Insegnaci a pregare

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Insegnaci a pregare 14. Pregare: convertirsi dalla divinità al Signore

Di Paolo Farinella, prete |

Nella puntata del mese scorso abbiamo cercato, con qualche difficoltà per gli spazi di una rivista a larga diffusione, di esercitarci sul capitolo 1° della Genesi, un testo considerato spesso noioso. Abbiamo scelto il testo ufficiale della Cei, edizione 2008. Prima di passare a un testo del vangelo, desideriamo riprendere i primi tre versetti di Gen 1 e tradurli dall’ebraico, applicando la morfo-sintassi ebraica, senza scendere, però, in dettagliate spiegazioni. Il testo biblico di Gen 1,1-3 non si trova solo nella Bibbia, ma appartiene alla cultura orientale comune del 2° millennio a.C. Lo leggiamo non in un contesto di studio, ma in un atteggiamento interiore orante.

Il testo nella traduzione ufficiale: «1In principio Dio creò il cielo e la terra. 2La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. 3Disse Dio: “Sia la luce!”. E la luce fu».

Applicando la sintassi dell’analisi testuale che tiene conto in modo particolare dei «verbi», ecco la traduzione:

Nel principio del «Creò Dio il cielo e la terra»
(oppure: Quando Dio creò il cielo e la terra)
2la terra era informe e deserta
le tenebre ricoprivano l’abisso
e lo spirito di Dio covava sulle acque,
3DISSE Dio: «Sia la luce!». E la luce fu.

Nota esegetica

I primi due versetti servono per ambientare (verbi all’imperfetto) l’esplosione della Parola che, al versetto 3, lacera l’abisso. Sempre al v. 2, anche l’ultima edizione della Bibbia-Cei (2008) traduce con «lo spirito aleggiava sulle acque», che a nostro parere deve essere reso così: «lo spirito di Dio covava sulle acque». In ebraico, il participio femminile «merachèfet» deriva dal verbo «rachàf» che in tutta la Bibbia ebraica ricorre solo tre volte: una nella forma verbale «qal», che esprime il senso ordinario dell’azione, e cioè «frangere/rompere/spezzare» (cfr. Ger 23,9) e due volte nella forma verbale «pièl» che esprime l’«intensità» dell’azione del verbo e quindi anche nella traduzione deve intuirsi un senso marcato, qui appunto l’atto del «covare» che ha come effetto il dischiudersi del guscio. In Dt 32,11 è l’aquila che cova la nidiata, mentre in Gen 1,2 è lo spirito di Dio che cova le acque per farle dischiudere alla vita. Lo Spirito di Dio, «principio» della vita sta sulle acque primordiali, dominandole come fa l’aquila o una chioccia sulla covata finché non scoppia la vita.

Cosa si ricava da questo testo per la preghiera? Il principio non è un inizio temporale, ma un fondamento radicale, una radice su cui poggiare: Dio che crea il cielo e la terra. In ebraico, «cielo e terra», essendo opposti (alto e basso, superiore e inferiore, entrare e uscire, sedere e alzarsi, mattina e sera, ecc.), indicano la totalità, tutto quello che sta in mezzo. Dio crea «tutto», senza essere condizionato dall’informe terra o dal deserto, cioè dalla non vita. Le tenebre, proprie dell’abisso sono spettatrici e non opposizione a Dio. Da «signore», egli «cova» come una chioccia le acque della vita. Nell’attesa, tra desolazione, morte e oscurità che nulla promettono di buono, all’improvviso, potente e risoluta, scoppia la «Parola» che in un baleno fa giustizia di abisso, tenebre e deserto: «Disse Dio». È la frase principale, da cui dipende tutto quello che precede e che dà inizio alla serie di dieci «disse» martellanti. Subito la Parola diventa Luce e la luce diventa un fatto: «La luce fu». La Parola di Dio non è mai inefficace perché realizza sempre quello che dice. All’ordine di Dio corrisponde subito l’esecuzione: Sia/Fu.

Pregare la Parola

Prima di qualsiasi cosa, azione, decisione, esecuzione, occorre vedere «il principio» che è all’inizio del versetto: su quale «principio» si fonda la vita di me credente, cittadino, padre, figlio, maestro, ministro, monaco, monaca, giovane, vecchio? Oppure navigo a vista tra abissi e tenebre e deserti senza una bussola o un progetto? Se dovessi chiamare per nome il progetto della mia vita, come lo enuncerei con una parola? In Dio la parola è fatto: c’è sempre corrispondenza tra desiderio e realtà, tra aspirazione e realizzazione e in me? Tollero forse uno spazio ambiguo e anonimo tra tenebre e luce, dove vado a rifugiarmi? Oppure ambisco la luce come esplosione del pensiero, degli affetti, delle relazioni, dell’agire? La mia parola è sempre univoca o la manipolo a seconda delle circostanze e delle convenienze. In questo contesto cosa significa per me: imitare Dio?

«Ininterrottamente»

Ci chiediamo: perché pregare? Paolo supplica i Tessalonicesi di «pregare ininterrottamente, in ogni cosa fate eucaristia (= rendete grazie): questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi» (1Ts 5,17-18). Comprendo che Paolo pone sullo stesso piano preghiera, eucaristia, volontà di Dio e Gesù Cristo? Da ciò si deduce che pregare vuol dire imparare a fare della vita un’eucaristia se vogliamo vivere la volontà di alleanza del Padre che ha il volto di Gesù. Ciò avviene giorno per giorno, ora dopo ora, passo dopo passo e deve durare tutta la vita. Pregare è imparare a capire la volontà di Dio che è il regno suo esteso a tutti, vivendo le relazioni con ogni essere umano sulla filigrana della vita di Gesù. Qui espressamente si descrive la preghiera come «stato permanente» e non come serie di «momenti» spezzati: la vita non è a singhiozzo, perché il respiro è costante, continuo, incessante, non a spizzichi e bocconi. Se respirassimo in maniera sincopata moriremmo. Se preghiamo ogni tanto (prego al mattino, prego alla sera), vuol dire che nel frattempo siamo fuori della volontà di salvezza del Padre.

In mare col fantasma

Occorre imparare la disponibilità orante per essere sempre in «stato di preghiera», come Gesù nel brano di Matteo che preghiamo ora. Nel prossimo numero di MC ricaveremo alcune direttive per imparare a pregare meglio.

Dal Vangelo di Matteo 14,22-33:

[Dopo che la folla ebbe mangiato], 22e subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. 23Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. 24La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. 25Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. 26Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. 27Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, Io-Sono, non abbiate paura!». 28Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». 29Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. 30Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». 31E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». 32Appena saliti sulla barca, il vento cessò. 33Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».

Il brano inizia in modo inconsueto per Matteo che qui mantiene un’espressione tipica di Marco: «e subito», quasi a volere dare immediatezza a quanto sta accadendo, coinvolgendo nell’azione il lettore. L’avverbio di tempo lega il racconto precedente (Gesù sfama la folla) al seguente (Gesù allontana i discepoli e resta solo) e ci trasporta come per magia da un contesto di massa a uno di solitudine e preghiera. Solo due volte Matteo presenta Gesù in atteggiamento di preghiera: qui e nel giardino del Getsèmani (cf Mt 26,36), quasi a custodire gelosamente l’intimità col Padre che nessun occhio indiscreto dovrebbe mai violare. È, infatti, impensabile anche immaginare che Gesù non abbia bisogno di pregare perché, essendo Dio, «cresceva in sapienza… e grazia davanti a Dio» (Lc 2,52).

Per lui, uomo reale in cerca della volontà di Dio che scopre lentamente, giorno per giorno, la preghiera doveva essere abituale e consueta per verificare la profondità della sua adesione al volere del Padre. Egli pregava anche oltre i ritmi ufficiali della liturgia in sinagoga che pure frequentava (Mt 12,9; 13,54; Mc 1,21.23.29…; Lc 4,16/20.28.38.44…; Gv 18,20). Rimasto nella pienezza della sua solitudine, prima di raggiungere i discepoli, Gesù si ritira a pregare sul monte da solo per individuare il «dove» della sua esistenza e le ragioni del suo andare.

Curiosità

Secondo la tradizione il monte sul quale Gesù si ritira in preghiera sarebbe il monte delle «beatitudini» (cf Mt 5,1) da dove Gesù proclama le coordinate del regno dei cieli (cfr. Alberto Mello, Evangelo secondo Matteo, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano [BI] 1995, 271-272).

Valle Pesio, Marguareis

Il pendolo: dalla folla verso il monte

Per pregare, Gesù compie due gesti: «costringe» i discepoli a salire sulla barca, quasi fosse un ovile protettivo, che per Mt potrebbe essere «la Chiesa», di cui la barca è immagine. In secondo luogo, deve congedare la folla perché ha obiettivi solo materiali: il miracolo a buon mercato, il pane abbondante, insomma mangiare. La folla non sarà mai una comunità. Si può stare insieme nello stesso luogo, per lunghi tempi, dire e fare le stesse cose, ma non essere comunità: la folla è massa indistinta dove ognuno persegue interessi individuali e si aggrega per piegare gli altri al proprio bisogno; essa è anche capace di vendere Dio e la madre a prezzi di saldi. Monasteri e comunità, con anni e decenni di convivenza, possono essere «una folla», fatta da un «insieme di solisti». La comunità eucaristica, al contrario, è un popolo, per sua natura interdipendente, perché ciascuno è parte di un tutto, tanto che l’intera comunità/popolo è presente in ciascuno dei suoi componenti e ogni suo singolo membro è «sacramento» di comunione perché con il proprio limite ne esprime la pienezza e lo splendore. Ognuno è visto e sperimentato come la parte migliore dell’altro, sia come singole persone, sia come comunità nel suo complesso. Tutto ciò vale anche per le coppie sposate, per una famiglia che condivide il cammino di fede, per due amici, due amiche, per quanti cioè cercano il cielo e trovano la profondità dell’essere che ha il volto di Dio, presente nelle persone incontrate sul cammino. Per tutti è indispensabile la preghiera che non è un debito verso Dio, ma un progetto da realizzare, un metodo di una visione, un sogno da sperimentare, una prassi così impellente da diventare ancora di più desiderio desiderato. Per tutti è essenziale diventare, per grazia e per scelta, come Francesco di Assisi che «non era tanto uno che pregava, ma lui stesso era preghiera». Rileggiamo il testo con animo sapienziale, cioè lasciandoci visitare dalle singole parole come messaggeri di Dio che vengono a stimolarci e a consolarci.

Mt 14,22: «[Dopo che la folla ebbe mangiato],
22subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca
e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla».

I verbi importanti sono: costringere, salire, precedere, congedare.

Prego in modo spontaneo e abituale, oppure mi devo costringere a salire sul monte della preghiera, perché dominato dalla noia? Cosa mi trattiene dal salire in alto? A volte è necessario precedere il Signore e quindi separarsi da lui, senza staccarsene, per aspettarlo. Sono consapevole che la separazione è parte della dinamica di relazione?

La separazione comporta anche scegliere da soli, inventare, decidere, valutare, discernere. Oppure ho sempre bisogno di qualcuno che mi dica cosa devo essere e fare? Se fosse così, non penso che lo Spirito sia superfluo? Nei monasteri come si concilia questo con l’obbedienza? Ho mai preferito essere un anonimo tra la folla del mio ambiente per non essere disturbato o costretto a fare tagli forse dolorosi?

Mt 14,23: «23Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare.
Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo».

In questo versetto restano due verbi del precedente e se ne aggiungono altri nuovi: congedare, salire + pregare, stare. Mt usa la stessa espressione che l’autore dell’Esodo usa per Mosè: «Mosè salì verso il monte di Dio, e Dio lo chiamò dal monte, dicendo: “Questo dirai…”» (Es 19,3). Mosè sale verso il monte di Dio, Gesù sale solo verso il monte. Mosè sale per ascoltare Dio, Gesù sale per pregare. Mosè riceve, Gesù vive.

Per salire sul monte, bisogna andare in alto, segno che la folla stava in basso. Qual è il mio basso, qual è il mio alto? Ho un monte come mio progetto e orizzonte? Per Gesù pregare è stare sulla Parola per imparare a essere se stesso (Gv 8,31). Ho un monte dove posso stare senza ansia e angoscia?

Mt 14,24-25: «24La barca intanto distava già molte miglia da terra
ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario.
25Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare».

La Chiesa, la comunità, la famiglia, la scuola, il lavoro… la vita non è una barca ancorata in una rada dove si possa tranquillamente prendere il sole oziando. La barca è distante dalla riva e le onde la rendono insicura, anche perché c’è la possibilità che il vento soffiando al contrario aggravi la situazione. Credere non è una garanzia dai pericoli e dai rischi della vita. Perché il Signore non mi viene in aiuto? Io prego e tutto mi va male, mentre quello là non crede, non va mai in chiesa e le cose gli vanno a gonfie vele. Cosa ho fatto di male al Signore per meritare questa ingiustizia?

Pregare è la scuola dove impariamo a purificare questo modo pagano e miscredente di concepire Dio. Chi pensa così vede Dio come una macchinetta automatica che funziona a comando con una moneta. Non abbiamo garantita la tranquillità; le onde, il vento e l’agitazione del mare restano per noi e per tutti: «Egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45), di cui il credente assume pesi e presenze: «portate i pesi» (Fil 2,1) e «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28).

Mt 14, 26: «26Vedendolo camminare sul mare,
i discepoli furono sconvolti e dissero: “È un fantasma!” e gridarono dalla paura».

Egli garantisce la «presenza», anche se bisogna aspettare tutta la notte, perché giunge camminando sulle acque, correndo anche lui il rischio che noi lo scambiamo per un «fantasma», cioè una parvenza inconsistente, un nulla, un vuoto.

Pregare è imparare a riconoscere la presenza del Signore negli eventi della vita, nelle avversità, nel vento contrario, nel mare agitato, nella calma della bonaccia. Spesso Dio è un «fantasma» che agita il nostro sonno perché lo vorremmo magico, a nostra disposizione, ai nostri ordini, a «nostra immagine e somiglianza». In questo senso pregare è «illimpidirsi lo sguardo» perché essa ci insegna a purificare Dio da ogni vacuità-fantasma, da ogni segno di idolatria e ci educa a stare con lui «sull’altra riva», cioè sulla riva della consapevolezza, del discernimento e del dubbio, quello che anima la fede. Stare accovacciati sulla soglia della paternità per essere sempre pronti a coglierne le sfumature di tenerezza e di amabilità. L’Eucaristia è la scuola principe dove impariamo tutto questo, se non la trasformiamo in un fantasma di passaggio.

Mt 14,27-33: «27Ma subito Gesù parlò loro dicendo: “Coraggio, Io-Sono, non abbiate paura!”. 28Pietro allora gli rispose: “Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. 29Ed egli disse: “Vieni!”. Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. 30Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: “Signore, salvami!”. 31E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”. 32Appena saliti sulla barca, il vento cessò. 33Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: “Davvero tu sei Figlio di Dio!”».

Ancora un avverbio di tempo di immediatezza e coinvolgimento (subito) che elimina le distanze, azzera la paura: «Coraggio, Io-Sono». Il coraggio sta nell’identità. Non è esatto tradurre «Sono io» scialbo e banale. Mt usa il greco «Egô Eimì» che è il nome con cui nella Bibbia greca della LXX, traducendo il corrispettivo ebraico, «Yhwh» si presenta a Mosè sul Sinai. La preghiera non mette davanti alla «divinità», ma immerge nell’abisso dell’identità del Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, il Dio dei volti e dei nomi, il Dio dell’esodo, il Dio della storia e della liberazione, il Dio che «scende» in mezzo alle schiavitù per spezzare le catene e rendere la pienezza della libertà col codice dei comandamenti. Il Dio della mia vita.

È questa libertà che fa camminare Pietro sulle acque, anche se egli è incompleto e imperfetto, tanto da rischiare di affondare. «Signore, salvami». Non dice «Dio», ma «Signore», parola che solo dopo la risurrezione è abituale tra i discepoli e che è il fondamento della professione di fede, urlata dal pagano centurione romano che «avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15,39).

La libertà e la morte di Dio sono il fondamento della sua alleanza e della sua volontà di salvezza. Quando preghiamo, Dio irrompe nella nostra vita e noi assumiamo la storia di Dio per farne la nostra quotidianità, mentre offriamo la nostra ordinaria esistenza per farne la salvezza di Dio che egli sparge sul mondo intero.

Nel pregare, quale atteggiamento vivo? Di sfida a Dio o di fiducia e confidenza? Quando prego, riesco a vedere la mano che il Signore mi tende? Mi lascio afferrare? O preferisco fare da me rischiando di affondare? O preferisco la palude delle grette banalità? Sono consapevole che per fare cessare il vento, è indispensabile essere «sulla barca» con lui?

Conclusione

In sintesi, per pregare bisogna passare dallo stato di «massa/folla» a quello di persona cosciente, passaggio che può avvenire anche attraverso una costrizione; è necessario salire dal basso verso l’alto; non basta salire, occorre salire sul monte, cioè al «luogo di Dio»; occorre sapere stare soli, anche a lungo, fino a sera, sapendo che la solitudine è coscienza di sé a differenza della solitarietà che è chiusura in sé; pregare è perdere tempo per e con la persona amata, qui Dio, Padre, amico compagno. Gesù perde tanto del suo tempo con il Padre suo: pregare per lui non è fuggire dalla vita, ma immergersi in essa per coglierne la trama intessuta di Dio. Gesù domina le acque e salva Pietro: nella preghiera noi impariamo a gestire la nostra vita per condividerla con la comunità, la Chiesa e il mondo per farne un dono a Dio che ce la restituisce in benedizione e santità. Insegnava un santo monaco che per entrare nello spirito della regola monastica non basta un paio d’anni di noviziato, ma occorrono cinquant’anni di vita di osservanza di essa per cominciare a respirarne lo spirito. Solo dopo può iniziare il noviziato, cioè l’ingresso nella vita monastica. Per la preghiera è lo stesso: non basta qualche preghiera, sparsa qua e là, occorre una vita di preghiera per imparare a respirare all’unisono col Padre, il Figlio e lo Spirito, affinché in punto di morte, si possa dire: Amen, oh, sì, eccomi! Ora so pregare perché sono orante.

Paolo Farinella, prete
[14, continua]




Insegnaci a pregare 13:

La preghiera crea e rinnova

Di Paolo Farinella |


Perché preghiamo? Perché Paolo supplica i Tessalonicesi di «pregare ininterrottamente» (1Ts 5,17), definendo così espressamente la preghiera come «stato permanente» e non come una serie di «momenti» collezionati uno dopo l’altro, magari separati dalla vita? Perché nei racconti della passione di Gesù, tutti e tre gli evangelisti sinottici (Marco, Matteo e Luca) riportano l’invito di Gesù a vegliare e a pregare? (Mt 26,41; Mc 14,38; Lc 21,36). La veglia esige la massima attenzione e dunque la preghiera è un atto responsabile come di chi veglia sulla sicurezza degli altri. Genitori, insegnanti, vescovi, preti, religiosi, monaci e monache hanno coscienza che per loro pregare è stare sugli spalti a garantire la sicurezza dei figli, dei discepoli, dei piccoli, del mondo?

La risposta è in Gv 8,31-32: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». La traduzione della Cei-2008 è più abbondante del testo greco che testualmente dice: «Se voi restate/dimorate/aspettate nella parola, quella mia, veramente discepoli miei siete». Il verbo «mèn?» indica lo stare stabilmente, cioè il dimorare che comporta e comprende anche l’attesa, cioè un sentimento di relazione tra chi è «nella dimora» e chi non c’è ancora, ma sia l’uno che l’altro, pur assenti fisicamente, sono presenti nel desiderio, nella tensione. Lo sanno gli innamorati che sperimentano l’attesa con un’intensità maggiore di quella dell’incontro stesso. Per vivere però la preghiera come stato di vita, è necessario esercitarsi, cioè fare esercizi per imparare, educarsi, verificare e sapere sempre «dove» ci si trova. Proviamo a vedere se riusciamo a impostare la preghiera non «come viene viene», ma con metodo e disciplina.

Metodo:

a. Scegliere un tempo delimitato per la preghiera (un quarto d’ora, mezz’ora, un’ora) e osservarlo scrupolosamente, orologio alla mano. Può sembrare una banalità, ma è una questione di disciplina seria.

b. Scegliere una posizione corporale adeguata, escludendo tassativamente solo il camminare, perché per sua natura è distrattivo, dispersivo. Si può stare seduti, coricati, in piedi, semi-inginocchiati, ecc.

c. Spegnere (non silenziare!) cellulare o altri aggeggi che, senza accorgercene, possono diventare i nostri «idoli».

d. Invocare lo Spirito Santo che venga in aiuto alla nostra fragilità (cf Rm 8,26). In una prima fase, propedeutica, si può utilizzare l’inno dei Primi Vespri di Pentecoste: «Veni, Creator Spiritus – Vieni Spirito Creatore».

e. Poi seguire ogni volta i seguenti passi:

  • 1° Passo: scegliere un testo biblico. Se si ha un criterio personale, si segua quello, oppure si prenda un libro dell’AT o del NT (non i Salmi).
  • 2° Passo: leggere il testo scelto di seguito fino in fondo, cercando di capirne il senso generale, l’insieme.
  • 3° Passo: rileggere il testo, più lentamente e fermarsi sulle parole che sembrano più significative.
  • 4° Passo: rileggere per la 3a volta, ma questa volta soffermarsi sulle azioni, espresse dai verbi, sottolineandoli.
  • 5° Passo: con quale persona o protagonista o azione m’identifico? Nel testo «dove» mi colloco?
  • 6° Passo: la Parola di Dio parla a me, adesso e qui: cosa dicono a me le parole? Dove sto io «nella» Parola?
  • 7° Passo: rileggo il testo in modo che le singole parole scorrano dentro il cuore come un rivo d’acqua e scruto quale senso acquistano «per me». Scegliere la parola «chiave» che rivela me a me stesso.
  • 8° Passo: ringraziamento allo Spirito Santo per aver concesso il tempo di «stare sulla Parola» (Gv 8,31-32).
  • 9° Passo: andare nella vita portando il sapore e la «parola chiave» che abbiamo pregato, ripetendola come ritornello.

Un esercizio su Genesi 1

Propongo, come esercizio il testo di Gen 1, il racconto sacerdotale (sec. VI-IV a.C.) che la liturgia propone come 1a lettura nella Veglia di Pasqua di ogni anno. Molti lo considerano arido, monotono, ripetitivo e non sanno cosa si perdono.

Leggiamo il testo una volta in modo continuo per avere un’idea del senso generale in sé. Usiamo il testo della Bibbia-Cei (2008), anche se non ci piace, perché stiamo pregando e non facendo esegesi.

Dal libro della Gènesi 1,1-2,2

1In principio Dio creò il cielo e la terra. 2La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.
3DISSE Dio: «Sia la luce!». E la luce fu.
4Dio vide che la luce era cosa buona e Dio separò la luce dalle tenebre. 5Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte.
E fu sera e fu mattina: giorno primo.

6DISSE Dio: «Sia un firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque». 7Dio fece il firmamento e separò le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento. E così avvenne. 8Dio chiamò il firmamento cielo.
E fu sera e fu mattina: giorno secondo.

9DISSE Dio: «Le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un unico luogo e appaia l’asciutto». E così avvenne. 10Dio chiamò l’asciutto terra, mentre chiamò la massa delle acque mare. Dio vide che era cosa buona. 11DISSE Dio: «La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che fanno sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la propria specie». E così avvenne. 12E la terra produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie, e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona.
13E fu sera e fu mattina: giorno terzo.

14DISSE Dio: «Ci siano fonti di luce nel firmamento del cielo, per separare il giorno dalla notte; siano segni per le feste, per i giorni e per gli anni 15e siano fonti di luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra». E così avvenne. 16E Dio fece le due fonti di luce grandi: la fonte di luce maggiore per governare il giorno e la fonte di luce minore per governare la notte, e le stelle. 17Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra 18e per governare il giorno e la notte e per separare la luce dalle tenebre. Dio vide che era cosa buona.
9
E fu sera e fu mattina: giorno quarto.

20DISSE Dio: «Le acque brùlichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo». 21Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brùlicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati, secondo la loro specie. Dio vide che era cosa buona. 22Dio li benedisse: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra».
23E fu sera e fu mattina: giorno quinto.

24DISSE Dio: «La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e animali selvatici, secondo la loro specie». E così avvenne. 25Dio fece gli animali selvatici, secondo la loro specie, il bestiame, secondo la propria specie, e tutti i rettili del suolo, secondo la loro specie. Dio vide che era cosa buona.

26DISSE Dio: «Facciamo Àdam a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra».

27E creò Dio Àdam a sua immagine; / a immagine di Dio lo creò: / pungente e forata li creò.

28Dio li benedisse e Dio DISSE loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra».

29DISSE Dio: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo. 30A tutti gli animali selvatici, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde». E così avvenne. 31Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona.
E fu sera e fu mattina: giorno sesto.

2,1Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. 2Dio, nel giorno settimo, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel giorno settimo da ogni suo lavoro che aveva fatto.

Entrare nel testo

Rileggiamo il testo più lentamente e sottolineiamo le parole che riteniamo importanti, specialmente verbi, comandi, protagonisti, avverbi. Gesù ha detto che «non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto» (Mt 5,18). È quanto accade adesso e qui per me che prego: si compie in me la Parola perché io diventi «Parola di Dio», Parola di carne. In questo esercizio facciamo una scelta, che è indicativa, ben sapendo che «ogni singola parola» racchiude in sé «settanta significati»: spetta a noi scoprirli e farne il contenuto della nostra vita. Nello spazio di un articolo non possiamo dilungarci troppo.

Il senso generale che emerge dal testo è un cantiere animato. Dio ordina, comanda e le cose ubbidiscono e si realizzano. In questo brano troviamo queste ricorrenze: disse (10 volte) separò (5 volte), avvenne (4 volte), benedisse-siate fecondi (2 volte), portare a compimento (2 volte), e fu sera e fu mattino (6 volte), secondo la propria specie (5 volte).

Osservazioni oranti

Notiamo l’ostinazione del verbo «disse» (10 volte) cui corrisponde il «ritmo del tempo», declamato come un ritornello responsoriale: «e fu sera e fu mattina: giorno primo, secondo, ecc.» (6 volte). Verbo e ritmo emergono da un contesto negativo che è la non-forma della terra, la quale per giunta è deserta, aggravata dall’oppressione dell’abisso. Un senso di oppressione avvolge tutto, stemperato da uno spiraglio lontano perché in questo vuoto, dominato dal buio totale, aleggia (alla lettera: cova) il «soffio-ruàch» in attesa dello scoppio del primo «Disse». È la Parola che rompe il vuoto abissale e s’impone.

Non solo, ma a ogni «disse» corrispondono un ordine e una esecuzione: Dio crea parlando e parla creando. L’azione più importante che segue è una costante opera di «separazione/distinzione»: la luce dalle tenebre, il firmamento dal mare, la terra ferma dal mare, il giorno dalla notte. Poi segue un processo di fecondità «secondo la propria specie» (per 5 volte).

Ci fermiamo qui, per motivi di spazio per riprendere nella prossima puntata lo stesso testo. Ora tiriamo qualche conclusione.

  1. Se provo un senso di vuoto o d’inutilità, penso che sono nella condizione per una «ricreazione» della mia vita? Mi rendo conto che «il soffio-ruàch di Dio» alleggia su di me, «mi sta covando»?
  2. Cosa impedisce in me l’esplosione del «Disse» di Dio?
  3. Per chiamare le cose che crea con il proprio nome, Dio prima deve fare opera di separazione. Ogni separazione comporta sempre tagli e distinzione. So che per mettere ordine nella mia vita devo «buttare tutto all’aria» e poi cominciare «con disciplina e ordine» a catalogare scelte, azioni, sentimenti, progetti, decisioni «secondo la propria specie»?
  4. La mia vita è simile a una biblioteca, dove i libri non possono stare alla rinfusa, ma secondo uno schedario ordinato e praticabile. Posso contare le volte che ho messo «ordine» nella mia vita? Con quale risultato? Coloro con i quali mi rapporto, possono trovare in me con facilità «il volume» che interessa loro o si trovano disorientati? In che modo posso essere strumento del «disse Dio» se io non ne ho coscienza?
  5. Posso vivere alla rinfusa, o devo avere un ritmo costante e rigoroso? (1° – 2° – 3°… giorno… e fu sera e fu mattino?). So distinguere la sera dal mattino? Cosa vuol dire per me: «Separare la luce dalle tenebre»?
  6. Chiamo tutto ciò che riguarda la mia vita «per nome»? Oppure vivo alla giornata per forza d’inerzia?
  7. Se vivo per forza d’inerzia o per abitudine, come posso essere fecondo/a «secondo la mia specie»? Mi sono mai chiesto quale sia «la mia specie»?
  8. Mi sperimento come «immagine» di Dio e capisco cosa significa? Se sono «immagine», penso mai che la credibilità di Chi rappresento passa attraverso la mia vita, le mie scelte, il mio comportamento?

Si può proseguire così, ritornando sul testo, rimuginandolo, ruminandolo, senza prendere alcuna decisione, ma facendo danzare nel proprio cuore i sentimenti e le intuizioni che la Parola di Dio ha suscitato. Scegliere un verbo del testo o una espressione che più si è insinuata «dentro» e ripeterla nella giornata, cercando di capire dove si colloca nel proprio intimo: è la «chiave» tra un tempo di preghiera e l’altro. Così tutta la vita si prepara a sentire risuonare la Parola in modo perenne: «Disse Dio» e ora «Dice a me», qui.

Un accorgimento: trascrivere le parole o i versetti che si sono percepiti come più importanti e portarseli dietro, leggendoli durante la giornata in modo veloce, senza ansia, come il respiro di un Amen. Ciò che importa è sorseggiare lentamente tutta la Parola di Dio, parola per parola, mangiandola fino a gustarne la dolcezza, come fece il profeta Ezechiele che mangiò il libro e sperimentò il gusto del miele (Ez 3,1-3).

Paolo Farinella, prete
 [La Preghiera, 13 – continua]




Insegnaci a pregare 12.

Pregare Dio senza dargli riposo

Di Paolo Farinella |


Dopo il successo della moltiplicazione dei pani, leggiamo nel vangelo di Matteo: «Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo» (Mt 14,23). In appena un versetto c’è tutta la vita di Gesù: la folla, il monte, la preghiera, il tempo, la sera, la solitudine. Solo «sul finire della notte, cioè all’alba, egli andò verso di loro camminando sul mare» (Mt 14,25). Per tutta la notte, Gesù ha vissuto l’esperienza del salmista: «In te si rifugia l’anima mia / all’ombra delle tue ali mi rifugio», perché all’alba possa danzare la vita nascente: «Svegliati mio cuore / svegliatevi, arpa e cetra / voglio svegliare l’aurora» (Sal 57/56,2.8-9). La preghiera di Gesù è notturna, la prospettiva è diurna; prega da solo, ma per andare «verso di loro».

Il ritmo della notte

La notte è silenzio e raccoglimento, nella notte rallentano le distrazioni, aumenta il bisogno di tenerezza da condividere, «si amoreggia» (fratel Arturo Paoli) o con il partner o con Dio. Gesù prega, «amoreggia» col Padre per prepararsi a non essere neutrale nel cuore della storia che tutti i giorni ricomincia all’alba. In lui nessuna traccia d’intimismo o di ripiegamento su se stesso, al contrario, la sua preghiera è un trampolino di lancio verso il mondo, l’umanità, verso la vita. Dopo avere cercato Dio ed essere rimasto con lui per tutta la notte, ora è pronto per annunciare la nuova umanità: «Beati i poveri»! Chi ha pane e sta con Dio, non può non spezzarlo con tutti. Si fa presto, però, a dire «cercare e trovare» Dio! Tutte le forme di spiritualità e i movimenti hanno la pretesa di insegnare a cercare Dio e garantiscono anche la via per trovarlo. In verità molti cercano proseliti, non testimoni del «Dio a perdere». Somigliano a coloro che promettono risultati mirabolanti di diete senza digiuno o sudore, o a chi garantisce l’apprendimento di una lingua in «tre settimane». Dio ridotto a un tecnicismo.

Non siamo sicuri che sia così semplice. Se per cercare e trovare Dio bastasse entrare in un movimento o scegliere una specifica spiritualità o «tre settimane», neppure residenziali, il mondo sarebbe un Eden di mistici e beati «stiliti», dritti e immobili su una colonna, glorificanti e pacificati. Nemmeno i monasteri di clausura sono «luoghi» certi della presenza di Dio; a volte possono anche essere luoghi della negazione non solo di Dio, ma anche della comunione fraterna. Stare insieme fisicamente, circoscritti in uno spazio, con i tempi contingentati, non significa di per sé «essere comunità», sacramento visibile della Gerusalemme celeste (vedi approfondimento più sotto).

Tutte le comunità corrono sempre il rischio di essere «mucca da mungere», da cui ognuno succhia il proprio latte, ma che nessuno si preoccupa di nutrire. Perché la comunità, la famiglia, il matrimonio, la coppia, il gruppo, siano segno della Gerusalemme celeste «visibile», è necessario che siano coniugati sullo stesso registro tre pilastri: l’individualità, la comunità e la Trinità come metro di misura. Altrimenti, ci troviamo dentro una qualsiasi associazione d’interesse e di sfruttamento.

Nota esegetico spirituale

Cercare Dio è un «ritorno al principio», bisogno primario della persona e biblicamente si coniuga con l’altro termine «trovare»; insieme formano un binomio essenziale: «cercare-trovare». Noi cerchiamo Dio, ma lui si fa trovare? Donna Sapienza ci assicura di lasciarsi trovare da coloro che la cercano (cfr. Pr 8,17), mentre l’amante donna del Cantico dei Cantici per ben tre volte cerca l’amato del suo cuore, ma senza riuscire a trovarlo, anzi afferma espressamente: «Non l’ho più trovato» (Ct 3,1.2;5,6). Eppure il binomio «cercare-trovare» è tipico dell’innamoramento; la stessa donna innamorata del Cantico dei Cantici non si rassegna e corre per le vie di Gerusalemme alla ricerca dell’amato: lo trova, lo smarrisce e lo ritrova. Noi credenti, se innamorati, possiamo cercare e trovare nella Parola il volto di Dio e il riflesso del nostro cuore che si rispecchia in lui per apprendere orizzonti, comportamenti e atteggiamenti.
Il salmista, dal canto suo, mette in moto il cuore per cercare il volto del Signore e ne fa un vanto di gloria (cfr. Sal 27/26,8; 105/104,3). Per Amos (sec. VIII a.C.) «cercare il Signore» è vivere e nutrirsi della sua Parola che però non è facile trovare se non si conosce già ciò che si vuole (cfr. Am 5,4.6; 8,12). Il profeta Michèa (sec. VIII a.C.) ribalta la questione: è il Signore che cerca noi e da noi vuole solo giustizia, tenerezza e comunione (cfr. Mic 6,8). A essi risponde il 1° Isaìa (sec. VIII a.C.) dicendo che cercare il Signore è sinonimo di prendere coscienza dello stato di desolazione in cui da soli ci siamo ridotti (cfr. Is 26,16). Il 2° Isaìa nel VI sec. a.C. descrive la volontà di Dio che è sempre reperibile perché non gioca a nascondino per farsi cercare nel caos/vuoto (cfr. Is 45,19), mentre il 3° Isaìa, nel sec. V-IV a.C., ha una prospettiva più universalistica e ci assicura che il Signore si fa trovare anche da coloro che non lo cercano affatto (cfr. Is 65,1).

Sant’Agostino sintetizza tutto questo percorso con le parole insuperabili delle Confessioni che rispecchiano la sua esperienza personale, ma anche l’anelito di ogni vivente: «Fecisti nos ad Te, et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in Te – Ci hai creati per te e il nostro cuore sta inquieto finché non trova riposo in Te» (Sant’Agostino, Le Confessioni, 1, 1, 1: CCL 27, 1 [PL 32, 659-661]).

 

L’idolatria sempre in agguato

Occorre stare attenti perché Dio può anche essere un «idolo» che noi scambiamo per Dio. Spesso sono le persone religiose che trasformano Dio in un idolo, dando così il fianco a chi ritiene di avere ragioni per negare la serietà di Dio e l’inutilità dei monasteri di clausura o dei conventi o delle congregazioni religiose, visti dall’esterno come comodi rifugi per una vita senza preoccupazioni: pasto, letto, tetto, e (forse) cultura sono assicurati, che piova o faccia freddo, perché è garantita la sicurezza dell’oggi e del domani. Il «voto di povertà» può diventare la massima garanzia «previdenziale» e assicurativa della vita: «Nihil habentes et omnia possidentes» (2Cor 6,10), capovolgendo la prospettiva del Vangelo e dell’apostolo Paolo. Noi credenti dobbiamo stare attenti a non fare di Dio il nostro «idolo» perché si può essere religiosi atei, si può essere atei e laicisti devoti per interesse, si possono osservare tutte le regole della vita religiosa e vivere nella totale assenza di se stessi a Dio. Gli idoli sono necessari agli impiegati della religione per semplificare la vita, trasformando Dio in un «tappabuchi» (Bonhöffer) sostitutivo della nostra incapacità di essere veri e autentici nella trasparenza evangelica della verità di Dio.

La preghiera, lo abbiamo visto e anche ripetuto molte volte, non è macinare parole o ingurgitare sospiri, ma purificare ciò che noi pensiamo di Dio, illimpidire lo sguardo per imparare a vedere e scrutare con gli occhi di Gesù, esercitarsi a pensare come lui in ogni circostanza, non secondo questa o quella filosofia, questa o quella ascetica, questa o quella convinzione o morale. Il concilio Vaticano II ci ha messi in guardia dal rischio che il Dio in cui diciamo di credere sia veramente il Dio di Gesù Cristo (Gaudium et Spes, nn. 19-20). Il comandamento di «non nominare il nome di Dio nel vuoto» (Es 20,7) non è rivolto ai bestemmiatori, ma ai credenti che impudicamente usano Dio come una merce o peggio una clava per ammazzare, distruggere, annichilire, mettere a tacere gli altri, identificandolo come sponsor della propria ragione e del torto altrui.

Vigilare la consuetudine

Pregare è un’altalena: «Lui deve crescere e io diminuire» (Gv 3,30). Nella preghiera occorre fare spazio al Signore che non è mai invadente e proporzionalmente diminuire i preconcetti, le certezze, le sicumere, le durezze che, come spazzatura, occupano spazi che meritano migliore distribuzione. Siamo talmente abitudinari nel nostro rapporto con Dio da averne perso completamente la memoria: viviamo per forza d’inerzia, andiamo avanti per schemi, senza nemmeno pensare o capire o accorgerci che inerzia e schemi hanno preso il posto dell’incontro. Quando qualcuno dice: «Vivo un tempo di aridità spirituale», oppure «mi distraggo quando dico le preghiere», che cosa significa se non che si sono smarriti nel dedalo dell’usuale, del convenzionale e delle formule? Dire «le» preghiere, ecco il punto. L’uso del plurale è sintomatico perché esprime l’idea che si tratti di una pratica acquisita, come prendere una medicina, a orari fissi (mattina, sera) per togliersi il pensiero. Non c’è la passione della vita o dell’intreccio della relazione. Si recita. Come in un piccolo teatro personale. Pregare, invece, è lasciarsi restituire da Dio la vita insieme alla nostra responsabilità e alla nostra dignità di testimoni della sua Presenza (Shekinàh).

Gesù si ritira in preghiera perché deve riordinare le coordinate dopo essere stato con la folla che ha appena sfamato, moltiplicando il pane con l’obiettivo di invitarla a cercare il pane che non perisce (cfr. Gv 6). La folla non capisce perché «cerca» un «utile» immediato. Per capire il nesso degli eventi e la direzione della sua vita, deluso da questo atteggiamento, Gesù prende una decisione drastica: congeda la folla, se ne stacca e si libera dall’ossessione del risultato. Di fatto, è il primo fallimento di Gesù. Da questo momento, egli si dedica alla formazione dei discepoli ai quali impartisce una serie di lezioni per educarli a vedere oltre i segni, oltre le apparenze, come ha appreso lui nell’intimità orante col Padre. Non insegna loro come raggiungere un risultato, ma come devono essere loro e quale metodo devono utilizzare per essere sempre se stessi, fedeli alla loro missione che coinvolge direttamente il nome e il volto di Dio.

Gesù si preoccupa che i discepoli si stacchino dalla logica della folla, come se volesse proteggerli dal virus mortale del consenso e del successo: li manda all’altra riva, anzi li «costrinse a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva» (Mt 14,22). Come una mamma che difende i suoi piccoli, resta lui da solo a fare da scudo, preservandoli dalla folla. La folla non è mai popolo e i discepoli non possono mondanizzarsi, devono vedere le cose da un altro punto di vista, dall’alto, e per questo devono imparare a ragionare, a pensare come Dio, cioè a pregare per illimpidirsi lo sguardo del cuore per potere vedere nel profondo della realtà. Non è facile, per questo Gesù insegna loro come fare. Scrive Madeleine Delbrêl (1904-1964), una tra le più grandi mistiche di ogni tempo:

«La fede non è forse vita eterna impegnata nel temporale? Noi ci vediamo costretti a raccordare la nostra vita di cristiani con tutto ciò che per noi è attuale: accelerato, momentaneo, immediato. Non è che questo ci costringa a credere diversamente, ci costringe a vivere diversamente» (Madeleine Delbrêl, È stato il mondo a farci così timidi? Uno scritto inedito, Editrice Berti, Piacenza 1999, 16-17).

Matteo riporta in 14,22-33 il racconto di Pietro che rischia di affondare in mare. Dopo il fallimento con le folle, Gesù si prende cura dei suoi discepoli, impartendo loro la prima lezione di vita di fede. L’evangelista mette in evidenza di proposito l’attenzione particolare di Gesù verso Pietro (cfr. anche Mt 16,16-21; 17,24-27), legato ai propri schemi limitati e non ancora libero di gettarsi al collo di Dio. È vero che si lancia fuori dalla barca, ma rischia di affondare perché lo fa con riserva e non con l’abbandono che Gesù esige con il suo «Vieni!». D’altra parte come può avere paura uno che pensa di essere «afferrato» dal desiderio di raggiungere l’amore? Per non sprofondare, Pietro ha bisogno di una «mano tesa» che lo «afferri» (Mt 14,31), salvandolo dalla povertà della sua «poca fede». Gesù è già lì, pronto col braccio teso, prima ancora che Pietro possa invocare: «Salvami!».

Nota linguistica.

L’espressione: «Dopo avere steso la mano, lo afferrò», è un’espressione idiomatica semita, che dimostra come spesso gli autori del NT pensano in aramaico/ebraico e scrivono in greco. Le lingue semite sono descrittive per eccellenza: l’azione della mano, infatti, è osservata dall’inizio alla fine dell’opera di salvamento: per afferrare Pietro, occorre prima stendere la mano verso di lui (cfr. Gen 22,10), azione che denota la volontà decisa d’intervento.

 

Solo superando le ipotesi su Dio Pietro riesce a invocare Dio

© Gigi Anataloni

Nonostante il Signore si faccia riconoscere e infonda coraggio, la paura permane e genera diffidenza; Pietro, infatti, insicuro, mette alla prova il Signore: «Signore, se sei tu…» (Mt 14,28) che è la stessa richiesta del diavolo nelle tentazioni: «Se tu sei figlio di Dio…» (Mt 4,3.6). Durante la passione ritroveremo Pietro che rinnegherà tre volte l’identità di Gesù, sconfessando la sua, negando cioè di essere quello che è: suo discepolo (cfr. Mt 26,69-75; cfr. Gv 18,17.25-27). Tra tutti i discepoli, Pietro è il più fragile, il più pauroso e il più insicuro: non sempre l’autorità brilla per chiarezza, coerenza e dignità. Egli di fronte a Gesù che cammina sulle acque, ubbidisce alla parola materiale del Maestro che lo chiama a dominare le acque con lui, ma nel suo cuore vacilla, dubita e non fidandosi non si affida alla Parola che lo sostiene: egli vuole «fare come Gesù», ma basta la contrarietà del vento per dargli la sensazione del pericolo. Un discepolo non è mai la fotocopia del maestro altrimenti non somiglierebbe a colui che costruisce la casa sulla sabbia (cfr. Mt 7,26-27) e frana in mezzo all’acqua da cui viene travolto, come i carri e i cavalli del Faraone (cfr. Es 14,26).

Solo l’affidamento e la consapevolezza di essere salvati pone nella condizione esistenziale di essere veri discepoli: «Signore, salvami!» (Mt 14,30). Con questa invocazione Pietro rinasce come «l’anti Àdam» perché non usurpa l’identità di Dio, ma si lascia afferrare dalla mano forte e sicura del Signore che lo reintegra nella fede sufficiente: «Uomo di corta fede» (Mt 14,31). La nostra corta fede spesso c’impedisce di vedere la Parola e la mano che si protende a noi! All’arrivo del Signore, salito sulla barca (nei vangeli è sempre simbolo della Chiesa), il vento cessa. Gesù domina gli elementi della natura come Yhwh governa e comanda i fenomeni naturali che fanno da sfondo alle sue apparizioni teofaniche. Gesù si presenta assumendo su di sé il Nome stesso di Dio rivelato nella maestosa teofania del Sìnai a Mosè che vive l’esperienza del roveto ardente: «Io-Sono – Egô Eimì» (Es 3,14).

Nota esegetica.

Purtroppo anche la nuova traduzione della Bibbia (Cei-2008) usa l’anonimo «sono io» e non la pregnanza teologica della rivelazione di Gesù sulle acque del mare di Tiberìade che deve essere reso solo con «Io-Sono–Egô Eimì», richiamo esplicito alla rivelazione del Dio di Mosè che si mette all’opera per la liberazione attraverso le acque del Mare Rosso.

La prova di questo si ha nel vangelo di Giovanni, dove l’espressione ricorre in dieci forme diverse: «Io-Sono» (Gv 4,26; 6,20; 8,24.28.58; 9,9; 13,19; 18,5.6.8);
«Io-sono il pane» (Gv 6,35.41.48.51); «Io-sono il pane della vita» (Gv 6,35.48); «Io-Sono la luce» (Gv 8,12); «Io-Sono il testimone» (Gv 8,18); «Io-Sono la porta delle pecore» (Gv 10,7.9); «Io-Sono il pastore bello» (Gv 10,11.14); «Io-Sono la risurrezione» (Gv 11,25); «Io-Sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6); «Io-Sono la vite vera» (Gv 15,1); «Io-Sono la vite» (Gv 15,5). La somma totale di tutte queste affermazioni di identità, «Io-Sono», in Gv fa ventisei che, secondo la scienza dei numeri o ghematrìa, è la somma dei numeri corrispondenti alle lettere che compongono il nome di «Y_H_W_H» (=10+5+6+5). Per Giovanni, usando l’espressione «Io-Sono», Gesù è consapevole d’identificarsi con il Dio della rivelazione ebraica, il Dio dell’esodo e, come Yhwh dominò le acque del Mare Rosso, salvando il suo popolo, così ora Gesù domina il mare, salvando Pietro.

 

Pregare: non dare tregua a Dio

Il Terzo Isaia (sec. V-IV a.C.), degno discepolo del suo maestro, l’Isaia vissuto nel secolo VIII, deve avere una buona frequentazione con il Dio d’Israele perché non esita a invitare le sentinelle di Sion, (la città) sede della gloria di Yhwh, all’insubordinazione:

«Sulle tue mura, Gerusalemme, ho posto sentinelle; per tutto il giorno e tutta la notte non taceranno mai. Voi, che risvegliate il ricordo del Signore, non concedetevi riposo né a lui date riposo, finché non abbia ristabilito Gerusalemme e ne abbia fatto oggetto di lode sulla terra» (Is 62,6-7).

L’orante è colui che sta sulle mura della città di Dio «per tutto il giorno e tutta la notte» che è richiamo diretto alla «necessità di pregare sempre senza mai venire meno» (Lc 18,1). Compito dell’orante è risvegliare «le memorie del Signore» (l’ebraico usa il plurale di «zikkaròn-memoriale») che richiama la sua presenza viva e sperimentabile. L’idea che Dio possa dormire ci rimanda a Gesù che si addormenta simbolicamente nella barca: «Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono» (Mc 4,38). A questo punto la preghiera si fa questione di vita: «Non concedetevi riposo né a lui date riposo». Non bisogna concedere riposo a Dio e lo si può fare solo non concedendosi riposo. Un amico, plasticamente, diceva che per lui pregare era «mettere Dio con le spalle al muro», esattamente come fa Mosè, quando ricatta Dio, minacciandolo di abbandonarlo e di farsi cancellare dal libro dell’alleanza, se Dio non perdonerà il suo popolo: «Se tu perdonassi il loro peccato… Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (Es 32,32).

Per arrivare a queste vette di profondità non si può essere improvvisatori, ma bisogna avere un’esperienza lunga, assidua e ininterrotta di convivialità con Dio, di fraternità con uomini e donne, di purificazione dell’essere e liberi da ogni ritualità che, immergendoci nel ripetitivo rassicurante, ci impedisce di volare sulle ali della preghiera per essere ben piantati sulle strade della storia.

Dal prossimo numero passeremo ai testi.

Paolo Farinella, prete
(12, continua)

Nota.

Per l’approfondimento, cfr. Carlo Maria Martini, Non date riposo a Dio. Il primato della Parola nella vita della Chiesa, EDB, Bologna 2012.




Insegnaci a pregare 11:

Pregare per essere noi stessi


Di Paolo Farinella |


Alla conclusione della decima puntata di «Insegnaci a pregare» del dicembre scorso ci siamo salutati con la promessa che la rubrica sarebbe continuata per tutto il 2018 in una sorta di «seconda parte» dedicata a esercizi pratici di preghiera con e nella Bibbia.

Partiamo da alcune riflessioni preliminari per una coscienza disposta a imparare a «pregare i testi» se non vogliamo camminare invano. Su questo argomento sono stati scritti decine e centinaia di metodi, suggerimenti, sussidi e credo che nessuno potrà mai esaurire la ricerca o trovare la soluzione ideale. Ognuno prenderà quello che è più consono alla propria sensibilità, cultura, interiorità, bisogno, difficoltà, disponibilità di tempo e coscienza di sé. Noi non vogliamo fare concorrenza ad alcuno né vogliamo insegnare qualcosa a qualcuno, ma partendo dalla nostra esperienza e formazione sempre «in aggiornamento», desideriamo riconsiderare «l’atto del pregare in sé». Proviamo a metterlo in pratica con l’obiettivo di scoprire sempre più chi siamo noi per essere in grado d’imparare a conoscere meglio Dio stesso. Ci poniamo su un versante introduttivo perché ognuno deve imparare a pregare secondo il suo cuore. Noi possiamo condividere stimoli e desideri.

«Dove» lungo il cammino

L’errore di fondo è dare per scontato Dio, solo perché frequentiamo qualche cerimonia o per il fatto di essere preti o monaci o monache o credenti, ma non praticanti. Lungo il cammino della nostra vita, dobbiamo sapere «dove siamo»: nessuno ha la garanzia di avere incontrato Gesù. È possibile che «adesso e qui» siamo con Adamo ed Eva a discutere «frutto sì, frutto no», o schiavi in Egitto a macinare mattoni, o ai piedi del Sinai a fare baldoria attorno a un vitello scambiato per Dio liberatore, o vaganti nel deserto alla ricerca di una terra promessa e mai raggiunta, o uditori della parola dei profeti non ascoltati perché preferiamo i riti del tempio più rassicuranti, o esuli in Babilonia a sognare i «bei tempi andati», o tra gli storpi, ciechi e muti che cercano Gesù di Nàzaret, o sul sicomòro con Zacchèo perché piccoli di statura spirituale e incapaci di vedere Gesù che passa «di là» (Lc 19,4), o ai piedi della croce con la massa urlante «crocifiggilo», o delusi ai bordi di un sepolcro vuoto, o pieni di Spirito del Risorto, felici di annunciare il suo Vangelo, avendolo vissuto interamente e senza sconti.

Non si può pregare a caso, a orologio, o a bisogno. Pregare è respirare, vivere, desiderare, comunicare, fondersi, morire. San Benedetto, tra i secoli V e VI aveva inventato lo schema Ora et labòra (pregare e lavorare), ma oggi bisognerebbe modificarlo in «Ora est labòra» (pregare è lavorare). La preghiera, infatti, è lavoro perché, come nell’amore, impegna «cuore, testa e pelle». Quando gli Ebrei pregano, dondolano il corpo perché anch’esso partecipi all’azione interiore del pensiero e dell’affetto. Non possiamo separare queste tre dimensioni senza creare una frattura in noi che per istinto tendiamo all’unità tra pensiero, sentimenti del cuore, atteggiamenti corporei. È quello che si chiama «movimento ecumenico personale» perché il sentiero dell’unità tra le Chiese passa attraverso il cuore di ogni singolo credente che guarda alla sintesi armonica dell’essere e dell’agire tra:

Chi si è e ciò che si fa.
Ciò che si fa e ciò che si prega.
Ciò che si prega e ciò che si desidera.
Ciò che si desidera e ciò che si spera.
Ciò che si spera e ciò che si pecca.
Ciò che si pecca e ciò che si riceve in grazia.

Questa è la preghiera: rimescolare le carte, intraprendendo un cammino verso la maturità e l’armonia per raggiungere la coscienza di sé e sapersi riconoscere come figli-immagine del Padre. Diversamente, pregare si trasforma in un soliloquio, un parlare con se stessi, macinando parole morte, veri idoli che occupano la mente, impedendo di abitare il cuore.

Sapere chi si è

Ciminiera campanile del Santo Volto – Torino

È la domanda esistenziale che la commissione d’inchiesta inviata dal sinedrio pone a Giovanni: «“Tu, chi sei?” Egli confessò e non negò. Confessò: “Io non sono il Cristo”. Allora gli chiesero: “Chi sei, dunque?”» (Gv 1,19-21). La domanda posta dalla commissione a Giovanni «Chi sei tu?» (Gv 1,19 e 22; cf 8,25; 21,12), è la domanda che attraversa la storia di ciascuno di noi, perché ci obbliga all’individuazione della nostra identità. In altre parole: io devo sapere chi sono. Non basta avere opinioni, o formule precostituite (Elia, il profeta, uno dei profeti, ecc.), bisogna sapere chi si è e chi non si è, bisogna cioè avere un contatto vero e coerente con i nostri confini, se si vuole vivere la vita nell’autenticità e nella verità. La commissione d’inchiesta parte dal tempio, inviata dai farisei, cioè dai custodi delle tradizioni, del culto, della spiritualità, della liturgia, della regola: sono gli specialisti del sacro. Noi siamo specialisti della vita religiosa, perché poniamo Dio nel mezzo dei nostri discorsi, dei nostri ragionamenti, attribuendo a lui le nostre aspirazioni e convinzioni. C’è il rischio d’identificarci con Lui e di contrabbandare la nostra volontà con la sua e quindi di chiuderci alle «gioiose notizie» che ogni giorno c’invia attraverso gli avvenimenti che viviamo, anche quelli che a noi sembrano banali o insignificanti.

La domanda Chi sei tu? è personale e acquista un senso nuovo e dirompente: «Perché ho fatto questa scelta di vita, questo lavoro, questi impegni? Qual è la mia identità personale all’interno degli ambienti di vita e nelle relazioni che vivo? Qual è il senso del mio essere uomo, donna, madre, figlia, marito, figlio? Giovanni sgombra subito il terreno, distruggendo le eventuali illusioni che i commissari avrebbero potuto farsi di lui e li incalza: «Io non sono il Cristo», scartando onori e compiti che non gli appartengono. Può succedere che le persone che vengono a contatto con noi, tendano a considerarci migliori di quanto non siamo. Non possiamo illuderci con le apparenze: la nostra consistenza è semplicemente nell’essere noi stessi, sempre, ovunque con chiunque. Anche se questo comporta incomprensione, giudizi, etichettature, esclusione. Forse è possibile che di fronte agli altri non sappiamo cosa rispondere, ma quando rientriamo nel segreto della nostra stanza, là dove non possiamo né barare né nasconderci, «il Padre tuo, che vede nel segreto» (Mt 6, 4.6) ci obbliga a rispondere alla verità di noi stessi: «Chi sono io?». Questo è l’obiettivo della vita, lo scopo della rivelazione, la dimensione della preghiera. Se non sappiamo chi siamo, come possiamo presentarci agli altri e a Dio, l’Altro per eccellenza?

«Non posso insegnarvi parole di preghiere»

Il cristiano maronita libanese, poeta, scrittore e mistico, Jubr?n Khal?l Jubr?n (1883-1931), in occidente conosciuto come Kahlil Gibran, parlando della preghiera usa parole profonde, da orientale (sottolineature nostre):

«…allora una sacerdotessa disse:
Parlaci della Preghiera.
Ed egli rispose, dicendo:
Voi pregate nelle angustie e nel bisogno;
ma io vorrei che pregaste anche nella gioia piena e nei giorni dell’abbondanza.

Poiché che altro è la preghiera se non l’espansione di voi stessi nell’etere vivente?

Ed è a voi di conforto versare nello spazio, la vostra oscurità,

ed è anche per voi diletto versare all’esterno la gioia mattinale del vostro cuore.
E se non potete fare a meno di piangere quando
l’anima vi chiama alla preghiera,
essa dovrebbe spingervi, comunque, fino al punto che attraverso le lacrime spunti il sorriso.

Quando pregate voi v’innalzate a incontrare nell’aria tutti coloro che in quel medesimo istante sono in preghiera,
che mai, se non nella preghiera, potreste incontrare.

Perciò non sia questa vostra visita a quell’invisibile
tempio che estasi e dolce comunione.
Poiché se intendeste entrare nel tempio non per altro che per chiedere, non ricevereste nulla.
E se entrate per umiliarvi, non sarete innalzati.
E se anche voleste entrare per intercedere per il bene di altri, non sarete esauditi.
Basta già che voi entriate nell’invisibile tempio.

Io non posso insegnarvi parole di preghiere.
Dio non ascolta le vostre parole,
a meno che Egli stesso non le pronunci attraverso le vostre labbra.

Ed io non posso insegnarvi la preghiera dei mari,
delle foreste, delle montagne.
Ma voi, nati dai monti, dalle foreste e dal mare potete ritrovare nei vostri cuori la loro preghiera.

E se solo state in ascolto nella quiete delle notti udrete mormorare:
“Dio nostro, che sei la nostra ala, è la tua volontà che vuole in noi. È il tuo desiderio che desidera in noi.
È il tuo impulso in noi che può trasformare le nostre notti, in giorni che siano anche i tuoi giorni.

Nulla possiamo noi chiederti, poiché tu conosci le
nostre necessità prima ancora che nascano in noi.
Sei tu la nostra necessità; e nel darci più di te stesso, tu ci dai tutto”».

(Da Il Profeta, Giunti edizioni, Bellaria (Rimini), 2004).

«Versare il cuore»

Parole da centellinare una per una, perché mentre svelano la natura della preghiera, velano le nostre nudità che si accontentano spesso di esteriorità e verbosità: espansione, versare nello spazio e all’esterno, come dire uscire da noi stessi, abitando il nostro profondo, che spesso trasformiamo, riuscendoci, in prigione comoda e accidiosa. Gibran è immerso nella Scrittura, la respira con la sua vita, riuscendo a trasformarla in poesia e anelito di desiderio. Dio, ci dice, non ascolta le parole, ma abita il cuore nostro per trasformarlo in benedizione da spandere sull’umanità e riunire così in un unico afflato tutti coloro che pregano in ogni «dove» personale, sparsi in tutto il mondo, là ove stanno oranti, conosciuti e sconosciuti, per essere trasformati «in un cuor solo e un’anima sola». Sì, pregare è essere presenti, non diventare ciarlanti e petulanti.

Nulla possiamo, nulla dobbiamo chiedere a Dio – come non ricordare i gigli del campo e gli uccelli del cielo? (cfr. Mt 6,26-29) – perché, non solo lui conosce le nostre necessità meglio di noi, ma è lui e solo lui la nostra unica e sola necessità. Anche l’ultima edizione della Bibbia-Cei (2008), purtroppo, riporta il salmo 62/61,9 con queste parole: «Davanti a lui aprite il vostro cuore», traduzione piana, oseremmo dire, banale, neutra. L’ebraico invece ha parole dirompenti che lasciano il segno: «Versate davanti a lui il vostro cuore».

Nota esegetica.
Il verbo «shaphàk – versare» indica lo spargimento di qualcosa di liquido, comunque non di immobile. Da questo verbo deriva «shèphek – luogo del versamento», cioè «la discarica» (cfr. Lv 4,12); per analogia, invece, «shophkà» è il «pene» maschile in quanto condotto di fluidi (cfr. Dt 23,2). Si versa l’acqua (cfr. Es 4,9), il sangue (cfr. Lv 4,7); lo spirito (cfr. Gl 3,1), la collera (cfr. Ez 14,19). Il testo ebraico oltre che più poetico è più intenso e potente della traduzione italiana, con l’espressione «versare il cuore» (per la Bibbia sede dell’intelligenza e della coscienza), descrive la vita come fosse la liquidità inafferrabile che solo Dio sa contenere: «Versate davanti a lui».

È la preghiera suprema: donarsi a Dio come liquido che si spande e si sparge. Non si può stare davanti a lui duri e impermeabili, ma col «cuore versato», quasi che Dio vi debba attingere per riempire e saziare il bisogno che egli ha di noi. Lo abbiamo già visto nella prima parte, commentando il Targùm del Cantico dei Cantici 2,8, dove Dio supplica l’Assemblea-sposa-Israele a mostrarsi a lui nella bellezza orante perché non può vivere senza «vedere» il volto e sentire la voce dell’Assemblea che prega:

«Subito, allora, essa aprì la sua bocca in preghiera davanti al Signore (Es 14,10); e uscì una voce dai cieli dell’alto, che disse così: Tu, Assemblea d’Israele, che sei come colomba pura, nascosta nella chiusura di una spaccatura di roccia e nei nascondigli dei dirupi, fammi udire la tua voce. Perché la tua voce è soave quando preghi nel santuario, e bello è il tuo volto nelle opere buone» (cfr. Esodo Rabbà XXI, 5 e Cantico Rabbà II, 30; Mekilta Es 14,13).

È in questo senso che, secondo noi, deve essere interpretata l’ottava strofa della sequenza di Pentecoste «Veni, Sancte Spiritus» (sec. XII): «Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, raddrizza ciò ch’è sviato – Flecte quod est rígidum, fove quod est frígidum, rege quod est dévium». Da queste potenti immagini emerge lo Spirito come artigiano modellatore che lavora la creta finché la forma non corrisponda alla sua idea (cfr. Ger 18,2-6; cfr. anche Is 64,7). Il liquido si adatta immediatamente al suo contenitore e l’immagine del «cuore versato» apre prospettive molto belle e ardite sulla relazione affettiva con Dio e, di conseguenza, anche sulla preghiera che, a questo punto, non può più essere una contrattazione commerciale (io ti do e tu mi dai) o un rituale a orario fisso, ma uno svuotarsi, sull’esempio di Gesù che «non ritenne un privilegio essere come Dio, ma svuotò se stesso – ekènosen» (Fil 2,7), perché noi potessimo versare il nostro cuore liquido davanti a Dio che lo raccoglie, goccia a goccia, perché nulla vada perduto (cfr. Gv 6,39).

Voce di silenzio sottile

«Io non posso insegnarvi parole di preghiere», ci ha detto Gibran. Se riduciamo la preghiera a parole, scaviamo un abisso tra noi, la preghiera, lo Spirito e Dio, impossibile da valicare perché restiamo coperti dalla «polvere delle morte parole», ossessionati dal compiere il dovere di «recitare l’Ufficio» o di «dire la Messa», dimentichi che il vertice della Parola, e di conseguenza, delle nostre parole, è il Silenzio adorante. Insegna un mistico bengalese (India), Rabindranth Tagore (1861-1941): «La polvere delle morte parole ti copre, lavati l’animo nel silenzio», quel silenzio che il Dio di Gesù amò prima della creazione del mondo, secondo un midràsh ebraico:

«Rabbi Abbahù (300 ca.) diceva in nome di Rabbi Jochanàn (m. 279): Quando Dio diede la Legge nessun uccello cinguettava, nessun volatile volava, nessun bue muggiva, nessuno degli Ofanìm (ruote del carro divino, cfr. Ez 1,15-21) muoveva un’ala, i Serafini non dicevano “Santo, Santo, Santo”, il mare non mormorava, le creature tacevano, tutto l’universo era ammutolito in un silenzio senza respiro, e venne la voce: “Io sono il Signore tuo Dio” (Es 20,2)» (Midràsh, Esodo Rabbà 29,9 a 20,1).

Autunno in Certosa di Pesio

Il profeta Elia fa l’esperienza della «voce di silenzio sottile – qol demamàh daqqàh», che lascia sbigottiti, perché non capiamo il senso della «sottigliezza» del silenzio che già da sé esprime una intensità assoluta. Il silenzio è anche sottile, come se volesse essere ancora più silente: «Dopo il fuoco, una voce di silenzio sottile (la Bibbia-Cei, 2008 traduce in modo banale brezza leggera). Come l’udì [udire il silenzio!] Elìa si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna» (1Re 19,12-13). L’esperienza di Elia è connessa con il dramma del vivere in mezzo al male del mondo e la necessità di dominarlo e, per non impazzire, ciò può avvenire solo vivendo fino in fondo la propria vita in intima unione con il Signore. Dominare il male del mondo significa liberare Dio da ogni tentazione temporale e idolatrica e restituire alle cose del mondo la loro autonomia perché il Dio di Elìa non è nel terremoto o nel turbine e nemmeno nel vento leggero, come di solito s’interpreta superficialmente il testo. No, Dio non è nella brezza leggera. Dio è Silenzio sottile.

Il testo dice che Elìa si coprì il volto al sentire la «voce di silenzio sottile – qol demamàh daqqàh» che non sappiamo come rendere in italiano nel suo significato vero. Possiamo supporre che sia in contrapposizione a Bàal, i cui sacerdoti Elìa ha annientato (cfr. 1Re 18). Bàal era il dio della tempesta e quindi del frastuono, mentre il Dio d’Israele è il «Dio silente» della coscienza e del cuore, che occorre ascoltare. Per ascoltare col cuore occorre non solo fare silenzio, ma «essere silenzio» e pure sottile, trasparenza, identità. La «voce di silenzio sottile» potrebbe essere anche uno schermo per velare Dio alla vista di Elìa, come la mano di Dio impedì a Mosè di vederne la «Gloria» (cfr. Es 33,32).

Sono solo interpretazioni, ma il profeta nell’«ascoltare il silenzio sottile», rinnova il gesto di Mosè al Sinai e si copre il volto perché nessuno può vedere Dio e restare in vita (cfr. Es 3,6 33,18-23; Is 6,2). Fa eccezione Mosè con cui «Il Signore parlava con faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (Es 33,11). Un’eccezione «unica», riservata al profeta per eccellenza, l’antesignano del Messia, il custode della Parola. La liturgia cattolica sente l’esigenza di creare questo clima nel momento supremo dell’incarnazione. L’antifona d’ingresso della II Domenica di Natale canta: «Nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa, mentre la notte giungeva a metà del suo corso, il tuo Verbo onnipotente, o Signore, è sceso dal cielo, dal trono regale» (Sap 18,14-15).

Ascoltando il silenzio di Dio che comunica a noi il suo anelito di vita, entriamo nella dinamica della preghiera, guidati dalla Parola, stabilendo, nel prossimo numero alcune regole essenziali.

Paolo Farinella, prete
[La Preghiera, 11 – continua].




Insegnaci a pregare 10.

Pregare e l’angoscia del nulla


Due mistiche di oggi

Marie-Melanie Rouget

Marie-Melanie Rouget (1883-1967), mistica francese, tra le più grandi del secolo XX, giunse alla fede dopo una tormentata vita anonima, attanagliata dalla sofferenza e dal dubbio. La morte precoce del fratello minore nel giorno di Natale la segnò tanto da farle assumere lo pseudonimo di Marie Noël. In «Diario segreto» rivive il rapporto orante con Dio che arriva fino al disgusto che si materializza nella nausea.

«- Eccovi, mio Dio. Voi mi cercate? Che cosa mi chiedete? Non ho niente da darvi. Dal nostro ultimo incontro non ho messo da parte nulla per Voi. Niente… non una buona azione. Ero troppo stanca. Niente… non una

buona parola. Ero troppo triste. Nient’altro che il disgusto di vivere, la noia, la sterilità.
– Dammeli!
– La fretta, ogni giorno, di vedere la giornata finita senza che sia servita a nulla. Il desiderio di riposo lontano dal dovere delle opere. Il disinteresse del bene che dovrebbe essere compiuto, il disgusto di Voi, o mio Dio!
– Dammeli!
– Il torpore dell’anima, i rimorsi della mia mollezza e la mollezza più forte dei rimorsi…
– Dammeli! ?-
Il bisogno di essere felice, la tenerezza che sfinisce, il dolore di essere io, senza scampo…
– Dammeli!
– Turbamenti, spaventi, dubbi…?-
Dammeli!
– Signore! Come un cenciaiolo andate raccogliendo immondizie e rifiuti. Che cosa ne volete fare, Signore?
– Il Regno dei Cieli».
(Marie Noël, Diario Segreto, Società Editrice Internazionale, Torino 1961, 44).


?Per un approfondimento: oltre al Diario segreto, appena citato, cf Benoît Lobet, Mio Dio, io non ti amo. Fede e spiritualità in Marie-Noël, SEI, Torino 1996; Ferdinando Castelli, s.j., «Marie Noël, Sorella delle “anime turbate”», in La Civiltà Cattolica, quaderno 3866, vol 3 (2011), 107. L’autore presenta alla cultura italiana la grande figura di Marie Noël, quasi sconosciuta prima, se si eccettua la pubblicazione del Diario segreto (1961) e della biografia di Lobet (1996) da parte dell’Editrice SEI di Torino sopra citati. L’articolo ben fatto descrive la personalità profonda di Marie che ha fatto della propria inquietudine il «dove» dell’intimità con Dio.


In Marie Noël troviamo la stessa esperienza di Teresa di Lisieux, da cui essa fu affascinata, che non chiede nulla, ma si limita ad amare. In lei troviamo anche Teresa d’Avila che, da mistica visse nel dubbio perenne dell’esistenza di Dio, che nemmeno l’abbandono totale fino alla consunzione delle sue viscere poterono alleviare. In lei ancora incontriamo Juan de la Cruz, amico, confidente e confessore di Teresa d’Avila, esperto di «notti oscure», che, prigioniero torturato dell’Inquisizione spagnola, offriva a Dio pure la sua impotenza di reagire. In Marie echeggia san Paolo che, annichilito dalle liti e dalle competizioni tra Corinzi, continua a gridare dal profondo della sua esperienza interiore:

«Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono» (1Cor 1,27-28).

Madeleine Delbrêl

Un’altra mistica, anch’essa francese, professione assistente sociale, è Madeleine Delbrêl (1904-1964) nata nell’ateismo militante e annegata nell’«abbagliamento» di Dio, con cui lottò come e più di Giacobbe:

«Non prega solo cinque minuti, ma affonda nella preghiera. E lo fa in ginocchio perché vuole essere sicura di farlo realmente, anche col corpo e non soltanto con le idee. Ecco la sua conversione: si è gettata di colpo nel centro della fede; ha abbracciato impetuosamente Dio e si è lasciata abbracciare, senza nemmeno esser certa che le braccia di Lui, nel buio, fossero protese. Si è gettata e si è trovata immersa nella luce, nel fuoco. Più tardi userà volentieri il termine: “Abbagliamento”, e dirà: “Poi, leggendo e riflettendo, ho trovato Dio; ma pregando ‘ho creduto’ che Dio mi trovasse, e che Egli è la verità vivente che si può amare come si ama una persona”.
Quasi echeggiando sant’Agostino, dialogherà con l’Altissimo, colma di stupore: “Tu vivevi e io non ne sapevo niente. Avevi fatto il mio cuore a tua misura, la mia vita per durare quanto Te e, poiché non eri presente, il mondo intero mi appariva piccolo e stupido e il destino degli uomini insulso e cattivo. Ma, quando ho saputo che vivevi, t’ho ringraziato d’avermi fatto vivere, t’ho ringraziato per la vita del mondo intero» (Antonio Maria Sicari, Il sesto libro dei ritratti di santi, Jaca Book, Milano 2000, 127-145).

Sulle orme dei mistici biblici

Tutto ciò nasce da una preghiera radicale ed essenziale, una preghiera divenuta compagna di vita e necessità esistenziale perché ha Dio come punto di partenza e punto di arrivo, senza divagazioni o frammentazioni. Paolo di Tarso, Marie, le due Terese, Juan de la Cruz e Madelaine hanno vissuto la preghiera come «esperienza assoluta» di Dio perché si sono lasciati sedurre, agguantare e portare sulle ali di aquila (cf Es 19,4) senza paura del vuoto che per altro già sperimentavano nel proprio cuore. Il vuoto del senso della vita, il nulla dell’insoddisfazione delle cose, l’esigenza della totalità per essere uno e tutto, pretendendo da Dio una risposta, dopo avere popolato la propria esistenza di molti e infiniti «perché», buttati letteralmente «sul cuore del Signore» (Sal 55/54,23) e lasciati lì a macerare e a perdersi per trasformarsi. No, la loro vita non era fatta di orari e formule, di programmi e ripetizioni «per senso di dovere» o per obbligo di legge: essi erano già quello che fu Francesco di Assisi: preghiera essi stessi. In questi mistici di tempi diversi, il percorso avvenne attraverso cinque passaggi.

1. Come Mosè:

«Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!» (Es 3,5). Prima di conoscere il Nome di Dio, Mosè deve scalzarsi, deve cioè liberarsi di tutto ciò che è morto.
I sandali erano fatti con pelli di animali morti e rendevano impuro qualunque luogo consacrato; ancora oggi i musulmani si tolgono i sandali per entrare in moschea. Togliersi i sandali significava lasciare la morte fuori insieme alle conseguenze della morte come la paura, il sospetto, la violenza come autodifesa. Togliersi i sandali vuol dire presentarsi a Dio senza difese e a piedi nudi, simbolo della povertà dell’essere. È l’atteggiamento del pubblicano nel tempio che, consapevole di essere «lontano» da Dio, non può fare a meno di cercarne la vicinanza, alla cui ombra si riposa, abbandonandosi al suo amore. «Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”» (Lc 18,13).

2. Come Ezechiele:

«“Mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele”. Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, dicendomi: “Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele» (Ez 3,1-3). Prima di esercitare la funzione profetica, il profeta deve diventare lui stesso la «Parola».
Mangiare è un atto che appartiene a tutte le culture e a tutte le religioni. Presso gli Ebrei era tradizione che gli amanuensi mettessero nell’inchiostro una goccia di miele per simboleggiare la dolcezza della Parola di Dio. I Padri della Chiesa parlavano di «ruminare» la Parola che vuol dire non solo mangiare, ma digerirla e assimilarla come linfa vitale. La preghiera è l’assimilazione di Dio in sangue e carne della propria esistenza (cf gli straordinari commenti di Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, vol. I, 10,1-5.7).

3. Come la fidanzata del Cantico:

«Mi baci con i baci della sua bocca! Trascinami con te, corriamo! Dimmi, o amore dell’anima mia. Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto!… Ho cercato l’amore dell’anima mia» (Ct 1,2.4.7; 2,10.13; 3.1, ecc.). L’amante del Cantico smania, invoca, sogna, desidera, si strugge finché non incontra il suo amato.
Per la tradizione rabbinica «i baci» sono i comandamenti che Dio pronunciò con la sua bocca e scrisse con lettere di fuoco sulle tavole che diede a Mosè: Israele è la sposa che Dio ha baciato e continua a baciare con la sua Parola. In ogni sinagoga, di ieri e di oggi, vi è un armadio, chiamato «Aron haqodèsh», letteralmente «l’Arca Santa», dove si conservano i rotoli [meghillòt] della Toràh. Ogni rotolo è rivestito da una veste di stoffa, sormontata da una corona: il rotolo (= meghillàh) è paragonato alla fidanzata vestita e incoronata come una regina nel giorno delle nozze. La Bibbia è la fidanzata di Dio «adorna per il suo sposo» (Ap 21,2; cf Is 61,10).
A Teresa D’Avila fu proibita la lettura diretta della Bibbia, tranne i testi della liturgia del suo tempo, ma lei desiderava mangiare e baciare la Parola, che l’Inquisizione spagnola e la gerarchia tenevano chiusa a chiave. Non stupisce che nella Chiesa vi furono tragedie come l’Inquisizione, perché quando perde il contatto con la Parola di Dio, non solo si smarrisce, ma arriva all’abisso dell’abbiezione, impedendo anche l’opera dello Spirito. Non stupisce che Teresa abbia vissuto nella sensazione dell’inesistenza di Dio.

4. Come la spada:

«La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12). La lettera agli Ebrei riecheggia la Sapienza: «Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a metà del suo rapido corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo decreto irrevocabile e, fermatasi, riempì tutto di morte; toccava il cielo e aveva i piedi sulla terra» (Sap 18,14-16).
Presso gli antichi, non di rado, davanti a un ammalato, il medico/ curatore interveniva con piccoli tagli fatti da coltelli per asportare parti morte o dannose. Occorre eliminare ciò che è morto o pericoloso. La Parola non può fallire il «taglio», per questo è affilata da ambo le parti (doppia lama): per incidere in estrema sicurezza. La preghiera non può essere da meno e chiunque vuole sperimentare l’afflato orante di Dio deve disporsi a lasciarsi ferire perché pregare non è azione innocua, non è una pratica d’ufficio da espletare secondo contratto. L’immagine della Parola-Spada è anche nell’Apocalisse: «Gli altri furono uccisi dalla spada che usciva dalla bocca del cavaliere; e tutti gli uccelli si saziarono delle loro carni» (Ap 19,21). La Parola che penetra la vita non è mai innocua, svela la trama e la verità di essa, non uccide, ma ferisce perché taglia, purifica, rinnova.

5. Infine come Geremia,

il profeta poeta delicato e costretto ad annunciare sventure e dolori; egli che si reputa incapace di essere profeta, deve cedere alla violenza di Dio e si lascia afferrare anche lui come Paolo di Tarso per un’avventura di cui non conosce l’esito: «Mi hai sedotto, Signore e io mi sono lasciato sedurre» (Ger 20,7).
Ecco la sintesi: pregare non è solo lasciarsi sedurre da Dio, ma diventare anche seduzione di Dio, se egli è disposto a mettersi in gioco per me.

Nel segno della ekklesìa

La preghiera è un crogiolo che brucia le reste e lascia integro il frumento, perché è un principio di trasformazione radicale. Se uno prega e non macina parole, finendo per parlare solamente con se stesso, entra in intimità d’amore con il Signore e quando finisce di pregare, inizia la vita orante perché non è più lo stesso, passando dalla preghiera d’intimità alla vita di preghiera: il mistico/a, infatti, prega vivendo, come prima viveva pregando. La vita diventa preghiera e la preghiera diventa vita, un unico afflato, un solo respiro.
Si dirà che è facile dire che la vita è preghiera, quasi si trattasse solo di una formula a effetto, invece è proprio qui il segreto più profondo della preghiera come sperimentò Madelaine Dêlbrel: «Se credi davvero che il Signore vive con te, dovunque hai un posto per vivere, hai un posto per pregare». Si potrebbe pensare che codesto modo di essere preghiera, si esaurisca nella solitudine della propria privatezza.
Non è così perché non esiste la preghiera «individuale» o privata. In forza del battesimo «il cristiano è “in stato di Chiesa” come è “in stato di grazia”», secondo le magistrali parole di Madelaine Dêlbrel alla notizia della convocazione del concilio ecumenico Vaticano II da parte di Giovanni XXIII, l’uomo che camminava in mezzo al fango senza mai sporcarsi. Anche nella più profonda solitudine, il cristiano è sempre parte, segno e sacramento della Chiesa universale, assumendo nella propria vita la totalità dell’ekklesìa di cui è e vuole essere espressione vivente e visibile nel tempo e nello spazio. È il mistero della testimonianza della vita donata perché non esiste libertà più grande di donarla e quando la si è donata, non la si riprende più indietro: la bellezza dell’essenza del dono è il suo perdersi nella vita di chi lo riceve.
La preghiera non è mai un fatto individuale, perché apre a prospettive nuove: invita ad andare sempre «oltre», ad altri villaggi, ad altri bisogni, ad altre incarnazioni, ad altri rischi di novità. Allarga l’orizzonte della vita ristretta per adeguarlo all’immensità della visione di Dio. Ecco perché bisogna imparare a pregare non solo per se stessi, ma per gli altri, per l’ekklesìa dentro la quale stanno anche i nostri bisogni e le nostre necessità, se è vero che Dio si prende cura degli uccelli e dei gigli del campo (cf Mt 6,26-30). Se gli altri pregano per me, la loro preghiera è più grande e più forte perché sono in tanti a pregare per me e perché è preghiera disinteressata, preghiera gratuita. Imparare a pregare significa imparare a essere semplicemente se stessi nella consapevolezza di essere figli amati e stimati di Dio.
Lo viviamo ogni domenica, alla fine dell’Eucaristia, ma è un fatto talmente abituale che non vi facciamo più caso. Al termine della celebrazione eucaristica che è la preghiera per eccellenza, perché totalmente cristologica, dovremmo avere consapevolezza che sia finita non la Messa, ma solo l’aspetto rituale di essa: nello stesso istante, infatti, in cui si dice «La Messa è finita», realmente, dovremmo intendere che «inizia l’Eucaristia del ministero della testimonianza», cioè si entra nella dinamica della vita ordinaria che è l’altare sul quale celebriamo la lode, il pane e il vino delle nostre scelte, azioni e parole. Finisce la Messa del rito e inizia l’Eucaristia della vita nella liturgia della testimonianza che è il martirio quotidiano non subìto passivamente, ma donato come dono d’amore al Dio che ci ama tanto da avere donato a noi il suo Figlio Gesù (cf Sal 54/53,8; 116/115,17; Ger 17,26; Eb 13,15; Gv 3,16).

Paolo Farinella, prete ?[10 – fine 1a parte; continua 2a parte].


Avviso ai lettori

A tutti i Lettori e le Lettrici di MC, a ciascuno e a ciascuna in particolare, in modo personale e affettuoso non invio auguri natalizi che ormai sono una prassi pagana e una formalità spesso forzata, davanti a un presepe che non è più lo scandalo di un Dio che rimpicciolisce per fare spazio a noi (San Francesco), ma una favola innocua da ninna nanna e zampogne. A tutti invece auguro di perdere così tanto la propria vita da lasciarsi trovare da un Dio talmente pazzo e pazzesco che non riesce a vivere senza lui/lei. Vi auguro di perdervi per amore.
In un primo tempo, per mille motivi personali, avevo pensato di chiudere la mia collaborazione con MC con questa puntata. Ora però, giunto a questo punto, mi sembrerebbe di tradire i lettori, dal momento che resterebbe in sospeso la riflessione sulla preghiera: manca la seconda parte.
Ricevo spesso sia privatamente che attraverso la rivista, echi di plauso o di osservazioni che aumentano in me la responsabilità di questa collaborazione che considero e vivo come un ministero. Ho pensato, pertanto, di dedicare il prossimo anno 2018 non a riflessioni sulla preghiera, ma a esercizi di preghiera con la Parola di Dio, attingendo alla Grande Tradizione, sia giudaica che patristica, perché siamo sempre discepoli, scolari, alunni dell’unico Maestro e Signore Gesù. Imparare a pregare è l’obiettivo della vita del credente che vive del desiderio dei Greci: «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21). Questa parte sarà pubblicata in un volume.
A tutti e a tutte con affetto.

Paolo Farinella, prete




Insegnaci a pregare 9: Pregare, un collirio per la vista del cuore


Prima della riforma liturgica del Concilio ecumenico Vaticano II, valeva su tutto la «forma rituale»: non si parlava di «liturgia», ma di «sacre cerimonie», istituzionalizzate al punto da essere una materia obbligatoria di studio nella formazione dei preti, che dovevano studiare le «Rubriche» che contenevano le norme esatte per eseguire scrupolosamente i gesti, i movimenti e i tempi del rito (vedi «Rubrica»), e, come un galateo, regolamentavano tutto. Un’altra materia di studio era la «Sacra eloquenza» con cui s’insegnava al futuro predicatore l’arte dell’oratoria, mentre l’esegesi era relegata tra le materie minori. Nel messale tridentino (ultima edizione del 1962) all’inizio dell’offertorio vi era una pagina con un disegno dell’altare con le parti numerate e due schemi (a forma di croce e di cerchio) che insegnavano come incensare l’altare.

Dal rito alla Liturgia

Si giunse persino all’assurdo di considerare la validità della Messa a partire «dall’offertorio» in poi. Si poteva andare comodi in chiesa, «tanto la Messa è valida dall’offertorio», dispensandosi quindi completamente dalla già ridotta liturgia della Parola, dall’atto penitenziale e dal salmo d’introito, considerati accessori. La stessa Parola di Dio era pleonastica. Ciò che importava era la misteriosità della formula della consacrazione, l’atto magico per eccellenza di un rito anonimo cui era sufficiente «assistere» come ad un teatro per altro incomprensibile (v. 2a puntata). Al momento della consacrazione, il prete prendeva l’ostia, si chinava su di essa coprendola con tutto se stesso e sussurrava le parole latine sil-la-ban-do-le scrupolosamente e soffiandole (letteralmente) sul pane e poi sul calice. Durante la grande «preghiera» della Chiesa ognuno poteva fare quello che voleva: pregare per conto suo, sgranare il rosario, dormire e annoiarsi, oppure confessarsi. La Messa, che era affare privato del prete, era valida lo stesso perché era importante «soddisfare il precetto», cioè essere fisicamente presenti.

Rubrica e Precetto

a. Il termine «rubrica» deriva dall’aggettivo latino «rúber, rúbra, rúbrum» che significa «rosso». Ciò è dovuto al fatto che nei codici antichi di Messali e Corali (e anche oggi nelle edizioni ufficiali), le indicazioni delle modalità di preghiera (seduti, in piedi, braccia elevate, in ginocchio, voce alta, sottovoce, ecc.) erano scritte più piccole e in rosso per distinguerle dal testo scritto di norma in nero.

b. In ogni chiesa e parrocchia, la domenica, si celebravano le messe a ogni ora, al fine di dare a tutti la possibilità di «soddisfare il precetto», e per semplificare le cose si predisponevano le confessioni «durante la Messa», finendo per non fare bene né l’una né l’altra. In questo modo si privilegiava solo la comunione cui si poteva accostare «purché confessati», finendo così per ridurre il «sacramento della Confessione» a mera preparazione al ricevere la comunione nella Messa.

Aneddoto

Negli anni del pre-concilio, la questione della validità della Messa era diventata un’ossessione: bisognava essere in chiesa esattamente da quel momento «preciso», non un pelo di più non uno di meno, segno che ormai il legalismo aveva raggiunto le fibre profonde, corrompendo il cuore. A Genova, in una parrocchia della città alta, forse perché stanco di dovere richiamare «all’obbligo», vi fu un parroco che ebbe la stravagante idea di sistemare due semafori – sì, due semafori! – alla porta della chiesa, uno verde e uno rosso, comandati dall’altare. Quando iniziava la Messa, il celebrante pigiava il pulsante verde per avvertire che la Messa era iniziata e si poteva ancora entrare. Al momento dell’«offertorio», un attimo prima dello svelamento del calice, attendeva ancora qualche secondo e poi «zac!», pigiava il pulsante rosso. Da quel momento la Messa non era più valida. Eventuali ritardatari, erano fuori tempo massimo e dovevano andare a cercarsi un’altra messa per «soddisfare il precetto». Si poteva fare a meno della Parola di Dio, ma non del rituale, centrato tutto sul concetto di sacrificio.


In questo contesto pregare non era più rapporto di vita, ma una sudditanza di paura, un pedaggio da assolvere, un obbligo dovuto: si offrivano a Dio una serie di gesti rituali (e formali), nemmeno «ben fatti», in cambio della sua benevolenza. Il campanello suonato due volte dal chierichetto aveva la funzione pedagogica di ricordare alla massa anonima presente passivamente che il prete era giunto a metà Messa (1° campanello) o alla comunione, cioè quasi alla fine (2° campanello). Del tutto assente la preghiera corale della Chiesa. Come meravigliarsi della secolarizzazione dei decenni successivi che spazzò questa parvenza di religiosità in un batter d’occhi come pula dispersa dal vento? Eppure oggi sono in crescita gli adoratori di quel tempo che fu. Ciò che importava era la presenza «fisica» per il tempo necessario dell’obbligo o, come si diceva, del precetto, in attesa… che tutto finisse al più presto per riprendere la vita profana, lontano da Dio e… dai preti.

Dio è un idolo?

Spesso, nella concezione della preghiera ridotta esclusivamente a richiesta, riduciamo Dio a un «tappabuchi», per usare una magistrale definizione del grande teologo luterano Dietrich Bonhöffer (Resistenza e resa: lettere e appunti dal carcere, Bompiani, Milano 1969, 264). In altre parole ci attendiamo da Dio che compia quanto noi non siamo in grado di realizzare, per cui domandiamo tutto: dalla pace alla salute, dalla riuscita di un esame o di un concorso ai numeri del lotto. Il Dio che preghiamo è un idolo-giocattolo nelle nostre mani, un distributore automatico che risponde a gettone, secondo le necessità e le urgenze, ogni qualvolta lo vogliamo noi. Eppure il salmista ci aveva messo in guardia da confondere il Dio dell’alleanza con gli idoli alienanti:

«“Dov’è il loro Dio?”. 3Il nostro Dio è nei cieli, tutto ciò che vuole, egli lo compie. 4Gli idoli sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. 5Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, 6hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. 7Le loro mani non palpano, i loro piedi non camminano; dalla loro gola non escono suoni» (Sal 115/114, 2-7; v. anche Sal 135/134, 15-17).

Eppure non dovremmo essere impreparati, se avessimo ascoltato i profeti che Dio, nella sua bontà aveva inviato alla sua Chiesa. Ne citiamo due soli nella marea di voci e di stili che hanno risuonato tra la fine del II e l’inizio del III millennio: don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani, la cui profezia fu riconosciuta da un Papa in maniera formale e pubblica, ammettendo così la responsabilità, se non la colpa, di chi li perseguitò in modo miope e sconsiderato. Con loro si potrebbero citare p. Davide Maria Turoldo e p. Camillo De Piaz, don Zeno Saltini di Nomadelfia, p. Ernesto Balducci, p. Aldo Bergamaschi, p. Giovanni Semeria e mille altri ancora, tutti colpiti o esiliati o ridotti al silenzio perché indicavano la via del vangelo.


Nota estemporanea a latere

Nel 2017, ricorrendo il 50° anniversario della morte di don Lorenzo Milani, vi fu un pullulare di celebrazioni, specialmente dopo il duplice viaggio di papa Francesco a Bozzolo di Mantova e a Barbiana di Firenze (26 giugno 2017) per restituire la patente di ortodossia cattolica a due preti perseguitati dalla gerarchia del tempo: don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani. La retorica celebrativa, ieri come oggi, è una costante sia nella società civile sia ecclesiale: si celebrano entusiasticamente i «profeti morti», perché non possono dare più fastidio, mentre li si perseguita da vivi (cf Lc 11,47). Nelle celebrazioni retoriche del 2017, nessuno badò al fatto che i due preti, già negli anni ’50-’60 del secolo scorso avessero posto in evidenza il vuoto delle celebrazioni rituali che producevano solo disaffezione, allontanamento, disinteresse. Specialmente don Lorenzo Milani con l’opera «Esperienze pastorali», analisi spietata della realtà sacramentale del suo popolo che rispecchiava l’andazzo costante di tutta Italia e del mondo cattolico. Fu messo all’indice, non perché eretico, ma perché «inopportuno». Oggi quell’opera è un documento profetico ancora valido.


Per un approfondimento:

Don Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, in Tutte le opere, a cura di Federico Ruozzi et alii, tomo I, Mondadori, Milano, 477-80;
Don Primo Mazzolari, La parrocchia, La Locusta, Vicenza, 1957; ora in Per una Chiesa in stato di missione, Editrice Esperienze, Fossano 1999;
Tempo di credere, Vittorio Gatti, Brescia 1941.


Preghiera: estraniamento o passione di vita?

San Paolo, come abbiamo già visto, conferma il nostro timore e cioè che noi non sappiamo pregare: «Non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente» (Rm 8,26). Pensiamo che la preghiera sia prevalentemente una recita vocale di formule, che con l’uso diventano meccaniche: le parole fluiscono per conto loro e il cuore naviga per conto proprio. Non è un caso che nella confessione, un «peccato» ricorrente, quasi un canovaccio, era: «Non ho detto le preghiere al mattino e alla sera», oppure, «Mi distraggo durante le preghiere». È facile confondere la preghiera con un bisogno psicologico di protezione o forse di alienazione: la vita è tanto dura e cattiva che ogni tanto fa bene ritirarsi in disparte e non pensare a niente. È la preghiera come estraniazione, ma spesso non sappiamo nemmeno che, mentre crediamo di pregare, stiamo solo parlando con noi stessi.

Ribadiamo, ancora una volta e con forza che prima di essere un momento o un atteggiamento, la preghiera è uno stato dell’essere, esattamente come l’amore che non è una caratteristica di qualcuno, ma la dimensione intima e univoca della vita, come sperimentò – lo abbiamo già sottolineato più volte – Francesco d’Assisi che diventò preghiera lui stesso perché amò Gesù e il suo messaggio «sine glossa» cioè alla follia e senza condizioni (cfr. Fonti Francescane, Movimento Francescano, Assisi 1978, 630). Non imparò prima a pregare per diventare discepolo di Gesù. Egli amò senza condizione, a fondo perduto, e la conseguenza fu la preghiera come identità di vita. Insieme a Francesco, una donna, anzi una ragazza, è stata capace di capire l’equazione della vita: pregare è amare. Alla sorella Céline che le chiedeva cosa dicesse quando pregava, Teresina rispondeva: «Io non gli dico niente, io lo amo». In altre parole, solo gli innamorati sanno pregare perché conoscono la dimensione della parola che diventa silenzio e conoscono il silenzio come pienezza della parola. Pregare è una relazione d’amore, e come tale esige un linguaggio d’amore con tempi e spazi d’amore.

Se amare è «perdere» tempo per la persona amata, allo stesso modo, pregare è perdere tempo per sé e Dio, perché la preghiera è lo spazio e il tempo riservati all’intimità d’amore. Più profondo è l’amore, più tempo è necessario, e spazio e tempo non possono essere gli scarti, ma devono essere scelte di prima qualità. Un tempo e uno spazio che non si esauriscono nello svuotamento di sé, ma nella pienezza che l’altro porta con sé. La pienezza di Dio è la Parola, il Lògos come progetto/proposta d’amore di Dio al mondo attraverso di me, orante/amante. La Parola di Dio diventa così il fondamento della preghiera, ma anche la dimensione e il nutrimento dell’orante. Come gli innamorati si educano a vedere il mondo e la vita con gli occhi dell’amato o dell’amata, arrivando addirittura a prevenirne i desideri, così l’orante è colui che sta «sulla Parola» (Gv 8,31) per imparare a vedere la vita, la storia e le proprie scelte con gli occhi di Dio.

Collirio per la vista

La preghiera è «il collirio per ungerti gli occhi e recuperare la vista» di cui parla l’Apocalisse (cf Ap 3,18): illimpidirsi lo sguardo da ogni strato di sovrapposizione per essere in grado di vedere con lo sguardo dello Spirito. In questo senso la preghiera è alimento costante del dubbio perché toglie ogni sicurezza esteriore ed effimera: non è la garanzia della certezza, ma l’alimento della ricerca che esige l’umiltà come condizione. Purificarsi lo sguardo significa liberarsi dalle idee che si hanno di Dio e domandarsi sempre se quella che abbiamo conseguito è quella vera e definitiva. Finché vi sarà storia la preghiera cristiana amerà il dubbio non come sistema, ma come condizione di purificazione e di fedeltà. Paradossalmente il dubbio protegge Dio dal rischio di trasformarlo in «idolo».

Nel nostro modo di pregare siamo talmente presi dalle «cose da dire» che non ci rendiamo conto di non lasciare alcuno spazio all’eco della Parola di Dio: siamo talmente occupati ad ascoltare quello che diciamo che non lasciamo tempo all’ascolto di Dio, il quale tace, rintanato in un cantuccio perché il nostro pregare è solo un cuore in un vuoto di cui forse abbiamo paura. Quando abbiamo la sensazione che Dio taccia, è segno che noi parliamo troppo. Nella celebrazione dell’Eucaristia sono molto importanti i momenti di silenzio, perché costituiscono la cassa di risonanza della Parola. Se le parole si accavallano, si inseguono con la fretta di giungere alla fine, abbiamo compiuto un rito, ma non abbiamo celebrato. La Parola senza il silenzio è un suono senza senso, perché il silenzio è la mèta della parola.

La preghiera è comunicazione d’amore con una Persona che è il perno della vita: per questo deve essere centrata sulla stessa persona di Dio, come suggerisce l’inno trinitario all’inizio dell’Eucaristia, il Gloria a Dio. L’inno, databile sec. IV d.C., ha un andamento tripartito perché si rivolge a Dio Padre, a Gesù Cristo, allo Spirito Santo: tutto in questa preghiera, una delle più belle della liturgia di tutti i tempi, è centrato sulla Persona di Dio e costituisce così la preghiera «teo-logica» per eccellenza: «Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente».

Cinque azioni espresse dai verbi per una sola ragione: «Per la tua gloria immensa». Quante volte siamo passati sopra a questo vertice/vortice da capogiro e non ci siamo accorti di lambire il cuore stesso di Dio, mentre ci siamo affrettati a rotolare le parole senza nemmeno renderci conto del senso? Nella nostra chiesa, noi osserviamo, al modo monastico, una pausa di tre secondi ad ogni frase per permettere al cervello di assaporare l’irruzione della gratuità di Dio, spezzando la fretta e costringendo la superficialità a gustare ogni parola / evento perché gli occhi che leggono abbiano il tempo di accorgersi di essere penetrati nella «teo-loghìa», divenuta afflato di preghiera e d’intimità senza tornaconto. «Per la tua gloria immensa», cioè per te stesso, perché meriti di essere il fine del desiderio dell’Assemblea, perché tu sei Dio e noi carne e sangue della tua divinità. La ragione del vivere e del pregare è «dare gloria» a Dio, che non significa cantare un canto, ma riconoscere la sua «gloria» nel senso ebraico del termine.

Kabòd/Dòxa

La «Kabòd» ebraica, che il greco traduce con «Dòxa», indica il «peso/la consistenza/la stabilità» di Dio. In altre parole «per la tua gloria immensa» significa prendere coscienza che Dio è il «valore/il peso» più importante della vita del credente. Non è un caso che al tempo di Gesù il termine «Kabòd» fosse uno dei Nomi santi con cui si indicava Dio, in sostituzione del «santo tetragramma» Yhwh. Ne consegue che «per la tua gloria immensa» significa che preghiamo per lui, perché merita di essere il fine del desiderio dell’Assemblea, perché è Dio e noi carne e sangue della sua divinità.

Non siamo «in» Chiesa per adempiere un dovere o ottemperare a un obbligo, ma «siamo Chiesa» per partecipare al banchetto dell’amore e lasciarci immergere nel pozzo della misericordia di Dio che è la sua Gloria, la sua Kabòd/Dòxa. Quando preghiamo, infatti, se preghiamo nello Spirito, noi siamo abitati da Dio che ci accoglie nella tenda del suo amore per svelarci il suo nome, il suo volto e il suo cuore. Pregare è vedere Dio che contempla noi. Questa preghiera trasforma la nostra esistenza in Kabòd/Gloria di Dio. Come? Offrendo al Signore «presente, ma invisibile» tutto, istante dopo istante, ogni gesto, ogni scelta, ogni alito dell’esistenza, anche le cose più banali della nostra quotidianità (come fare la spesa, prendere un autobus, fare le pulizie in casa, studiare, preparare da mangiare o una lezione) e tutte le mille azioni «inutili» che spesso buttiamo perché non vi prestiamo abbastanza attenzione, affinché tutto lui trasformi in benedizione sul mondo che egli ama alla follia (Gv 3,16), attraverso di noi.

Paolo Farinella, prete
[9 – continua]




Insegnaci a pregare 8:

Pregare nel cuore della lotta


Nella puntata precedente avevamo citato due esempi di preghiera, Mosè, il patriarca e profeta che con le mani alzate sconfigge Amalèk (cf Es 17,9-13) e la vedova del Vangelo di Luca che pretende giustizia da un giudice «che non temeva Dio» (Lc 18,1-8). Abbiamo esaminato per sommi capi la preghiera del gigante dell’AT, ora ci apprestiamo a considerare la vedova protagonista della «parabola sulla necessità di pregare sempre, senza mai stancarsi» (Lc 18,1). Due figure, un uomo e una donna, il più grande profeta della storia della salvezza, e una popolana, per giunta anonima, ma qualificata come «vedova», cioè un’emarginata della società.

Preghiera innocente o colpevole

La parabola della vedova e del «giudice che non temeva Dio» si trova in Lc 18,1-8 ed è esclusiva del terzo Vangelo dal momento che è assente negli altri. Il capitolo precedente, Lc 17, si chiude con la descrizione della fine del mondo e l’irruzione di Dio Giudice: la vedova e l’invito alla preghiera, quindi, devono essere letti in questo orizzonte escatologico che ruota attorno al tema della «Giustizia». Non si tratta di giustizia giuridica, da tribunale, ma di quell’attitudine radicale, interiore che, sola, può provocare lo svelamento delle ragioni e delle motivazioni che stanno al fondo delle scelte di ciascuno.

Nelle parole di Gesù si staglia potente la figura di una povera vedova che, forte del suo diritto, sta ritta davanti al giudice, forse corrotto. Nel rileggere la parabola, occorre superare un equivoco generato dalla traduzione italiana. L’ultima versione della Bibbia Cei-2008 parla di «parabola…sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1). Nella precedente edizione del 1974, la stessa Bibbia-Cei ometteva l’avverbio di tempo «mai». Il testo greco dice «to dêin pàntote prosèuchesthai autoùs kài mê enkakêin», che tradotto alla lettera può essere reso così, sapendo che ogni traduttore è sempre un po’ traditore: «Sull’essere necessario sempre che essi preghino e non disertino/vengano meno/depongano le armi». L’espressione «non vengano meno» ha quindi il senso di «non si ritirino», cioè «non si rassegnino». Il verbo «enkakè? / ekka kè?» ha il significato di «agire male / stancarsi / venire meno / scoraggiarsi / perdersi d’animo». L’espressione si riferisce al militare che abbandona la lotta perché non gli importa più nulla di niente, quasi che, di fronte al pericolo, dicesse: ma chi me lo fa fare? A quale scopo? A riguardo scrive il biblista Giovanni Vannucci:

«“Senza stancarsi” è la debole e vaga traduzione di un’espressione greca che significa l’abbandono delle armi fatto da un soldato ignavo durante il combattimento; potremmo rendere meglio il testo originale traducendo “senza abbandonare le armi”, “senza disertare”; l’esaudimento della preghiera dipende dalla difficoltà inerente al cammino della preghiera» (Giovanni Vannucci, La vita senza fine; Servitium editrice, Milano 2012, 205).

In questo senso l’espressione evangelica di Luca dice che bisogna pregare «mentre» si lotta. Durante la lotta bisogna intensificare la preghiera per avere la forza di continuare a lottare e non lasciarsi prendere dallo scoraggiamento depressivo fino al punto di disertare dalla vita, dall’impegno, dalla fatica di affrontare le difficoltà. Pregare, allora, significa immergersi nella vita con tutte le sue contraddizioni, sapendo che non siamo soli. Ci è vietata solo la diserzione, che può essere proprio il rifugiarsi nella preghiera parolaia, una macina a vuoto di vuote parole che ci illudono. In questo senso Lc è in sintonia con Mt quando nel «Padre nostro», invoca «non abbandonarci alla tentazione» (Mt 6,13), cioè nel cuore della lotta.

«Alla» o «nella» tentazione?
In greco c’è la preposizione «eis» che non indica solo direzione (verso la – alla) ma con-penetrazione/con-toccamento (dentro – nella) che esige un contatto. Forse non esiste una traduzione corretta in assoluto: non abbandonarci «alla tentazione» può significare ogni volta che si presenta la tentazione; «nella tentazione» può indicare una forma permanente di tentazione (vedi l’esigenza di «pregare per non cadere in tentazione» – Mt 26.41). Che si usi una traduzione o l’altra, il significato potrebbe essere parafrasato con «non abbandonarci “mai” perché viviamo in uno stato permanente di tentazione».

Qui trova anche fondamento cristiano la tradizione rabbinica che esige l’amore di Dio «anche con la tendenza al male» (v. puntata 6a commento allo Shemà’ Israel), invocando il dono della fortezza per reggere gli assalti del male che come grossi «tori di Basan [ci] circondano… ci accerchiano» (Sal 22/21,13) per farci venire meno e disertare dall’impegno dell’alleanza.

A Giovanni Vannucci (1913-1984), biblista profeta dell’Ordine dei Servi di Maria del secolo XX, fa eco un grande teologo e filosofo suo contemporaneo, padre Ernesto Balducci (1922-1992) dell’Ordine degli Scolopi, che commentando il brano lucano afferma lucidamente:

«A chi vive, come noi viviamo, ad un certo livello di cultura, non è più lecito pregare con innocenza. Che voglio dire? Voglio dire che la preghiera, come invocazione a Dio, come appello a Dio, e di questo ci parla la Scrittura di oggi, per essere autentica, presuppone che si sia messo in opera tutto quello che è nelle nostre possibilità per realizzare l’obiettivo che riteniamo buono e necessario. Se noi preghiamo invece che operare, se noi preghiamo invece che cercare l’efficacia del nostro operare, non c’è dubbio che la preghiera va incontro alle nostre accidie e alle nostre inadempienze, presume di riempire i vuoti della nostra umanità. E siccome in un mondo qual è il nostro, generalmente colto, la consapevolezza delle ragioni delle ingiustizie, dei soggetti storici che ne portano la responsabilità, è viva e presente, pregare perché avvenga la giustizia nel mondo è atto ambiguo o, a volte, addirittura iniquo se si accompagna al disimpegno. Ecco perché è difficile che la nostra preghiera sia innocente. Essa porta su di sé i riflessi oscuri delle nostre complicità con le cause di quel male che vorremmo eliminato da questo mondo. È come quando, in certe comunità che io ho frequentato, si faceva la preghiera per i poveri. Si trattava di comunità strutturalmente solidali con il mondo dei ricchi e quindi impegnate a mantenere le condizioni che favoriscono la divisione del mondo fra ricchi e poveri e che poi si costruivano per l’occasione una buona coscienza con la preghiera periodica per i poveri» (Ernesto Balducci, Il Mandorlo e il Fuoco, Borla, Roma 1979, 344).

Nel cuore della lotta

Pregare nel cuore della lotta, dunque, senza diserzione! Quanta distanza dalle preghiere meccaniche macina-vuote-parole, ripetitive e distratte, staccate dal corpo, dall’anima e dalla stessa realtà. Dice padre Balducci che è difficile che la «nostra preghiera sia innocente» perché per essere tale deve essere la coscienza della «sapienza» della nostra identità: chi sono io che in questo momento «presumo» di pregare? «Dove» sto per essere certo di pregare? Qual è il mio rapporto con il dramma della fame, della morte di gran parte dell’umanità, cioè di carne di Dio perché suoi figli e mia perché fratelli e sorelle? Qual è il grado di complicità mio nel sostenere la struttura dell’ingiustizia di questo mondo che trangugia i deboli e osanna i potenti? Quale consapevolezza ne ho, mentre dico di pregare? Sono sicuro che quel Dio che io penso di pregare non sia lo stesso che parlò agli Ebrei del secolo VIII a.C. per mezzo del profeta Isaia? Che disse:

«11Perché mi offrite i vostri sacrifici senza numero? – dice il Signore. Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli. Il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. 12Quando venite a presentarvi a me, chi richiede a voi questo: che veniate a calpestare i miei atri? 13Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, i noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità. 14Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. 15Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue. 16Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, 17imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Is 1,11-17).

C’è, dunque, fin dai tempi remoti, una preghiera che può non essere esaudita e non lo dice solo il profeta Isaia, ma lo conferma anche Gesù: «Dai loro frutti dunque li riconoscerete. Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,20-21). Da ciò è chiaro che pregare è direttamente proporzionale alla volontà di Dio. Quando mai, pregando, ci siamo chiesti in che rapporto fossimo con la volontà di Dio su di noi o in che modo la nostra vita esprimesse il rapporto con essa? La preghiera ha regole serie che non possono essere espunte o disattese, come lo stesso Gesù afferma nel discorso della montagna, cioè nel programma costituzionale del suo regno:

«5E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 6Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. 7Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. 8Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6,5-8).

Per il Vangelo, la preghiera non ama l’ostentazione, la finzione e lo spreco di parole, tre tentazioni che oggi abbondano e circondano peggio dei «grossi tori di Basan». Il modello mediatico impone di portare sempre e comunque una maschera per esporsi al pubblico nelle vesti di qualcuno che non si è, in quanto vale solo ciò che appare, come in certi candelieri di legno liguri che, per risparmiare, erano dipinti in oro solo dalla metà che era esposta al pubblico – la parte in vista – mentre la parte rivolta all’altare era lasciata grezza.

Il modello scandaloso

Il modello di preghiera che presenta Gesù è scandaloso e irritante per la cultura e la religione del suo tempo: una donna, per giunta vedova, quanto di più insignificante e inconsistente si potesse immaginare. Essa è l’emblema della emarginazione assoluta, insieme agli orfani e ai menomati (ciechi, zoppi, storpi, lebbrosi), in una parola «poveri». Eppure la fortezza della «nullità» della vedova è la consapevolezza del suo diritto. Ella non si rassegna e non fugge, deve lottare e quindi non depone le armi, perché, decisa, si attesta nel cuore della battaglia, alle falde della verità e inchioda il giudice a compiere il suo dovere. È qui l’attuazione concreta del principio paolino:

«Quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono» (1Cor 1,27-28).

Alla luce di questo contesto, pregare vuol dire entrare nella logica del regno di Dio e capovolgere le prospettive del mondo perché tutto e ogni singola persona o avvenimento abbia un senso e lo abbia pieno. Se ognuno di noi è parte essenziale del regno di Dio, vuol dire che ne è anche responsabile e co-artefice. Nella prospettiva del regno, il nuovo modo di vivere le relazioni umane, instaurato da Gesù, pregare è riconoscere la signoria di Dio sulla propria vita e quindi affermare la propria dignità di liberi figli del Creatore e riconoscere a tutti gli altri la stessa dignità.

La preghiera, perciò, diventa un processo di crescita, un percorso di armonia che conduce alla maturità e quindi a una relazione affettiva con Dio, dove non conta più la modalità tecnica, ma unicamente la qualità del rapporto che si esprime in tutta l’ampiezza della gamma di una relazione d’amore, perché coinvolge i sensi, l’immaginazione, i sentimenti, la paura, i dubbi, la fatica, la tensione, la stanchezza, il bisogno di solitudine, la parola, il silenzio, il grido, l’angoscia, la gioia, l’abbandono, l’evasione e tutti gli sbalzi umorali a cui può essere assoggettato l’animo di una persona normale.

Pregare: imparare a sposare la mentalità di Dio

Se prendiamo il libro dei Salmi, che racchiude la preghiera secolare d’Israele e della Chiesa, vi scorgiamo tutta la gamma della dimensione psicologica della persona umana: dolore e gioia, angoscia e speranza, terrore e lode, richiesta di aiuto e ringraziamento, malattia e gioia di vivere, richiesta e abbandono, estasi e disperazione. Nulla di ciò che forma la vita umana vi è estraneo, perché pregare è vivere con Dio. La stessa Eucaristia, che è la preghiera per eccellenza della Chiesa, contiene i medesimi elementi: la richiesta di perdono, la parola, l’ascolto, l’anelito, la lode, la richiesta di aiuto, la professione di fede, la memoria storica, l’abbraccio, il silenzio, i sentimenti di fraternità e di gratuità, il dono, la pace e la missione come testimonianza.

Infine, pregare è l’urlo di disperazione e di amore con cui «pretendiamo» da Dio che sia al nostro fianco, cireneo perenne, nella nostra lotta, vero combattimento con il quale c’impegniamo a:

  • Non alimentare la guerra che impedisce alla pace di avere cittadinanza sulla terra.
  • Non tollerare la povertà ignobile che rende schiava la maggioranza dell’umanità.
  • Non partecipare al gioco di una società che vive di parole morte.
  • Non essere mai complici di manipolazioni di qualsiasi genere.
  • Non inquinare il mondo, causa del sovvertimento dell’ecosistema (pioggia e clima).
  • Condannare la ricchezza di pochi come atto fondativo di ingiustizia.
  • Contestare la struttura di un mondo che affoga nell’idolatria del superfluo e dello «scarto».
  • Creare ponti di congiunzione e non abissi di separazione e rifiuti.
  • Essere pazienti con chi sbaglia non una, ma «fino a settanta volte sette».
  • Esporre nella propria vita la misericordia che ciascuno di noi sperimenta per sé.
  • Usare sempre la parola per creare la comunicazione e non per la finzione esteriore.
  • Essere sempre noi stessi «immagine e somiglianza di Dio, tempio dello Spirito del Risorto.

La preghiera cristiana c’immerge nello sposalizio con la mentalità di Dio, perché più preghiamo più ci avviciniamo al modo di pensare di Dio e ne acquisiamo il metodo, che è sempre un metodo di misericordia e di pazienza, di possibilità e di riserva d’amore. La perseveranza nella preghiera ha solo questo obiettivo primario: educarci attraverso gli esercizi oranti ad imparare a vivere, ad agire e a pensare come vive, pensa e agisce Dio.

Paolo Farinella, prete
[8 – continua].


Segnaliamo alcuni dei libri su argomento biblico e liturgico pubblicati da Paolo Farinella con Gabrielli Editori (www.gabriellieditori.it).

? Il padre che fu madre. Rilettura moderna della parabola del “figliol prodigo” (2010)

? Bibbia, Parole Segreti Misteri (2008), [Pagine di esegesi di passi o termini difficili]

? Ritorno all’antica Messa. Nuovi problemi e interrogativi (2007) con prefazione di Padre Rinaldo Falsini, segretario della commissione conciliare per la Liturgia.
Il giorno 14 settembre 2007 entrò in vigore il motu proprio papale «Summorum Pontificum» con cui papa Benedetto XVI autorizzò tutti i preti che lo vogliono a celebrare senza alcuna riserva la Messa preconciliare, dando così forza e vigore ai traditori del concilio Vaticano II, i lefebvriani & C. che giudicavano e giudicano eretici non solo il concilio che è il magistero più alto nella Chiesa cattolica, ma anche i Papi Giovanni XXIII e Paolo VI.

? Crocifisso tra potere e grazia. Dio e la civiltà occidentale (2006), sull’orrendo tentativo di trasformare il Crocifisso, Gesù l’ebreo-palestinese-semita, in «valore occidentale», cioè religione civile.

? Nel sito dell’autore, www.paolofarinella.eu, si trovano la liturgia di ogni domenica nel ciclo degli anni A-B-C sia come testo stampabile che audio.




Insegnaci a pregare 7.

«Dio amico e Padre, non compagnone»


In ogni sinagoga antica vi era una stanza cieca, senza porte e finestre che fungeva da «ripostiglio», in ebraico «ghenizàh». Essa era dotata di una piccola finestrella, attraverso la quale venivano introdotti i rotoli e gli scritti liturgici non più utilizzabili. Questi testi non potevano essere gettati via tra gli oggetti comuni o peggio nella spazzatura, perché in essi vi era scritto il «Nome» santo di Dio, «YHWH». Gli Ebrei, spinti dal supremo rispetto per il Nome di Dio, hanno perciò inventato questa specie di cimitero dei libri sacri. Tale usanza ha permesso di trovare centinaia di testi, oggi a noi utili per la comprensione dei tempi passati, specialmente per la natura e le modalità della preghiera.

Sintesi tra tu ed egli

Nella ghenizàh-ripostiglio del Cairo sono state trovate preghiere costruite su una doppia valenza: iniziano con il vocativo «tu» della 2a persona singolare e si concludono con la 3a persona singolare «egli». Ecco un esempio tratto dal Siddùr (Rituale) di Rab Amram Gaon del sec. IX d.C., segno che i testi recenti possono contenere tradizioni antiche: «Benedetto sei tu, Adonài, tu che scegli il suo popolo Israele». Da un punto di vista morfologico, le due proposizioni «sei tu» e «scegli il suo popolo» sono stridenti perché istintivamente verrebbe da dire: «Benedetto sei tu, Adonài che scegli il tuo popolo». Questo gioco di onda tra la 2a e la 3a persona singolare è una costante della preghiera ebraica che, da una parte, intende mettere in evidenza la familiarità affettiva di Dio, espressa dal «tu sei», e dall’altra, il «rispetto» della Gloria divina perché, allo stesso tempo, Dio è vicino, ma anche lontano, Padre e Creatore: Dio è Padre, ma è anche il «Signore», non è un amicone da pacca sulla spalla.

Molte traduzioni fanno piazza pulita di questa distinzione, eliminandola e traducendo tutto con la 2a persona, mentre invece bisogna mantenere l’andamento originario: la 2a persona singolare esprime la confidenza affettuosa con Dio, mentre la 3a persona esprime la «singolarità» di Dio e la sua «grandezza» nel senso che egli non può essere Padre e compagno di gioco, compagnone di strada. Riportiamo un altro esempio tratto dal Siddùr della ghenizàh del Cairo, nella preghiera in forma breve: «Benedetto sei tu YHWH nostro Dio, Re dell’universo, lodato dal suo popolo, cantato dalla lingua dei suoi Chassidìm e dai canti di David tuo servo».


Ghenizàh-Ripostiglio del Cairo

È annessa alla sinagoga di Ezra di Fustat (antica Cairo), costruita nel sec. IX d.C., in Egitto, sopra una preesistente chiesa dedicata a San Michele. Durante gli scavi del 1864, Jacob Saphir rinvenne circa 280 mila frammenti cartacei, in pergamena e papiro che furono attentamente studiati da Solomon Schechter e successivamente dall’orientalista olandese Shlomo Dov Goiteen. Il materiale rinvenuto ricopre circa due secoli di tempo, dal 1025 al 1266. Nei trent’anni successivi alla scoperta, circa metà del materiale fu disperso in diverse biblioteche (San Pietroburgo, Parigi, Londra, Oxford, New York, ecc.), i restanti 140 mila frammenti furono da Schechter trasferiti all’università di Cambridge in Inghilterra. I testi sono scritti in ebraico, arabo, aramaico e altre lingue locali e contengono traduzioni della Bibbia, grammatiche ebraiche e commenti e testimonianze importanti sull’attività mercantile degli Ebrei durante la dinastia fatimide del sec. IX d.C. discendente da Fatima bint Muhammad, figlia del profeta Maometto. Nella ghenizàh si trovano le prove della esistenza pacifica di società miste ebraico-islamico-cristiane, che hanno obbligato a riscrivere la storia economica e sociale dei secoli IX, X e XI. Molti libri di preghiera ci sono utilissimi per capire e conoscere il modo orante di chi ha frequentato la sinagoga.

Per un riferimento più puntuale e per l’approfondimento di questo aspetto cfr. Frédédic Manns, La preghiera d’Israele al tempo di Gesù, Edizioni Dehoniane, Bologna 1996.


Da questi rilievi, emerge con grande evidenza che la preghiera non è, né può essere, una pratica abitudinaria, ma una costante attenzione da prestare perché è in gioco il rapporto tra due: tra noi e Dio. Pretendere di parlare della preghiera è come pretendere di conoscere l’intimità di Dio: una realtà inesauribile. Della preghiera si possono dare mille definizioni e ciascuna sarebbe pure giusta, perché espone «un solo» aspetto di essa, senza esaurirla, ma nessuna sarebbe adeguata perché non si può definire la vita con una formula di poche parole. Essa, come la vita, ha moltissimi aspetti e deve essere vissuta: solo chi vive sperimenta e conosce; pregare, infatti, è sperimentare Dio, conoscendone il cuore. In ebraico il verbo «yadà‘ – conoscere» non esprime mai una conoscenza astratta, concettuale, ma una conoscenza che nasce da una «sperimentazione». La sua radice fa riferimento al rapporto sessuale che è la «conoscenza» più radicale esistente in natura perché mentre sperimenta trasforma, in quanto diviene l’altro fino alla trasformazione suprema che è il «generare» (cf Gen 4,1). La versione greca della LXX traduce con il verbo «ghnôsk? – io conosco», la cui radice (ghn?-) è molto vicina a quella del verbo «ghennà? – io genero» (radice ghèn[na]-) che si riferisce all’atto procreativo maschile; per la donna, infatti, si usa «tìkt? – io partorisco», da cui «tèkna – prole/figlioli». Da queste interferenze lessicali possiamo dedurre, da un lato, che la conoscenza è atto generativo che coinvolge l’intimità della propria profondità feconda: si dice anche popolarmente «concepire un’idea»; dall’altro lato, che l’atto sessuale, l’atto cioè più profondamente umano, è il grado più alto di conoscenza che si possa sperimentare in vita perché è attraverso di esso che l’umanità «somiglia» al Creatore: la propria identità profonda, il proprio Lògos diventa carne. Può essere definibile tutto ciò? Per la preghiera, penso che possa valere quello che Sant’Agostino dice del tempo: «Cos’è il tempo?… Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so» (Sant’Agostino, Confessioni, XI,14,17). Come abbiamo illustrato nelle puntate precedenti, specialmente nell’ultima, l’unica spiegazione possibile della preghiera è «stare» nel silenzio, come pienezza della parola, come ambiente naturale della preghiera e ascoltarlo come eco del «Lògos [che] carne fu fatto» (Gv 1,14), entrando così nel cuore della comunità orante.

La Scrittura paradigma della «mia» storia

In 2Tm 3,14-4,2 l’autore insegna a Timòteo che tutta la Scrittura è Parola di Dio e non può esserci preghiera al di fuori della Parola di Dio che dà forma e contenuto alle parole umane. La Parola di Dio è la persona stessa del Lògos e quindi pregare è lasciarsi possedere dalla Shekinàh/Dimora per essere alla Presenza di Dio che è «già» nell’intimo di ciascuno, prima ancora di noi stessi. La Bibbia non è solo la lettera che Dio ha inviato all’umanità attraverso i profeti e il suo stesso Figlio (cf Eb 1,1-2), ma è anche il diario di bordo essenziale dell’intervento di Dio nella storia sia universale che personale. Essa è il paradigma della storia di ciascuno che tutti noi dobbiamo declinare in modo personale. Pregare quindi significa prendere coscienza dello stadio della storia di salvezza personale e rispondere alla domanda: a che punto sono della «mia» storia della salvezza? La Bibbia è il paradigma del «viaggio» personale di fede, ed è lecito che il lettore, all’interno di questo paradigma, si domandi dove si trova «adesso».

Pregare è la risposta alla prima domanda che Dio rivolge ad Àdam che si nasconde e fugge dalla sua presenza: «Àdam, dove sei?» (Gen 3,9). Non è una richiesta d’identità di un luogo, ma il fondamento della coscienza della consapevolezza. «Dove» significa prospettiva, dimensione, profondità, angolo di visione, orizzonte, utopia. Il «dove» è il punto focale della consistenza e dell’identità di ciascuno perché indica il cuore interiore da cui noi prendiamo posizione per la conoscenza di noi stessi, degli altri, dell’Altro. «Dove?» indica la visione strategica della vita, ma anche la profondità e lo spessore della nostra identità nel contesto della comunità e ancora prima in quello della storia della salvezza. Molti uomini e donne, religiosi per tradizione, per il fatto di essere battezzati e di «andare» qualche volta in chiesa, pensano e s’illudono di credere in Dio, di conoscere Gesù Cristo e magari pretendono di «essere con la coscienza a posto».

«Dove siamo?». Non è affatto detto e non è scontato che nel nostro cammino di vita ci troviamo nel NT. Nonostante oltre duemila anni di Cristianesimo, il battesimo e l’impegno in parrocchia, potremmo trovarci molto lontani da Cristo, in un qualunque momento descritto dall’AT: potremmo ancora essere con Àdam ed Eva, vittime complici del serpente; solidali con il fratricida Caino; schiavi in Egitto; vaganti nel deserto senza Legge e senza coscienza; attenti ascoltatori della Parola dei profeti o in fila con i peccatori per ricevere il battesimo di penitenza di Giovanni il Battezzante. Potremmo essere ai piedi della croce o ai bordi del sepolcro vuoto. Pregare significa «sapere chi si è e dove si è».

 


Per un approfondimento spirituale e teologico del «dove», cf P. Farinella, Bibbia. Parole segreti misteri, Il Segno dei Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano (VR), 2009, pp. 77-82, capitolo intitolato «Dove sei? Chi sei?».


Pregare è essere nudi davanti alla nudità di Dio: creatura e Creatore, mediati dalla Parola, fondamento sia della creazione che della redenzione. Prendiamo due esempi di preghiera della Scrittura e osserviamoli da vicino. Si tratta di un uomo, Mosè, e una donna anonima del NT, una vedova. Mosè e la vedova, il profeta e la povertà assoluta: il mediatore che «sta ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio» (Es 17,9) e la vedova molesta e importuna (cf Lc 18,4-5), che è vittima del sopruso e della prevaricazione. Tutti e due pregano, tutti e due ottengono risultati perché tutti e due non si sono stancati, ma sono stati perseveranti e insistenti, ciascuno fedele alla propria condizione e alla propria natura, perché ambedue coscienti del proprio «dove», cioè del proprio ministero (Mosè) e della propria dignità (la vedova). Il profeta induce addirittura Dio a cambiare pensiero, cioè lo obbliga a «convertirsi» alla sua natura di Dio di salvezza (metànoia/conversione), costringendolo alla fedeltà alla sua natura e quindi al suo popolo (cf Es 32,1-14), così come la vedova che non ha paura di chi «non temeva Dio» (Lc 18,2) perché forte del proprio diritto. Qui di seguito ci occupiamo solo di Mosè, della preghiera della vedova tratteremo nella prossima puntata.

Mosè con le mani alzate

Nel libro dell’Esodo leggiamo l’esperienza di Mosè che intercede per la vittoria d’Israele:

«9Mosè disse a Giosuè: “Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio”… 11Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk. 12Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Arònne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. 13Giosuè sconfisse Amalèk» (Es 17,9-13).

Il testo potrebbe essere molto antico perché è evidente una traccia di forma magica di preghiera legata alla gestualità. Esso non dice nulla sul contenuto dell’intercessione di Mosè, che anzi pare sia assente: è sufficiente la presenza fisica, là «ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio» (Es 17,9). Tutti i riti di tutte le religioni hanno necessariamente una dimensione di «teatralità» perché esigono vesti proprie, gesti, danze, canti: una rappresentazione mimica che coinvolga sia lo spirito che il corpo.

Ancora una volta il popolo ebraico ci viene in aiuto per capire il senso profondo che si ricava dal testo. Sottolineiamo alcuni testi del Targùm che commentano il brano, considerato dalla tradizione giudaica esemplare per la preghiera di intercessione. Il testo biblico dice: «Mosè disse a Giosuè: “Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio”» (Es 17,9).

Il Targùm dello pseudo Giònata (sigla: TJ I) così parafrasa nella traduzione verbale:

«Scegli per noi uomini validi e forti nell’[osservanza] dei precetti e vittoriosi in battaglia… Domani io starò ritto, in digiuno, appoggiato sui meriti dei padri, i capi del popolo, e sui meriti delle madri, che sono paragonabili alle colline, e terrò in mano il bastone col quale sono stati operati prodigi davanti al Signore».

L’altro Targùm, il Neòfiti (sigla: N), invece, così commenta il gesto delle mani alzate:

«Le mani di Mosè rimasero alzate in preghiera, ricordando la fede dei padri giusti, Abramo, Isacco e Giacobbe, e ricordando la fede delle madri giuste: Sara, Rebècca, Rachèle e Lìa, fino al tramonto del sole» (Ibidem, 144).

Il ms. ebraico n.100, conservato nella Biblioteca nazionale di Parigi, così commenta:

«Ricordando la fede dei tre padri giusti che sono paragonabili ai monti: Abramo, Isacco e Giacobbe, e la fede delle quattro madri giuste, che sono paragonabili alle colline: Sara, Rebècca, Rachèle e Lìa, e le sue mani rimasero alzate in preghiera fino al tramonto del sole» (Ibidem, 144 nota o).


Targùm (plurale targumìm)

È parola aramaica e letteralmente significa «traduzione». Dal 539 a.C., dopo il ritorno dall’esilio in Babilonia, in Palestina l’ebraico cadde in disuso, rimanendo però la «lingua sacra» riservata alla Bibbia nella liturgia ufficiale. Per far capire al popolo, che parlava la lingua comune, l’aramaico, era invalso l’uso di tradurre la Parola proclamata. Per questo, con il lettore, che leggeva in ebraico, vi era anche un «targumìsta – traduttore» che spiegava in aramaico. Egli però doveva stare non accanto al lettore, ma dalla parte opposta con il divieto di leggere la Parola e l’obbligo di commentare «a senso», proprio per sottolineare la distanza tra Parola di Dio e commento. Dal sec. I a.C. al sec. II d.C., per non perdere un immenso patrimonio liturgico e culturale, tutto il materiale orale fu raccolto per iscritto. I più antichi Targumìm sono: Targum Ònkelos, detto anche Babilonese, perché nato a Babilonia, databile tra il 60 a.C. e il sec. II d.C.; il Targum Yonatham ben Uzziel, contemporaneo del primo e come questo originario di Babilonia; Targum Yerushalmì (Gerusalemme), che si divide in tre parti, e datato sec. VII d.C. Tra i più recenti c’è lo Pseudo Gionata e Targum Neofiti del sec. XVI-XVII d.C.


I Targumìm aprono una prospettiva affascinante: la preghiera poggia sui meriti dei padri e delle madri, cioè degli antenati, paragonati ai monti e alle colline di Israele. Chi prega non prega mai da solo, ma porta con sé tutta la storia che lo ha preceduto perché prepara quella che segue: nella preghiera il futuro è dietro di noi perché uarda avanti con la forza dello Spirito che assume il nostro presente come pietra su cui è assisa la nostra intercessione al Signore della Storia. Pregare è entrare in una salvezza che si fa storia di Nomi e di Volti, diventandone parte attiva e sostegno sicuro.

In questo senso, la preghiera è una prospettiva di vita, un progetto esistenziale che avvolge e coinvolge ogni atto e respiro, ogni scelta e ogni gesto: tutto ciò che ci appartiene è già appartenuto ai nostri padri e alle nostre madri che sono diventati, con i loro meriti, i colli e le colline su cui poggia solida e stabile la preghiera dell’assemblea santa, oggi radunata dallo Spirito attorno al Monte Santo del Padre che è Figlio suo Gesù, Lògos, Pane e Vita, anima e corpo del nostro desiderio orante. Tutti preghiamo per i nostri morti, ma quanti pregano «con» i genitori, antenati, maestri, amici che sono stati e continuano a essere l’alimento e il sostegno del nostro pregare incessante?

Paolo Farinella, prete
 [7 – continua].




Insegnaci a pregare 6. Dio ci prega


Nella puntata precedente abbiamo preso in esame, seppure velocemente, la preghiera sotto due profili. Dal punto di vista dell’uomo che ha il desiderio di Dio, come magistralmente dice Sant’Agostino: «Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te – Ci hai creati per te e inquieto sta il nostro cuore finché non riposi in te» (Sant’Agostino, Le Confessioni, I,1), e dal punto di vista di Dio che con la stessa intensità e la stessa passione di un innamorato, nella perifrasi del Cantico dei Cantici, fatta dal Targùm, anela e desidera di «ascoltare la voce dell’Assemblea riunita». Abbiamo desunto da quel testo della tradizione ebraica la prospettiva della preghiera come bisogno di Dio di stare con noi. Ci eravamo lasciati con l’impegno di riprendere questo aspetto nello «Shemà’ Israel», superficialmente definita, come vedremo subito, la preghiera più importante di Israele.

«Shemà’ Israel»

Il testo completo si trova nel libro del Deuteronomio (vedi qui sotto) che riportiamo per esteso. In esso formalmente parla Mosè, ma il mandatario è Dio, in nome del quale, il grande profeta e servo, Mosè, riassume tutti gli interventi di Dio. Possiamo dire che è Dio a parlare a Israele per mezzo di Mosé. Le parole pronunciate da quest’ultimo sono «Parole di Dio»:

«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. 5Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. 6Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. 7Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. 8Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi 9e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte» (Dt 6,4-9).


Deuteronomio

Nella Bibbia ebraica, il 5° libro si chiama «Devarìm – parole», plurale del sostantivo singolare «Davàr – parola/fatto». Il termine Deuteronomio è preso dalla Bibbia greca cosiddetta LXX, scritta per gli Ebrei di Alessandria di Egitto che non conoscevano più l’ebraico. Poiché il suo contenuto è legislativo, il libro ha ricevuto in lingua greca il titolo di «Seconda legge – Dèuteros nòmos». L’immagine della seconda legge fa riferimento a un testo ritrovato durante lavori di restauro del tempio, sotto il regno di Giosìa, il quale, motivato da questa scoperta, diede impulso a una grande riforma religiosa nell’anno 622 a.C. Si chiama «seconda» in riferimento alla «prima» che è e resta quella del Sinai. Il Deuteronomio riporta tre grandi discorsi di Mosè al popolo prima dell’ingresso nella terra promessa:

1° discorso (Dt 1,1-4,43): è il riassunto di tutti gli interventi di Dio in favore di Israele dall’Egitto alle soglie della terra promessa: premessa storica dell’alleanza.

2° discorso (Dt 4,44-26,19): è un’omelia, una riflessione sull’alleanza e, infatti, comprende il codice dell’alleanza rinnovata nel segno della «Seconda Legge». Seguono una serie di benedizioni e maledizioni con il rinnovo ufficiale degli impegni e la conclusione dell’Alleanza (27,1-28,68).

3° discorso (Dt 28,69-30,20): è una ripresa degli eventi accaduti e un invito pressante alla fedeltà al Signore della Storia e della terra. Seguono ultime disposizioni e la morte di Mosè (31,1-34,12).
Il testo finale, come lo possediamo oggi, è databile nei sec. V-IV a.C., ma contiene testi molto più antichi del tempo della riforma del re Giosìa del sec. VII a.C. (anno 622) e altri più antichi ancora. Si può quindi considerare questo libro come il frutto della riflessione di una «scuola» che, dopo l’esilio di Babilonia, ha rielaborato materiale antico unendolo alle riflessioni teologiche del momento attuale, richiamandosi allo spirito profetico e in modo particolare a Geremia.


Lo «Shemà’ Israel» si trova nell’ambito del 2° discorso che Mosè fa a nome di Dio. Appartiene quindi alla riflessione sull’Alleanza. Alle soglie della terra promessa, nelle «Parole» che Dio rivolge al popolo d’Israele per bocca del profeta Mosè, per sette volte si ripete l’espressione: «Shemà’ Israel – Ascolta, Israele (Dt 4,1; 5,1; 6,4; 9,1; 20,3; 27,9) che è quasi un legame letterario di tutti e tre i discorsi. È strano che in un testo legislativo si trovino parole come «amore – ahavàh», espressive di sentimenti di reciproco affetto. Eppure questo accade e ha il suo senso nel fatto che non può esistere alcuna legge che possa avere forza obbligante se la si teme e non la si ama in quanto segno e strumento di una relazione vitale. La legge esige amore e non schiavitù.

Comunemente, con l’incipit «Shemà’ Israel» – come solitamente si dice – si indica la preghiera ufficiale che ogni pio israelita deve recitare due volte al giorno. In realtà lo «Shemà’ Israel» non è una preghiera di Israele a Dio, ma la richiesta da parte di Dio di una professione di fede, di una dichiarazione di amore esclusivo come pegno per il futuro. Nemmeno questo però è sufficiente, perché se guardiamo in profondità, scopriamo che l’atto di fede più esclusivo del popolo d’Israele è una invocazione di Dio al suo popolo perché presti attenzione alle parole che egli pronuncia attraverso il suo profeta e non defletta dalla sua fede nell’unicità di Dio.

Amare e pregare sono sinonimi

Nello «Shemà’ Israel», è Dio che s’inginocchia davanti a Israele e lo supplica di «ascoltarlo». In altre parole, è Dio che prega il suo popolo, quasi avesse paura di perderlo. Inaudito! L’ingresso nella terra promessa coincide con la preghiera di Dio al popolo, non il contrario: Dio supplica il suo popolo di non abbandonarlo, perché egli non può essere Dio senza il suo popolo Israele, come lo sposo non può essere sposo senza la sposa, come il padre non può essere padre senza il figlio. Ogni volta, pertanto, che ascoltiamo o leggiamo o preghiamo con queste parole, dobbiamo avere coscienza di vedere Dio inginocchiato davanti a noi che ci supplica di ascoltare il suo «Davàr», la sua «parola/fatto» che per noi cristiani, testimone Giovanni evangelista, è il Lògos-sarx, Gesù di Nàzaret in cui Parola e carne, divinità e fragilità diventano un corpo solo, una unità sponsale (cf Gv 1,14).

In questa supplica di Dio al suo popolo, egli esige l’esclusività perché per natura l’amore è esclusivo: «Il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore – Yhwh ’elohènu Yhwh ’echad». Come un innamorato o innamorata che prima di innamorarsi ha la possibilità di scegliere tra tutte le donne e tutti gli uomini, ma una volta che s’innamora esclude tutte e tutti tranne una o uno, così anche Dio supplica Israele di sceglierlo come «unico» e di restargli fedele. Non solo, in un testo giuridico che stabilisce norme per ogni aspetto della vita, si stagliano parole d’amore che sono tra i vertici della letteratura e della spiritualità di tutti i tempi: «Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,5). In ebraico si usa il verbo «’ahavàh – amare» che abbiamo già esaminato (Il Tallìt di Dio, MC 6/2017, p. 32), affermando che numericamente ha un valore di «13», cioè la metà di «Yhwh» che vale invece «26». A suo tempo abbiamo detto anche che Dio è un amore al quadrato e solo mettendo insieme ciascuno il proprio pezzo d’amore con i frammenti di amore degli altri si può raggiungere la pienezza di Dio che «è Amore – Agàp?» (1Gv 4,8). La Bibbia LXX, infatti, nel brano in questione, traduce «’ahavàh – amare» col il verbo «agapà? – io amo senza pretendere in cambio nulla» che nella Scrittura è un verbo riservato quasi esclusivamente a Dio.

Cuore, anima e beni materiali

«Tutto il cuore» riguarda la totalità della persona perché il cuore, per i semiti, è la sede dell’intelligenza e della coscienza, il profondo dove si forma e abita l’identità. Ancora di più. In ebraico la parola «cuore» si dice in due modi: «leb» e «lebàb» (pronuncia: levav): il primo con una «b» e il secondo con due «b». Il testo dello «Shemà’ Israel» riporta la versione con «due b: lebàb». I rabbini si domandano perché questa differenza e danno una risposta sorprendente. Essi insegnano che le due «b» stanno a significare le due tendenze che animano il cuore umano: quella verso il bene e quella verso il male; esse non possono essere estirpate, per cui bisogna amare Dio con tutt’e due le tendenze. Per questo nello Shemà Israel si dice «amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore» (Dt 4,5). La Mishnàh, Berakòt – Benedizioni 9,5, infatti così spiega: «Bisogna benedire Dio per il male e per il bene, perché egli ha detto: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutti i tuoi mezzi. Con tutto il cuore, con le due tendenze: il bene e il male». Coloro che separano lo spirito dalla carne, l’anima dal corpo fanno un’operazione antistorica e contraria alla fede perché immaginano un puritanesimo che non esiste e Dio stesso ne è consapevole fino a farne un comando d’amore.

«Tutta l’anima» si riferisce alla capacità di relazione sia in senso orizzontale (con gli altri diversi da sé) sia in senso verticale (con l’Altro che è il fondamento della relazione con sé e con gli altri). In altre parole si tratta della vita in tutta la sua espressione umana che si esprime e si consuma nella fecondità del rapporto con gli altri che sono sempre, per chi crede, la parte migliore perché sacramenti della presenza di Dio.

«Con tutte le forze» ha un significato preciso e significa «con tutti i tuoi averi» per evitare che s’illuda di chiudersi dentro uno spiritualismo di comodo, come avverte San Giacomo (cfr. Gc 2,2) che a sua volta richiama il Vangelo di Luca e la requisitoria di Gesù contro i ricchi (cfr. Lc 6,24-26). È facile amare Dio con i sentimenti e senza alcun impegno di vita, ma se occorre mettere in gioco il portafogli e i beni materiali, allora la questione si fa seria e tocca l’etica dell’economia, l’etica della politica, l’etica del guadagno, l’etica della tassazione, l’etica della condivisione, l’etica della distribuzione secondo giustizia dei beni della terra, che sono di Dio ma affidati a noi per custodirli e condividerli.

Queste tre condizioni e stati di essere, cuore, anima e beni materiali devono stare radicati nell’io (nel cuore) perché la preghiera non sia un atteggiamento evanescente e sulfureo, un mero obbligo materiale come «recitare» Lodi, Vespro e il resto o «dire» Messa, tutto logicamente in fretta e furia perché «maiora praemunt – cose più importanti urgono». Dio prega il suo popolo di «ascoltare», che non significa stare a sentire, ma immergersi nella persona che parla e diventare la parola che dice. Oggi, troppo spesso, la superficialità e la fretta fanno perdere anche la dimensione della buona educazione, cui non facciamo più caso.

Quando si riceve una persona per un colloquio bisognerebbe essere totalmente alle sue dipendenze e «ascoltare» con cuore, anima e beni materiali: disponibilità senza riserve. Troppo spesso, invece, capita, durante un colloquio, che uno risponda al cellulare o guardi l’orologio o si estranei rispondendo a un sms o consultando il web. È un costume tanto diffuso che non ci rendiamo più conto che in tal modo mettiamo il valore della persona sotto i piedi. Nessuno pensa che quello potrebbe essere l’ultimo colloquio della sua vita e che potrebbe presentarsi a Dio adducendo come scusa che «stavo rispondendo al telefono». Siamo diventati schiavi del cellulare e non ce ne accorgiamo nemmeno. Pregare è «ascoltare» Dio che prega e poiché Dio è relazione non può farlo da solo, ma ha necessità di pregare in compagnia. Pregare è perdere tempo senza chiedere nulla in cambio e dire all’altro quanto sia importante per me e anche porlo al centro della propria attenzione, del proprio cuore, della propria anima e dei beni materiali. Ascoltare gli altri è pregare vivendo.

«Voce di silenzio sottile»

Per il Targùm pregare è rispondere all’anelito di Dio di vedere il volto del suo figlio/figlia. Pregare è non solo regalare il proprio tempo a Dio per permettergli di contemplare l’assemblea orante, ma illuminarsi lo sguardo per vedere la vita e gli eventi e le persone con gli occhi di Dio. Sì, pregare è esercitarsi a somigliare a Dio, imparando da lui come si agisce nella storia, come si accolgono le persone, come si progetta il futuro, come si legge il presente e come si cammina con gli altri nei propri tempi che sono sempre «tempi di Dio». Nessun tempo può essere privilegiato, perché «io sarò con voi fino alla fine del mondo» (Mt 28,28) e se lui è con noi sempre, giorno dopo giorno, abbiamo l’obbligo di «stare con lui» per imparare come lui sta con noi e fondere in un unico modo i due versanti fino a diventare uno perché uno è il Signore nostro.

Per vedere Dio, è sufficiente lasciarsi contemplare dall’Invisibile mentre si prega. «Ascoltare» non significa dire parole e formule, ma essere «silenzio», cassa di risonanza che fa rimbombare la Parola «sottile» di Dio, che, sebbene Parola creatrice, è sempre un «silenzio sottile», flebile, gracile, un soffio appena sussurrato che deve essere custodito. È l’esperienza di Elia che non vide Dio nelle manifestazioni rumorose del vento, del terremoto e del fuoco, ma nella «voce di silenzio sottile» (1Re 19,12). Due ossimori potenti: «voce-silenzio» e «silenzio-sottile». Veramente Dio è un grande umorista che sa cogliere con brio il senso e il nesso delle cose. Se la parola non si fa silenzio non può mai divenire Parola; se il silenzio che è già pieno senza necessità di nulla non diventa ancora più sottile, cioè più profondo, affilato come spada (cfr. Eb 12,4), perde il contatto con la Parola: Parola e silenzio mantengono la propria identità se scompaiono l’uno nell’altra. Quando diciamo di pregare, anche molto, e che nonostante ciò Dio non ci ascolta, ammettiamo solo che teniamo separati Parola e silenzio, presenza e assenza.

L’anelito di Mosè e quello del Cantico dove Dio smania per vedere il volto della sposa orante, si prolunga anche nel NT, nei Greci giunti a Gerusalemme come cervi assetati alla sorgente. Essi rivolgono a Filippo e ad Andrea il loro anelito di desiderio: «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21). Il Signore risponde rinviandoli alla morte in Croce: per vedere Dio bisogna salire il Calvario e sostare ai piedi della Croce per contemplare l’uomo crocefisso che incarna il volto dell’Invisibile. «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore…» (Gv 12,23-24). La Croce esprime una doppia prospettiva: dal basso, dove stanno il discepolo e la madre che guardano il volto di Dio crocifisso, e dall’alto dove il Dio morente guarda l’uomo e la donna, novelli Àdam ed Eva (cf Gv 19,25-27), segno sacramentale dell’intera umanità immersa nella visione del Dio invisibile che i cieli dei cieli non possono contenere (2Cr 2,5). È la croce il punto di congiunzione tra la morte e la risurrezione.

Pregare è solo perdersi in un afflato d’amore in cui si confondono e si fondono insieme due desideri fino a diventare uno solo, fino a sperimentare una sola vita. L’Eucaristia è tutta qui: lo spazio della visione sperimentata. L’Assemblea si raduna non per adempiere un precetto, pena il peccato, ma per permettere a Dio di contemplarla nello stesso momento in cui si pone davanti a Dio per vederne la Gloria, toccarne il lembo del mantello e mangiare il «Lògos della vita» (1Gv 1,1)

Paolo Farinella (6 – continua)