
«si è sempre fatto così», che tarpa le ali a qualsiasi afflato di novità in
nome della pigrizia e grettezza. Tu, invece, è un appello alla coscienza
individuale che s’immerge nella storia, ne coglie il senso appena velato e lo
svela in tutto il suo spessore, senza paura del nuovo e dell’imponderabile che
nasconde nel suo grembo il seme di Dio.

Sì, possiamo dirlo: Dio non ha tradizioni da difendere,
perché egli è sempre nuovo e parla ogni giorno la lingua del momento,
altrimenti parlerebbe inutilmente. Dio non ha passato, perché egli è «il Fine»,
quello che Teihallard de Chardin chiamava «il Cristo, il punto omèga», colui
che attrae a sé tutto e tutti dalla prospettiva della fine e del compimento.

Conservare per scoprire sempre più

Il verbo usato dall’architriclino «tetêrēkas» (in greco, perfetto
indicativo alla seconda persona singolare) è preceduto dal pronome rafforzativo
«sy – tu» che in greco potrebbe essere omesso. Se però c’è, come qui, acquista
forza e valenza più forti e profonde; come abbiamo visto, quel «tu» è
essenziale e necessario perché si contrappone al «chiunque» dell’inizio del
versetto. Non si tratta più di interpellare lo sposino improvvido, ma il
lettore, cioè «tu» che leggi, che accetti l’invito di partecipare alle nozze,
di condividere la fede della madre e dei discepoli e quindi di volere fare
parte della nuova comunità, che è la Chiesa.

Essa, sulla scia di Israele, popolo di Dio, nasce sulle
falde del monte Sinai, ma giunge ai piedi del monte Calvario, il monte della
rivelazione, la rivelazione dell’«ora», l’ora della discesa non più della
Toràh, ma dello Spirito di Dio che porta a pienezza la Toràh e la forza di
adempierla: «Reclinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30).

Il verbo «terèō
– custodisco/conservo» al perfetto indica un’azione passata, i cui effetti
continuano nel presente. La forma italiana «hai custodito», al passato
prossimo, che è troppo povera, anche perché il perfetto greco ripete una parte
del tema («te-te»), che in qualche modo deve essere percepito anche nel suono
oltre che nel concetto. Ci pare che, in questo passo, la forma più corretta
possa essere: «Tu hai continuato a conservare/custodire». All’inizio di questa
puntata, riportando il versetto nel titolo, abbiamo tradotto con «tu (invece)
hai voluto conservare», dove si mette in evidenza la volontà che persegue
l’atto della conservazione, come se fosse un progetto in fase di esecuzione e
quindi continuativo.

Ci troviamo di fronte a un comportamento simile a quello del
servo che ha ricevuto «un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi
nascose il denaro» (Mt 25,8) in attesa che gli eventi maturassero. Qui è
evidente che l’autore vuole farci capire che è finito il tempo dell’attesa,
individuato in quel «fino ad ora», segno di uno spartiacque e di un cambiamento
di scena e di tempo. «Ora» comincia un tempo «altro»: quello che troverà
compimento sulla croce, la vera Cana dove si celebra lo sposalizio tra Dio e
l’umanità e dove viene distribuito a piene mani il vino della vita di Cristo;
il sangue del suo costato è dato fino all’ultima goccia: «Subito ne uscì sangue
e acqua» (Gv 19,34). Acqua e sangue, esattamente come a Cana, che vide l’acqua
trasformata in vino.

L’accenno alla nuova economia sacramentale ci pare evidente
perché la prospettiva è quella della vita donata senza riserva con uno scopo
puntuale, perché tutti quelli che vogliono «abbiano la vita e l’abbiano in
abbondanza» (Gv 10,10).

(36 – continua)

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Paolo Farinella