eSwatini. Il mio papa imprevedibile

 

Un giorno di maggio del 2013, dopo che papa Francesco era stato eletto vescovo di Roma, io, che ero vescovo in Sudafrica, ho pensato di scrivergli, raccontandogli come la sua elezione fosse stata accolta nella nostra parte del mondo.
Il nunzio apostolico mi assicurò che la lettera sarebbe arrivata a lui e non a uno dei suoi segretari. E fu proprio così. Circa un mese dopo ricevetti una sua risposta scritta a mano. Non me lo sarei mai aspettato.

Tanto meno quello che è successo dopo.

A luglio Papa Francesco si è recato a Rio de Janeiro per la Giornata mondiale della gioventù e ha chiesto di organizzare un evento speciale per chi arrivava dall’Argentina (una folla enorme, come potete immaginare!). Dato che io sono Argentino, i vescovi mi hanno invitato a unirmi a loro.
All’arrivo del papa in cattedrale, i vescovi argentini lo hanno salutato con entusiasmo (era la prima volta che lo incontravamo come Papa!). Mi sono presentato non aspettandomi che si ricordasse di me. Mi ha detto: «Hai ricevuto la mia lettera?».
È stato travolgente. In mezzo a tutto ciò che stava accadendo intorno a lui, come poteva ricordarlo?

Al di là delle sue omelie, dei suoi discorsi e dei suoi documenti, si potrebbero scrivere pagine e pagine sul fatto che facesse sentire unica ai suoi occhi ogni persona che lo incontrava.

Credo che come Sacbc (vescovi di Botswana, Eswatini e Sudafrica) non dimenticheremo mai le due visite ad limina che abbiamo avuto con lui nel 2014 e nel 2023.

Il primo non lo dimenticheremo perché, accogliendoci (in due gruppi in due giorni diversi), ha esordito: «Come si dice nel calcio, il pallone è al centro, chi lo calcia per primo? Di cosa vorresti che parlassimo?».
Era uno spazio aperto per noi per parlare con il successore di Pietro di qualsiasi argomento avessimo nel cuore. Era totalmente nuovo per noi. Ricordo infatti ancora uno dei vescovi che disse dopo l’incontro: «Ho aspettato 20 anni per un momento così».

Il secondo incontro è stato segnato dal fatto di essere stato annullato. Il Papa era in ospedale dopo aver subito un intervento chirurgico importante.

Il giorno in cui è stato dimesso, alcuni di noi si trovavano all’ingresso della sua residenza proprio nel momento in cui è stato riportato dall’ospedale. Mi ha visto e mi ha chiesto se fossimo lì per la visita ad limina e quando ci saremmo incontrati. Ho detto: «L’incontro è stato cancellato. Tu eri in ospedale ma tu sei il Papa e… sei imprevedibile!». Ha salutato gli altri vescovi e poi ha detto: «Dite ai vescovi che potremmo incontrarci dopo pranzo».
Nessuno si aspettava che un uomo di 86 anni trovasse il tempo per noi dopo un intervento chirurgico importante. Eravamo solo noi e lui, nessuna segretaria, nessun protocollo, nessuno a tradurre! Era il vescovo di Roma con i suoi fratelli vescovi nel modo più informale. Non sono stati gli argomenti di cui abbiamo parlato quel pomeriggio a rimanere nei nostri cuori, ma quello che abbiamo visto anche domenica scorsa: il suo dare tutto il suo tempo e le sue energie a tutti i costi.

Attraverso momenti come questi, attraverso le sue lettere personali, telefonate, visite… si è fatto vicino a tutti noi, ha testimoniato la cura amorevole di Dio per ogni persona, ma ha anche, silenziosamente, richiamato tutti noi a prenderci cura gli uni degli altri, ad apprezzare il dono gli uni degli altri e, a noi vescovi, ha mostrato il modo in cui siamo chiamati a prenderci cura di coloro che ci sono stati affidati.

+ José Luis Ponce de León, Imc, vescovo di eSwatini




Brasile. Francesco padre dei poveri

 

Il mio primo incontro con Papa Francesco è avvenuto alla Giornata mondiale della gioventù di Rio de Janeiro nel 2013. Da poco più di un anno ero stato nominato vescovo ausiliare dell’Arcidiocesi di San Salvador da Bahia, e per la prima volta partecipavo a un grande evento che mostrava il volto giovane di una Chiesa desiderosa di essere presenza nel mondo.

Ho poi avuto altre occasioni per incontrarlo e godere della sua paternità, fede e semplicità.
«Dio sempre ci sorprende», era solito dire Papa Francesco. E la Chiesa è rimasta sorpresa con l’elezione di un uomo «venuto dalla fine del mondo» che ha sempre cercato di mettere al centro della nostra attenzione tutto quello che era considerato periferico.

Cosa ci lascia in eredità Papa Francesco?

Successore dell’apostolo Pietro, ha dedicato la sua vita all’annuncio e alla testimonianza del Vangelo. Fin dall’inizio del suo pontificato, egli ha esortato la Chiesa a «uscire», impegnandosi ad annunciare la gioia del Vangelo (Evangelii gaudium), invitando ogni battezzato a partecipare attivamente alla missione evangelizzatrice.

Buon Pastore, ha camminato «davanti, in mezzo e dietro al gregge», con il popolo santo di Dio, soprattutto con i fratelli e le sorelle più poveri che vivono nelle periferie geografiche ed esistenziali.

Profeta del nostro tempo, difensore della dignità umana, ha denunciato la «cultura dell’indifferenza» verso la sofferenza delle persone più vulnerabili e scartate della società.

Ha invocato la pace in un mondo segnato dalle guerre e ha richiamato l’attenzione della società sulla necessità di prendersi cura della nostra Casa Comune.

Padre dei poveri, ha mostrato nei piccoli gesti il volto misericordioso di una Chiesa dalle porte aperte, chiamata a essere «ospedale da campo», testimone di un Dio che non si stanca mai di amare e perdonare.

Sono grato al Signore per averlo conosciuto e incontrato, per la sua testimonianza che ci invita a essere una Chiesa più vicina, più umana e più fedele al Vangelo.

+ Giovanni Crippa, Vescovo di Ilhéus, Brasile




Mozambico. Francesco, papa missionario

 

È stato con sorpresa e profonda tristezza che, la mattina del 21 aprile, alla missione di Boroma, fondata dai gesuiti alla fine del XIX secolo, ho ricevuto la notizia del ritorno di Papa Francesco alla casa del Padre.

Era un grande amico del Mozambico, Paese che ha visitato nel settembre 2019. L’ondata di affetto suscitata dalla semplice figura di Francesco ha unito tutti i mozambicani, indipendentemente dal partito politico, dall’etnia e persino dall’appartenenza religiosa. Ci ha lasciato un messaggio di pace e riconciliazione e gesti di solidarietà concreta con le vittime mozambicane dei disastri naturali e dell’insurrezione terroristica a Cabo Delgado, nel Nord del Paese.

Si è detto e si dirà molto su Papa Francesco. Per me è stato un padre e un fratello per tutti. Un Papa missionario, che mi ha ispirato molto nel mio lavoro pastorale come Vescovo di Tete, cercando di rendere questa Chiesa locale, dove i Missionari della Consolata sono arrivati 100 anni fa, una Chiesa «in uscita», con le porte aperte a tutti, una Chiesa missionaria.

Ci lascia con l’impegno di continuare a essere fedeli al Vangelo nella nostra vita quotidiana, come discepoli-missionari del Signore Gesù, che è risurrezione e vita. Speranza dell’umanità.

Sono grato a Papa Francesco per il suo esempio di vita e per le sue parole ispiratrici e trasformatrici rivolte ai fedeli e al mondo: il suo invito a vivere la fede nella gioia e nell’«uscire», senza paura di abbracciare tutti, la sua preoccupazione per i più dimenticati, i più piccoli, i più bisognosi, nella consapevolezza che siamo tutti fratelli e sorelle; e anche la sua vigorosa e instancabile denuncia di un’«economia che uccide», mettendo in pericolo il pianeta, di tanti conflitti che configurano la «terza guerra mondiale a pezzi», così come dei peccati della Chiesa stessa, abusi sessuali, abusi di potere o abusi economici.

Grazie, Francesco.
Perché, come Papa, sei sempre stato un fratello.
Perché, come gesuita, sei sempre stato un missionario.
Oggi piangiamo con te, ma soprattutto ti ringraziamo.
La tua vita è stata il Vangelo condiviso.
La tua morte, un seme di speranza.

+ Diamantino Antunes (Imc), vescovo di Tete, Mozambico – 22/04/2025




Kenya. Francesco e l’odore delle pecore

 

Ringrazio Dio di aver incontrato personalmente Papa Francesco.
È stato un grande regalo nella mia vita: un modello di umiltà e povertà francescana da imitare.
Il 16 aprile 2015, durante la visita ad limina di noi vescovi del Kenya, ho avuto la gioia di fare a Papa Francesco un regalo speciale. Gli ho detto: «Io lavoro nella diocesi di Maralal, in mezzo ai pastori e perciò ti offro, a nome loro, questa mia mitria di pelle di capra. Ora anche tu, come buon pastore, potrai avere l’odore di pecora, come sempre vai dicendo ai tuoi preti».

Prima di mettergliela sulla testa, lui stesso volle annusarla e poi commentò: «Questa non è pecora ma capra!». Gli risposi: «Sì, è vero. Vedo che te ne intendi. Ma in Kenya le pecore e le capre vanno al pascolo insieme».

Sette mesi dopo, egli fece visita in Kenya (25-27 novembre 2015), e mi fece una bella sorpresa che dimostrava il suo cuore sempre attento ai piccoli favori. Al suo arrivo, nell’aeroporto di Nairobi, sceso dall’aereo, mentre passava davanti alla fila dei vescovi, mi feci coraggio e gli chiesi: «Santità, Lei non si ricorda di me? Sono quello che Le ha regalato la mitria di pelle di capra, a Roma». «Mi ricordo, sì – rispose – e la tua mitria me la sono portata dietro da Roma e domani la vedrai sulla mia testa durante la Messa».

Il giorno dopo, all’inizio della Messa, sull’altare si girò leggermente verso di me e mi fece un sorriso come per dire: «Vedi, io mantengo le promesse». Che cuore umano e pieno di calore! Tutt’oggi tengo caro ancora due cosette: il Rosario che mi regalò, e che recito tutti i giorni, e un quadretto con la foto in cui lo abbraciai (che coraggio!).

Abbiamo un altro santo che intercede per noi. Un santo che ha baciato i piedi ai presidenti africani, supplicandoli di costruire la pace.

+ Virgilio Pante, IMC, vescovo emerito di Maralal




Mongolia. Francesco per il cardinale missionario Marengo

 

In queste ore siamo tutti scossi. È difficile ordinare i pensieri e tradurli in parole di senso compiuto. È un grande shock, che ha bisogno di essere attraversato con fede.

Ci vorrà del tempo per capire fino in fondo la portata del pontificato di Papa Francesco. Quello che mi sento di dire adesso è che vedevo incarnata in lui una profonda paternità, che ho sperimentato personalmente in varie occasioni. Mi sentivo attratto dalla sua libertà interiore e dal suo ascolto delle mozioni interiori dello Spirito Santo.

Per noi Missionari e Missionarie della Consolata, Papa Francesco è il Pontefice che ha canonizzato il nostro santo Fondatore e che ha dato un impulso missionario grandissimo alla vita e alle scelte della Chiesa.

Con il suo magistero e con il suo esempio ha riportato la missione evangelizzatrice della Chiesa al centro della vita reale delle comunità.

Per quanto riguarda la Chiesa in Mongolia, certamente Papa Francesco sarà ricordato nella storia di questo Paese per essere stato il primo pontefice a venire qui. Ma anche per il coraggio dei suoi discorsi profetici sul valore della fratellanza universale e dell’impegno per la giustizia, la pace e l’armonia del creato.

In queste ore sto ricevendo telefonate e messaggi dalle autorità civili e religiose della Mongolia. Uno dei consiglieri del Presidente mongolo mi ha trasmesso le condoglianze del Capo dello Stato, dicendo che Papa Francesco ha scritto a caratteri d’oro una pagina nuova nella storia delle relazioni tra Mongolia e Santa Sede.

Poco fa mi ha chiamato l’Abate primate dei buddhisti mongoli, il Hamba Nomun Khan Javzandorj, con il quale non più di tre mesi fa avevamo avuto la gioia di incontrare personalmente Papa Francesco in Vaticano. Mi ha voluto dire che, su richiesta esplicita del Presidente della Mongolia, la comunità monastica buddhista del tempio Gandantegchinlen, domani offrirà una preghiera rituale per l’anima di Papa Francesco, come già avevano fatto durante il suo recente ricovero ospedaliero.

Papa Francesco è stato capace di parlare al cuore di tutti. Abbiamo tanto da imparare e da applicare alla nostra vita di servi del Vangelo.

Cardinal Giorgio Marengo (21/04/2025)




Superiore Generale: “Cristo ha vinto la morte e ci ricorda che la speranza è viva”

Testo da consolata.org


Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, affinché abbondiate nella speranza per la potenza dello Spirito Santo” (Rm 15,13).

“Rallegriamoci ed esultiamo perché ‘Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!’ (1Cor 5,7-8). Sostenuto da questa certezza, mentre viviamo l’anno dedicato al nostro santo patrono, San Giuseppe Allamano e celebriamo il giubileo della speranza, desidero rivolgere a tutti voi l’augurio che la risurrezione di Cristo possa ravvivare la speranza, ne esprima tutte le sue potenzialità per la nostra missione di consolazione”.

Queste le parole del Superiore Generale, padre James Bhola Lengarin, IMC, all’inizio del suo Messaggio di Pasqua 2025 inviato a tutti i missionari, missionarie e laici della Consolata, parenti, amici e benefattori.

Il Padre Generale prosegue: “Lasciamoci avvolgere dal dinamismo della Pasqua, sperimentando la misericordia di Dio e la forza della risurrezione di Gesù che riempirà di gioia i nostri cuori così da poterla condividere con gli altri”.

La stessa riflessione è rafforzata in un video realizzato dall’Ufficio per la Comunicazione.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=6T9HAfwlzkc?feature=oembed&w=500&h=281]

“La speranza radicata nella Pasqua del Signore va testimoniata nella missione attraverso gesti che comunicano la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte, che trasformano la “Consolazione” in semi di speranza per ogni persona, nessuno escluso, perché tutti hanno il diritto di sperare in una vita migliore”, afferma padre James Lengarin.

Di seguito il testo integrale del Messaggio di Pasqua del Superiore Generale

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Pakistan. Attacco al Jaffar Express.

 

Un anno fa, in Pakistan, salivamo sullo «Jaffar Express», treno che da Peshawar porta fino a Quetta, capitale della regione del Balochistan.

In quell’occasione, data l’impossibilità per i giornalisti stranieri di entrare in questi territori, affrontavamo un viaggio di 30 ore in incognito, indossando abiti tradizionali pakistani. Nel reportage raccontavamo la crescente tensione tra i gruppi separatisti del Balochistan, soprattutto quello del Bla (Balochistan liberation army), e il governo pakistano.

Le ostilità non sono una novità in questa regione. Negli ultimi due mesi, però, gli scontri tra le due fazioni hanno toccato uno dei punti più tragici di questo conflitto. I primi scontri risalgono al 1948, anno in cui gli accordi post coloniali consegnarono il Paese nelle mani della maggioranza etnica dei punjabi.

L’11 marzo scorso, un gruppo di militanti del Bla ha attaccato lo Jaffar Express, dirottandolo e prendendo in ostaggio circa 400 passeggeri. Ne è seguita una durissima risposta dell’esercito pakistano che, dopo una battaglia durata 36 ore, ha messo fine all’attacco uccidendo 33 militanti balochi. Secondo il governo pakistano, sono state 31 le vittime, tra ostaggi e forze armate. Nel comunicato di rivendicazione dell’attacco, il Bla ha invece affermato di aver giustiziato 214 persone, ma – ha precisato – di aver subito lasciato andare donne e bambini.

Questa modalità di attacco non ha quasi precedenti in Balochistan. Fino ad ora, i separatisti si erano limitati a colpire autobus e automobili (motivo per il quale tutti si spostavano in treno) e a perpetrare attacchi suicidi contro installazioni militari e governative. Nel novembre 2024, un attentatore si è fatto saltare in aria nei pressi della stazione di Quetta, uccidendo 25 persone.

Abbiamo raggiunto, telefonicamente, uno dei nostri contatti in Balochistan, Arqam, nostra guida durante il viaggio dello scorso anno. «Ci sentiamo tutti molto in pericolo. Ora, i separatisti del Bla non attaccano più solo i militari e le infrastrutture, ma anche noi. Siamo civili, però facciamo parte di un’altra etnia: siamo punjabi in terra balochi. Quindi, ora, anche noi siamo un bersaglio. La loro lotta non è più solo per il possesso delle risorse minerarie, ma anche per l’espulsione dalla regione di tutte le etnie che non siano balochi. Abbiamo molta paura, per noi e per le nostre famiglie».

Negli ultimi anni, il Balochistan è diventato un campo di battaglia in una vera e propria guerra per il controllo delle sue risorse. Il governo del Pakistan ha, praticamente, espropriato le terre agli abitanti, appropriandosi dei giacimenti di quarzo, cromite, carbone, gas e petrolio, e delle cave di marmo e pietra. Inoltre, è proprio in queste terre che sono state vendute alla Cina le concessioni per costruire il «China-Pakistan economic corridor» (Cpec), un progetto di ferrovia e autostrada che mira a creare un collegamento di tremila chilometri dalla Cina fino al porto pakistano di Guadar. Prima del dirottamento allo Jaffar Express, i bersagli più colpiti erano proprio le infrastrutture per la costruzione del Cpec.

Dato il costante abuso e sfruttamentodi queste terre da parte del Pakistan, gruppi come quello del Bla vengono visti come liberatori dalla maggior parte degli abitanti, soprattutto quelli delle zone rurali. Governo pakistano e Stati Uniti, invece, li annoverano tra le organizzazioni terroristiche asiatiche.

Qui, però, non ci sono solo i corpi armati a cercare di tutelare i diritti del Balochistan. Ci sono anche altre forme di lotta, iniziative pacifiche ma costanti.

A gennaio del 2024, avevamo incontrato la dottoressa Mahrang Baloch, reduce da una marcia di 1.600 chilometri, da Quetta fino a Islamabad. Quel cammino, durato 15 giorni, è stato un evento simbolo delle donne balochi che cercano i propri cari, uomini fatti «scomparire» dall’esercito pakistano perché considerati terroristi.

Mahrang Baloch (seduta al centro), medico, è la più famosa tra le attiviste per i diritti della popolazione del Balochistan. Le donne mostrano foto dei loro parenti scomparsi per mano dell’intelligence pakistana. La dottoressa è stata arrestata lo scorso 22 marzo. Foto Angelo Calianno.

Il 22 marzo, durante una dimostrazione pacifica per i diritti del Balochistan, la dottoressa Mahrang Baloch è stata arrestata dalle forze governative. Il 27 marzo, le sue sorelle hanno lanciato un appello e una raccolta firme per il suo rilascio. Secondo la famiglia, la dottoressa soffrirebbe di gravi problemi di salute ma, nonostante questo, le si sta negando qualsiasi aiuto medico.

Durante la nostra intervista, Mahrang Baloch aveva più volte denunciato il governo pakistano di perpetrare, da ormai venti anni, un vero e proprio genocidio ai danni del suo popolo.

Angelo Calianno




Italia-Africa. Cresce l’export di armi

 

In un mondo sempre più in conflitto, l’Italia è costantemente tra i leader mondiali nella vendita di armamenti. Secondo il rapporto «Trends in international arms transfers, 2024» pubblicato dallo Stockholm international peace research institute (Sipri, istituto che analizza la sicurezza globale), tra il 2020 e il 2024, l’Italia è stata la sesta esportatrice globale di armi: dalle sue industrie è arrivato il 5% di tutto il materiale bellico richiesto nel mondo, con un aumento del 138% rispetto alle vendite nel periodo 2015-2019.

Il mercato degli armamenti italiani quindi è in costante crescita. Lo conferma anche la «Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento» presentata il 24 marzo in Parlamento dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Secondo il documento, nel 2024 l’Italia ha esportato armamenti in 90 Paesi, guadagnando 7,7 miliardi di euro. Un incremento del 22% rispetto ai 6,3 miliardi del 2023.

Nelle mani di pochi
Dal rapporto emerge anche che l’industria bellica italiana è in mano a pochi. Da sole, Leonardo, Fincantieri, Rheinmetall Italia e Mbda Italia coprono il 60% delle esportazioni totali. Proprio grazie a una commessa da un miliardo di euro a Fincantieri (per due pattugliatori polivalenti d’altura destinati alla Marina militare), nel 2024 l’Indonesia è passata da 35° a prima importatrice di armi italiane. Seguono Francia, Regno Unito e Germania e, più in generale, Paesi dell’Unione europea e della Nato (destinatari del 44% delle esportazioni italiane).

Il mercato africano
Ma sono cresciute anche le esportazioni in Africa. Nel 2024, per la prima volta, i Paesi subsahariani hanno speso più di quelli nordafricani: 587 milioni di euro contro 306 milioni. In Africa subsahariana gli acquisti sono cresciuti del 501% rispetto al 2023 e del 2.401% rispetto al 2022. Tra conflitti, instabilità o semplice rinnovo degli arsenali, molti Stati si sono affidati agli armamenti italiani.
Ad esempio la Nigeria – nel 2024 prima importatrice africana e terza mondiale di armi italiane – ha speso 481 milioni di euro per bombe, missili, aerei, strumentazioni elettroniche e materiale da addestramento, necessari all’esercito contro Boko Haram, gruppo jihadista attivo nel nordest del Paese al confine con Niger, Ciad e Camerun. Non a caso, lo scorso anno, anche questi ultimi due Paesi hanno acquistato in Italia: il Ciad ha speso 21 milioni di euro (40mila nel 2023) mentre il Camerun ha versato 206mila euro.
Nel 2024, dopo alcuni anni, anche Botswana e Angola sono tornate a guardare al mercato italiano: la prima ha acquistato aerei e apparecchiature elettroniche per 61 milioni di euro, la seconda ha speso 14 milioni di euro. Ugualmente l’Uganda: dopo aver comprato armamenti italiani per l’ultima volta nel 2020, lo scorso anno il Paese ha fatto acquisti per 4,5 milioni di euro.
Somalia e Sudafrica hanno agito agli antipodi: se la prima ha triplicato la propria spesa, arrivando a 1,7 milioni di euro, il secondo l’ha dimezzata, fermandosi a 500mila. Infine, il Kenya si è confermato un mercato affidabile per l’industria italiana con transazioni per 2 milioni di euro.

Un continente interessante
D’altronde, negli anni, le aziende italiane hanno sviluppato una presenza capillare nel continente. Ad esempio, Leonardo (nel 2024 prima esportatrice con 1,8 miliardi di euro di fatturato, il 28% del totale) opera in undici Paesi africani. In Angola, lavora per espandere la sorveglianza marittima, spaziale e del cyberspazio. A Pointe Noire (Repubblica del Congo), si è assicurata un contratto per realizzare il sistema di sicurezza del porto. Mentre la fornitura di caccia alla Nigeria è stata un punto fermo delle vendite nel 2024.
Ma Leonardo non è la sola. I legami di Fincantieri con l’Egitto sono solidissimi. Benelli armi opera in Nigeria, Angola ed Egitto. Support logistic services ed Elettronica sono presenti in Sudafrica. E tante altre ancora sono sparse per tutto il continente.
L’industria bellica italiana dunque gode di ottima salute. Si alimenta da e contribuisce ad alimentare gli innumerevoli conflitti in tutto il mondo. Oltre a sostenere la corsa globale al riarmo.
Ma quest’anno potrebbe essere l’ultima volta in cui sono disponibili dati dettagliati sul mercato italiano degli armamenti. Soprattutto sul piano sulle transazioni finanziarie, di cui il 70% nel 2024 è passato per soli tre istituti: Unicredit, Deutsche Bank e IntesaSanpaolo.
Prosegue infatti l’iter parlamentare del disegno di legge (ddl) di iniziativa governativa n. 1730 che modifica la legge 9 luglio 1990, n. 185. Quest’ultima disciplina l’esportazione di armamenti italiani e impone al governo di presentare una relazione annuale al Parlamento sulla movimentazione di materiale bellico da e per il Paese. Il ddl invece mira a ridurre il controllo parlamentare sul commercio di armi e la trasparenza sulle transazioni finanziarie. Rendendo così ancora meno trasparente uno dei mercati più pericolosi al mondo.

Aurora Guainazzi




Brasile. «Siamo sempre stati qui!»

 

Una folta rappresentanza dei popoli indigeni del Brasile si è data appuntamento a Brasilia – dal 7 all’11 aprile – per dare vita alla ventunesima edizione dell’«Acampamento terra livre» (Atl). Il raduno – organizzato dall’«Articolazione dei popoli indigeni del Brasile» (Apib), associazione che comprende sette rappresentanze regionali – è avvenuto in un periodo storico particolarmente grave per i popoli autoctoni a causa dei ripetuti attacchi ai loro diritti, formalmente sanciti dalla Costituzione del 1988 e dai trattati internazionali.

Se da una parte c’è un presidente aperto alle istanze indigene come Lula, dall’altra c’è un Congresso dominato dai «ruralisti» (latifondisti, proprietari terrieri, imprenditori dell’agrobusiness, imprenditori del settore minerario) che vedono nei popoli indigeni un ostacolo ai loro interessi particolari. L’obiettivo di questo gruppo è uno solo: impossessarsi a qualsiasi costo delle terre occupate dalle popolazioni indigene per sfruttarle a piacimento.

Negli ultimi anni, gli attacchi ai diritti costituzionali dei popoli indigeni hanno trovato la massima espressione nell’emanazione della legge 14.701/2023, nota come Lei do marco temporal Legge del limite temporale»), concernente il riconoscimento, la demarcazione, l’uso e la gestione delle terre indigene. Una norma – si noti bene – emanata dal Congresso che prima ha ignorato il giudizio di incostituzionalità del Supremo tribunale federale (Stf) e poi ha respinto i veti posti dal presidente Lula.

Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva con il leader indigeno Raoni Metuktire. Lula si trova a dover fronteggiare un Congresso dominato dai ruralisti, la cui unica volontà è di impossessarsi (a qualsiasi costo) delle terre indigene. Foto: Ricardo Stuckert – PR.

La legge è, dunque, vigente trovando su fronti opposti i popoli indigeni e il Congresso a maggioranza ruralista. Per cercare di trovare una soluzione consensuale, il ministro Gilmar Mendes del Supremo tribunale federale ha formato una Commissione speciale di conciliazione. Tuttavia, il Consiglio indigenista missionario (Cimi), organo meritorio legato alla Conferenza episcopale brasiliana (Conferência nacional dos bispos do Brasil, Cnbb), da oltre cinquant’anni a fianco dei popoli indigeni, ha commentato che la conciliazione proposta «potrebbe comportare conseguenze ancora più gravi per i popoli rispetto alla stessa Legge 14.701».

È in questo clima di incertezza e di opposizione frontale che circa ottomila indigeni (questa è stata la stima) si sono ritrovati nella capitale brasiliana. Le giornate sono state però segnate da un brutto evento. Il 10 aprile, durante una marcia programmata («A resposta somos nós», la risposta siamo noi), la polizia (sia quella nota come legislativa sia quella militare) ha attaccato un gruppo di indigeni, colpiti con gas lacrimogeni e spray al peperoncino. Le autorità hanno accusato i manifestanti di aver tentato di occupare spazi non autorizzati. Gli organizzatori hanno respinto l’accusa, replicando che si è trattato di un atto deliberato della polizia. Il fatto è riuscito a sviare l’attenzione pubblica dalle questioni poste dai popoli indigeni, evidenziando nel contempo il pesante clima anti indigeno vigente nel paese.

Tutto questo è stato raccontato anche nel comunicato finale dell’Apib, testo che si apre con un’affermazione e un’accusa incontestabili: «Noi indigeni siamo sempre stati qui! Abbiamo resistito all’invasione dei nostri territori e al genocidio perpetrato contro i nostri antenati e contro di noi per 525 anni». La conclusione è – invece – un grido, forse un po’ enfatico, ma sicuramente pieno di orgoglio e di speranza: «La nostra lotta è per la vita, per la Madre terra, per la Costituzione e per il futuro dell’intera umanità».

Paolo Moiola




Mondo. I migranti: la realtà e la propaganda

 

I numeri sono un forte antidoto contro l’ignoranza, l’ideologia e la propaganda. Si arriva a questa conclusione dopo la lettura del dossier «La migrazioni fra noi», predisposto dal Centro nuovo modello di sviluppo (Cnms) e uscito in questi giorni. Sono sufficienti alcuni dati – ripresi da fonti istituzionali – per comprendere la distanza tra la realtà e le informazioni che circolano.

Per esempio, i Paesi che ospitano il maggior numero di profughi sono nell’ordine: l’Iran 3,8 milioni, la Turchia 3,1 milioni, la Colombia 2,8 milioni, la Germania 2,7 milioni, l’Uganda 1,7 milioni. Invece, lo Stato con la maggiore incidenza di rifugiati è il Libano dove si trovano 137 rifugiati ogni mille abitanti. Segue la Giordania con 60 rifugiati ogni mille abitanti.

Il dossier del Cnms di Francesco Gesualdi, composto da 23 schede ricche di dati e illustrazioni grafiche che rendono facile la comprensione, fornisce i numeri essenziali per capire la dimensione umana ed economica del fenomeno migratorio.

Tra i numeri più significativi troviamo che il 60% delle persone che hanno cercato rifugio all’estero appartengono a cinque nazioni: Siria 6,3 milioni, Venezuela 6,2 milioni, Ucraina 6,1 milioni, Afghanistan 6,1, Palestina 6 milioni. In Africa, si segnala la drammatica situazione del Sud Sudan.

Nella classifica dei Paesi che hanno più connazionali trasferiti all’estero, al primo posto si colloca l’India (circa 19 milioni), seguita dal Messico (circa 12 milioni), dalla Russia e dalla Cina (circa 10 milioni ciascuna) e dalla Siria (quasi 8 milioni).

Molti migranti inviano soldi alle famiglie rimaste nei paesi di origine. Nel 2022, a livello mondiale, le rimesse complessive sono ammontate a 831 miliardi di dollari. I primi tre Stati da cui partono le rimesse risultano essere: gli Usa (79 miliardi), l’Arabia Saudita (39 miliardi), la Svizzera (31 miliardi). Le prime tre Nazioni riceventi sono: l’India (111 miliardi), il Messico (61 miliardi) e la Cina (51 miliardi).

Nel 2023 nel mondo si sono contati 26 milioni di sfollati per disastri naturali (carestie, siccità, alluvioni, terremoti). Secondo la Banca mondiale, entro il 2050 gli sfollati per cambiamenti climatici potrebbero ammontare a 216 milioni di persone.

Grafico dei residenti stranieri in rapporto alla popolazione. Tratto dal dossier 2025 del Cnms.

In Europa, il Paese con più residenti stranieri è la Germania (12,3 milioni). Seguono il Regno Unito (10,7 milioni), la Spagna (6 milioni), la Francia (5,6 milioni) e l’Italia (5,1 milioni). In rapporto alla popolazione nazionale la classifica cambia: Svizzera (27%), Austria (18,8%), Norvegia (16,8%). L’Italia è al decimo posto con una percentuale del 8,7% sul totale della popolazione.

I posti di lavoro occupati dagli stranieri difficilmente sono sottratti agli italiani, perché molti di essi non sono graditi ai nativi. In Italia, il 92% degli immigrati svolge lavori a bassa e media qualifica, contro il 62% degli italiani. Il 30% è impiegato addirittura in occupazioni elementari, contro il 10% della media nazionale.

Nel 2023 i lavoratori stranieri hanno contribuito al 8,8% del Prodotto interno lordo (Pil) italiano. Hanno versato oltre 24,9 miliardi di euro di contributi previdenziali e pagato 10,1 miliardi di euro di imposte sul reddito.

Grafico degli stranieri clandestini presenti sul territorio italiano. Tratto dal dossier 2025 del Cnms.

Gli stranieri clandestini in Italia sono stati stimati in 458 mila persone. Il Centro nuovo modello di sviluppo a conclusione del dossier scrive: «La clandestinità non giova a nessuno. Oltre a condannare i clandestini alla perdita di dignità, alimenta il lavoro in nero, il caporalato, l’economia criminale. L’unico modo per uscirne è l’emanazione di un decreto di sanatoria che regolarizzi tutti i clandestini. È già successo in passato con enorme beneficio per tutti».

Rocco Artifoni