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Rwanda. Il regime si fa bello con lo sport

Lo «sportwashing» del Governo di Kagame

Tra il 21 e il 28 settembre, per la prima volta, i mondiali di ciclismo su strada si sono svolti in un Paese africano, il Rwanda. Mentre lo sloveno Tadej Pogačar trionfava nella gara regina, la prova in linea, e l’Italia conquistava medaglie tra under 23 e juniores, il Rwanda ne approfittava per mostrare a tutti il suo volto migliore in diretta.

È innegabile che il regime di Paul Kagame (al potere dal 1994) sia riuscito a sfruttare la portata internazionale dell’evento sportivo per continuare nel suo processo di costruzione e diffusione di un’immagine positiva del Paese. Chiunque abbia seguito le gare – in diretta televisiva o per le strade della capitale -, si è imbattuto in una realtà dinamica, vivace dal punto di vista sociale e culturale, dall’economia in rapida crescita e ricca di bellezze naturali. Insomma, una meta turistica perfetta. E un’eccezione virtuosa in un continente spesso descritto unicamente come luogo di crisi umanitarie, guerre e povertà.

Ombre nascoste

Ma la realtà è ben diversa da quella mostrata in mondovisione: dietro alla facciata di uno Stato che, nei trent’anni successivi al genocidio del 1994, è riuscito a risollevarsi, si nascondono numerose contraddizioni.

L’economia cresce a tassi dell’8% annuo, ma non a beneficio di tutti: oltre il 50% dei rwandesi vive con meno di 2,15 dollari al giorno (soglia di povertà assoluta per le Nazioni Unite). La ricchezza infatti si concentra nelle mani dell’élite politico economica. Le disuguaglianze sono marcate e – nonostante Kagame neghi il persistere di una distinzione tra hutu, tutsi e twa – le fratture etniche continuano a dividere la società.

La repressione dell’opposizione è sistematica, con violazioni dei diritti umani, arresti arbitrari, uccisioni e sparizioni. Nella Repubblica democratica del Congo (Rdc), l’esercito rwandese – senza l’autorizzazione delle autorità di Kinshasa – supporta l’azione militare del Movimento del 23 marzo (M23). Oltre a essere responsabile di saccheggio e contrabbando di ampie quantità di minerali critici, fondamentali per la transizione ecologica mondiale.

Tra sport e politica

Dunque, i mondiali di ciclismo sono stati un’occasione perfetta di sportwashing: sfruttando la vetrina offerta da un evento di portata internazionale, il regime rwandese ha diffuso un’immagine virtuosa del Paese. Che però non è quella reale.

Ma non è una strategia nuova dalle parti di Kigali: lo sport è sempre più uno strumento con cui Kagame cerca di promuovere il Rwanda all’estero, attirando investimenti, innovazione (tant’è che il Paese ormai è leader in Africa nello sviluppo energetico e digitale) e turismo (con numeri che hanno superato i livelli prepandemici).

Già dal 2018, il logo «visit Rwanda» compare sulle maglie dell’Arsenal, grazie a un accordo di sponsorizzazione che, secondo la Bbc, porta nelle casse della squadra inglese circa 13 milioni di euro a stagione. Nel 2019 poi, Kigali ha avviato una partnership simile anche con il Paris Saint-Germain. La squadra francese è di proprietà di Nasser al-Khelaïfi, figura molto vicina al governo qatariota, che, a sua volta, è uno stretto alleato politico del regime ruandese. Oltre che un acquirente molto interessato ai minerali critici saccheggiati e contrabbandati dai militari di Kigali nel Nord Kivu. Mentre, tra il 2023 e il 2025, sono arrivati anche gli accordi di sponsorizzazione con Bayern Monaco (formazione tedesca) e Atletico Madrid (squadra spagnola).

Negli ultimi anni, però, la diplomazia sportiva del Rwanda non si è fermata solo a calcio e ciclismo. La Kigali Arena ha ospitato le prime quattro (e finora uniche) finali della Basketball Africa league. La massima competizione di basket nel continente è nata proprio su forte impulso rwandese e gode del patrocinio di Nba (il campionato nordamericano) e Fiba (la Federazione internazionale di basket).

E poi Kagame sogna di portare presto un Gran premio di Formula 1 in Rwanda. Magari già nel 2026, con un circuito che si snoda tra foreste e colline e promette panorami spettacolari.

La risposta congolese

Fortunatamente, lo sport non è solo uno strumento con cui nascondere i lati oscuri di un Paese. Può essere anche un mezzo potente, attraverso cui portare all’attenzione degli spettatori tematiche politiche, sociali e culturali. È proprio quello che hanno iniziato a fare i calciatori congolesi, quando l’immobilità della comunità internazionale davanti all’avanzata dell’M23 è diventata palese.

Mentre anche il governo di Kinshasa iniziava a promuovere l’immagine del Paese, stipulando accordi di sponsorizzazione con squadre europee, i giocatori della nazionale congolese hanno sfruttato la portata mediatica della Coppa d’Africa 2024. Coprendosi la bocca con una mano e mimando una pistola alla tempia con l’altra, hanno ricordato al mondo intero la guerra silenziosa che si combatte nel loro Paese. Un gesto che poi è stato più volte ripreso da altri calciatori in Europa nei mesi successivi.
Usando lo sport per sensibilizzare, piuttosto che per oscurare.

Aurora Guainazzi

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