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Il prossimo 29 ottobre, in Tanzania, si terranno le elezioni presidenziali. Ma il risultato – la riconferma per altri cinque anni della presidente in carica Samia Suluhu Hassan – è già certo. Negli ultimi mesi, infatti, l’esecutivo ha dispiegato tutti gli strumenti repressivi a sua disposizione – dalla polizia, al sistema giudiziario, passando per gli organi elettorali – per mettere fuori gioco i principali esponenti dell’opposizione. Il tutto con un unico obiettivo: spianare la strada al secondo mandato di Hassan.
Da Magufuli ad Hassan
Nel 2021, alla morte dell’allora capo di Stato John Magufuli, Hassan (sua vice) era diventata presidente del Paese. Entrambi erano esponenti del Chama cha mapinduzi (Ccm), l’unico partito ad avere mai governato la Tanzania dall’indipendenza dal Regno Unito nel 1961. Nel sistema a partito unico – in vigore dal 1977 al 1992 -, il Ccm era l’unico movimento ammesso.
Ma anche con l’avvento del multipartitismo il partito ha vinto tutte le elezioni. La Tanzania infatti è considerata un esempio di autoritarismo elettorale: anche se si vota regolarmente, il Ccm manipola sistematicamente i risultati, grazie a controllo sull’apparato statale, reti clientelari, violenze e intimidazioni.
Eletto nel 2015 e riconfermato nel 2020, Magufuli aveva bandito numerosi media, censurato diversi giornalisti, limitato la libertà di azione dei partiti di opposizione e imprigionato attivisti per i diritti umani. Sotto la sua presidenza, la Tanzania era sprofondata sempre di più in un clima di autoritarismo e repressione.
Nel 2021, la salita al potere di Hassan e le sue prime disposizioni – a garanzia di una maggiore libertà di stampa e a tutela degli incontri pubblici dell’opposizione – avevano fatto pensare che il Paese stesse per intraprendere un percorso più democratico.
Ma, in realtà, la repressione di dissidenti e attivisti è proseguita, mentre la violenza politica degli organi statali (in particolare la polizia) è aumentata. Ad esempio, se in teoria gli incontri pubblici a sfondo politico erano possibili, nella pratica spesso erano impediti. Mentre le elezioni locali del 2024 sono state manipolate su vasta scala.
A rischio pena di morte
In vista del voto di fine ottobre, i leader dell’opposizione sono stati ripetutamente arrestati, incarcerati e colpiti da accuse particolarmente gravi come quella di tradimento. Chiaramente fabbricati ad arte, questi capi d’imputazione non permettono di uscire dal carcere su cauzione e, se condannati, il rischio è la pena di morte. Durante la presidenza di Hassan, per molti oppositori è diventata la normalità (mentre Magufuli generalmente non era arrivato a tanto).
Nel 2021, ad esempio, Freeman Mbowe – l’allora presidente del maggiore partito di opposizione, il Chama cha demokrasia na maendeleo (Chadema) – è stato accusato di terrorismo. Il suo rilascio è giunto solo dopo 226 giorni di detenzione, a seguito di complessi negoziati (mediati da imprenditori, giornalisti e figure religiose) tra la dirigenza del Chadema e Hassan.
Invece, il suo successore Tundu Lissu (sopravvissuto a un tentativo di assassinio nel 2017) è stato arrestato al termine di un comizio il 9 aprile 2025 e accusato di tradimento per un post su X, dove aveva incitato i tanzaniani a boicottare le elezioni, denunciando il rischio di frodi. Il processo – dove se condannato rischia la pena di morte – è stato posticipato per mesi ed è cominciato solo a inizio ottobre. Le forze dell’ordine tanzaniane hanno impedito a diversi attivisti per i diritti umani (anche stranieri) di presenziare alle prime udienze, mentre il vicepresidente del Chadema, quando ha tentato di assistere al processo, è stato arrestato.
Nel frattempo, il Chadema è stato bandito da tutte le elezioni fino al 2030 e sospeso da qualsiasi attività politica. Il tutto per non aver firmato il Codice di condotta elettorale. Il partito, infatti, prima di dare il suo assenso sul testo, aveva chiesto la realizzazione di reali riforme elettorali, essenziali per garantire un voto democratico e trasparente. D’altronde, lo slogan di Lissu e del partito è «No reforms, no elections» (nessuna riforma, nessuna elezione).
Solo piccoli sfidanti
Hassan ha poi anche eliminato quel poco che restava dei rivali più pericolosi. In particolare, Luhaga Mpina, leader dell’Alliance for change-wazalendo, che non ha potuto candidarsi a causa di cavilli burocratici. Il suo tentativo di presentarsi comunque agli uffici della Commissione elettorale nazionale indipendente per consegnare i documenti è stato impedito da diversi poliziotti che lo hanno bloccato fuori dall’edificio.
Il 29 ottobre, dunque, Hassan competerà per la presidenza con altri 16 candidati minori. In un Paese dove Human rights watch e Amnesty international (organizzazioni per i diritti umani) denunciano il clima di crescente repressione e le sistematiche violazioni dei diritti umani nei confronti di attivisti, giornalisti e oppositori, il risultato del voto è scontato.
Aurora Guainazzi