Il presidente del Venezuela è Nicolás Maduro. Di nuovo, per la terza volta e da quasi 12 anni, senza soluzione di continuità, è alla guida del Paese a partire dal 9 aprile del 2013. Venerdì 10 gennaio a Caracas, c’è stata la cerimonia di investitura del vecchio-nuovo presidente in un clima di grande isolamento da parte della comunità internazionale, che in buona parte non ha riconosciuto il risultato elettorale del 28 luglio scorso a causa delle denunce di brogli mosse contro il leader chavista, o più correttamente «madurista».
Nonostante Maduro abbia pronunciato le seguenti parole: «Delegati di 125 paesi, giuro, di fronte al popolo del Venezuela, che adempirò a tutti gli obblighi dello Stato», alla cerimonia erano presenti pochi diplomatici e ancora meno capi di Stato. Ad accompagnarlo nel suo terzo giuramento, c’erano solamente il presidente del Nicaragua, Daniel Ortega e Miguel Díaz-Canel presidente di Cuba, oltre ai delegati di pochi altri Paesi, tra cui Cina, Russia e India alleanze chiave per il Venezuela.
Nessun altro capo di Stato è arrivato dall’America Latina, né da Paesi con leader di destra, come l’Argentina o Costa Rica – le cui delegazioni diplomatiche erano già state espulse lo scorso anno da Maduro – né di sinistra. Queste assenze, a cui si aggiungono quelle ovvie e politicamente significative di Stati Uniti, Canada e dell’Unione europea, dimostrano l’isolamento internazionale a cui Maduro sta costringendo il Venezuela e la crisi di legittimità che circonda la sua figura.
Secondo il suo avversario alla presidenza, Edmundo González Urrutia, e la leader della coalizione di opposizione Mesa de la Unidad Democratica, Marina Corina Machado, in Venezuela si sarebbe consumato un colpo di Stato. «Maduro si è autoproclamato dittatore», ha dichiarato González, per il quale il leader del madurismo non avrebbe affatto vinto le elezioni.
Secondo un conteggio realizzato partito di opposizione e avvallato da vari analisti indipendenti, il voto del 28 luglio scorso avrebbe dato come risultato la vittoria di González con il 67% contro il 30% di Maduro. Tuttavia, il Consiglio nazionale elettorale, istituzione teoricamente indipendente ma controllata dal potere in carica, avrebbe dichiarato una vittoria piuttosto netta del leader madurista con il 51,20% contro il 44,2% di González. Anche l’osservatorio internazionale e indipendente Carter Center ha dichiarato che le elezioni elettorali non si sono adeguate a standard di integralità e non possono essere considerate democratiche. Maduro, nonostante le richieste internazionali, non ha mai presentato gli atti elettorali che avrebbero potuto confermare la regolarità del voto. Di fronte a questo rifiuto, L’Unione europea ha comunicato di non riconoscere il risultato elettorale.
I due presidenti
Negli ultimi mesi, Edmundo González Urrutia, in esilio politico in Spagna, sotto mandato di arresto in Venezuela per falsificazione e altri presunti reati da parte del governo, è stato riconosciuto come legittimo presidente da numerosi stati, tra cui Canada, Panama, Argentina, Stati Uniti ed Ecuador. González non era presente nel paese al momento dell’investitura di Maduro, nonostante avesse dichiarato non solo sarebbe ritornato in Venezuela ma avrebbe assunto il ruolo di presidente in quella stessa giornata, secondo la volontà popolare dimostrata dagli unici atti elettorali pubblici e disponibili. Tuttavia, il mandato di arresto nei suoi confronti e il massiccio dispiegamento militare di Caracas non ha reso possibile un suo ritorno in sicurezza.
L’arresto di Machado
Il giorno precedente al giuramento di Maduro, Marina Corina Machado ha fatto la sua prima apparizione pubblica dopo mesi di assenza, partecipando alla manifestazione di piazza a Caracas contro il chavismo. Proprio al termine di un comizio, la leader dell’opposizione sarebbe stata detenuta dalle autorità e liberata nelle ore successive. Sebbene le dinamiche siano ancora da verificare il Governo neghi la detenzione, Machado ha assicurato di essere stata assalita alle spalle, strattonata e fatta scendere dalla moto su cui si stava spostando verso un altro punto della città. Il giorno successivo ha dichiarato alla Cnn di essere stata trasportata a un centro de detenzione di Caracas, dove avrebbe registrato un video per confermare la sua identità e assicurare di essere viva.
«Mi sarebbe successa la stessa cosa di Machando se fossi tornato», ha dichiarato González sul Clarín, quotidiano argentino, tuttavia ha confermato che, sebbene non nell’immediato, si sta preparando a un ritorno per mettere fine a quella che chiama «tragedia» del Venezuela, riferendosi al governo di Maduro.
Intanto, gli Stati Uniti hanno aumentato le sanzioni contro il Paese e portano a 25 milioni di dollari la taglia, sul leader del Venezuela – inizialmente di 15 milioni – per crimini legati al narcotraffico, accuse che il Governo di Maduro ha sempre respinto.
In Venezuela in queste ore la situazione è sempre più tesa. Secondo la Ong Foro Penal, come riportato anche dal quotidiano spagnolo El Pais, dal primo all’11 gennaio, sono 75 le persone incarcerate per opposizione politica al regime di Maduro. Il numero totale dei prigionieri politici al 9 gennaio ammonterebbe a 1.697. Tra di loro ci sarebbe anche il genero di Edmundo González.
Simona Carnino
Botswana. Alternanza dopo 58 anni
Le elezioni dello scorso 30 ottobre in Botswana sono state un terremoto politico. Per la prima volta nella sua storia, il Partito democratico del Botswana (Bdp) – al governo dall’indipendenza ottenuta nel 1966 dai britannici – ha dovuto cedere il potere. A vincere è stato l’Ombrello per il cambiamento democratico (Udc), il principale movimento di opposizione presente nel Paese.
Si è trattato di una svolta storica, soprattutto se letta attraverso i numeri: il Bdp, che mai aveva perso la maggioranza in Parlamento, ora è addirittura la quarta forza dell’Assemblea nazionale. Il partito è crollato dai 38 seggi del 2019 a soli quattro, perdendo anche la presidenza del Paese. E così si è aperto uno scenario inedito, nel quale si è verificata una transizione di potere pacifica, a conferma della reputazione di good governance di cui gode il Botswana. A prendere il posto del presidente uscente, Mokgweetsi Masisi, è stato il leader dell’Udc, Duma Boko.
Ma perché il Bdp è crollato in modo così netto? Le ragioni sono molte e profondamente interconnesse. C’entrano, ad esempio, il sistema elettorale, le difficoltà economiche, la disoccupazione e la disuguaglianza crescenti.
Anche se l’ex partito di governo ha ottenuto il 30% del consenso popolare (secondo solo al 37% dell’Udc), è appena il quarto raggruppamento parlamentare. Il motivo è da ricercare nel sistema elettorale, il first-past-the-post di tradizione anglosassone che privilegia la governabilità a scapito della rappresentanza. Infatti, nei collegi uninominali, in cui è suddiviso il territorio nazionale, l’unico seggio in palio è assegnato al candidato che ha ottenuto la maggioranza dei consensi, anche solo di un punto percentuale. Dunque, in tanti casi, i voti che il Bdp ha ricevuto non si sono tradotti in vittorie individuali e in seggi parlamentari.
In realtà, il sistema elettorale botswano non ha fatto altro che certificare un declino che era già iniziato da tempo. D’altronde, negli ultimi anni, il Bdp trasmetteva sempre di più la sensazione di tenere più al potere che alla crescita del Paese. Infatti, mentre tra i cittadini cresceva la percezione di essere governati da un sistema corrotto e poco trasparente, molti indicatori economici e sociali avevano imboccato una traiettoria discendente.
L’economia, ad esempio, è ancorata alla produzione di una sola commodity, i diamanti che rappresentano oltre l’80% delle esportazioni del Paese e contribuiscono a più del 50% del Pil. Finora, i tentativi di diversificazione economica sono stati molto limitati. Così, quando lo scorso anno il prezzo dei diamanti sul mercato internazionale è crollato, il Botswana ha risentito del colpo: nel 2024, secondo il Fondo monetario internazionale, il Pil è cresciuto solo dell’1% (a differenza del 2,3% registrato nel 2023 e soprattutto del 5,5% del 2022).
Con il rallentamento dell’economia, sono sempre più forti le preoccupazioni per disuguaglianza e disoccupazione, due problematiche che storicamente attanagliano il Botswana. Anche se il Paese non raggiunge i tassi del Sudafrica (primo al mondo in entrambe le classifiche), si colloca comunque tra gli Stati con le percentuali più elevate nella regione.
Oltre il 27% della popolazione è senza lavoro. Ma è se ci si concentra sulla disoccupazione giovanile che il dato diventa ancora più preoccupante: il 34% dei giovani tra 15 e 34 anni è disoccupato. Al contempo, cresce anche la disuguaglianza: con un indice di Gini pari allo 0,53, il Botswana è tra i Paesi più iniqui dell’Africa australe, non lontano dallo 0,63 del Sudafrica (l’indici Gini misura la disuguaglianza della distribuzione di reddito, il volore 0 indica equidistribuzione, quello 1 che tutto il reddito è percepito da una sola persona, ndr).
A fare da contraltare ai pochi che possiedono molto, c’è infatti un’ampia fetta della popolazione (più del 60%) che vive con meno di 6,85 dollari al giorno, la soglia della povertà individuata per i Paesi a medio alto reddito (gruppo in cui le Nazioni Unite annoverano anche il Botswana). Cifre considerevoli e frutto anche degli scarsi investimenti sul piano sociale, dall’istruzione alla salute. Nel Paese, ad esempio, si registra uno dei tassi di mortalità materna più alti al mondo tra gli Stati a medio alto reddito: 175 decessi ogni 100mila nati vivi.
L’opposizione ha risposto a tutto ciò con la promessa di ricostruire l’economia, creare posti di lavoro, e combattere la corruzione (di cui il Bpd stesso è stato più volte accusato). Oltre a puntare sulla diversificazione della produzione, Boko e i suoi alleati hanno promesso di aumentare il salario minimo mensile da 3.400 pula (la moneta nazionale) a 4mila (circa 300 dollari). Ma anche di creare 450-500mila nuovi posti di lavoro (una quantità abbastanza significativa per una popolazione di 2,5 milioni di persone) in diversi settori.
Promesse che, stando al risultato delle elezioni, hanno fatto presa tra la popolazione. Ora sta ai nuovi leader del Paese cercare di sviluppare delle politiche sociali ed economiche realmente alternative a quelle del vecchio regime.
Aurora Guainazzi
Europa. Se la guerra bussa alla porta / 2
Nessuna tregua. Anche a Natale sull’Ucraina sono piovute bombe russe, mentre a Betlemme, in Cisgiordania, per il secondo anno consecutivo, le celebrazioni pubbliche sono state cancellate a causa del conflitto con Israele. Ucraina, Palestina, Libano, Siria, Israele: da quasi tre anni la guerra è alle porte dell’Europa. Per questo non c’è da stupirsi se alcuni stati si stanno attrezzando per un’eventuale estensione delle ostilità ai loro territori. Così, seguendo l’esempio di Svezia e Germania, altri tre paesi nordici hanno deciso di preparare i propri cittadini a uno scenario di guerra.
In Danimarca, l’agenzia per le emergenze (Danish emergency management agency, Dema) ha scritto una sintetica guida dal titolo «Siate preparati per una crisi». «Le autorità – vi si legge – raccomandano che tu e la tua famiglia dovreste essere in grado di sopravvivere per tre giorni in caso di crisi. Se sei preparato e in grado di prenderti cura di te stesso e dei tuoi cari, le autorità possono concentrare i loro sforzi dove il bisogno è maggiore e lavorare per stabilizzare la situazione. Più persone sono in grado di prendersi cura di se stesse e di aiutare gli altri intorno a loro durante e subito dopo una crisi, più forti siamo come società».
In Norvegia, la brochure illustrata diffusa dalla Direzione per la protezione civile (Norwegian directorate for civil protection, Dsb) ha un incipit molto pratico: «Come fareste tu e la tua famiglia più prossima se l’elettricità venisse a mancare per un periodo più lungo? Cosa faresti se l’approvvigionamento idrico venisse a mancare? E se non potessi fare la spesa per una settimana? Prepararsi alle emergenze significa essere pronti a gestire questo tipo di situazioni. Le autorità norvegesi raccomandano che il maggior numero possibile di persone sia pronto a essere autosufficiente per una settimana. Questo perché, in una situazione di crisi, i comuni e le agenzie di emergenza dovranno dare la priorità a coloro che non possono fare a meno di aiuto. Se un maggior numero di noi può prendersi cura di se stesso e della propria famiglia, le difese generali della Norvegia saranno rafforzate».
Nelle pagine interne si parla di acqua, riscaldamento ed elettricità, cibo, igiene, medicinali, pagamenti, informazioni e comunicazioni, collaborazione e cooperazione. «In caso di un atto di guerra – si legge nelle ultime pagine -, potresti essere avvisato di cercare un rifugio. Se non ci sono rifugi di emergenza nelle immediate vicinanze, dovresti cercare riparo in un seminterrato o in una stanza al centro dell’edificio. Le esplosioni potrebbero causare la rottura delle finestre e i vetri potrebbero ferire le persone vicine. Pertanto, dovresti stare lontano dalle finestre».
Da ultimo, la Finlandia, il paese più esposto visto che condivide con la Russia un confine lungo quasi 1.400 chilometri. Già dall’autunno 2023 gli otto valichi con l’ingombrante vicino sono chiusi per motivi di «sicurezza nazionale».
Nella pubblicazione curata dal ministero dell’Interno finlandese – Prepared people cope better («Le persone preparate affrontano meglio le situazioni») – si legge: «Quando accade qualcosa di eccezionale, le autorità e le altre parti responsabili si prendono cura della situazione. Tuttavia, le autorità non possono fare tutto da sole. Il modo in cui tutti si preparano e ciò che fanno è importante».
Ormai da alcuni anni papa Francesco parla di una «guerra mondiale a pezzi» che si sta trasformando in una vera guerra globale. A lungo è sembrata un’esagerazione del pontefice.
Paolo Moiola
Pellegrini di Speranza
«La speranza non delude» è il titolo della bolla di indizione del Giubileo 2025, segnato da due ricorrenze molto significative, anche per la missione: i 1.700 anni del Concilio di Nicea, che ci ricordano l’importanza della prassi sinodale per «custodire l’unità del popolo di Dio e l’annuncio fedele del Vangelo»; e, «per una provvidenziale circostanza» (n.17), la celebrazione insieme – cristiani d’Oriente e d’Occidente – della Pasqua, che avverrà proprio quest’anno, il 20 aprile.
La prima ricorrenza è importante soprattutto perché ci fa presente – di fronte ai ripetuti tradimenti dello stile evangelico – la necessaria continua conversione dei missionari al principio cristologico della
missione, senza il quale non c’è evangelizzazione. Detto altrimenti, i missionari sono «segni di speranza» solo se rimangono ancorati allo stile umile e povero della missione di Cristo, come ribadisce a più riprese il Concilio (cfr. LG 8; AG 5).
La seconda ricorrenza è eloquente soprattutto perché ci invita a ridurre l’ambivalenza della prassi missionaria, presente anche nelle pagine più belle della missione. Basti pensare al pregiudizio anti-ecumenico e antireligioso che fino al Vaticano II condannava le altre Chiese e religioni ai margini della storia della salvezza, senza alcuna possibilità di collaborazione per il bene dell’umanità.
D’accordo con Spes non confundit, «La speranza non delude» (Rm 5,5), anche il Giubileo 2025 si connette con la categoria del pellegrinaggio: «Il pellegrinaggio esprime un elemento fondamentale di ogni evento giubilare. Mettersi in cammino è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita» (n. 5). Solo dei missionari «pellegrini», viandanti, capaci di staccarsi dalla propria cultura, dalla propria patria, dalla propria famiglia, saranno in grado di avventurarsi nell’affascinante e rischioso viaggio alla scoperta di mondi sconosciuti già abitati dalla speranza, grazie all’azione e alla presenza dello Spirito, che precede l’arrivo e la presenza della Chiesa.
Basti pensare al ruolo del primo grande «movimento missionario», quello monastico, dal secolo V al XII. Spinti dal desiderio di santificarsi secondo la tipica forma del «martirio bianco» (l’ascetismo), i monaci – come nel caso più celebre dell’irlandese san Colombano e dei suoi discepoli – abbandonavano il loro monastero e andavano di luogo in luogo ad annunciare la parola di Dio, «pellegrini per amore di Cristo», senza farvi più ritorno, come in un volontario esilio. Questo movimento missionario, come pellegrinaggio per amore di Dio e di Cristo, fu per molti aspetti fortemente innovativo sia per la santificazione personale, sia per l’evangelizzazione dell’Europa.
Ma la particolarità di quest’anno giubilare consiste nel porre «segni di speranza», capaci di renderla reale, evidente, tangibile, non solo a livello personale, ma anche sociale; non solo in una parte del mondo, ma a livello globale. Nella selezione dei segni, la bolla di indizione invita anzitutto a «porre attenzione al tanto bene che è nel mondo per non cadere nella tentazione di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza» (n. 7). I segni dei tempi, oltre a esprimere l’anelito di tanta parte dell’umanità, chiedono di essere trasformati in «segni di speranza». Come? Per esempio, osando la pace in tempo di guerra; non perdendo il desiderio di trasmettere la vita in mezzo all’inverno demografico; privilegiando la giustizia riparativa rispetto a quella punitiva per i detenuti.
Meritano attenzione – per la sintonia con Lev 25,8-17 – soprattutto l’appello a costituire, con il denaro speso per le armi, un fondo mondiale per eliminare la fame e l’accorato invito a condonare il debito dei Paesi che non possono più ripagarlo: «Se veramente vogliamo preparare nel mondo la via della pace, impegniamoci a rimediare alle cause remote delle ingiustizie, ripianiamo i debiti iniqui e insolvibili, saziamo gli affamati» (n. 16). Davvero la speranza non delude, ma ricolma i nostri cuori missionari.
FESMI, Federazione stampa missionaria italiana
Noi e Voi, dialogo lettori e missionari
MC, una casa per la cooperazione
Un paio di volte l’anno esco dal mio ufficio e mi chiudo la porta alle spalle, perché so che non tornerò per un paio d’ore. Vado nella biblioteca della casa generalizia dei Missionari della Consolata a Roma e mi siedo sulla scala di legno che porta dalla saletta principale a quella rialzata e che passa accanto allo scaffale dove ci sono i numeri di Missioni Consolata rilegati per anno. Con l’insolito e suggestivo sottofondo di musica, spesso lirica, che viene da un vicino teatro, mi metto a sfogliare.
Ho iniziato per cercare corrispondenze, anniversari, eventi di cui parlare in Cooperando: di che cosa scriveva la rivista in questo mese di trent’anni fa? E di cinquanta, sessanta, venti anni fa? C’erano progetti sul campo di cui dava conto?
La prima sorpresa è stata scoprire la rubrica «Appelli dal fronte», pubblicata dal gennaio del 1968 al maggio del 1974, che in ogni numero proponeva ai lettori un’iniziativa in missione da sostenere con un’offerta. Da lì è nato «Come cooperavamo», il box sui progetti d’antan – così d’antan che ancora non si chiamavano progetti – che ogni tanto è apparso all’interno di «Cooperando». Ma per trovare questi spunti basterebbe un quarto d’ora, dirà il lettore attento: perché non torni alla tua scrivania a tenere d’occhio i progetti?
Confesso: se mi fermo ore su quella scaletta è perché ogni volta trovo qualche gioiellino, a cominciare dai pezzi eleganti e divertenti di padre Benedetto Bellesi, il mio primo direttore. Ma ce ne sarebbero a decine da citare, come è inevitabile che sia quando una rivista fa per decenni da ponte non solo fra Italia e Africa, America Latina, Asia, ma fra persone e comunità italiane e persone e comunità in luoghi talmente isolati che sarebbe stato altrimenti quasi impossibile averne notizia.
E poi la storia, del secolo scorso e di questo, che attraversa le pagine: non di sfuggita, come fosse un’eco, ma come una presenza imponente che lascia orme profonde, solchi, dentro ai quali i missionari stessi hanno camminato, senza sottrarsi al confronto con mondi e punti di vista anche molto lontani dal loro.
Quanto alla cooperazione in particolare, poi, i pezzi sul volontariato, sullo sviluppo, sulla collaborazione con organizzazioni come Mani Tese pubblicati fra gli anni Sessanta e gli Ottanta del secolo scorso hanno contenuti e linguaggi di un’attualità che mi colpisce ogni volta.
Insomma, buon compleanno MC, te li porti bene questi 125 anni e più. E grazie del servizio che hai reso e rendi alla cooperazione.
Chiara Giovetti Roma, 10/10/2024
Nonno missionario
Molto rev. padre Anataloni,
Ho seguito con entusiasmo l’elevazione agli altari di san Giuseppe Allamano.
In quei giorni ho potuto incontrare anche padre Rinaldo Do (a Isiro, in Congo Rd), con il quale ho un contatto quotidiano. Da pensionato e nonno faccio parte attiva, con entusiasmo e soddisfazioni, del gruppo missionario parrocchiale Belém, con presenza quasi tutte le domeniche, presso i nostri banchetti vendita, nelle cinque parrocchie del territorio parrocchiale di Alzano Lombardo (Bg).
Abbiamo diversi missionari locali, nessuno della Consolata, in Amazzonia, in Messico, in Papua Nuova Giunea, in Bangladesh, e anche missionarie, purtroppo ritornate al Padre di recente: suore che sono state nella Sierra Leone, che hanno subito anche un rapimento e sono state poi rilasciate (erano tra le sette missionarie di Maria-Saveriane che furono sequestrate il 25 gennaio 1995 dai ribelli del Fronte rivoluzionario unito e liberate il 21 marzo successivo, ndr).
E il cappuccino padre Apollonio, che con il suo decesso, ci ha lasciato in eredità un lebbrosario in Brasile.
Quando san Giuseppe Allamano, padre di missionari e missionarie, raggiunse la gloria del Bernini, ho sentito la necessità di rivolgere una preghiera per i nostri missionari. A metà preghiera mi ha raggiunto un dolorosissimo blocco, con una lacrimuccia: sono un ex seminarista della Consolata. Dopo 9 anni in istituto, alla vigilia dei primi voti, d’accordo con il padre spirituale, ho lasciato. Ma non solo, in seguito, in modo colpevole, ho accantonato anche lo spirito missionario, tra l’altro molto gioioso, che avevo appreso a suo tempo.
Ora, se, nella parte terminale della rivista MC, ci fosse un piccolo trafiletto, magari gestito da un padre in infermeria, dove ne conosco molti di persona, con esperienza di missione e mi aiutasse a rientrare nello spirito missionario della Consolata, forse servirebbe a molti volontari ed ex, che sempre vi stimano e amano.
Mettetemi in condizione di pregare l’Allamano, non raggiungereste grandi risultati, con me: alla fine otterreste non grandi fasci di luce, ma una lucina del presepio, che, in ogni caso, può stare davanti all’Allamano, e quale nonno, porterei in dotazione tre nipotini, che mi seguono nel mondo missionario.
Ferruccio Vitali Alzano Lombardo, 16/11/2024
Caro Ferruccio,
grazie di questa condivisione personalissima e grazie della passione missionaria che non ti ha mai lasciato; un amore per la missione che sembra essere di casa nel paese dove vivi.
La canonizzazione è stato certamente un avvenimento che ha galvanizzato tutti noi. È stata una tappa essenziale del cammino che stiamo facendo insieme missionari, missionarie e laici che condividono la nostra passione. Davanti abbiamo ancora un anno molto pieno e significativo per tutti noi. La meta sarà il 16 febbraio 2026, centenaria della morte di san Giuseppe Allamano. Una data che diventa occasione e stimolo per rinnovare la nostra fedeltà al suo carisma e, soprattutto, per declinarlo nella nuova realtà in cui tutti viviamo, con tutte le sue crisi, contraddizioni e drammi, ma anche con tantissime nuove potenzialità inedite.
Le pagine di questa rivista saranno un luogo privilegiato per condividere con i nostri amici e «tifosi» questo cammino. Non aspettarti sorprese straordinarie, ma davvero cammineremo insieme per «fare bene il bene», da «santi» anzitutto, «poi missionari».
Sant’Allamano, Attento alla Stampa
A Torino è pubblicata regolarmente la rivista «Il Santuario della Consolata». È la continuazione de «La Consolata», il mensile sorto nel 1899, una rivista, meglio «bollettino», come si diceva allora, che, a sua volta, nel 1928, dopo aver accompagnato per molti anni i primi passi dei missionari e missionarie della Consolata, ha generato «Missioni Consolata» come rivista autonoma.
Quando entro, oggi, nella redazione di MC resto affascinato da una gigantografia appesa a una parete: è la copertina del primo numero de «La Consolata» (vedi la foto qui sopra). Un’immagine a colori di oltre 125 anni fa, disegnata e decorata con arte, dalle proporzioni perfette. Una bellezza. Sì, perché al fondatore de «La Consolata» piacevano «le cose belle», e le esigeva puntando sull’eccellenza.
Si chiamava Giuseppe Allamano quel fondatore, sacerdote, il quale nel 1901 fondò pure i Missionari della Consolata e, nel 1910, le Missionarie della Consolata. Con lui operava un altro prete speciale: Giacomo Camisassa.
Ed ecco che, last but not least, il 20 ottobre Giuseppe Allamano è stato dichiarato santo.
Chi dice che a Giuseppe Allamano stava a cuore anche la stampa afferma una verità indiscutibile. Egli sostenne diversi giornali cattolici con consigli e denaro. Ebbe un peso rilevante sulle testate Italia Reale, Corriere Nazionale, La Voce dell’Operaio, Risveglio Cattolico. Inoltre, ispirò, incoraggiò e sostenne la nascita del quotidiano francese La Croix, il cui direttore, padre Paul Bailly, nel 1883 venne a Torino in pellegrinaggio al santuario della Consolata.
Questo dimostra che il canonico Allamano non era solo il rettore della Consolata, chiuso nel suo santuario, bensì partecipava alla vita sociale del suo tempo. «La Consolata» fu una rivista attraente anche sotto il profilo fotografico. I fotografi erano gli stessi missionari della Consolata, che raggiunsero il Kenya nel 1902. Però, prima di partire, frequentavano corsi di fotografia. Secondo padre Candido Bona, uno degli storici dell’istituto, il primo maestro di fotografia dei missionari fu nientemeno che Secondo Pia, il celebre fotografo della Sindone di Torino.
Quadretto con immagine b/n della Consolata (foto di Secondo Pia) che si trovava sopra letto dell’Allamano durante la malattia dopo la quale decise di fondare l’Isittuto nel 1901.
Secondo Pia era amico di Allamano, che gli commissionò la foto del quadro della Madonna Consolata dell’omonimo santuario. Poi l’immagine bianco e nero, incorniciata in centinaia e centinaia di quadretti, fu distribuita in tutta Torino. Un esemplare (foto qui sopra) si trova tutt’oggi in Corso Ferrucci 18, nella chiesa dedicata a San Giuseppe Allamano, che ne raccoglie le spoglie mortali.
Ebbene, i fotografi de «La Consolata» erano alcuni, pochi, missionari muniti di ottime macchine fotografiche (e relativo materiale di camera oscura per sviluppo e stampa, ndr), alcune delle quali sono conservate nel museo etnografico dell’istituto. Le foto destano tuttora ammirazione. Ritraggono specialmente l’etnia dei Kikuyu del Kenya. Oggi alcuni Kikuyu, visitando il nostro archivio fotografico, restano a bocca aperta di fronte ai ritratti dei loro nonni ed esclamano stupiti: «Ma noi eravamo proprio così?».
I missionari erano soprattutto scrittori. «La Consolata», prima, e MC, dopo, riportano i loro articoli che Allamano e Camisassa leggevano con passione. Si tratta di un materiale di notevole pregio anche etnografico. Alcune tesi di laurea sono state scritte avendo come fonte primaria le suddette riviste.
Sulla scia di Giuseppe Allamano, le Missionarie della Consolata hanno pure dato vita alla loro rivista «Andare alle Genti», mentre i Missionari hanno allargato l’orizzonte con «Fatima Missionaria» in Portogallo, «Antena Misionera» in Spagna, «Dimension Misionera» in Colombia, «Missões» in Brasile, «The Seed» (Il Seme) in Kenya, «Enendeni» (Andate) in Tanzania, «Missions» in Corea del Sud, «Reveil» in Canada, «Consolata missionaries» negli Usa. E tutto è «buona novella».
Francesco Bernardi Torino, 28/09/2024
Una preghiera
Salve, non c’è un motivo particolare ma ho scritto una preghiera per invocare San Giuseppe Allamano, ve la mando, spero vi piaccia. Arrivederci,
Canonico Giuseppe, primo padre della Consolata, intercedi per noi, affinché impariamo ad affrontare i nostri dolori nel corpo e nello spirito
e i nostri cattivi pensieri.
Consolaci con la tua attenzione e il tuo ascolto e sostienici nel nostro quotidiano, a volte così duro e greve.
Insegnaci a incontrare l’altro,
chiunque sia, senza pregiudizi e senza etichettare con fretta e ignoranza.
Aiutaci a diventare santi che sanno fare bene il bene senza far rumore, a diventare missionari d’amore, testimoni di fede.
Andare alle genti? Adesso comincio.
Deo gratias? Sempre. Amen
Stefania Barbieri 08/11/2024
Taiwan. Una società plurale
C’è stato un tempo dell’oro per le religioni. Mentre oggi la situazione è stabile. La storia dell’isola ha portato a una società complessa e diversificata. Libertà e pluralità sono una grande ricchezza. Ma le sfide attuali non sono da sottovalutare. Reportage dall’isola di Formosa.
Hsinchu, 16 settembre. È sera e fa ancora caldo umido a Ximen street. Nel cortile della chiesa Sacro Cuore di Gesù c’è movimento. Ci sono persone indaffarate con scatole e pentole di cibo, altre montano piccole griglie per cuocere alla brace. Altre ancora portano strumenti musicali. Entrano ed escono dai locali della struttura. Sono i parrocchiani che stanno preparando la festa della luna o festa di metà autunno. È una ricorrenza importante a Taiwan e ha origini antiche, nata dal ringraziamento per il raccolto.
«Facciamo la festa con il barbecue», ci dicono. Molti di loro sono di mezza età, alcuni anziani ma molto dinamici. I giovani sono pochi. La parrocchia è gestita dai Missionari della Consolata dal 2017 ma è stata fondata dai Gesuiti nei primi anni Cinquanta. Questa era la base dei padri della Compagnia di Gesù per tutta la diocesi di Hsinchu (cfr. MC dicembre 2024).
Ma per capire la storia della Chiesa cattolica a Taiwan, occorre fare un passo indietro.
Taiwan. (Foto Marco Bello)
Invasione
Fino alla fine della Seconda guerra mondiale, i cattolici a Taiwan erano pochissimi, circa 25-30mila, molti concentrati nel Sud. Nel 1949, quando i nazionalisti di Chang Khai-shek (e del suo partito, il Kuomintang) persero la guerra civile contro i comunisti di Mao Tse-dong in Cina e decisero di riparare temporaneamente sull’isola. Taiwan era tornata in mani cinesi nell’ottobre del 1945, «restituita» dal Giappone sconfitto nella Seconda guerra mondiale.
Taiwan fu dunque «invasa» da funzionari dell’apparato statale, militari dell’esercito nazionalista, politici, famiglie di ricchi commercianti. Si parla di oltre un milione e mezzo di persone su circa 11 milioni di abitanti dell’isola. Anche molte infrastrutture, reperti dell’impero cinese e, ovviamente, le riserve aurifere, vi furono traslate. Chang Khai-shek stabilì il suo quartier generale a Taipei, in attesa di contrattaccare e recuperare territorio sul continente.
Gli abitanti, prima dell’invasione dei mainlander, erano costituiti dai diversi gruppi aborigeni (austronesiani, che parlavano lingue distinte ed erano spesso in contrasto tra loro), il popolo Hakka (originario del Nord della Cina) e quello Hokklo (giunto dal Sud, la regione dall’altra parte dello Stretto di Formosa). Questi ultimi sono gruppi etnici cinesi di antica migrazione, che parlavano lingue completamente diverse e non intellegibili. Il giapponese era utilizzato come lingua di comunicazione tra i gruppi, mentre il mandarino, la lingua comune cinese, era poco usato e solo dalle élite culturali.
Trasferimento in massa
Intanto, sul continente, il nuovo regime installatosi a Pechino iniziò una persecuzione di religiosi e fedeli delle varie religioni, in particolare cristiani e buddhisti,
I cattolici non fecero eccezione: «In quegli anni – ci racconta padre Edi Foschiatto, missionario saveriano a Taiwan da trent’anni – preti, religiosi e religiose lasciarono la Cina continentale e vennero sull’isola. Tant’è che il territorio fu suddiviso e affidato a diverse congregazioni. Anche i vescovi erano da “sistemare” e si costituirono sei diocesi e l’arcidiocesi di Taipei. Ai Gesuiti toccò proprio la diocesi di Hsinchu, che ha una parte di pianura e anche una zona montagnosa».
Padre Jeffrey Chang, gesuita delle Hawaii, professore di Teologia della Chiesa alla Fu Jen University di Taipei (l’università cattolica fondata a Pechino nel 1925 e trasferita a Taipei nel 1959 dalla Società del Verbo Divino e dalla Compagnia di Gesù), sviluppa il discorso: «In quegli anni ci fu un enorme flusso di risorse umane e finanziarie della Chiesa cattolica verso Taiwan. E questo avvenne in poco tempo. Inoltre, si pensava che sarebbe stato un passaggio temporaneo».
Gli anni Cinquanta e Sessanta furono un periodo di grandi investimenti da parte della Chiesa, grazie alla presenza di personale e ai fondi di entità ecclesiastiche in Europa e Stati Uniti. Il contesto taiwanese era quello di una società povera e poco sviluppata. Il numero dei fedeli aumentò, grazie ai cattolici in fuga dalla Cina comunista, ma soprattutto perché molti taiwanesi abbracciarono questa fede. Si arrivò a oltre 300mila, cifra che è rimasta stabile fino ad oggi.
«La Chiesa cattolica portò welfare, in termini di ospedali e scuole di ogni ordine e grado, comprese le università – continua padre Chang -, ma anche valori umani e cultura. Ad esempio, fu pioniera nel campo delle trasmissioni radio. Mentre nel periodo della crescita economica, sviluppò il sistema delle casse cooperative, per finanziarono le piccole imprese, partecipando attivamente, in quella fase, allo sviluppo economico e sociale (spinto proprio dalle microimprese famigliari negli anni 70 e 80, ndr). Sempre con l’obiettivo di trasmettere valori: moralità, rispetto della vita umana, cooperazione e armonia sociale».
Un percorso simile fu fatto anche dalle diverse confessioni protestanti, in particolare presbiteriani, anglicani e battisti.
Una realtà piccola
Oggi la Chiesa cattolica è una realtà piuttosto piccola nel panorama nazionale – conta circa 1,4% dei 23,5 milioni di taiwanesi -, ma ha un impatto sociale importante, grazie alle attività nei settori educativo, sanitario, aiuto ai migranti, che le è riconosciuto.
«Una delle sfide della chiesa taiwanese oggi – secondo padre Chang -, è che, terminata la generazione dei missionari degli anni tra i 50 e i 70 e vista l’esiguità dei numeri, occorre definire come saranno gestite tutte queste strutture, e trovare un nuovo equilibrio». L’invecchiamento della popolazione e la mancanza di vocazioni locali, apre anche il grande problema della gestione delle parrocchie.
La festa della luna al Sacro Cuore di Hsinchu ci fornisce qualche risposta. I missionari della Consolata, presenti nel Paese da 10 anni, hanno la gestione di questa e di altre due parrocchie della diocesi Xinpu e Xinfong (cfr. MC dicembre 2024). Sono originari di sei paesi di Africa, Sud America e Asia.
I parrocchiani paiono molto attivi: c’è chi cuoce salsicce e altre carni sulle griglie, chi distribuisce piatti di riso, chi organizza un concerto con tanto di chitarre elettriche, basso e amplificatori. Si respira aria di comunità, oltre che di festa.
Taiwan. (Foto Marco Bello)
Diversità
Non lontano da Ximen street ci inoltriamo in un grande mercato coperto. Si estende per l’intero isolato. Dentro vi si trova di tutto. Ogni merce e cibo, dai noodles (spaghetti di riso o soia) ai bao (fagotti di pastella ripieni di maiale o altro). C’è un teatrino, dove un gruppo di donne, in costume (alcune vestite da uomini con barba e baffi) esegue una rumorosa performance. Girovagando dentro il mercato accediamo a una grande sala con dei tavoli. Qui diverse persone sono intente a confezionare dei pacchi regalo. Più avanti scorgiamo degli altari, con grandi statue dorate, imbanditi come fosse una festa, e carichi di offerte di ogni tipo, dalla frutta, ai fiori, alle bottigliette d’acqua. Siamo entrati nel tempio Du Cheng Huang o del «Dio della città», che si sviluppa dentro il mercato, con diverse sale anche di una certa ampiezza. Assistiamo a un susseguirsi senza sosta di pellegrini che accendono le bacchette di incenso, fanno gesti rituali davanti alle diverse divinità, poi le piantano in bacili di svariata dimensione pieni di sabbia di fronte agli altari. Con nostro stupore assistiamo a un rito che inizia all’improvviso. La posizione strategica dentro al mercato, favorisce il via vai dei fedeli.
A Taiwan si trova una grande varietà di religioni. Le principali sono il buddhismo, che secondo un sondaggio di Academia sinica del 2021 sarebbe seguito da circa il 20% della popolazione, e il taoismo, circa il 19%. Altre indagini forniscono percentuali più elevate ma non ci sono dati ufficiali. Le chiese protestanti raccolgono circa il 5,5% dei fedeli, mentre il yiguandao (o ikuadao, una religione sincretica originaria della Cina) è al 2,2% e infine il cattolicesimo.
Taiwan. (Foto Marco Bello)
Le religioni popolari
Ma la religione, meglio le religioni, che hanno più seguito sono, senza dubbio, quelle popolari, o folk religions. Sarebbero seguite, sempre secondo i dati di Academia sinica, da circa il 28% dei taiwanesi. Si tratta di una religione che segue una moltitudine di divinità.
«È una religione degli spiriti – ci dice padre Edi -. Fa da collegamento con gli antenati e con i defunti. Non ha leader o regole particolari, ma alcune feste importanti, nel mese di agosto e il 5 aprile, il giorno dei morti. Ha alcune liturgie legate al taoismo e officiate da sacerdoti taoisti. Nei templi c’è mescolanza: si può trovare la statua di Buddha assieme a tante divinità popolari. C’è quella dei soldi, per la giustizia, dei bambini, per gli esami».
«Le folk religions – ci racconta Jeffrey Chang -, statisticamente sono quelle che hanno più seguaci, ma essi non hanno nessuna affiliazione tra loro. I luoghi di culto sono una moltitudine: templi, piccoli o grandi che si vedono ovunque per strada a Taiwan. Inoltre una persona può andare in un tempio e nell’altro, pregare diverse divinità, e cambiare negli anni, a seconda della necessità. È un senso di credenza multipla, da non confondere con sincretismo».
Continua il professore: «L’esclusività religiosa non è una caratteristica della società taiwanese. Non c’è mai stato un gruppo maggioritario che ha monopolizzato la società o il potere politico, né una religione di Stato o un culto obbligatorio. C’è sempre stata pluralismo e tutte le religioni sono minoranze, nessuna è dominante. Gli stessi buddhisti sono suddivisi in svariate correnti, diverse tra loro. Non ci sono molti paesi come questo. D’altronde anche prima che arrivassero popoli da fuori, qui vivevano i gruppi aborigeni, ognuno con la propria lingua e fede, e nessuno in grado di conquistare tutta l’isola».
Lo Stato e le religioni
Jeffrey Chang fa alcuni confronti: «Qui c’è un rapporto diverso tra Stato e religione rispetto a quello che si ha in Europa o negli Usa. A Taiwan non c’è, e non c’è mai stato, il controllo dello Stato sulla religione o viceversa. Da un lato c’è libertà di associazione, di espressione e di culto. Dall’altro un gruppo religioso non tenterà mai di influenzare il governo o il potere legislativo ai fini dei propri interessi, ad esempio per far passare leggi ad esso favorevoli».
E continua lo studioso: «I sociologi la chiamano twin toleration o accettazione mutua, e significa che la religione e la società e la politica hanno reciproco rispetto, dell’esistenza di una e dell’altra».
C’è, inoltre, una certa collaborazione: «Le strutture religiose sono le benvenute alla partecipazione, ad esempio quando ci sono disastri naturali. Le organizzazioni confessionali di emergenza e carità sono importanti per rispondere in questi casi».
La politica, comunque, tiene in considerazione le religioni: «Un altro aspetto interessante è che in tempo di elezioni, i politici visitano templi e chiese. Lo fanno per trovare supporto e devono farlo con molti, vista la diversità sul territorio».
Diversi interlocutori ci dicono che i rapporti tra le religioni sono buoni. C’è un certo livello di dialogo, ma i diversi gruppi collaborano tra loro più facilmente su tematiche sociali che su quelle teologiche. Non ci sono frizioni né particolari motivi di competizione.
A livello di ecumenismo tra cristiani ci sono molti scambi tra cattolici e protestanti. «La questione è che le istituzioni cattoliche sono molte, e anche le chiese protestanti sono diversificate, quindi c’è una certa dispersione».
Padre Edi, ad esempio, ci racconta dei buoni rapporti con la vicina chiesa presbiteriana, con la quale ci sono diverse iniziative e incontri ecumenici.
Taiwan. (Foto Marco Bello)
Contaminazioni positive
Visitiamo la cattedrale di Hsinchu costruita nel 1955. In una loggia c’è un altarino. Sopra un pannello con tante schedine ognuna delle quali riporta un nome. Di fronte il bacile con la sabbia per piantare i bastoncini di incenso fumanti. Se non fosse per il crocefisso al centro delle tessere, una statua della Madonna a destra e una di san Giuseppe a sinistra, si direbbe essere di fronte a un altare di una religione popolare. Invece no, i nomi cinesi sono quelli dei defunti della parrocchia e tutto l’insieme è l’altare degli antenati. Lo ritroviamo in ogni chiesa visitata, da quella di città, alla più piccola di montagna. È un elemento di collegamento con la cultura profonda locale.
Secondo padre Edi: «La sfida della Chiesa oggi a Taiwan è la missione. Si tratta di un popolo aperto a religioni ed esperienze. Le famiglie qui sono quasi tutte pluri religiose. Bisogna essere più missionari. L’impegno sociale della Chiesa verso chiunque aiuta l’azione missionaria. Ma occorre uscire dalla chiesa, essere in mezzo alla gente fare “carità” pratica. Così potremo avere più dinamismo e nuovi credenti. E non parlo solo dei giovani».
Jeffrey Chang insiste, nel suo perfetto inglese accademico: «Una delle caratteristiche distintive di Taiwan è la diversità etnica, culturale, religiosa. La maggior parte delle persone hanno una fede. Difficile dire quale. Affinché in una società plurale la gente stia insieme, lavori, cooperi, forse la democrazia non è la soluzione ideale, ma non ne abbiamo trovata una migliore finora. E funziona».
Marco Bello
Taiwan. (Foto Marco Bello)
Suor Maria Teresa Hu
una famiglia «pluri religiosa»
Maria Teresa Hu è taiwanese, è nata a Taipei nel 1960. Lei è una seconda generazione, perché suo padre è arrivato dalla Cina continentale nei primi anni Cinquanta, dopo la sconfitta dei nazionalisti nella guerra civile contro i comunisti. La incontriamo in una saletta dell’università cattolica Fu Jen di Taipei, alla facoltà di teologia St. Bellarmine, dove insegna teologia. Ci accoglie calorosamente e ci regala un ciondolo con il carattere cinese della felicità. «La mia famiglia non è cattolica, ma io ho studiato lingua e letteratura spagnola proprio qui, all’università dei gesuiti. Il mio background religioso sono le folk religions (religioni popolari), e solo grazie agli studi sono entrata in contatto con il cattolicesimo. Poco prima di laurearmi ho deciso di battezzarmi». È il 1982, dopo la laurea, Maria Teresa inizia a lavorare per aziende commerciali che hanno bisogno di personale con competenze linguistiche. Intanto matura la sua vocazione.
Taiwan. (Foto Marco Bello)
«Dopo cinque anni e mezzo ho preso la decisione di entrare nella congregazione delle Figlie di Gesù, di spiritualità ignaziana. Ho lasciato il lavoro e seguito la formazione di sette anni. Ho poi iniziato a lavorare in un collegio della nostra congregazione, in particolare nella scuola primaria».
Nel 1999 troviamo suor Maria Teresa a Roma per la professione e quindi per i voti un anno più tardi. Poi gli studi continuano con un master seguito da un dottorato, di nuovo alla Fu Jen university di Taipei.
«Posso dire che la mia famiglia di origine è pluri religiosa: ci sono buddhisti, taoisti, e io sono l’unica cattolica. Ma questo è molto comune in Taiwan e non ci sono problemi o attriti».
Chiediamo a suor Maria Teresa di spiegarci in cosa consistono le folk religions. «Si può dire una miscela di confucianesimo, buddhismo e taoismo. In un tempio a Taiwan puoi trovare gli dei delle tre religioni. Non è una religione pura».
Suor Maria Teresa ci ricorda una minoranza importante. Sono le popolazioni native, i cosiddetti aborigeni di origine austronesiana. Tra loro la percentuale di cristiani è molto elevata perché i missionari, sia cattolici che protestanti, dedicarono loro molte energie. A Taiwan sono attualmente riconosciute per legge sedici popolazioni indigene e altre dieci lottano per il riconoscimento, per un totale di poco più di 500mila individui.
Parlando con suor Maria Teresa, taiwanese, cattolica, affrontiamo il tema dell’identità sull’isola: «Tutti quelli che hanno più di 50 anni hanno ricevuto un’educazione gestita dal Kuomintang (Kmt, ex partito unico di Chang Khai-shek, oggi all’opposizione, ndr). Quindi si sentono più cinesi. Quelli nati dopo, quando il Dpp (Partito democratico progressista, fondato nel 1986, con posizioni più autonomiste, al potere dal 2000 al 2008 e dal 2016 a oggi, ndr) ha iniziato ad avere un peso, ha promosso una nuova interpretazione della storia e nuove ideologie, oggi hanno meno di 40 anni, hanno ricevuto un’educazione con impronta diversa, e dicono di essere taiwanesi. Culturalmente non c’è conflitto [con i cinesi del continente]. In Cina guardano le nostre serie tv e viceversa. Io parlo il mandarino e il taiwanese (lingua hokkienese o hokklo, parlata anche nel Sud della Cina, ndr). Non ci sono migliaia di anni di odio tra di noi. In passato la gente della Cina continentale e noi di Taiwan andavamo molto d’accordo. Adesso ci sono tensioni. Ma per me, è solo geopolitica».
Ma.Bel.
Il ritorno del guardiano invisibile dell’ecosistema sardo
Le ali del grifone Gli ecosistemi sono equilibri delicati. La scomparsa di una specie può avere gravi conseguenze. In Sardegna, grazie all’impegno di alcuni e a fondi europei, si è scongiurato il peggio. E il grande rapace sta ripopolando i suoi habitat.
La Sardegna, un’isola di rara bellezza, conosciuta principalmente per le sue spiagge dorate e il mare cristallino, conserva al proprio interno, nel cuore, un tesoro inestimabile: il grifone (Gyps fulvus). Questo maestoso rapace vive da sempre fra vette rocciose e paesaggi mozzafiato nella zona del bosano (provincia di Oristano).
Simbolo di forza e libertà, riveste un ruolo cruciale nell’equilibrio ecologico dell’isola, eppure ha rischiato l’estinzione a causa di minacce che hanno messo a dura prova la sua sopravvivenza.
Il grifone, considerato il «guardiano invisibile» dell’ecosistema, svolge una funzione essenziale nella decomposizione e nel riciclo delle carcasse animali. Questi imponenti avvoltoi, con un’apertura alare che può raggiungere i due metri e mezzo, rappresentano gli «spazzini aviari» dell’isola, contribuendo in modo significativo alla rimozione dei rifiuti organici e alla regolazione delle malattie. Il loro instancabile lavoro di smaltimento delle carcasse consente il ritorno dei nutrienti al suolo, alimentando così il ciclo vitale dell’ecosistema.
Nonostante il ruolo cruciale dei grifoni, la loro popolazione in Sardegna era drammaticamente diminuita, arrivando a contare solo 100-120 individui e 35 coppie territoriali. Le principali minacce erano legate alla scarsa disponibilità alimentare, all’uso di bocconi avvelenati e al disturbo antropico nei siti di nidificazione. Spesso, infatti, barche e gommoni cercavano di avvicinarsi il più possibile ai nidi pur di ottenere una foto o comunque avvistare un esemplare.
Il disturbo provocato portava i grifoni alla fuga e i giovani, non ancora abili nel volo, spesso finivano in mare, annegando.
Il ritorno
Fortunatamente, grazie al progetto Life under griffon wings, finanziato dall’Unione europea e coordinato dall’Agenzia regionale Forestas (struttura tecnica operativa nel settore forestale e ambientale), la specie ha iniziato a tornare a volare nei cieli sardi.
Un elemento chiave di questo programma di conservazione è stata l’introduzione innovativa dei «carnai aziendali».
Ci conduce a visitarli, il dottor Dionigi Secci, che si occupa del progetto europeo sin dai suoi esordi.
I carnai aziendali sono veri e propri punti di alimentazione per i grifoni e vengono gestiti direttamente dagli allevatori locali. Questi luoghi nei quali le carcasse di ovini e bovini vengono lasciate a disposizione dei grifoni affinché se ne possano nutrire, hanno rappresentato una soluzione sostenibile e di successo per garantire loro una fonte di cibo sicura e costante. Anziché dover provvedere al sotterramento delle carcasse o alla bruciatura, gli allevatori le collocano in questi speciali recinti, permettendo così ai rapaci di nutrirsi in modo controllato e senza rischio di avvelenamento. Si tratta di un progetto virtuoso poiché unisce il recupero di un animale in via di estinzione al controllo delle carni che vengono portate in tavola: affinché si possa continuare a smaltire le carcasse facendone cibo per i rapaci, infatti, l’allevatore è tenuto a garantire una giusta alimentazione agli animali allevati e dimostrare di non aver utilizzato farmaci o sostanze che possano essere dannosi per l’uomo e, di conseguenza, anche per i grifoni.
«I carnai aziendali hanno trasformato un costo di gestione per gli imprenditori in una risorsa preziosa per la conservazione della biodiversità», spiega il dottor Marco Muzzeddu, veterinario presso il Centro di allevamento e recupero della fauna selvatica di Bonassai (Sassari). «Grazie a questa rete di alimentazione sicura, abbiamo assistito a un incredibile aumento della popolazione di grifoni, che è passata da 100-120 individui a circa 230-250 in pochi anni».
Il dottor Muzzeddu è fra i maggiori esperti di fauna selvatica e all’interno del Centro faunistico di Bonassai si occupa anche del recupero di volatili come aquile reali, gufi, occhioni oltre a svolgere attività di divulgazione. Spesso, infatti, il Centro accoglie scolaresche e visitatori interessati al dialogo e all’approfondimento circa la tematica della sostenibilità ambientale.
Direttore sanitario della struttura, Muzzeddu si occupa – oltre che della salvaguardia dei grifoni e di animali in via di estinzione – di chirurgia sulla fauna selvatica terrestre e marina.
È famoso il suo intervento chirurgico su un leone arrivato a Sassari insieme ad artisti circensi. Interventi in barca, in elicottero, salvataggi e recupero di animali in luoghi impervi sono la quotidianità per questo medico veterinario che è diventato un punto di riferimento fondamentale.
Ripopolare e proteggere
Oltre all’implementazione dei carnai, il progetto Life under griffon wings ha adottato altre misure fondamentali, come il rilascio di 63 giovani grifoni provenienti da centri di recupero in Spagna e dall’Amsterdam royal zoo, il potenziamento del Centro faunistico di Bonassai e l’istituzione di un nucleo cinofilo antiveleno composto da agenti del Corpo forestale e cani addestrati, per contrastare l’uso di bocconi avvelenati.
Inoltre, sono stati realizzati sentieri e capanni di osservazione per mitigare il disturbo antropico nelle aree di nidificazione, e sono stati predisposti codici etici per la fotografia naturalistica e l’escursionismo.
Nonostante i notevoli successi, la strada per la salvaguardia a lungo termine del grifone in Sardegna non è ancora del tutto spianata. L’areale di questa specie rimane ristretto al settore nordoccidentale dell’isola, rendendola vulnerabile a minacce come le collisioni con infrastrutture energetiche (pale eoliche) e il saturnismo, una malattia causata dall’intossicazione da piombo. Per affrontare queste sfide, è stato avviato il nuovo progetto Life safe for vultures, che mira a espandere l’habitat del grifone e a mitigare ulteriormente le minacce.
La storia del ritorno del grifone in Sardegna è un esempio di come la collaborazione tra istituzioni, esperti e comunità locali possa portare a risultati tangibili nella tutela della biodiversità. Questo maestoso rapace, simbolo di libertà e forza, è tornato a volare nei cieli sardi, un segnale di speranza per l’intero ecosistema dell’isola. La sua salvaguardia rappresenta una sfida cruciale, non solo per la Sardegna, ma per l’intero Mediterraneo, e il delicato equilibrio tra l’uomo e la natura.
I rischi delle pale
Se in passato, il saturnismo è stato uno dei principali elementi che hanno messo a rischio il grifone, oggi se n’è aggiunto un altro legato all’energia sostenibile.
In Sardegna, infatti, l’installazione di impianti eolici è diventata un tema centrale nel dibattito politico e sociale. Le pale eoliche, che possono raggiungere fino a 120 metri di altezza, sono percepite da molti come una minaccia al paesaggio dell’isola. La preoccupazione principale dei residenti è che la Sardegna, famosa per la sua bellezza naturale, si trasformi in un’area industriale dedicata alla produzione di energia, con impatti estetici e ambientali significativi.
Dal punto di vista energetico, la Sardegna ha un potenziale notevole per la produzione di energia eolica. Tuttavia, le proposte di installazione di oltre 800 nuovi impianti hanno sollevato forti opposizioni. Gli attivisti sostengono che gran parte dell’energia prodotta non sarà destinata al consumo locale, ma esportata verso il Nord Italia, senza apportare benefici diretti alle comunità sarde. Inoltre, si teme che i profitti non vengano equamente redistribuiti tra la popolazione locale.
Le preoccupazioni riguardano il rischio per la biodiversità, in particolare per l’avifauna che spesso si scontra con le pale eoliche rimanendo uccisa sul colpo, e l’uso di terreni agricoli per l’installazione di pannelli fotovoltaici. Molti cittadini chiedono un approccio più sostenibile e democratico nella pianificazione energetica, auspicando che la Regione stabilisca chiaramente le necessità locali e il ruolo delle rinnovabili nel contesto sardo.
Nonostante queste critiche, esperti del settore sottolineano che l’energia eolica è una componente essenziale per la transizione ecologica, necessaria per ridurre la dipendenza dai combustibili fossili. La sfida rimane quella di trovare un equilibrio tra sviluppo sostenibile e tutela del patrimonio naturale, coinvolgendo le comunità locali nel processo decisionale.
«Senza il rispetto per ogni forma di vita, l’essere umano è destinato a scomparire. Mi batto affinché le persone capiscano che abitare degnamente il mondo significa contribuire a garantirne l’equilibrio. Un atto di gentilezza verso un essere sofferente è un atto di umanità che innesca un circolo virtuoso. Non siamo i padroni di questo mondo, ci è solo stato dato in prestito. Altri verranno dopo di noi e abbiamo il dovere di lasciare ciò che ci è stato donato nelle migliori condizioni possibili», conclude il dottor Muzzeddu.
Valentina Tamborra
La missione comincia da casa
Tante sono state le feste di ringraziamento per la canonizzazione di Giuseppe Allamano. Prima nel suo paese natale, poi a Torino al santuario della Consolata e nella Casa Madre. Quindi si sono moltiplicate in giro per il mondo.
Castelnuovo don Bosco, 23 ottobre. Il paese sulla collina dell’alto astigiano oggi è tirato a festa. Bandierine di tutte le nazioni attraversano le sue vie arroccate. Alle finestre e ai balconi è stato appeso il foulard con l’immagine del nuovo santo. I bambini della scuola elementare hanno affisso sulla via i loro disegni: ritraggono un Giuseppe Allamano del tutto originale.
Nella chiesa di sant’Andrea, dove il santo ha celebrato la sua prima messa nel 1873, all’età di 22 anni, fervono i preparativi. Il giovane sindaco di Castelnuovo, Umberto Musso, dirà, alla fine della celebrazione, in italiano e inglese: «Abbiamo un record del mondo, siamo l’unico comune ad aver dato la nascita a quattro santi!».
Da mezzo mondo
I pellegrini si ritrovano in piazza e piano salgono sul colle. Una volontaria con la pettorina gialla spiega, in francese, a un gruppo di congolesi, alcuni aspetti storici del piccolo comune. Allo stesso modo, altri accompagnano alla chiesa i mozambicani, gli ivoriani, i colombiani, parlando loro nelle diverse lingue.
Alle 10 sant’Andrea è già piena e mezz’ora dopo inizia puntuale la celebrazione. La musica del coro del Colle don Bosco accoglie i celebranti. Prende quindi la parola padre Gianni Treglia, superiore della Regione Europa dei missionari della Consolata, che in diverse lingue introduce la celebrazione: «Quattro giorni fa è stato canonizzato Giuseppe Allamano. Adesso la sua vita è riconosciuta dalla Chiesa universale. […] Oggi esprimiamo la nostra gratitudine per quest’uomo, figlio di Castelnuovo. “Ho portato con me il mondo contadino e la vita tra queste colline, una comunità di relazioni e di speranze”, diceva. “In mezzo ai miei figli e figlie missionari, mi sono sempre sentito come in famiglia”. Essere famiglia, essere insieme, dare testimonianza di unità e di amore vicendevole. Questa esperienza lui l’aveva dentro fino dall’infanzia, vissuta in questa terra».
La chiesa di sant’Andrea è colma e sono state messe pure alcune panche all’esterno. Oltre ai pellegrini da diversi paesi del mondo ci sono gli abitanti di Castelnuovo.
I primi passi
«Siamo qui per ringraziare il Signore per questa canonizzazione. Qui Giuseppe ha mosso i primi passi. […] Ringraziamo gli abitanti di questa terra speciale, per la loro grande accoglienza», così esordisce nella sua omelia padre James Lengarin, superiore generale dei Missionari della Consolata, nono successore di Allamano e primo di origine africana. Ricorda poi la giovinezza del fondatore dei due istituti, che è cresciuto, anche spiritualmente, in questo paese del Piemonte. E di come abbia vissuto un clima missionario alla «scuola di don Giovanni Bosco», anch’egli nato qui. Ma dice anche che Allamano è riuscito ad andare al di là, a «interpretare queste situazioni per andare oltre Torino, il Piemonte, e aprirsi alle persone più lontane, nelle periferie del mondo», perché ha compreso che «la salvezza è per tutti».
E continua: «La festa di oggi non è soltanto nostra, ma è di tantissime persone nel mondo che hanno conosciuto i missionari della Consolata».
Parla a un’assemblea variopinta, padre James: «Siamo tutti cittadini del mondo, e sappiamo che purtroppo milioni di persone soffrono, sperimentano le devastazioni della guerra, le malattie, la fame, l’umiliazione della povertà. Oltre alle condizioni fisiche, molti vivono in povertà spirituale […]». Il fatto di avere tante persone a Castelnuovo, di differente origine, vuol dire che «la missione continua».
Padre James ricorda pure «tante nostre sorelle e fratelli hanno anche perso la vita, mentre erano missionari in paesi lontani, e sono stati sepolti laggiù».
Chiede l’intercessione del «beato Giuseppe Allamano», ma si ferma. «Non siamo ancora abituati: del santo Allamano!», e dal pubblico si leva una risatina di compiacimento. «Chiediamo di avere la forza e il coraggio di vivere anche lontani, anche quando le energie umane sono poche, e la speranza sarà l’unica cosa che ci salverà».
Castelnuovo
«Mai missionari solitari»
Dopo la messa e le foto di rito, i pellegrini si radunano per lingua. Ogni gruppo segue un volontario che regge un cartello colorato, e tutti invadono pacificamente il paese. Sono visitate, in particolare, la casa natale di san Giuseppe Allamano e quella di suo zio, san Giuseppe Cafasso.
Passate le nuvole del mattino, il sole è comparso e pare di vivere in una splendida giornata primaverile che ben si adatta al momento di festa.
Verso le cinque tutti si ritrovano in piazza don Bosco. È il momento dei saluti. Suor Lucia Bortolomasi, madre superiora delle Missionarie della Consolata ringrazia le autorità presenti, poi ricorda una frase di Allamano, appena letta nella sua casa natale: «A Castelnuovo ho incontrato tante persone che hanno preso a cuore la mia vita». Suor Lucia riprende: «Vogliamo dire grazie, perché è stato un giorno speciale, un giorno bellissimo. Voi di Castelnuovo avete vissuto le parole di Allamano quando dice che il bene bisogna farlo bene. Abbiamo visto ogni cosa, ogni dettaglio, fatto bene con il tocco speciale dell’amore». E conclude: «Abbiamo visto da parte vostra un lavoro di squadra. Il fondatore ci ha sempre detto: “Mai missionari solitari in missione, ma vivere insieme, in comunione, perché l’unione fa la forza”. Per realizzare la santità delle piccole cose, nella vita ordinaria».
Castelnuovo
Torino, 25 ottobre
Santuario Allamano
A «casa sua»
È una mattina piovosa, ma il cortile della Casa Madre si sta già animando con i primi gruppi di pellegrini, reduci delle tre giornate di Roma e delle due piemontesi.
Ieri è stata celebrata la messa di ringraziamento nel santuario della Consolata, del quale san Giuseppe Allamano è stato rettore per 46 anni. Oggi il ritrovo sarà proprio a «casa sua», in corso Ferrucci, nel suo santuario. Nella chiesa fervono i preparativi.
Incontriamo il gruppo giunto da Oujda, in Marocco, quello della Costa d’Avorio, del Congo Rd, i mozambicani, i laici del Brasile e della Colombia. Ma anche padre Jasper, keniano arrivato da Taiwan, padre Dieudonné, congolese dalla Mongolia, e la signora Lina, dal Kazakistan. Solo per citarne alcuni. Poi gli europei, e molti amici dei missionari e delle missionarie di Torino e del quartiere. Tutto il mondo è qui.
Padre Antonio Rovelli e padre Sandro Faedi, i responsabili dell’organizzazione dell’accoglienza dei pellegrini a Roma e Piemonte, corrono indaffarati per gli ultimi dettagli.
Allo scoccare delle 10,30 fanno il loro ingresso nella chiesa affollata le danzatrici: sono le novizie delle suore, vestite con abiti africani a dominante verde intenso. Danzano e cantano fino all’altare seguite dai cinque vescovi e dai sacerdoti che celebreranno la messa. Alle ali dell’altare siedono almeno un centinaio di preti nei loro paramenti bianchi, la maggior parte missionari della Consolata. Altrettante sono le missionarie.
Padre Gianni Treglia prende la parola ed esordisce arringando i presenti: «Allamano!». E tutti rispondono:«Viva!». E ancora padre Gianni, «Viva!» e tutti «Allamano!». E poi, insieme: «Grazie per averci dato Giuseppe Allamano!».
Il superiore della Regione Europa ringrazia il Signore per il dono di san Giuseppe Allamano: «Questo è il luogo del suo sogno missionario che, non potendolo realizzare personalmente, lo ha realizzato con la fondazione di due istituti. […] Il sogno stesso di Dio che vuole che tutta l’umanità abbia la salvezza. Giuseppe Allamano l’ha affidato a noi, suoi figli e figlie».
Il mandato missionario
La celebrazione è presieduta da monsignor Francisco Múnera Correa, arcivescovo di Cartagena e presidente della Conferenza episcopale colombiana. Le letture vengono fatte in italiano e kiswahili.
È poi monsignor Osório Citora Afonso, mozambicano e neovescovo ausiliario della capitale Maputo, fa l’omelia: «Dopo i fasti di piazza san Pietro […] ci siamo recati nei luoghi che videro la vita quotidiana di san Giuseppe Allamano, prima a Castelnuovo don Bosco, quindi al santuario della Consolata, e oggi qui in Casa Madre, dove si trova il suo sepolcro. È un luogo che ci invita a sostare in preghiera, in meditazione. Un luogo che è anche un’oasi di relazione. È una casa. È la sua dimora dalla quale continua a spandere benedizione, incoraggiamento e consolazione».
Riferendosi al Vangelo appena letto (Marco 16,14) monsignor Osório dice: «Gesù, l’ultimo gesto, quello del mandato missionario, lo fa in una casa, un luogo di relazione, così non è casuale che anche noi veniamo nella casa di Allamano per riascoltare il mandato missionario. È in questa casa che si sente ancora: “Andate e predicate”».
«Perché una casa è un luogo di vita, di incontri, dove i religiosi e i laici cercano di vivere e testimoniare la passione per la missione. Parlando dello spirito di famiglia, Allamano parlava della casa dove si sta insieme, dove si vive il quotidiano. Casa come luogo di invio missionario: è da casa che si parte».
Monsignor Osório ritorna poi su una famosa frase del santo: «Allamano diceva: “Siate straordinari nell’ordinario”. Per vivere questa santità, ripartiamo dalle nostre case, ripartiamo dalle relazioni, dalle piccole cose.
Sono partiti da Torino tanti anni fa, erano quasi tutti piemontesi, e per questo motivo adesso siamo qua in tanti, e veniamo da molte parti del mondo».
E per evidenziare questa «mondialità» chiede: «Dove è avvenuto il miracolo? Non a Torino, Roma, o in una grande città, ma tra il popolo dell’Amazzonia».
La celebrazione continua, si canta seguendo il coro italiano diretto da padre Sergio Frassetto. L’atmosfera è quella delle grandi feste. C’è gioia, c’è voglia di viverla tutti insieme, provenienti da tante nazioni e da popoli dei quattro continenti, ma in sintonia.
Impegno di santità
Suor Lucia Bortolomasi prende infine la parola, con la sua voce dolce, ma ferma: «È qui che vogliamo esprimere il nostro grazie a Dio e alla Consolata, per questo immenso dono, che è san Giuseppe Allamano. Vogliamo ringraziare tutti voi, amiche e amici, perché ci siete stati vicino in questi giorni di festa, e anche perché, in diversi modi, ci accompagnate nella nostra missione.
Un grazie tutto speciale alle nostre missionarie e missionari e alle persone che sono ammalate, ma che ogni giorno offrono la loro preghiera e la loro sofferenza a Dio per l’annuncio del Vangelo, e per sostenerci. Ci danno forza».
Poi aggiunge: «Vogliamo fare un regalo speciale a san Giuseppe Allamano. Vogliamo regalargli il nostro impegno di vivere quella santità che lui ci ha sempre indicato. Essere presenze umili, semplici di consolazione, nella vita di tutti i giorni».
Padre James Lengarin, visibilmente contento, esprime il suo ringraziamento: «Sono qui per dire grazie a tutte le persone che hanno guidato questa macchina organizzativa». E parte un applauso alla commissione organizzatrice.
«Tutti i 35 paesi del mondo in cui siamo presenti sono rappresentati in questo momento speciale. Siamo una famiglia grande, che si vuole bene».
Ringrazia l’arcidiocesi di Torino, «dove siamo nati e da dove siamo partiti. E anche per gli aiuti concreti che sono arrivati da qui» alle missioni.
Ricorda poi i missionari e le missionarie defunte: «Fanno parte di questa grande famiglia. Loro ci hanno aiutato a essere ciò che siamo oggi. Anche in cielo sono tutti in festa». Ringrazia la Regione Europa e la Casa Madre e tutti «i fratelli vescovi che hanno partecipato». Conclude con un grazie caloroso «a tutti i pellegrini che sono venuti. Siamo tutti membri di questa famiglia. Ripartiamo da questo santo.
Portiamo la consolazione nel mondo e siamo seminatori di speranza».
Con le parole di padre James, si chiude la celebrazione, ma la festa continua, e i pellegrini si accalcano presso la tomba di san Giuseppe Allamano, per un saluto, una preghiera, ma anche per portare a casa una foto con lui, perché da oggi c’è un santo in famiglia.
Marco Bello
Un Santo mondiale
I festeggiamenti per la canonizzazione di san Giuseppe Allamano si sono moltiplicati nei diversi paesi di missione.
Il 9 novembre è stata grande la festa al campus universitario di Nairobi, con la presenza della direzione generale, di tutti i vescovi della Consolata in Kenya, il nunzio apostolico e le suore della Consolata.
Gli studenti e i diaconi dell’istituto hanno assicurato il servizio all’altare. Ma i protagonisti sono stati le centinaia di fedeli venuti per celebrare il nuovo santo, con musica e danze oltre che con preghiere.
Anche a Bogotà, Colombia è stata celebrata una grande festa il 16 novembre al Collegio Giuseppe Allamano, dove erano presenti più di seicento persone.
Feste di ringraziamento, grandi e piccole si sono tenute in tutti i 35 paesi di missione dove sono presenti missionarie e missionari della Consolata.
M.B.
Celebrazione eucaristica presieduda da mons. Giraudo, vescovo ausiliare di Torino nel santuario della Consolata
Per informazioni più dettagliate sulle celebrazioni in vari Paesi del mondo, vedi www.consolata.org
Ai piedi della Consolata, il gruppo dei vescovi
Celebrazione di ringraziamento nel santuario della Consolata
In Missione con padre Carlo Biella. Profumi e colori della missione
Colori. Profumi. Sensazioni. Immersi nel calore del Mozambico, dei suoi raggi di sole, tra la sua polvere e la sua gente. Note del viaggio dell’agosto 2024 de «I Bagai di binari» di Cernusco Lombardone (Lc) nella missione di Uncanha, diocesi di Tete.
Tete, capoluogo della regione omonima, nel nord ovest del Paese africano, è una cittadina con poco più di 150mila abitanti. Uncanha, la missione di padre Carlo Biella, missionario della Consolata nativo di Cernusco, si trova a più di 280 km di distanza, nel mezzo di terre aride, alberi di papaia e un gran numero di piccoli villaggi.
Con il fuoristrada, acquistato grazie alla nostra parrocchia nel 2022, in nove ore raggiungiamo la meta: un piccolo villaggio, con vicino la missione con un pozzo e un pannello solare. Attorno la scuola primaria, un piccolo auditorium per le riunioni, la casa della maestra e una per la famiglia del catechista. Scopriremo presto che ogni villaggio ha il suo catechista e responsabile parrocchiale che gestiscono sia la parte spirituale che organizzativa di ogni comunità.
Attorno al pozzo incontriamo alcuni bambini figli di pastori che non frequentano la scuola, ma accudiscono animali, li abbeverano e parlano e capiscono solo la lingua locale. Un chupa-chupa li rende felici. La gioia di un gioco da noi improvvisato durante l’intervallo scolastico ha dato colore al cortile polveroso tra sorrisi, applausi, salti e abbracci, che danno un senso e un significato alla parola missione e perché no, anche alla parola chiesa, termini che anche con le più sofisticate e argute parole non si riescono sempre a spiegare.
L’accoglienza
La missione si estende a Nord-ovest verso Nhanseula e Malowera. Per raggiungere la prima sono necessarie due ore di fuoristrada su un percorso a terra battuta. Calorosa è l’accoglienza per padre Carlo e noi, suoi ospiti.
La celebrazione della messa è il momento focale. Nella chiesetta dalle mura grigie spiccano i colori di canti, balli e dei doni per noi ospiti: pollame, alimenti, farine e offerte per la parrocchia. Da parte nostra doniamo un pallone, gesto simbolico che riperemo in tutte le comunità che visiteremo nei prossimi giorni. La lingua della celebrazione è sia il portoghese che la lingua locale, il chichewa. Dopo la presentazione di ciascuno di noi, stringiamo la mano a ognuno dei presenti.
Tre ore passano veloci, poi il pomeriggio di giochi con i bambini con il pallone e senza, mentre in un campo vicino due squadre di ragazzi giocano una partita di calcio. Visitiamo la famiglia del catechista del villaggio, la cui madre è impossibilitata a muoversi. Le case sono capanne o casette circondate da pali di legno a mo’ di recinzione impedendo l’ingresso ad animali. Pollame e caprette sono libere di pascolare per l’intero villaggio. I bagni sono strutture fuori dall’abitato con un buco e una zona apposita per lavarsi con secchi d’acqua, calda solo se posta sul fuoco.
Visitiamo anche il luogo della missione originale, abbandonata – come tantissime in questo ampio territorio – durante i terribili anni della guerra di indipendenza e poi quella civile tra Frelimo e Renamo.
L’indomani visitiamo Malowera, più a Nord, a un’ora di distanza d’auto. L’accoglienza qui è ancora più calorosa, con la stretta di mano a tutti appena arrivati, un cartello di benvenuto per padre Carlo, canti e balli, e poi un momento personale di riconciliazione per una cinquantina di persone.
Tre ore di celebrazione all’aperto sotto il sole e all’ombra di alcune piante. Alle spalle il cantiere per la costruzione della nuova chiesa per rimpiazzare quella distrutta dalla guerra e dall’abbandono.
Al tramonto di una domenica diversa dalle solite ritorniamo a Uncanha lasciandoci alle spalle abbracci, sorrisi e strette di mano di persone che vivono il valore vero e intenso della comunità e dell’accoglienza.
Con la comunità di Kanyenze
L’incontro di martedì 6 agosto con la comunità di Kanyenze a 20 km circa da Uncanha, ci ha aiutato a capire meglio il compito dei missionari: portare alla gente la parola di Dio, costruendoci attorno valori importanti quali la condivisione e la preghiera, un’opportunità di crescita e vera vita.
Padre Carlo, da oltre 30 anni in Mozambico, incontra per la prima volta questo gruppo di 70 famiglie di recente stanziamento grazie a Dixon, catechista e coordinatore della comunità di Uncanha. Questa comunità è diversa dalle altre, perché qui nessuno è ancora battezzato e quindi va proprio fatta la prima evangelizzazione.
«Qui si inizia dalle basi, a spiegare da zero certi gesti – ci racconta padre Carlo – con concetti semplici come si fa con i bambini. Dire chi è Gesù, cosa si intende per Eucarestia. Per iniziare una comunità cristiana – ha aggiunto – sono indispensabili un catechista che formi e parli alla gente e un coro che anima e che è motivo di aggregazione».
La messa viene accompagnata dal coro di Uncanha e vede i consueti gesti di accoglienza e doni verso la comunità e i sacerdoti celebranti e il dono di due palloni da parte nostra per le comunità locali. L’edificio della chiesa non c’è, tanto che celebriamo la funzione all’aperto sotto una pagoda con tetto di paglia.
Bambini, per due ore fermi e poco rumorosi, e mamme sono raggruppati attorno all’altare improvvisato, con sguardo curioso; una macchia di colori che colpisce. Grazie alla traduzione di Dixon in lingua chichewa si trasmettono così quei valori indispensabili per una comunità cristiana e alcuni avvisi. Allo stesso tempo la comunità esprime la problematicità di non avere un pozzo da cui attingere acqua, indispensabile per un villaggio, in particolare quest’anno nel quale le piogge non sono state abbondanti.
È stata una conoscenza reciproca, che ha avuto il suo fulcro nella preghiera comunitaria, sperando di poter far crescere una comunità di famiglie pronte a iniziare insieme un cammino di fede e di crescita sia materiale che spirituale.
La semplicità, ritrovata novità
Altre opportunità trovano spazio nel cammino qui a Uncanha. Le attività scolastiche si sono concluse per i bambini del primo ciclo della primaria con alcune prove lunedì e martedì 5 e 6 agosto; accompagnati dalla maestra Rosa, hanno appreso i fondamentali della lingua e dell’aritmetica.
Abbiamo così l’occasione di condividere con loro momenti di gioco in aula o nello spazio esterno. Provvisti di palloncini colorati, bolle di sapone e una palla azzurra portati dall’Italia siamo riusciti a far vivere nei loro occhi la meraviglia nel vedere qualcosa di nuovo.
Vista la temperatura si può anche giocare, divisi in tre squadre, con qualche gavettone in cortile. Tutto si chiude con un momento in cerchio, sorrisi gioiosi e un lungo applauso finale. Divertiti torniamo in aula e lasciamo un chupachupa a ognuno.
Nulla di speciale per noi, una giornata divertente per loro. La riscoperta della semplicità di alcuni gesti aiuta a capire che ogni tanto fa bene «fermarci» per non farci trascinare dalla frenesia dei nostri tempi.
A Zumbo e Miruru
Il viaggio si addentra nel vivo e sabato 10 agosto si parte per un viaggio di quattro ore per Zumbo, villaggio alla confluenza del fiume Luangwa con lo Zambesi, vicino al confine con lo Zambia (è il villaggio dove i primi cinque missionari della Consolata arrivarono il 5 marzo 1926, ndr). L’occasione è la celebrazione di sei battesimi.
Con padre Carlo celebra anche don Alfredo che consegna alla comunità un ostensorio per l’adorazione dell’Eucarestia, donato dalla sua attuale parrocchia. Canti e balli animano come sempre la Messa, celebrata la domenica solo quando è presente uno dei sacerdoti.
Il giorno dopo attraversiamo il fiume per raggiungere la comunità di Bawa, fotografando lungo il fiume ippopotami e un alligatore. La comunità è in fermento perché si sta preparando ad accogliere il festival dei cori delle parrocchie nei prossimi giorni di agosto.
A Zumbo c’è grande attesa per l’arrivo del vescovo di Tete Diamantino Antunes. Martedì 13 infatti grande festa in paese: bambini e fedeli accolgono l’arrivo del vescovo tra petali e stuoie lungo la strada. Nel pomeriggio sono celebrate le cresime di 57 persone nello spazio davanti alla chiesa coperto da tetti di paglia. Non sono mancati i doni al termine della messa e i ringraziamenti.
In questa realtà vivono le suore della Consolata (dove erano già arrivate il il 30 agosto 1927, ndr), presenti: Ana Paola, Betania e Ivonne, provvisoriamente alloggiate vicino al piccolo ospedale della cittadina. La loro ospitalità e dolcezza ha rallegrato il nostro soggiorno. È in costruzione una casa per loro in centro paese e accanto si pensa di edificare un asilo nido.
Il viaggio non è terminato
Mercoledì 14 andiamo con il vescovo nel villaggio di Miruru, isolato, distante due ore da Zumbo, nei pressi di un’antica chiesa abbandonata in stile gotico attorno alla quale si sta costruendo un villaggio, nella speranza di accogliere delle famiglie e formare una parrocchia. Si riparte da zero e si ricostruisce. Forza e volontà non mancano, si vuole riportare alla vita numerosi edifici, ormai ridotti ruderi, un tempo missione dei Gesuiti di inizio 1900, poi abbandonata per le vicissitudini storico politiche.
A pochi metri il cimitero con le tombe dei padri fondatori, purtroppo profanato di recente: per questo si è deciso di far partire da qui la processione fino all’ingresso della chiesa, ora senza tetto, dove sono state celebrate dal vescovo le cresime. Sette i cresimati con i rispettivi padrini e madrine e la richiesta da parte di dom Diamantino di tornare ad animare questo villaggio per poter così dare un senso alla costruzione di diverse strutture come una scuola, laboratori, case. Sicuramente entro Natale verrà ricostruito il tetto della chiesa.
La sera cala dopo la festa, in un’atmosfera suggestiva, sotto un cielo aperto e stellato.
L’indomani mattina un risveglio altrettanto incantevole al sorgere del sole per tornare alla base.
Ciò che resta
«In questa stupenda esperienza ciò che mi ha colpito maggiormente è stata la semplicità con cui i bambini, ma non solo, trovavano il sorriso non appena ci vedevano, specialmente quando passavamo tra i villaggi con il fuoristrada. Ci seguivano con lo sguardo, notavano noi bianchi tutti assieme e ci ricambiavano il saluto con un bellissimo sorriso e tutti pieni di gioia e anche sorpresa – ci ha raccontato Matteo, nipote di padre Carlo e uno dei responsabili in oratorio della comunità giovanile cernuschese -. Sicuramente ho portato a casa la consapevolezza di essere estremamente fortunato ad avere privilegi e comodità che prima di questo viaggio davo per scontato. Ad esempio, la mancanza di acqua corrente, principalmente durante la doccia, si è fatta sentire notevolmente, ma anche la sporadicità con cui si presentavano le varie case di cura e i rarissimi ospedali, che per fortuna non ci sono serviti, l’assenza quasi totale di strade asfaltate che hanno aumentato le ore di spostamento tra una parrocchia e l’altra. Sicuramente in queste tre settimane ho capito perfettamente perché gente come padre Carlo viene chiamata missionario: hanno da compiere una vera e propria missione, che non consiste solamente nel diffondere il più possibile il Vangelo tramite le celebrazioni e le catechesi, ma anche stare dietro a tutto quello che ci gira attorno, quindi gestire le contabilità di tutte le parrocchie, ascoltare i bisogni dei parrocchiani, costruire chiese, asili, abitazioni, pozzi, risolvere le problematiche che saltano fuori ogni giorno e adattarsi a una vita che è totalmente diversa da quella che viviamo qui».
«Scegliere un momento significativo di questa esperienza, è difficile. Condividere con queste comunità, la vita di tutti i giorni, giocare a “Giro giro tondo” con i bambini e vedere la felicità nei loro occhi, fa riflettere – è il pensiero di Nadia, del direttivo de I bagai di binari (i ragazzi dei binari), l’associazione missionaria di Cernusco -. A loro non serve molto per essere felici e sorridere, nonostante abbiano poco o quasi nulla. Per questo, continuiamo a sostenere quei progetti che, con eventi, sottoscrizioni a premi e altro, ci permettono di raccogliere fondi per sostenere queste realtà».
«Questa piccola esperienza mi ha confermato quanto sia importante aiutare chi ha bisogno, meglio sul posto, nel loro Paese d’origine – ha aggiunto Dario Vanoli, presidente de I bagai di binari -. L’aiuto concreto di chi veramente ha voglia di soccorrere chi ha bisogno è quello che serve; è bene che, chi lo fa, faccia rete e coinvolga chi ha intorno. Sono piccoli semi, segni che possono però dare tanto: un sorriso, una chiacchierata e, perché no, anche una vita che cambia. Tutto ciò è uno splendido frutto. Sono esperienze che consiglio caldamente ai giovani, perché aiutano a crescere. Grazie ancora una volta a chi ci è stato vicino e ha sostenuto concretamente le donazioni fatte a padre Carlo. Per questo è importante seguire e sostenere i nostri progetti: un aiuto concreto e diretto per queste realtà missionarie o del territorio».
Proprio perché la missione continua, ci saranno in futuro nuove avventure simili.
I bagai di binari (ibagaidibinari@libero.it)
Buio e luce a duello (Gv 9)
Il nono capitolo del Vangelo di Giovanni narra la guarigione di un uomo nato cieco. Il cuore del capitolo, però, è dedicato alle conseguenze di quella guarigione, in buona parte uno scontro verbale tra coloro che sono definiti farisei o giudei e Gesù. Gli altri personaggi si muovono in quello spazio e sono chiamati a prendere posizione. C’è chi lo fa con trasparenza e lucidità (il cieco guarito) e chi preferisce restare nell’ombra, muoversi senza chiarezza, per tenersi al riparo, come fanno i genitori del malato risanato.
Colui che era cieco, in effetti, ci mostra un atteggiamento limpido, onesto. Quello che Gesù gli chiede di fare, dopo avergli posto del fango sugli occhi: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», lui lo compie (v. 7). Quando i giudei lo interrogano sulla sua condizione, risponde sempre direttamente e senza ambiguità (vv. 9.11.17.24). Ammette serenamente ciò che non sa (vv. 12.25.36), ma intanto non gli manca il coraggio di ragionare e di provare, inutilmente, a far ragionare i suoi interlocutori (vv. 25-34): «Se quell’uomo sia peccatore, non lo so. Ma so che mi ha guarito, e non è cosa che accada tutti i giorni. Ed è strano che un peccatore possa portare a termine un’opera divina straordinaria».
Potremmo dire, seguendo il modo di esprimersi dell’evangelista, che il cieco nato mostra di vederci molto bene (o di essere guarito perfettamente) e di lasciarsi illuminare dalla luce (v. 5), mentre coloro che dovrebbero aiutare gli altri a vedere sembrano accecati dalla gelosia e da un rispetto rigido della legge: si muovono nelle tenebre (vv. 39-41, sui quali torneremo).
Il modo di ragionare umano
Abbiamo già detto che nel Vangelo di Giovanni, e in particolare in questo episodio, gli avversari di Gesù vengono definiti «farisei», ma anche «giudei». Questa seconda espressione è spesso, nel testo, una specie di parola in codice. Che quella non possa essere una definizione razzista lo intuiamo facilmente: anche Gesù è un giudeo, come i suoi discepoli e quasi tutti i personaggi del Vangelo. Per l’evangelista, però, «i giudei» sono coloro che si contrappongono a Gesù rinfacciandogli di non essere rispettoso della legge ebraica.
Molto probabilmente quella formula serviva anche a suggerire un messaggio sottinteso ai lettori di Giovanni. Alcuni di questi, infatti, non avevano abbandonato la frequentazione delle sinagoghe finché non ne erano stati espulsi, provvedimento che a volte li aveva sorpresi e di cui si rammaricavano. Giovanni sembra quasi volerli consolare, insinuando che quei giudei che si presentano come interpreti e garanti della volontà divina non si muovono necessaria- mente nella luce. Ecco perché anche del cieco nato si dice che venga «gettato fuori», espulso (v. 34), come quei cristiani scomunicati dai «giudei».
Questi, quindi, si presentano come rappresentanti della volontà divina, esprimendo un’intenzione buona e un compito prezioso.
Ma in base a cosa interpretano il volere di Dio? In base a una lettura rigorosa e pedante della legge scritta, intesa come un giudizio tranciante sulle azioni e sulle persone. Questo approccio rigido e legalista permette loro di illudersi di distinguere in modo sicuro chi è nel giusto e chi nell’errore: «Noi sappiamo che quest’uomo è peccatore» (v. 24); «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?» (v. 34). È un’impostazione che costituisce sempre un rischio per qualunque persona religiosa, rischio nel quale anche le chiese cristiane nella loro storia a volte sono cadute, quello di porsi davanti alla vita degli esseri umani come giudici inflessibili, forti di una legge scritta che si pensa essere più significativa del modo con cui le persone provano a vivere e interpretare le proprie esperienze.
È lo stesso approccio che porta i discepoli di Gesù a chiedersi: «Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché fosse generato cieco?» (v. 2). La convinzione di fondo che ispira la domanda è che Dio interviene direttamente e immediatamente nella storia, punendo i malvagi. Questa era l’impostazione più tradizionale della religione ebraica, anche se era già stata contestata da tanti profeti: un’interpretazione consolante, perché rassicura la maggior parte delle persone di essere già a posto, già giuste.
E allora, se così fosse, di fronte a una persona che cieca non lo è diventata ma è nata, ci si interroga al limite se non sconti le colpe di altri, anche dei suoi stessi genitori. Sembrerebbe tutto logico, finché non si mettono in discussione le premesse del discorso.
Il modo di ragionare divino
Ma Gesù non si adegua a questo modo di ragionare. È vero che in questo capitolo non si insiste sul fatto che il suo modo di porsi, di dialogare e di agire rispecchi o attesti quello del Padre, ma è anche vero che il cieco guarito ci aiuta a recuperare come implicito ciò che non viene esplicitato: «Da che mondo è mondo, non si è mai sentito che qualcuno abbia aperto gli occhi di un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto fare nulla» (vv. 32-33). È il cieco stesso a vedere nella propria guarigione un segno del fatto che quanto compiuto da Gesù è opera divina. E allora, qual è e come si esprime questa opera divina? Fin dall’inizio, Gesù rifiuta di ragionare in termini di peccato. Persino la malattia invalidante è l’occasione di mostrare Dio all’opera (v. 3). E il Dio che interviene nella storia è innanzi tutto colui che permette di vivere, e di vivere in pienezza. E se Gesù fa semplicemente le opere di colui che lo ha mandato (v. 4), ciò significa che è il Padre stesso a volere che gli uomini vivano bene. A dirla tutta, non sembrerebbe che sia semplicemente Gesù ad agire, benché poi nel nostro episodio sia solo lui a fare e discutere. L’evangelista fa infatti dire a Gesù che coloro che devono agire sono tanti, «noi». Come in un lapsus, inizia a suggerire che non è solo lui a dover compiere le opere del Padre, ma anche i discepoli e i futuri credenti, che sono coinvolti in questa comunione tra Padre e Figlio. Per ora sembra un particolare non significativo, un errore casuale, ma più avanti Gesù potrà spiegare meglio che è a quello che sono chiamati tutti i credenti in lui.
Che Gesù non si muova in una logica di peccato e punizione è mostrato dalla modalità del suo intervento, che appare totalmente gratuito, un vero e proprio dono.
Fidarsi
Il cieco non chiede neppure di essere guarito. È Gesù che prende l’iniziativa. Se c’è da parte sua una richiesta previa, è semplicemente quella di fidarsi. Ma non si tratta tanto di una condizione, quanto di un ingresso nella logica divina, che chiede, cerca, spera un incontro personale profondo, giocato sempre e solo sulla fiducia. Allora Gesù spalma subito del fango sugli occhi dell’uomo, come anticipo della guarigione, ma poi gli chiede di andare a lavarsi. Peraltro, potremmo dire che è Gesù stesso, inviato da un Padre che cerca incontro e fiducia profondi, a fidarsi del cieco, perché non va a controllare che si lavi, né resta lì ad aspettarlo. Lo invia, e confida che tutto sarà fatto secondo l’intenzione del Padre.
Né pretende di essere ricompensato. Solo quando il cieco ora vedente sarà stato mortificato dai farisei ed espulso dalla sinagoga, Gesù, sentendo la notizia, lo cerca e gli propone di credere in ciò che il guarito non sa ancora di conoscere. Gli offre di entrare in una nuova dimensione di fiducia e di ascolto.
Gesù, autentico volto del Padre, rifiuta quindi di ragionare in termini di peccato, ma si muove in una dimensione di relazione personale e di fiducia, offrendola non come mezzo per compiacere se stesso, ma come risposta al desiderio e al bisogno umano.
Non il Dio severo che si offende se si viola una sua regola («Era sabato il giorno in cui Gesù aveva aperto gli occhi al cieco»: v. 14), ma il Padre amorevole che spera di essere amato, e che sa che quell’amore può fare il bene dei suoi figli.
Lo scontro tra luce e tenebra
Comprendiamo allora bene perché l’indagine dei farisei sull’uomo nato cieco sia condotta in quel modo così duro e fastidioso: non stanno cercando di capire il cuore di Dio, né di comprendere bene che cosa è accaduto, vogliono solo ricondurre tutto ai propri criteri prefissati, che attribuiscono a Dio. Tanto che, se del bene è stato fatto fuori dalle regole, è segno che non è bene, che va pensato come peccato.
E si interrogano i testimoni per scoprire tracce di questo peccato, intimidendo i genitori dell’uomo guarito e punendolo perché si limita a indicare ciò che era sotto gli occhi di tutti: «Dio non ascolta i peccatori. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto fare nulla» (vv. 31.33).
Possiamo allora comprendere meglio la chiusura del capitolo. Gesù sostiene di essere venuto nel mondo per un giudizio, per distinguere la luce dalle tenebre. Chi con le proprie decisioni e azioni cerca di costruire l’umanità, accresce la possibilità per tutti di vivere pienamente, riconoscendo con coraggio i segni di vita e crescita e promessa che coglie intorno a sé, vive nella luce divina, vede e prospera. Gesù giunge nel mondo destinato ad aiutare a distinguere tra chi si muove in questa che è la linea di comportamento divina e chi si lega a leggi, dominio, distinzioni rigide. In questo senso «chi non vede», chi si sente peccatore, sbagliato, inadeguato perché non corrispondente a un modello rigido, tornerà a vedere. E chi crede di vedere e poter giudicare gli altri, diventerà cieco (v. 39).
È possibile che i farisei che ascoltano Gesù comprendano il senso del suo discorso, se reagiscono chiedendo: «Siamo ciechi anche noi?» (v. 40). E la risposta di Gesù è esattamente in quella linea: «Se foste ciechi», ossia se davvero non ci vedeste, senza vostra responsabilità, come un cieco che nasca tale, «non avreste colpa». «Siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane» (v. 41). Il Padre guarda il cuore, l’intimo, e riconosce i limiti non voluti, le fragilità, le difficoltà (anche il cieco nato ammette di non sapere tante cose), senza pensare che siano dei problemi. Esattamente come chi ama non incolpa l’amato di limiti che non riesce a superare pur provandoci, o che addirittura non riconosce. È la presunzione di essere coloro che sanno tutto, e possono vagliare chi è a posto e chi no, che ci fa essere ciechi.
Angelo Fracchia (Il Volto del Padre 11 – continua)