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Nusantara, ovvero «arcipelago». Così viene comunemente chiamata l’Indonesia dai suoi abitanti. Si tratta in effetti del più grande Stato-arcipelago del mondo, ufficialmente con le sue 13.466 isole (che nella realtà sono oltre 18mila), delle quali, però, solo circa duemila sono abitate. Un numero in continua evoluzione, a causa di eruzioni vulcaniche, tsunami e altri eventi naturali.
L’Indonesia è anche il quarto Paese più popoloso del mondo, dopo Cina, India e Stati Uniti, con i suoi oltre 280 milioni di abitanti. Circa la metà dei quali risiede sull’isola di Giava, la più moderna e sviluppata, dove si trova l’attuale capitale Giacarta (è in fase di costruzione, pianificata a tavolino, la nuova capitale, nel Borneo orientale, che si chiamerà proprio Nusantara).
L’Indonesia ospita anche la più grande comunità islamica del mondo, in quanto si stima che l’87,1% dei suoi abitanti siano musulmani (secondo i dati ministero dell’Interno indonesiano, seguono i protestanti, 7,4%, i cattolici, 3%, gli induisti, 1,67% e i buddhisti, 0,7%).
È anche la maggiore economia del Sud Est asiatico, con un prodotto interno lordo di 1.400 miliardi di dollari nel 2024 (l’Italia, ottava economia del mondo è a 2.370), con un tasso di crescita annuale del 5% (tutti dati Banca mondiale).
Un’altra particolarità del Paese è quella di occupare una grande estensione territoriale, circa cinquemila chilometri da Ovest a Est, coprendo ben tre fusi orari.
La sua popolazione è molto varia: si contano quasi trecento gruppi etnici e si parlano settecento lingue. L’idioma ufficiale, conosciuto da tutti, è il bahasa indonesia, lingua derivata dal malese con influssi da arabo, olandese, portoghese e inglese. Verifichiamo personalmente che l’inglese, magari di base, come lingua straniera, è piuttosto diffuso, soprattutto tra i giovani e pure tra i bambini.
Un Paese che ha tutte le carte in regola per essere considerato importante a livello mondiale, ma che, invece, è trascurato sia nella saggistica che nei media internazionali.
Anche la storia dell’Indonesia è originale e ha molto da insegnare. Dopo aver subito 350 anni di dominazione olandese (1600-1942) e tre e mezzo di efferata occupazione giapponese durante la Seconda guerra mondiale, i nazionalisti indonesiani sono stati i primi a proclamare l’indipendenza di uno stato coloniale. È avvenuto il 17 agosto 1945, neanche due giorni dopo la capitolazione del Giappone con il discorso dell’imperatore Hiro Hito. Il Vietnam di Ho Chi Minh lo fece il 2 settembre.
Il movimento per l’indipendenza era guidato da Sukarno (o Soekarno) e Mohammed Hatta. Ma gli olandesi non volevano lasciare la ricca colonia e così iniziò la guerra di liberazione, che vide coinvolta anche la Gran Bretagna a fianco dei cugini europei. Questa fase storica passa sotto il nome (in bahasa indonesia) di «Revolusi». Si concluse nel 1949 con un a accordo di confederazione Paesi Bassi-Indonesia, poi sciolta unilateralmente dagli asiatici nel 1956. Fu una rivoluzione compiuta da una generazione giovanissima, di ragazzi tra i 15 e i 25 anni. Sukarno diventò il primo presidente della Repubblica d’Indonesia.
Si trattò del primo grande Paese colonizzato a diventare indipendente, fornendo ispirazione, secondo alcuni storici, ai movimenti anticolonialisti in Asia, Africa e mondo arabo. Un esempio però, molto spesso dimenticato.
Pochi anni dopo, nel 1955, a Bandung, sull’isola di Giava, si tenne la storica conferenza dei Paesi non allineati, dove si riunirono per la prima volta i leader dei neonati stati del «Terzo mondo», ovvero Asia e Africa, senza i Paesi occidentali (colonialisti). «Una pietra miliare nella nascita del mondo moderno», scrive David van Reybrouk, nel suo saggio Revolusi.

La geopolitica della regione in quei decenni vedeva gli Stati Uniti impegnati nel contenimento del pericolo comunista. E Sukarno era troppo a sinistra. Il generale Suharto prese il potere nel 1965 (ufficialmente solo nel 1967), con la scusa di sventare un presunto colpo di stato comunista. Ci sono sospetti dell’implicazione della Cia. Suharto iniziò a gestire il Paese seguendo il cosiddetto «Nuovo ordine». Un regime dittatoriale, non rispettoso dei diritti civili, nel quale membri della sua famiglia si insediarono in posti chiave, approfittando, tra l’altro, della scoperta di nuovi giacimenti petroliferi. Appoggiato dagli Usa e con l’esercito dalla sua parte, nei primi anni fece uccidere tra 700mila e un milione di membri e simpatizzanti del Partito comunista indonesiano (il secondo in Asia dopo quello cinese). Il suo regime militare fu la presidenza più longeva, superando tre decenni.
La crisi economica asiatica del 1997 peggiorò notevolmente la vita della popolazione e accese le braci della rivolta. Nel maggio del 1998 gli studenti universitari manifestarono chiedendo le dimissioni del dittatore. I suoi pretoriani reagirono massacrando molti manifestanti, e avviando una campagna contro la comunità di origine cinese, i cui membri vennero uccisi e le donne stuprate. Suharto, tuttavia, fu costretto a dimettersi sotto la pressione popolare il 21 maggio 1998. La presidenza fu assicurata da Bacharuddin Jusuf Habibie che ebbe il merito di impostare la riforma dell’apparato legislativo in senso democratico, liberò i prigionieri politici e garantì libertà e diritti. Preparò, inoltre, le prime elezioni democratiche dal 1955.
Questo processo fondamentale della storia dell’Indonesia, che ebbe inizio con la caduta di Suharto e durò a lungo, è chiamato la «Reformasi» (riforma). Avrebbe portato la Repubblica d’Indonesia a essere uno stato moderno, democratico e con una notevole crescita economica.
La Reformasi ha molto in comune con la Revolusi del 1945. Scrive Nasir Tamara, esperto internazionale di sviluppo: «Il maggiore principio condiviso tra la rivoluzione del 1945 e la Reformasi del 1998 è stato eliminare i privilegi (di una elite, ndr), chiamati dal popolo corruzione, collusione e nepotismo. E riaffermare l’importanza dei diritti umani e della equa distribuzione dei frutti dello sviluppo economico tra la popolazione». Secondo Nasrin: «C’è una forte continuità tra la rivoluzione del 1945 e la Reformasi del 1998, nella ricerca di rafforzare l’unità nazionale, non solo fisicamente, ma anche nei cuori e nelle menti della gente».
L’impostazione che il presidente Habibie diede alla Reformasi seguì due binari paralleli. Quello del decentramento nel rispetto delle molte culture, tradizioni, lingue, etnie e religioni, che fu garantito dalla Costituzione e dal nuovo apparato legislativo. E quello del rafforzamento dell’identità nazionale, grazie alla condivisione della storia comune, alla valorizzazione e all’unione delle diverse ricchezze locali (quali letteratura, architettura, arte), che in qualche modo costruivano la nazione. In questa maniera si evitò la deriva centralista, e anche la tendenza centrifuga mostrata nel passato da alcune regioni dell’arcipelago. Con il decentramento, l’autorità sui temi politici, economici e culturali passò ai territori, ponendo fine all’egemonia di Giacarta.
L’Indonesia di oggi ha raggiunto un buon livello di democrazia e il suo penultimo presidente, Joko Widodo (2016-2024), ha lavorato per fare diventare il Paese una potenza economica mondiale, con un obiettivo strategico fissato al 2045. Il suo successore, Prabowo Subianto (ex comandante delle Kopassus, le famigerate forze speciali di Suharto), sembra incamminato sulla stessa strada.
La sua posizione geostrategica mette in relazione Oceano Pacifico, Oceano Indiano, Australia e il sempre più conteso Mar cinese meridionale (dove c’è anche Taiwan). Ma questa potenzialità si può rivelare un’arma a doppio taglio, soprattutto nel caso si verificassero conflitti nei quali Nusantara potrebbe essere coinvolta. L’arcipelago cerca tradizionalmente di restare non allineato nei confronti delle due superpotenze Cina e Stati Uniti. Pechino, tuttavia, ha assunto un’importanza strategica sia per investimenti e aiuti allo sviluppo, sia per gli scambi commerciali. Mentre con Washington il partenariato privilegiato è nel campo militare e della difesa.
Il Paese dei primati sarà chiamato a mantenere la barra dritta per lo sviluppo e quindi per migliorare le condizioni di vita della sua popolazione, dando prova di grande equilibrismo e sperando in un mare non troppo avverso.
Marco Bello

Il Sulawesi, anche chiamato Celebes, dal nome dei primi esploratori portoghesi, è la quarta isola più grande dell’Indonesia (dopo Sumatra, Borneo e Papua) e fa parte delle grandi isole della Sonda. È prevalentemente montagnosa con diversi vulcani e circondata da isole più piccole. Ha una superficie di 174mila km2, poco più della metà dell’Italia. Ha una forma molto particolare, che i suoi abitanti chiamano comunemente a «K», mentre i geografi la descrivono come composta da quattro penisole attaccate da un lato.
È situata a cavallo dell’Equatore, tra i Borneo, a Ovest e le Molucche a Est, una posizione strategica per il collegamento Est-Ovest, tra Oceano Indiano e Oceano Pacifico, e Sud-Nord, tra Australia e Mar cinese meridionale. Posizione che la popolazione ha saputo sfruttare nella storia.
Gli abitanti sono circa 21 milioni, suddivisi in una quindicina di etnie, con lingue che variano a seconda della zona e pure da un’isoletta all’altra.
Il naturalista e antropologo inglese Alfred Russel Wallance, durante un viaggio nell’area, soggiornò in Sulawesi nel 1854. Wallace formulò la teoria dell’evoluzione delle specie in contemporanea con il più noto Charles Darwin, con il quale ci fu convergenza di idee. In base alle sue osservazioni identificò una linea di discontinuità biologica Nord-Sud tra Borneo e Sulawesi che divide la fauna dell’area indo-malese (lato Ovest) da quella dell’area australiana (lato Est). Zone geologiche differenti che videro un’evoluzione indipendente delle specie. Tale linea è nota come «Linea di Wallace».
In questo dossier, dopo una breve introduzione sull’Indonesia, vogliamo portarvi sull’isola a forma di K per presentarvi la sua gente accogliente e curiosa, ma mai invadente. Ti incontra per strada e ti chiede da dove vieni, e vuole fare una foto con te. Ti racconta la sua storia. Poi ti ringrazia unendo le mani e chinando lievemente il capo. Gente profondamente religiosa e molto ospitale.
Un viaggio con il quale attraverseremo il Sulawesi da Sud a Nord nel tentativo di capirne differenze e originalità.
Ma.B.

Dal XIII al XV secolo. Islamizzazione dell’arcipelago. Gli arabi iniziano il commercio delle spezie con l’Europa.
XIV secolo. Apogeo del regno Majaphait, che si estende da Giava alla Nuova Guinea.
1511. I portoghesi giungono a Malacca e dieci anni dopo gli spagnoli nelle Molucche. Con loro arrivano i primi missionari cattolici portoghesi. Francesco Saverio è in quest’area intorno al 1546.
1595. Inizia la penetrazione olandese per il commercio delle spezie.
1602. Nasce la Compagnia olandese delle indie orientali (Voc), da interessi commerciali privati. I Paesi Bassi le conferiscono anche un mandato coloniale, oltre che il monopolio sulle spezie.
1605. La Voc conquista il forte portoghese di Ambon (Molucche): inizia la colonizzazione. Nello stesso periodo gli olandesi proibiscono l’arrivo di missionari cattolici, e portano il calvinismo. L’interdizione durerà fino al 1807.
Anni 30 del Novecento. Gli intellettuali nazionalisti indonesiani iniziano a organizzarsi e reclamano autonomia, democrazia e unità nazionale.
1942. La Germania nazista invade i Paesi Bassi. Il Giappone inizia l’occupazione dell’Indonesia, dove si distingue per l’efferatezza.
1945, 15 agosto. Il Giappone è sconfitto nella Seconda guerra mondiale, l’imperatore Hiro Hito dichiara la capitolazione. Il 17 agosto i nazionalisti indonesiani, guidati da Sukarno e Mohammed Hatta dichiarano l’indipendenza. I due leader diventano presidente e vice presidente rispettivamente. Ma i Paesi Bassi non sono d’accordo. Inizia la guerra d’indipendenza, chiamata «Revolusi».
1949. Termina la Revolusi con la creazione di una confederazione tra l’Indonesia indipendente e i Paesi Bassi. Tale struttura non funziona e nel 1956 si giunge all’indipendenza totale. Il presidente deve confrontarsi con le spinte autonomiste delle diverse isole.
1955, 18-24 maggio. Conferenza di Bandung tra paesi non allineati di Asia e Africa.
1965. Appoggiato dal partito comunista indonesiano, Sukarno dichiara la nazionalizzazione del petrolio. Il il 30 settembre un colpo di stato militare trasferisce di fatto i poteri al generale Suharto (appoggiato dagli Usa). Inizia il cosiddetto «Nuovo ordine», un regime centralizzato e repressivo. Tra 700mila e un milione di comunisti e simpatizzanti sono imprigionati o uccisi e il partito reso illegale.
1975. L’esercito indonesiano occupa Timor Est, che si era appena resa indipendente dal Portogallo. La popolazione resiste. Diventerà indipendente nel 2002 dopo il referendum del 1999.
1979. Suharto vara il progetto di migrazione forzata, e 2,5 milioni di giavanesi sono costretti a spostarsi su altre isole meno popolate.
1998, maggio. A causa della crisi economica del ‘97 la popolazione è allo stremo. Disordini a Giacarta, con uccisione di diversi studenti e persecuzione delle persone di origine cinese. In seguito alle proteste di massa Suharto si dimette. Bacharuddin Jusuf Habibie diventa presidente e avvia una serie di riforme. Inizia la «Reformasi» basata su democrazia, rispetto dei diritti e decentramento del governo.
1999. Dopo le prime elezioni democratiche, diventa presidente Abdurrachman Wahid, con vice Megawati Soekarnoputri, figlia di Sukarno che diventerà la prima donna presidente nel 2001, dopo l’impeachment di Wahid.
Ma.B.

Makassar. L’antica capitale del Sulawesi del Sud, oggi capoluogo dell’omonima provincia, è un importante porto. Chiamata Ujung Pandang durante la dittatura di Suharto (vedi cronologia), fino dal XVI secolo fu snodo commerciale fondamentale tra le «isole delle spezie» (le Molucche a Ovest) e lo stretto di Malacca a Est, ma anche tra Sud (Australia) e Nord (Filippine), lungo lo stretto di Makassar. Indipendente e aperta agli scambi fino al 1669, quando la potente Compagnia olandese delle Indie orientali (Voc, in sigla in olandese) riuscì a conquistarla e a imporre un proprio sultano fantoccio. In questo modo, gli olandesi mandarono via inglesi e portoghesi e si assicurarono il monopolio del commercio delle spezie da quest’area all’Europa.
Oggi Makassar è una città di 1,5 milioni di abitanti, caotica e rumorosa, le cui strade sono percorse senza sosta da auto e innumerevoli motorini spesso smarmittati. I marciapiedi sono sconnessi, e in essi si aprono voragini, potenziali trappole per un passante incauto. Gli attraversamenti pedonali non esistono e occorre imparare una tecnica speciale per attraversare vie e corsi. Insomma, non proprio una città a misura di pedone.
Sulla costa, nei pressi del porto, il forte Rotterdam (e il suo museo), con le sue mura e i bastioni costruiti su una pianta a forma di tartaruga, ricorda le vestigia del passato coloniale olandese.
Più a Sud, sul corso Jalal Metro Bunga, nel quartiere ricco delle ville e dei mall (centri commerciali), ci stupisce il Trans snow world, un moderno palazzo all’interno del quale è ricreata artificialmente la neve e le ambientazioni alpine, con tanto di seggiovia. Qui i giovani makassaresi, provano l’ebbrezza di toccare la neve (artificiale) e passeggiarci sopra con stivali di gomma forniti al pagamento del biglietto. Sperimentano l’esperienza del freddo, ai tropici.
Makassar è anche fitta di moschee di ogni forma e dimensione. Spicca fra tutte la Masjid Kubah 99 Asmaul Husna: con le sue 99 cupole bianche e arancioni svetta su una lingua di terra che penetra il mare. I muezzin scandiscono il tempo di giorno come di notte. La maggior parte delle donne e delle ragazze, ma anche bambine, sono velate.

Ci dirigiamo in centro, alla cattedrale intitolata al Sacro Cuore di Gesù. L’edificio originario fu ultimato nel 1900, ma subì in seguito diverse modifiche e allargamenti. Anche oggi ci sono lavori in corso. Qui troviamo gli uffici della curia.
Incontriamo don (pastor, in bahasa indonesia) I Made Markus Suma (abbreviato Made), che ci accoglie con un largo sorriso. Classe 1981, sacerdote diocesano, è incaricato dell’arcidiocesi di Makassar per le questioni legali, nonché docente di diritto canonico alla scuola per insegnanti di religione, lo Stikpar di Rantepao. È stato segretario dell’arcidiocesi ed è membro del Consiglio pastorale diocesano.
«Il nostro bellissimo Paese è a maggioranza islamica, ma noi viviamo bene insieme – ci dice pastor Made -. Questa nazione è una famiglia costruita sulla diversità». Il motto dell’Indonesia è infatti «Bhinneka tunggal ika», ovvero «Unità nella diversità». «Ad esempio, i miei nonni erano indù, originari dell’isola di Bali – continua Made -. Si trasferirono nel Sud Ovest del Sulawesi, in un piccolo villaggio, dove sono nato io. Vi si trova una piccola comunità di cattolici, che allora contava una ventina di famiglie, è oggi circa ottanta. Per venire a Makassar occorre un giorno di viaggio via terra e poi una decina di ore su un ferry (traghetto), e ancora ore di autobus».
L’arcidiocesi di Makassar è molto vasta. Il suo territorio è quello di tre provincie amministrative, oltre a Sud Sulawesi, Sud Ovest e Ovest, per un totale di 98mila km². Superficie pari al Nord Italia senza l’Emilia Romagna, ma con strade molto più strette, e spesso dissestate, con l’effetto di aumentare i tempi di percorrenza.
Su una popolazione di circa 13,5 milioni di abitanti (stima del 2023) i cattolici sono poco più di 140mila. Si parla, dunque, del 1-1,1%. I cristiani di altre denominazioni (calvinisti, luterani, pentecostali e altri), sono tra il 7,4 e l’8% in totale. I musulmani sono l’89,5%, mentre ci sono piccole comunità di induisti (1,5%) e buddhisti (0,6%). «Data la vastità del territorio – continua pastor Made – l’arcidiocesi è divisa in cinque vicariati, ognuno con un vicario episcopale a capo. In tutto ci sono 49 parrocchie e sette altre lo diventeranno presto. Ogni parrocchia ha, sul suo territorio, tra le 20 e le 30 cappelle».
In Indonesia, e in Sulawesi in particolare, la Chiesa cattolica è una presenza di minoranza. Pastor Made ci parla dei rapporti con le altre religioni: «Viviamo qui insieme come fratelli e sorelle delle diverse comunità religiose. Abbiamo buone relazioni. Durante l’ultimo Ramadan abbiamo ospitato la festa conclusiva qui in curia. Abbiamo invitato non solo i musulmani, ma anche i protestanti e gli indù. Uno degli imam ha fatto una bellissima riflessione, basata sull’insegnamento dell’islam, ma anche in relazione con la nostra fede. Ha detto che siamo tutti fratelli e sorelle e creati da Dio a sua immagine. Nessuno tra di noi è straniero. Solamente il modo di esprimere la nostra religione è diverso, ma abbiamo la stessa radice, la stessa dignità come esseri umani».
Il sacerdote non nasconde che, talvolta, ci sono elementi integralisti. Il 28 marzo 2021, durante la celebrazione della Domenica delle Palme, due terroristi fecero esplodere una bomba proprio davanti al portone della cattedrale di Makassar. Morirono i due attentatori, mentre una ventina di fedeli furono feriti. «Dopo l’attentato diversi giovani, di varie religioni, compresi musulmani, vennero a darci supporto. “Non abbiate paura, siamo qui”, ci dicevano», ricorda pastor Made, mentre ci mostra una delle porte sante della diocesi.

Intraprendiamo il viaggio che ci porterà nella regione dell’etnia Toraja (pronuncia toragia), sulle montagne del Nord della provincia Sud Sulawesi. Occorrono circa dieci ore di autobus. La strada è stretta e impervia, pur essendo la più importante arteria della zona. Inoltre, a causa delle piogge anomale, alcune frane hanno ulteriormente ridotto la carreggiate e in due punti si viaggia a senso unico alternato. Ci sono circa 300 km da Makassar a Makale, il capoluogo di Tana Toraja (Sud della regione) e poco di più per Rantepao, il capoluogo di Toraja Utara (Nord), il cuore delle montagne.
L’etnia Toraja è molto particolare, ha un culto speciale per i defunti, con cerimonie di sepoltura che durano anche una settimana e possono essere realizzate mesi, talvolta anni, dopo il decesso. Tale intervallo dipende dal tempo impiegato per raccogliere i soldi necessari a invitare quante più persone possibile. Anche le tombe sono speciali, scavate nella roccia carsica di questa zona, con statue (almeno per i più ricchi), chiamate «tau tau», che rappresentano i defunti a dimensione naturale. Un culto che vuole collegare, in qualche modo, chi è partito con chi è rimasto (cfr. bibliografia).
I Toraja hanno anche la particolarità di essere a maggioranza cristiana. Il 72% dei cattolici dell’arcidiocesi è Toraja. Scopriremo che molti sacerdoti della diocesi sono originari di questa regione.
A Rantepao, come a Makale, constatiamo che incontrare una donna con il velo è diventato una rarità, mentre vediamo chiese, anche molto imponenti, un po’ ovunque. Molte di esse sono protestanti, in quanto la loro presenza qui resta maggioritaria (rispetto a quella cattolica). Sembra di trovarsi in un altro Paese, rispetto a Makassar. Le montagne, coperte di vegetazione tropicale, al mattino avvolte da nebbiolina, circondano i due maggiori centri abitati dei Toraja.
Pastor Made ci aveva spiegato: «I protestanti olandesi riuscirono a convertire i Toraja, più di 100 anni fa. Erano comunità isolate, perché in una regione montagnosa, e per questo motivo l’islam era penetrato poco.
In seguito, la popolazione di questo territorio accettò il cattolicesimo come parte della propria vita e della propria cultura. I missionari cattolici furono in grado di inculturare la fede rispettando le loro tradizioni, ad esempio le complesse cerimonie funebri. La fede cattolica si immerse negli usi e costumi, e anche i più anziani ne furono attratti. Sovente, anche quando i Toraja continuano a vivere con le loro pratiche animiste, abbracciano la fede cattolica».
A Rantepao incontriamo l’arcivescovo, monsignor Fransiskus Nipa (vedi box), impegnato nella visita pastorale della regione. Anche lui è un Toraja.
Ci invita a seguirlo nella comunità di Deri, sulle montagne a una mezz’ora da Rantepao. Qui deve cresimare 173 ragazze e ragazzi provenienti da una vasta area della parrocchia. Su un piazzale sono stati allestiti dei tendoni per proteggere i fedeli dal forte sole (anche se qui il clima è più mite che a Makassar), mentre l’altare è posto su un palco.
Tra i colori degli stendardi domina il giallo, simbolo di gioia, insieme a rosso e bianco, i colori nazionali. Al contrario, non è mai usato nelle lunghe cerimonie funebri, dove predomina il nero.
I cresimandi sono disposti su due lunghe file e hanno una candela in mano. Al via, vanno a disporsi ai loro posti. In tutto ci sono circa altre trecento persone, parenti e parrocchiani. Monsignor Nipa è affabile e sa intrattenere i suoi fedeli.
Conclusa la cerimonia delle cresime, e subito dopo le comunioni, il vescovo resta in piedi. Davanti a lui si presenta una lunga fila di bambini di ogni età. Monsignor Nipa li benedice uno a uno, dai più grandicelli, dallo sguardo monello, ai nuovi nati, portati da uno dei genitori. La benedizione dura diversi minuti, il vescovo pare instancabile. «È la chiesa dei giovani», ci dirà più tardi soddisfatto. «Per noi la pastorale giovanile è una priorità», e «qui in Indonesia, c’è ancora una grande partecipazione dei giovani nella vita delle parrocchie».
Marco Bello

Monsignor Fransiskus Nipa, classe 1964, è stato nominato arcivescovo di Makassar nel febbraio dello scorso anno, per diventarlo effettivamente a ottobre. In precedenza, è stato per dodici anni segretario dell’arcidiocesi, per cui ne conosce bene aspetti positivi e problematiche.
Lo incontriamo durante la sua visita pastorale nel Toraja, zona montagnosa nel Nord della provincia Sud Sulawesi. Ci accoglie e ci invita a seguirlo a una messa con le cresime. Cordiale e comunicativo, sfodera sovente una risata contagiosa. È affezionato all’Italia, dove ha trascorso alcuni anni studiando all’Università Urbaniana: «Per me, gli italiani sono come fratelli».
«Lavorare come chiesa di minoranza vuole dire avere l’obbligo di dare testimonianza. Siamo piccoli ma la nostra presenza è importante. Il valore di quello che facciamo noi cattolici deve essere grande. Per questo abbiamo scuole, ospedali, opere di carità, opere sociali anche in campo economico. Dobbiamo, inoltre, fare tutto ciò che possiamo per aiutare i cattolici del nostro territorio. Alcuni sono molti poveri, in particolare nelle campagne. Interveniamo sia in emergenza, quando ci sono disastri naturali, sia sul lungo termine, aiutando le persone a trovare un lavoro».
«C’è dialogo concreto con musulmani, protestanti e anche induisti. Facciamo incontri nei quali parliamo, ci ascoltiamo, cerchiamo di risolvere i problemi che ci possono essere. Tra leader c’è molto rispetto. A volte c’è qualche fanatismo a livello di singoli. È già successo che vogliamo erigere una chiesa, abbiamo il permesso delle autorità, ma quando i lavori devono cominciare, qualcuno cerca di impedirlo. Tuttavia, sono questioni che si risolvono».
«Sì. Ad esempio, per venire nel Toraja occorre un giorno di auto. Invece se vado nel Sud Est devo prendere l’aereo per Kendari e poi ho ancora un giorno di viaggio perché molte parrocchie sono lontane. Cerchiamo, in ogni caso, di fare una visita ogni due anni a tutte le realtà parrocchiali».
«Le relazioni culturali sono molto importanti. La chiesa cattolica è inculturazione, non solo in senso liturgico, ma anche nelle abitudini di tutti i giorni. Inoltre, oggi, nell’era digitale ci sono altre problematiche. Un giovane ha sempre in mano il cellulare e trascura il Vangelo. Ha problemi di relazione personale: non si trova più il tempo di stare insieme, parlare, ascoltarsi. Anche di questo dobbiamo tenere conto».
«Una delle nostre priorità è la pastorale giovanile, unita a quella per la famiglia. I giovani di questa zona sono tentati di migrare verso altre isole o altri Paesi, come la Malaysia, dove si guadagna di più. Un percorso praticato è quello di andare in Borneo, nella parte indonesiana, il Kalimantan, e da qui passare alle provincie Sabah e Sarawak della Malaysia, dove si lavora nelle piantagioni di palma da olio. Io ho detto che occorre formarsi prima, studiare, per avere più strumenti. Cerchiamo di contrastare la mentalità del guadagno facile e immediato. Senza contare che molti migranti non hanno il permesso, e sono poi soggetti a espulsione. Quando partono giovani padri, dividono le famiglie, talvolta per sempre».
Monsignor Nipa, come descriverebbe i cattolici della sua diocesi?
«Sono molto gioiosi, vengono in chiesa e partecipano con entusiasmo alle attività parrocchiali».
Ma.B.

Nato nel Minahasa, Nord del Sulawesi, da una famiglia cattolica con 12 figli nel 1957, monsignor Benedictus Estephanus Rolly Untu è vescovo di Manado dal 2017. È missionario del Sacro Cuore di Gesù, congregazione con origini francesi, di cui è stato anche vice provinciale e poi provinciale per l’Indonesia.
Lo incontriamo nel suo ufficio nella curia di Manado. È di corsa tra una visita pastorale e l’altra. Il volto ampio e simpatico, ci parla in un inglese semplice, e ci indica su una carta del Sulawesi appesa al muro le zone che descrive.
«La grande sfida della mia diocesi, ci rivela, è la vastità, oltre che la distribuzione delle comunità sul territorio». La sua diocesi (una delle due del Sulawesi) copre tre provincie per un totale di circa 88mila km², e circa 7 milioni di abitanti. «Ad esempio, nel Sulawesi centrale, ci sono 180 comunità per 16 parrocchie. E sono in crescita. Poi abbiamo alcune parrocchie sulle isole. Per andare alle isole Pulau Pelang, devo prendere l’aereo per Luwak, che passa però da Makassar, poi la nave e finalmente arrivo. Se vado in auto devo percorrere 1.700 km».
Per questo motivo, è in corso il processo per la creazione di una terza diocesi in Sulawesi, nella parte centrale.
I battezzati nella diocesi di Manado sono circa 200mila, ovvero intorno al 2,5% della popolazione. Chiediamo a monsignor Rolly che significato abbia essere una minoranza. «Adesso il governo e le istituzioni in generale conoscono bene la Chiesa cattolica, come anche la gente in generale. Siamo accolti, abbiamo buone relazioni con tutti. Con i musulmani non c’è nessun problema, soprattutto a livello della base. Talvolta i problemi possono sorgere per motivi politici. Così successe venticinque anni fa, quando ci fu un conflitto tra musulmani e cristiani, soprattutto nella località di Poso, nel centro. La scorsa settimana sono stato in quella zona per le cresime. Un gruppo di musulmani ha detto ai nostri: “Non vi preoccupate dell’organizzazione della festa. Andate in chiesa alla celebrazione, noi pensiamo a cucinare e a tutto il resto per voi”. Ho constatato fraternità tra le due comunità».
Ci sono poi oltre cento denominazioni di chiese protestanti. «Talvolta con i protestanti ci sono degli attriti. Qualcuno ci rinfaccia le persecuzioni avvenute in Europa nei secoli passati. Oppure ci sono certe gelosie per le nostre scuole. Ma in generale le relazioni sono molto buone».
Parlando di questioni economiche, continua: «A livello di disuguaglianze sociali, posso dire che non sono elevate tra la nostra gente. Tutti conducono una vita semplice, hanno cibo ogni giorno, hanno un lavoro, alcuni possiedono la terra, altri pescano sulle isole. Il welfare sociale è più o meno equivalente». Monsignor Rolly ci dice che lo stipendio minimo giornaliero è di 100mila rupie indonesiane al giorno, ovvero circa 5 euro.
È molto contento del coinvolgimento dei laici nella vita della Chiesa. «Abbiamo tanti gruppi che fanno attività nella nostra base. Il gruppo delle donne, quello degli uomini. Il gruppo dei genitori con figli, e ben tre gruppi di giovani, a seconda dell’età».
Anche a livello vocazionale la risposta è molto buona: «Abbiamo molti seminaristi, e anche le congregazioni religiose hanno molti candidati. Attualmente nella diocesi operano 94 preti diocesani e 57 religiosi».
L’economia della diocesi è basata principalmente sulle donazioni dei fedeli, «riceviamo anche qualche sussidio da Roma per i seminari, ma copre meno del 10% del nostro bilancio complessivo». Questione a parte sono le congregazioni missionarie, che hanno i propri budget per mandare avanti scuole, ospedali e altre attività.
Ma.B.

Lasciamo la tranquilla Rantepao, capoluogo della regione Toraja, e percorriamo una strada tutta curve lungo una montagna coperta da foresta pluviale. In questa zona, insieme a banani e alberi tropicali sui quali si arrampicano innumerevoli altre piante, sono presenti, in apparente contrasto, anche conifere. Per diversi chilometri non vediamo più coltivazioni e neppure case, ma solo una fitta foresta lussureggiante. Nella zona di Rantepao, invece, le risaie, anche distribuite su terrazzamenti, erano la coltura dominante. La regione produce pure il rinomato caffè Toraja, in gran parte esportato.
Scesi dalla zona montagnosa, e arrivati a Palopo, ricominciano le risaie, con gli onnipresenti banani, e in seguito iniziano le vaste piantagioni di palme da olio. Sulla strada si incrociano grossi camion carichi dei loro frutti. Andando verso Nord, attraversiamo un’altra zona montuosa dove è predominante la piantagione di cacao, altro prodotto di esportazione. Molte case hanno in cortile semplici aree di essiccazione delle preziose fave. Le casette sono belle e ben tenute. Sulle pendenze molto pronunciate, invece, viene coltivato il mais per il consumo locale.
Scorgiamo un grande specchio d’acqua che pare un mare. È il lago Poso, famoso per le anguille giganti. Siamo appena passati dalla provincia del Sud Sulawesi a quella del centro (Sulawesi centrale), ma pure dall’arcidiocesi di Makassar alla diocesi di Manado, le due uniche circoscrizioni ecclesiastiche cattoliche dell’isola. Arriviamo alla città di Tentena, sulle sponde del lago, dove nasce il fiume Poso.

Procedendo, la strada si inerpica su un altro gruppo montuoso. La maggior parte del Sulawesi è infatti costituito da montagne, alcune delle quali scendono a picco sul mare. Sono sempre ricoperte da una vegetazione rigogliosa, che è stata preservata. Continuando verso Nord, le piantagioni di cacao e mais lasciano lo spazio alle alte e snelle palme da cocco. Siamo arrivati sulla costa del grande Golfo di Tomini, che si insinua tra le province Nord Sulawesi e Gorontalo e la provincia Sulawesi centrale. Da qui in avanti l’agricoltura ruota intorno alla coltivazione di questa noce di cocco. Vediamo aree di essiccazione gusci spaccati da usare come combustibile per cucinare, camion che li trasportano.
Tra la popolazione, notiamo nuovamente molte donne e ragazze con il velo islamico e una numerosa presenza di moschee.
Arriviamo ad Anpana, piccola e polverosa città costiera che si sviluppa su una strada principale fitta di esercizi commerciali. È il maggiore centro urbano della zona e ha connotazioni molto islamiche.
Anpana è il porto obbligatorio per prendere il traghetto per Wakai, il maggiore villaggio dell’arcipelago delle Togian. Sono un gruppo di isole montuose, ricoperte di foresta pluviale e circondate dalla barriera corallina, situate a un soffio dall’Equatore.
Da Wakai, con un grosso ferry, il cui viaggio dura oltre dieci ore, si arriva a Gorontalo, città capoluogo dell’omonima provincia. Siamo, a questo punto, sulla penisola a Nord del Sulawesi.
«La diocesi di Manado è molto vasta, include tre province: il Nord Sulawesi, Gorontalo e il Centro. Da un punto all’altro della diocesi, per la sua conformazione, ci sono oltre 1.700 chilometri di strada, piuttosto stretta, spesso sconnessa». Chi ci parla è pastor (don) Polce Pitoy, missonario del Sacro Cuore di Gesù, attuale segretario della diocesi di Manado. «Da due anni stiamo lavorando per erigere una nuova diocesi nel Sulawasi centrale, con sede a Palu. In realtà, la maggior parte dei cattolici sono qui nella punta estrema a Nord della penisola. Nel centro ci sono solo sedici parrocchie, con comunità molto lontane tra loro. Stiamo preparando la documentazione e il nunzio apostolico conosce la situazione».
Pastor Polce ci riceve nella sede della curia di Manado, capoluogo della provincia del Nord e seconda città del Sulawesi, dopo Makassar. Da Gorontalo si raggiunge con dieci ore di strada dissestata, sulla quale i sobbalzi sono la norma.
Il sacerdote è originario di Tomohon, a una trentina di chilometri da Manado. È nato nel 1959, e la sua missione è stata quasi sempre quella del formatore. Ha passato anche sei anni a Roma come consigliere generale, ed è tornato in Sulawesi un anno fa. Ha chiesto al vescovo di ricoprire anche un incarico di pastorale e così è diventato viceparroco della cattedrale di Manado. Visitiamo i locali parrocchiali e incontriamo diversi giovani molto attivi, riuniti in una formazione tra pari. Sono felici di accoglierci.
La provincia del Nord Sulawesi è caratterizzata dalla presenza dell’etnia maggioritaria Minahasa, per cui il suo territorio è chiamato con lo stesso nome. Questo gruppo guidò anche una rivolta contro il governo centrale tra il 1958 e il 1961, chiedendo maggiore autonomia. Manado fu bombardata e poi invasa dalle truppe dell’esercito.
I Minahasa sono in gran parte cristiani, in maggioranza protestanti. Anche qui, come nel resto dell’isola, i primi ad arrivare furono i cattolici con i portoghesi (1563), seguiti poi dagli spagnoli giunti dalle vicine Filippine. Gli olandesi della Compagnia delle Indie orientali occuparono
l’intero arcipelago indonesiano all’inizio del Seicento, cacciarono portoghesi e spagnoli (1605) e portarono il calvinismo, impedendo l’insediamento di missionari cattolici per due secoli. Questa proibizione si spiega come ricaduta sulle colonie delle persecuzioni religiose in Europa. Fu quando Napoleone conquistò i Paesi Bassi, e nominò suo fratello re, che i cattolici poterono tornare. Nel 1807 due preti diocesani olandesi arrivarono nell’area. In seguito, il Vaticano mandò i Gesuiti che furono seguiti da altre congregazioni. In questo periodo (1820), l’isola fu assegnata come territorio di missione ai Missionari del Sacro Cuore di Gesù.

«Qui la cultura minahasa è molto forte. A livello cristiano è maggioritaria la Chiesa Gereja masehi injili Minahasa (Gmim, Chiesa cristiana evangelica in Minahasa, ndr). È una Chiesa locale di ispirazione calvinista, fondata nel 1934 dagli olandesi», continua padre Polce. Si parla di circa 850mila fedeli e oltre 800 parrocchie, nel Nord Sulawesi. I cattolici, in tutta la diocesi di Manado sono circa 200mila, ovvero circa 2,5% dei 7 milioni di abitanti. «Ci sono poi avventisti, pentecostali, e diverse altre denominazioni minoritarie».
«Le relazioni con i musulmani, e anche con gli altri cristiani, sono molto buone. Manado è conosciuta per la tolleranza dei fedeli delle varie religioni. C’è qualche fanatico, ma isolato.
Con i cristiani di altre denominazioni c’è collaborazione. Ad esempio alcuni di loro, che fanno un percorso da leader, partecipano ad alcuni nostri programmi di formazione, oppure frequentano l’università insieme ai cattolici. In questo modo, quando saranno responsabili religiosi, si porteranno dietro anche la conoscenza personale degli altri. È la garanzia per una migliore comunicazione».
Pastor Polce ci parla dell’importanza della Chiesa cattolica nell’istruzione e nella sanità: «Per quanto riguarda l’educazione, ci sono scuole gestite dalla diocesi e altre da alcune congregazioni religiose. Le prime sono circa 270, di ogni ordine e grado. Confrontate con quelle delle congregazioni, si possono vedere le differenze. Le seconde hanno più mezzi, e gli edifici sono messi meglio. Sono anche frequentate maggiormente da figli di famiglie ricche». Intanto ci accompagna a visitare l’istituto scolastico Katolik Rex Mundi, gestito dalle Sorelle di Gesù, Maria e Giuseppe, poco distante dagli uffici della curia.
«I problemi a cui facciamo fronte con le scuole della diocesi sono il loro elevato numero e i nostri pochi mezzi finanziari. Inoltre, la scuola statale è gratuita, questo ha fatto sì che ci sia una riduzione di allievi, ogni anno, nelle scuole della diocesi. Alcune le dovremo chiudere».
Nella Katolik Rex Mundi di Manado ci sono tutti i gradi scolastici, dell’infanzia al liceo. È frequentata da circa 1.300 allievi. La struttura è molto bella, ha campi di calcetto, basket e pallavolo, in parte coperti, mentre l’edificio si sviluppa su tre piani. Quando arriviamo, alcuni studenti che si stanno allenando, vogliono subito fare delle foto con noi. Incontriamo suor Rita Manuel, preside della scuola superiore, originaria di Bitung: «Gli studenti delle superiori sono 750 con 40 insegnanti e 20 persone tra tecnici e amministrativi. Era una scuola solo femminile, ma da dieci anni accoglie anche i maschi».
La congregazione gestisce anche quattro ospedali nella diocesi, dei quali uno a Manado. Sono presenti pure a Makassar con una grande scuola e un ospedale in centro città.
Percorrendo una strada tutta curve che ci porta nuovamente in montagna, arriviamo nella cittadina di Tomohon. È un importante luogo turistico perché circondata da due vulcani, un lago di origine vulcanica, una cascata, ed è sede del Tomohon flower festival, il festival internazionale dei fiori, che si svolge ogni anno con la partecipazione di diverse nazioni nel mondo. Per questo è conosciuta come città dei fiori. Tomohon è anche il centro del cattolicesimo del Nord Sulawesi.
Qui il clima è decisamente migliore, più fresco e meno umido. Ovunque nelle strade sono appesi vasi con fiori di svariati colori. Vediamo diverse chiese e scuole gestite da congregazioni religiose.
Intorno alla città, in aree scoscese vengono coltivati ortaggi di molte varietà. Il terreno, in gran parte di origine vulcanica, è molto fertile.
Salendo in montagna osserviamo anche alberi con piccole foglie verdissime. Ci dicono che sono piantagioni di chiodi di garofano, una delle spezie concupite dagli olandesi fino dal XVI secolo, e di cui – scopriamo – il Sulawesi è il principale produttore mondiale. Le piantagioni di questo albero sono diffuse in tutta la parte orientale della penisola a Nord del Sulawesi, dando un contributo importante all’economia locale.
Un altro aspetto importante è il porto industriale di Bitung, collegato a Manado con una delle due autostrade dell’isola (l’altra è nel Sud Sulawesi). Tra le due città si trova la Zona economica speciale di Bitung, in parte ancora in progettazione, che prevede oltre duemila ettari di industrie per la trasformazione agricola e del pescato, magazzini, per il commercio nazionale e internazionale.
Sempre in regione Minahasa ci sono miniere d’oro e importanti giacimenti di nichel. Alcuni sfruttati dalla Meares Soputan mining, che si cerca di tenere lontana dai parchi naturali, con la loro ricchezza faunistica e floreale originaria.
A Manado incrociamo volti con caratteri somatici anche molto diversi. Alcuni sono di statura più bassa, e hanno pelle più scura. Altri, più alti, talvolta corpulenti, con occhi più sottili, carnagione chiara. Questi sono vestiti bene, li vediamo gestire o popolare i negozi e i moderni centri commerciali sulla centrale Jalal Piere Tendean.
«Si dice che Manado sia la terra della gente con il sorriso», ci aveva detto pastor Polce. Noi questa caratteristica l’abbiamo incontrata attraversando tutto il Sulawesi.
Marco Bello

• Nasir Tamara, Indonesia rising, ed. Select Publishing, Singapore 2009. La Reformasi, ovvero come l’Indonesia è diventato uno stato democratico (in inglese).
• David van Reybrouck, Revolusi. L’indonesia e la nascita del mondo moderno, Feltrinelli 2024. Inchiesta approfondita sulla rivoluzione del 1945 e le sue conseguenze.
• Franck Michel, Les Torajas de l’Indonésie, ed. L’Harmattan, Francia 2000. Sulla cultura Toraja (in francese).
• Paolo Affatato, Giacarta e le periferie, articolo su Missioni Consolata, marzo 2025.
Marco Bello, giornalista, direttore editoriale di MC.
Si ringraziano
L’arcidiocesi di Makassar e la diocesi di Manado. In particolare, don I Made Markus Suma, don Aidan Putra Sidik,
don Polce Pitoy, monsignor F. Nipa e monsignor B.E. Rolly Untu.
Paolo Affatato, specialista dell’area. Carla Faraon per l’apporto spirituale.
